Copertina
Autore Marina Calloni
CoautoreA. Cataldi, B. Bracco, E. dell'Agnese, V. Anzoise, C. Mutti, J. Massarenti, D. Belliti, J. Mikimibiri, B. Gbikpi, T. Sekulic, A. Dworkin, P. Gaeta, Z. Pajic, G. Citroni, M. Flores, E. Mujawayo, A. Masovic, S. Negrouche, al.
Titolo Violenza senza legge
SottotitoloGenocidi e crimini di guerra nell'età globale
EdizioneUTET Universita, Torino, 2006 , pag. 224, cd, cop.fle., dim. 17x24x1,5 cm , Isbn 978-88-6008-069-1
CuratoreMarina Calloni
LettoreLuca Vita, 2007
Classe storia contemporanea , storia criminale , diritto , guerra-pace
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Indice

   XI Gli autori

   XV Presentazione. Quale ruolo per la ricerca
      nell'affrontare questioni globali?
      di Marina Calloni

XXVII Introduzione. Crimes of War: un progetto educativo
      di Anna Cataldi


    PARTE I — Immagini, memorie e linguaggi dell'odio


  5 CAPITOLO 1 — Il Novecento: guerre e rappresentazioni
    dell'orrore
    di Barbara Bracco


 13 CAPITOLO 2 — Memoria di genere e
    violenza militare nell'Europa Orientale
    di Andrea Petó

 13 2.1   Introduzione
 13 2.2   Studi di caso
    2.2.1 La storia di Diana, p. 13
    2.2.2 La storia di Georgulis, p. 14
 16 2.3   Genere, memoria e commemorazione
    2.3.1 Il caso di Diana, p. 16
    2.3.2 Il caso di Georgulis, p. 16
 17 2.4   Memoria, memoria collettiva e ricordo
    2.4.1 Il caso di Diana, p. 17
    2.4.2 Il caso di Georgulis, p. 18

 24 CAPITOLO 3 — L'urbicidio come crimine di guerra
    di Elena dell'Agnese

 24 3.1 Introduzione
 25 3.2 La città come obiettivo: strategie e comunicazione
 27 3.3 La città come obiettivo: «area-bombing» e
        ordigni nucleari
 30 3.4 La città come obiettivo: l'urbicidio simbolico
 31 3.5 L'urbicidio come scontro fra classi socio-spaziali
 33 3.6 L'urbicidio come crimine di guerra
 34 Riferimenti bibliografici

 36 CAPITOLO 4 — Guerra e trasformazioni socio-territoriali.
    Una ricerca audiovisuale sulla città di Mostar
    di Valentina Anzoise e Cristiano Mutti

 36 4.1 Introduzione
 38 4.2 Le guerre di Mostar
 40 4.3 La ricerca sociovisuale in situazioni post-belliche
 43 4.4 Immagini e storie di vita fra passato e presente
 46 4.5 Immagini e storie di vita fra luogo e identità
 49 4.6 Conclusioni
 50 Riferimenti bibliografici

 52 CAPITOLO 5 — Media e creazione dell'odio etnico.
    Il caso del Ruanda e della Bosnia Erzegovina
    di Joshua Massarenti

 52 5.1   Introduzione
 53 5.2   Affilando le armi:
          la conquista dei mezzi di comunicazione di massa
    5.2.1 Il caso del Ruanda, p. 53
    5.2.2 Il caso della Bosnia Erzegovina, p. 56
 60 5.3   La propaganda dell'odio: logiche e tecniche
    5.3.1 Ruanda, p. 60
    5.3.2 Bosnia Erzegovina, p. 61
 63 5.4   Gli effetti dei media dell'odio sui civili:
          un'influenza mediata
 65 5.5   Conclusione: fermare i media dell'odio
 67 Riferimenti bibliografici


    PARTE II — Conflitti identitari e genocidi


 73 CAPITOLO 6 — Identità, comunità, conflitti
    di Daniela Belliti

 73 6.1 Introduzione
 74 6.2 Identità, politica e relazioni internazionali
 77 6.3 L'identità tra globalizzazione e conflitti
 80 6.4 Identità religiose e conflitti
 82 6.5 I caratteri del conflitto identitario
 84 6.6 Conclusioni: rompere il circuito della violenza
 85 Riferimenti bibliografici

 87 CAPITOLO 7 — Le sette fasi del genocidio in Ruanda
    di Jean Mikimibiri

 87 7.1 Introduzione
 88 7.2 Definizione del «target group»
 90 7.3 Il censimento delle vittime
 92 7.4 Designazione delle vittime
 94 7.5 Restrizioni e confisca dei beni
 95 7.6 Esclusione
 98 7.7 Isolamento sistematico
100 7.8 Sterminio di massa

102 CAPITOLO 8 – Ruanda: passi verso la riconciliazione
    di Bernard Gbikpi

102 8.1   Introduzione: la questione della riconciliazione
104 8.2   Giustizia e riconciliazione
    8.2.1 Il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda,
          p. 104
    8.2.2 La giustizia nazionale di stampo moderno, p. 105
    8.2.3 Le Gacaca, p. 107
109 8.3   La sicurezza e l'ideologia del genocidio
112 8.4   L'unità nazionale e la riconciliazione:
          il punto di vista politico
116 8.5   Conclusione
118 Riferimenti bibliografici

121 CAPITOLO 9 – Crimini di guerra, crimini contro l'umanità
    e genocidio: strategie dello «State building» etno-nazionale
    di Tatjana Sekulic

121 9.1 Introduzione
122 9.2   La nascita degli Stati-nazione alla fine del Novecento
123 9.3   Le identità in gioco
125 9.4   Modernità e radicalizzazione della violenza nei
          conflitti identitari
    9.4.1 Annientamento fisico e violenza sessuale, p. 126
    9.4.2 La migrazione forzata, p. 127
129 9.5   I limiti dell'intervento umanitario internazionale
131 9.6   Ricostruire la fiducia reciproca
132 Riferimenti bibliografici e sitografici


    PARTE III – Umanitarismo e giustizia internazionale


137 CAPITOLO 10 – Diritti umanitari e responsabilità globali
    di Anthony Dworkin


143 CAPITOLO 11 – La repressione penale dei crimini
    internazionali. Problemi e prospettive
    di Paola Gaeta

143 11.1   Introduzione
144 11.2   La repressione penale da parte di tribunali penali
           internazionali
    11.2.1 Il lungo cammino verso l'istituzione della giustizia
           penale internazionale, p. 144
    11.2.2 I tribunali ad hoc e la Corte Penale Internazionale:
           uno sguardo d'insieme, p. 147
    11.2.3 I processi davanti a tribunali internazionali:
           meriti principali, p. 150
151 11.3   Cooperazione degli Stati e problemi per i tribunali
           penali internazionali
    11.3.1 Il problema della cooperazione giudiziaria, p. 151
    11.3.2 Altri problemi nella giustizia penale
           internazionale, p. 152
    11.3.3 Tribunali «imparziali»?, p. 153
    11.3.4 Ostacoli per un'azione efficace della Corte Penale
           Internazionale, p. 154
156 11.4   La repressione dei crimini internazionali da parte
           dei tribunali interni
    11.4.1 I principi di competenza giurisdizionale in materia
           penale, p. 156
    11.4.2 Una valutazione d'insieme, p. 157

159 CAPITOLO 12 — Tribunali per i crimini di guerra e questioni
    ancora aperte
    di Zoran Pajic

159 12.1 Un tribunale non voluto
160 12.2 Eroi di guerra o criminali?
161 12.3 Crimini di massa e criminali non quantificabilli
162 12.4 È possibile una vita senza pena di morte?

166 CAPITOLO 13 — Il diritto a una morte degna e al rispetto
    dei resti mortali
    di Gabriella Citroni

166 13.1 La tutela giuridica internazionale dei resti mortali
172 13.2 Principi delle Nazioni Unite per la prevenzione e le
         indagini in materia di esecuzioni extra-giudiziarie,
         arbitrarie o sommarie
173 13.3 La giurisprudenza internazionale in materia
         di rispetto dei resti mortali
178 13.4 L'esperienza della Commissione per la Verità e la
         Riconciliazione in Perù
181 Riferimenti bibliografici

183 CAPITOLO 14 — L'umanitarismo tra pragmatismo e principi:
    elogio dell'incoerenza
    di Marcello Flores



    PARTE IV — L'onere della testimonianza


195 CAPITOLO 15 — Sopravvivere e vivere
    di Esther Mujawayo


197 CAPITOLO 16 — Storie di fosse comuni in Bosnia Erzegovina
    di Amor Masovic

197 16.1   Introduzione
197 16.2   Occultare il crimine
198 16.3 I racconti delle fosse comuni
    16.3.1 Le fosse comuni primarie, p. 199
    16.3.2 Le fosse comuni secondarie, p. 201
202 16.4   Denunciare il crimine
203 16.5   La verità e la giustizia come presupposti
           per la riconciliazione

204 CAPITOLO 17 – Nei bastioni della culturalità
    di Samira Negrouche


210 CAPITOLO 18 – Genocidio e giornalismo
    di Alessio Vinci

210 18.1   Le diverse funzioni dei media
210 18.2   Quale ruolo per noi giornalisti?
211 18.3   Fatti, non opinioni
212 18.4   Obiettività e coscienza
212 18.5   Governi che ammettono un genocidio
213 18.6   Una nota personale finale

214 CAPITOLO 19 – Osservare e denunciare:
    l'occhio del fotoreporter
    di Geert van Kesteren


217 CAPITOLO 20 – Diritti umani e culture:
    riflessioni di un inviato di guerra
    di Alberto Negri


223 APPENDICE – Per capire genocidi e crimini di guerra:
    materiali audiovisuali (Cd-Rom)
    di Roberto Miraglia e Marina Galloni


 

 

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Pagina XV

PRESENTAZIONE
Quale ruolo per la ricerca nell' affrontare questioni globali?



               «La madre fa la maglia
               Il figlio fa la guerra
               Lei la madre lo trova del tutto naturale
               E il padre invece il padre cosa fa?
               Lui fa gli affari
               (...) Il figlio muore ammazzato e non continua
               La madre e il padre vanno al cimitero
               (...) La vita continua con la sua maglia
               la sua guerra e i suoi affari
               (...) La vita continua con il suo cimitero.»

                                             Jacques Prévert,
                                «In famiglia», Paroles (1946)



1 La familiarità della guerra

1946: il secondo conflitto mondiale è terminato da un solo anno. Le società europee hanno nel frattempo intrapreso un faticoso percorso di ricostruzione morale e materiale, in un complesso processo di transizione verso governi democratici. Scorrono intanto davanti agli occhi smarriti di una pallida sfera pubblica internazionale i netti fotogrammi e le atroci immagini di cadaveri e di sopravvissuti ai lager nazisti, lasciati liberi verso una vita che continuerà a portare il marchio dell'onta subita. Ciò nonostante, la guerra non perde il suo carattere di familiarità e prossimità. È un Leitmotiv che dà cadenza ai ritmi quotidiani e asseconda un ordine naturale delle cose. Prévert ci introduce così la famiglia tipo, i ruoli familiari e le relazioni intergenerazionali che vengono agite: la madre è impegnata nel lavorare a maglia, il figlio va soldato, il padre continua a occuparsi dei suoi interessi economici. Il tutto sembra essere assolutamente «normale». La morte in guerra diventa un elemento organico alla dinamica familiare. È una presenza materiale che tange l'esistenza altrui con simboli e contesti: «La vita continua con il suo cimitero».

La guerra sembrerebbe così cercare la propria giustificazione, prima e ultima, nella supposta base atavica che spingerebbe l'innata aggressività umana: sarebbe questo l'elemento antropologico e archetipale che spiegherebbe la sua perpetuazione nel corso del tempo. Il conflitto armato cambia però in modalità, strumenti e risorse motivazionali nella sua «evoluzione» sociale e tecnologica. Cambiano intanto anche le identità dei suoi protagonisti ed eroi: di coloro che si sacrificano in nome della patria o di ideali.

La guerra riproduce se stessa, anche se non è mai la stessa quando si riafferma in tempi e spazi differenti, con nuovi protagonisti sociali ed attori politici. Muta col mutare delle motivazioni per le quali viene affermata. Se questo è il caso, perché allora la guerra cambia e in quale direzione? La nostra ricerca parte proprio dalla domanda: Perché, nonostante i ripetuti moniti del «Mai più guerre» lanciati alle fine del secondo conflitto mondiale, il Novecento si è di fatto accomiatato dalla ribalta storica ancora una volta fedele a se stesso: non solo con nuove forme di violenza armata, ma addirittura con la perpetrazione di genocidi, come nel caso del Ruanda e della ex Jugoslavia? Proprio da questi specifici casi storici – che si riferiscono nello specifico a contesti post-coloniali e post-socialisti – ha preso le mosse la nostra analisi, nell'intento di comprendere il nesso che congiunge Novecento e terzo millennio attraverso l'analisi delle fenomenologie delle «nuove guerre» di tipo identitario, fino alla «guerra totale al terrorismo». Sembra infatti esserci un filo rosso che unisce senza soluzione di continuità il manifestarsi di trasformazioni epocali con l'affermarsi di nuovi ordini geo-politici e le conseguenze che tutto ciò ha sulla vita quotidiana di milioni di persone. Tuttavia, non possiamo così facilmente cedere a semplici tentazioni equiparative, sostenendo che si tratta – anche se in forme diverse – di conflitti armati «analoghi». Il nostro interesse va piuttosto nella direzione di comprendere perlomeno la specificità di alcuni di essi.

Il presente testo parte dunque da semplici constatazioni storiche e fenomenologiche: la storia del Novecento e l'inizio del nuovo millennio sono state contrassegnate dal succedersi incessante di guerre cruente e da diversificate forme di violenza organizzata che hanno però cambiato sembianze nel corso del tempo. Si sono infatti susseguite davanti ai nostri occhi belligeranze imperialiste, conflitti mondiali, genocidi, guerre fredde, scontri etnici, fino a giungere al recente terrorismo internazionale di stampo fondamentalista e alle guerre preventive.

Il Novecento si era infatti aperto con l'affermazione di guerre imperialiste che avevano connesso la volontà di potenza nazionale allo sviluppo tecnologico ed economico; era poi continuato con due cruenti guerre mondiali che avevano indotto la formazione di nuovi ordini geo-politici e società umane, accanto all'orrore della Shoah; si era poi concluso con lo scoppio di guerre identitarie e la perpetuazione di genocidi, col collasso delle forme-Stato di tipo socialista e coi mancati processi di democratizzazione in paesi ex coloniali. Ma anche il nuovo millennio non è stato da meno: si è schiuso con forme di violenza globale e attacchi di terrorismo internazionale che ha messo in crisi l'attore principale dei conflitti, così come era stato sancito dalla pace di Westfalia in poi: colui che veniva considerato come il padrone delle guerre, ovvero lo Stato nazionale col suo esercito. Intanto, continuano ad essere rinfocolati conflitti in varie regioni della Terra, spesso declassati al rango di «guerre dimenticate».

Come è allora possibile ripercorrere la storia delle guerre, al fine di indicare continuità e fratture? Ma soprattutto, quale può essere il contributo che possiamo offrire non solo come ricercatori, ma anche come cittadini, perché la guerra non sia solo intesa come una costante antropologica che si riproduce nel tempo, ma anche come un fenomeno che può essere combattuto? Il testo qui presentato si muove su un doppio binario: analizzare determinate manifestazioni belliche e sostenere — mediante il confronto — la necessità di sviluppare organi penali sovranazionali e una sfera pubblica internazionale che si mobilitino contro atti efferati. Il testo mette altresì in rilievo l'importanza dello sviluppo di reti di cooperazione internazionale e di ricerca cross-border, al fine di incrementare lo scambio di informazioni, mettere in luce punti di vista diversi, far circolare esperienze e saperi, rendere possibile la partecipazione di persone direttamente coinvolte e permettere la collaborazione tra attori sociali diversi. In tal modo si metterebbero in comune risorse e capacità per la critica della violenza, la costruzione della pace e la promozione di processi di conciliazione. Ed è questo il significato che noi intendiamo attribuire alla ricerca qui presentata.


2 Violenza armata: nuove guerre o vecchi conflitti?

Le «nuove» guerre non possono essere considerate se non alla luce di ciò che le ha precedute, senza però ricorrere a semplici identificazioni. Il Novecento — letto da molti come un secolo lungo, ma insieme brevissimo — è stato costellato da diversificate tipologie di conflitti armati e da intenti classificatori miranti a definire le diverse forme di violenza organizzata in rapporto allo sviluppo economico e tecnologico. L'uso di armi di distruzione di massa, la corsa agli armamenti nucleari, la contrapposizione ideologica, l'emergere di nuovi interessi finanziari, l'insorgere di nazionalismi e fondamentalismi, lo sterminio di intere popolazioni hanno in effetti contrassegnato l'evolversi dei conflitti mondiali prima e delle guerre identitarie poi. Ma ad ogni insorgenza bellica sono state contrapposte norme vincolanti a livello internazionale, che sono state tuttavia regolarmente trasgredite anche da parte di quegli Stati che le avevano accettate. Organismi sovranazionali rincorrono pertanto ogni volta la mutata situazione, al fine di sostenere l'efficacia delle sanzioni e far rispettare quelle regole che la comunità internazionale si era data ma che vengono ogni volta violate.

Il nuovo millennio eredita, in effetti, la dimensione mondiale delle guerre imperialiste, nazionaliste e totalitarie del Novecento, anche se dislocata secondo un nuovo ordine mondiale, dove questioni locali assumono valenza mondiale e dove problematiche globali hanno la concretezza dell'attiguità spaziale. Si è cioè creata una sorta di inedita prossimità fra popolazioni diverse, accanto a processi di tensione e lacerazione nei rapporti fra culture diverse. Oltre che a diversificazioni, la globalizzazione ha infatti creato legami di sempre maggiore interdipendenza fra sfere differenti: a livello economico, politico e sociale. Vengono così indotte a connettersi regioni che erano prima fra di loro irrelate. La mobilità del capitale umano, dovuta alla mondializzazione dell'emigrazione, si congiunge tuttavia a recenti limitazioni delle libertà civili in loco: siccome tutti possiamo potenzialmente essere attentatori o diventare, sia in Occidente sia nel Sud del mondo, ugualmente vittime di atti terroristici, vengono quindi introdotte misure restrittive di sicurezza.

Il tentativo occidentale di imporre un nuovo ordine mondiale – a partire dalla data simbolo del 1989, ovvero dal collasso dei sistemi del socialismo reale –, si è di fatto scontrato con l'insorgere di guerre etniche e con la sfida planetaria lanciata dal terrorismo fondamentalista di stampo islamico, a cui si è risposto con guerre preventive e illegittime. La risposta prevalentemente militare dell'Occidente – con le guerre condotte in Afghanistan e in Iraq – ha messo in luce tanto la debolezza di istituzioni transnazionali (quali l'ONU), quanto l'inadeguatezza delle foreign politicies nazionali, inadatte nel gestire la sfida di un ordine internazionale mutato, meno polarizzato in blocchi contrapposti (nonostante sia stata lanciata l'idea semplificante di uno scontro fra civiltà) e più differenziato in termini di appartenenze spesso sovrapposte. Vi sono dunque due elementi in frizione: da una parte vi è l'affermazione di un nuovo ordine globale, mentre dall'altra vi è la frammentazione delle identità collettive che tende a ridefinire nuovi spazi di appartenenza e delegittimare l'ordine politico tanto preesistente, quanto attuale. Nelle nuove guerre l'identità e la ridefinizione sanguinaria delle appartenenze culturali diventano pertanto cruciali per l'affermazione di interessi economici e finanziari, miranti al controllo di risorse e di territori, nella commistione fra violenza pubblica e privata: da stupri e torture fino a genocidi e crimini contro l'umanità.

Forme di bellicismo sofisticati (come ad esempio le cosiddette bombe intelligenti che hanno occupato la scena, in luogo delle deflagranti e ingombranti bombe atomiche) e complessi sistemi informatici si congiungono a forme di violenza «primitiva», privata, di genere, di sopraffazione dell'altro, divenuto il diverso, il nemico da punire e sopraffare. Quelli che erano stati vicini di casa si trasformano in carnefici, uccidendo con macheti i loro conoscenti, come è accaduto in Ruanda. Ragazzi, educati in classi miste, diventano stupratori di donne della loro età, oltre che di altri uomini, nel disprezzo assoluto della dignità umana, così come è accaduto nella guerra nell'ex Jugoslavia. Ciò che si nota sono nuove forme congiunte di violenza privata e pubblica, come è anche accaduto per le torture e le sevizie sessuali nel carcere di Abu Grahib, dove l'immaginario pornografico dell'Occidente diventa manifestazione violenta della sopraffazione politico-militare, dell'abuso sessuale e del disprezzo dell'«altra» umanità.

Genocidi e crimini di guerra continuano dunque ad essere drammatiche realtà del nostro tempo, a persistere nonostante i «progressi» delle civiltà, le mobilitazioni della società civile per la pace, l'evoluzione del diritto internazionale umanitario e la centralità del discorso pubblico sui diritti umani. Questa contraddizione che caratterizza la cosiddetta età della globalizzazione diventa il perno del presente testo che parte dalla constatazione dell'affermarsi di forme di violenza senza legge.


3 Guerre «senza legge»

Le nuove guerre sono state in gran parte causate – come già accennato – dalla crisi della tradizionale forma-Stato, dal crollo di consolidate identità collettive e dal collasso di legami sociali che univano i cittadini fra di loro, riconoscentesi in un'unica entità nazionale. Ora, gli Stati non sono più gli unici soggetti che causano conflitti bellici: anche agenzie locali e gruppi transnazionali sono in grado di provocare uno stato di guerra e di guerriglia permanente e devastante.

Ciò comporta la perdita della figura dei militari e dell'esercito come protagonisti «legali» del conflitto. In loro luogo appaino milizie ma anche singoli cittadini, i civili, nel duplice ruolo di vittime (è infatti sempre più crescente il numero di civili che muoiono in conflitti armati) e di carnefici (quando diventano protagonisti di violenza bellica e genocidiaria). Il corpo del nemico / della nemica non è più quello ricoperto dalla divisa militare, bensì quello vestito con abiti che denotano supposte caratteristiche identitarie. Diventa dunque ora alquanto difficile tracciare una netta distinzione tra combattenti e civili, così come è stato sancito dalle leggi dello iustum bellum (guerra giusta): tutti diventano potenziali partecipanti alla nuova guerra globale, dislocata su scenari imprevedibili, non immediatamente identificabile con campi di battaglia, reticolati o barriere: qualsiasi piazza può diventare un nuovo spazio di conflitto, quando diventa centro di attentati o di attacchi. In tal modo, la guerra diventa amorfa in componenti e struttura: è indefinita e ubiqua, prevaricando confini di stati sovrani, come è stato dimostrato in recenti casi di cronaca (il sequestro dell'Iman, Abu Omar), nella «lotta al terrorismo internazionale».

Nella nuova ondata di violenza globale non ci sono più leggi che tengano. Le tradizionali norme che regolavano tanto lo jus ad bellum quanto lo jus in bello sembrano essere state messe in discussione: da un lato il diritto internazionale, determinato dal rapporto fra Stati sovrani, sembra perdere i suoi connotati tradizionali nell'affermazione – ad esempio – di organismi paramilitari; dall'altro le leggi della guerra, determinate da convenzioni adottate a livello internazionale, non soltanto vengono ripetutamente violate, ma sono difficilmente applicabili nei casi in cui non sono più solo i militari a subire violenze e dunque a dover essere tutelati (dalla prigionia al riconoscimento dei resti mortali), bensì sono i civili le maggiori vittime della violenza armata.

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Pagina XXVII

INTRODUZIONE
Crimes of War: un progetto educativo
Anna Cataldi



Venti novembre 1991: 200 fra civili e militari — alcuni dei quali gravemente feriti — vengono prelevati dall'ospedale di Vukovar in Croazia, dai soldati del JNA, l'esercito popolare jugoslavo. Vengono trasportati a Ovarca, a pochi chilometri di distanza, dove vengono brutalmente uccisi e seppelliti in una fossa comune.

Quattro anni dopo, 7 novembre 1995: il Tribunale Penale Internazionale del1'Aja presenta un atto formale d'accusa contro Mile Mrksic, Miroslav Radic e Veselin Sljivancanin, i tre comandanti del JNA ritenuti responsabili dell'eccidio. Ma nel corso degli anni, al massacro dei croati a Vukovar nella ex Jugoslavia, seguirono massacri ben peggiori: basti ricordare lo sterminio di 7000 musulmani bosniaci a Srebrenica nel luglio 1995. Tuttavia, se rivado con la mente a quel novembre 1991, mi rendo conto di quanto l'evento di Ovarca avesse marcato tutti noi, che ne siamo stati testimoni più o meno diretti.

Mi rivengono in mente anche le parole del corrispondente del «New York Times», uno dei pochi che aveva avuto accesso al luogo dell'eccidio: «I serbi — raccontò — volevano farci credere che i cadaveri gettati nella fossa fossero soldati che si erano asserragliati nell'ospedale per dare battaglia. Non era ovviamente vero, anche perché avevamo visto con chiarezza corpi che indossavano il pigiama dell'ospedale e alcuni avevano addirittura l'ago della fleboclisi ancora infilato nel braccio».

Il massacro dell'ospedale di Vukovar fu in seguito definito dal Tribunale Penale dell'Aja come uno dei peggiori crimini perpetrati in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. E fu per noi un brusco risveglio dall'illusione post-Olocausto. «Affinché tutto questo non avvenga mai più», si era detto al processo di Norimberga. Ma ci si rese invece conto che la barbarie in guerra poteva riprodursi anche dopo cinquant'anni anni e, ancora una volta, proprio qui, nel centro della nostra civilissima Europa.

Consapevoli di essere testimoni di un evento che neppure in guerra avrebbe dovuto accadere, i giornalisti che erano presenti nella zona scrissero parole sdegnate, le televisioni internazionali mandarono in onda immagini drammatiche, ma un pubblico distratto decise che «dopotutto si trattava di un conflitto etnico interno e che era meglio non immischiarsene». (Per non parlare dell'allora Ministro degli Esteri italiano che sentenziò pubblicamente: «la guerra in Jugoslavia è un'invenzione dei media».)

Nei quattro anni che seguirono – ossia dal 1991 al 1995 – più di 300.000 persone (di cui il 90% civili) vennero uccisi nella carneficina balcanica. Ogni tappa del processo di dissoluzione della ex Jugoslavia fu seguita e documentata giorno per giorno, con un dispiegamento mediatico che mai si era visto nei precedenti conflitti. Un vero e proprio battaglione di giornalisti internazionali si schierò con coraggio e determinazione; ma purtroppo il numero di coloro che vi persero la vita – soltanto nel primo anno – fu superiore al numero di tutti i corrispondenti morti nei 14 anni della guerra in Vietnam.

Ma allora, se i media internazionali davano ogni giorno notizie dettagliate del conflitto in atto, perché ci volle così tanto tempo, prima che la comunità internazionale si decidesse a intervenire? E in ugual modo, perché negli stessi anni – nell'estate 1994 – è stato permesso che un genocidio di proporzioni inaudite fosse perpetrato in Ruanda, sotto gli occhi dei media ma senza che il cosiddetto mondo civile facesse un solo gesto per evitarlo o fermarlo?

Che cosa avremmo potuto fare di più, noi giornalisti? In che modo avremmo potuto diversamente raccontare ciò che avevamo visto, al fine di mobilitare l'opinione pubblica e creare una pressione tale da spingere i governi all'azione?

Eppure, dopo la seconda guerra mondiale, ed esattamente il 12 agosto 1949, con la firma delle Quattro Convenzioni di Ginevra che sancivano norme specifiche contro i crimini di guerra, era stato solennemente dichiarato che «mai più sarebbero stati tollerati genocidi e crimini contro l'umanità». Ossia, con le quattro Convenzioni e la Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945), la Convenzione sulla prevenzione e la condanna del crimine di genocidio (9 dicembre 1948) e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (10 dicembre 1948), era nato un sistema internazionale di tutela dei diritti umani che mirava a porre fine alla vecchia e rigida concezione della sovranità degli Stati nazionali. Pertanto, tale corpus giuridico prevedeva e legittimava interventi – anche armati – col fine di porre termine a crimini, là dove fossero perpetrati.

Negli anni successivi, alle prime quattro Convenzioni se ne aggiunsero altre, soprattutto per l'affermarsi di nuove forme di conflitto e l'impiego di nuovi tipi di armi. A tal proposito, la comunità internazionale cominciò a prendere iniziative con l'intento di limitare i crimini e fermare la barbarie, anche in situazioni di estrema negatività quale può essere la guerra, divenuta sempre più complessa e di difficile interpretazione, perlomeno in senso univoco.

Del resto, proprio l'intento di porre limite alla barbarie sui campi di battaglia aveva dato origine alla Croce Rossa Internazionale. Fu un uomo d'affari svizzero, Henry Dunant, che, trovatosi testimone della battaglia di Solferino nel 1859, rimase talmente impressionato dal modo in cui venivano abbandonati sul campo i soldati feriti e i corpi dei morti, al punto da dedicare successivamente anima e corpo per la creazione di un'organizzazione che potesse soccorrere i feriti nelle battaglie. Con la Prima Convenzione di Ginevra, nacque così, nel 1864, la Croce Rossa Internazionale, a cui aderirono dodici Stati.

Se le leggi della guerra esistevano già come tali (jus in bello), tuttavia la loro corposità e complessità — di cui ci stavamo rendendo conto dopo l'esperienza bosniaca — rendeva ambigua e in molti casi difficile la loro applicazione sul campo.

«Chi di noi conosce a fondo, ad esempio, le Convezioni di Ginevra?». Era il giugno 1996. Chi poneva questa domanda era un giornalista che con molto coraggio aveva seguito il conflitto bosniaco: Roy Gutman, premio Pulitzer nel 1993 per le rivelazioni sui campi di concentramento di Omarska. Il suo reportage, fatto a rischio della propria vita, aveva riportato le cruente immagini di uomini ridotti a scheletri mentre si aggrappavano ai fili spinati. Tale testimonianza aveva finalmente fatto capire al mondo intero quello che stava realmente accadendo in Bosnia-Erzegovina: non si trattava né di una lotta tribale, né tanto meno di un'invenzione dei media; era un crimine vero e proprio che il mondo non avrebbe dovuto permettere che si consumasse.

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CAPITOLO 4
Guerra e trasformazioni socio-territoriali.
Una ricerca audiovisuale sulla città di Mostar
Valentina Anzoise e Cristiano Mutti



        Da Venezia l'Oriente è una pulsazione vicinissima [...].
        Niente come l'Adriatico, in questi giorni di guerra ed
        esodi di massa, ti dice che l'Europa altro non è che una
        penisola dell'Asia e che lì, a due passi, oltre le isole
        dalmate, comincia un altro mondo, un mondo che preme da
        millenni. Una terra inquieta, madre di tutte le migrazioni.

                                                    P. Rumiz, 2003


        When you spend a night in Mostar, you are woken in the
        morning not by sounds but by – the light.

                                                   I. Andric, 1992



4.1 Introduzione

Mostar, capitale dell'Erzegovina e seconda città più importante della Bosnia Erzegovina dopo Sarajevo, è un insediamento di origine turca, situato nella valle della Neretva. Mentre nella parte nord dell'Erzegovina abitano soprattutto erzegovesi di religione cattolica e di nazionalità croata, nella parte sud vivono prevalentemente erzegovesi di religione ortodossa e di nazionalità serba, mentre verso l'interno, a est di Mostar, prevalgono i bosniaci di origine musulmana. Nelle aree intermedie ci sono località in cui vivono forti minoranze di musulmani.

Mostar è l'ultima città di cultura musulmana, di così grande importanza, situata in occidente. È collocata proprio lungo la valle di accesso a Sarajevo, dove la Bosnia centrale si apre verso il Mediterraneo (l'Adriatico), segnando un confine tra due mentalità molto diverse: quella bosniaca e quella erzegovese.

«Ibridazione e promiscuità culturale fanno dei Balcani un'area di transizione tra occidente e oriente, un ponte [...], uno spazio interno all'Europa, ma profondamente ambiguo, crocevia dove si sovrappongono elementi etnici, linguistici e religiosi apparentemente inconciliabili» (dell'Agnese, Squarcina, 2002, p. 17).

Durante l'era di Tito (1945-1980), molti dissidenti politici lasciarono l'Erzegovina croata – regione che aveva rappresentato la «roccaforte» del governo croato degli ustascia di Ante Pavelic, soprattutto in ambienti rurali. E sempre in questo periodo, prese anche avvio un'ondata migratoria verso il capoluogo, divenuto il volano per lo sviluppo industriale, per una modernizzazione di tipo socialista e per forti processi di urbanizzazione (Colafato, 1999).

Alla fine della seconda guerra mondiale Mostar contava 18.000 abitanti, mentre nel 1991 ne erano censiti 126.000. Tale sviluppo sociale, economico e urbanistico era stato voluto da Tito per tre motivi:


a. per garantire la sicurezza, a causa della sua posizione centrale, in quella che era la regione meno accessibile e più riparata da possibili attacchi militari, provenienti sia da est che da ovest;

b. per dare sostegno all'etnia musulmana, in un complesso gioco di equilibri politici con le altre due «etnie» – quella croata e quella serba – peraltro maggioritarie;

c. per rafforzare in contesti urbani la centralità operaia, grazie alla creazione di una salda avanguardia rivoluzionaria, ideologicamente e politicamente fedele al nuovo regime.


In tale contesto, la riorganizzazione dei comuni era il principale elemento per una costruzione dello Stato a partire dal basso. Ad esempio, nel comune di Mostar si contavano 38 comunità locali, che insieme alle organizzazioni operaie di base e alle comunità di interesse dovevano rappresentare le esperienze base di autogestione entro un territorio delimitato.

Dal censimento del 1991, risulta dunque che gli abitanti di Mostar erano così ripartiti: serbi 19%; musulmani 34,8%; croati 33,8%; jugoslavi 10%; altri 2,4% (Colafato, 1999, p. 20). Solitamente, si definivano jugoslavi coloro che erano nati da matrimoni «misti», che a Mostar erano un numero decisamente elevato.

Dal censimento si può dunque evincere un sostanziale equilibrio tra le tre identità – croata, serba e musulmana – che caratterizzava altresì alcune comunità locali di Mostar. Tuttavia, nelle comunità del centro storico – specie quelle a ridosso del fiume, come Brankovac, Carina, Cernica, Donja Mahala e Luka I – prevalevano i musulmani, quale risultato del lento farsi della cultura urbana attorno a ponti, moschee, mercati e istituzioni varie risalenti al periodo turco (Colafato, 1999). Ma quanto più ci si allontanava dal centro, tanto più le comunità locali venivano a configurarsi come etnicamente omogenee. Per fare solo qualche esempio, nella comunità di Bijeli Brijeg II la percentuale dei croati ammontava al 44%, mentre nelle comunità confinanti di Cim e Ilici raggiungeva rispettivamente il 97% e il 93%. Lo stesso valeva per la comunità di Bacevici, situata tra la superstrada per Sarajevo e le pendici del Velez. Qui la percentuale di serbi risultava essere del 98%, laddove sorgevano infatti la Vecchia e la Nuova Chiesa Ortodossa (quest'ultima completamente rasa al suolo nel corso della prima guerra di Mostar). Quindi, ai margini di una città multietnica vi erano comunità periferiche, etnicamente omogenee, quasi fossero avanguardie a presidio dei rispettivi territori.

Sebbene per diversi secoli il popolo bosniaco fosse stato composto da bosniaci cattolici, bosniaci ortodossi e bosniaci musulmani, tuttavia nel processo di costruzione dell'identità nazionale, nelle comunità cattolica e ortodossa ha prevalso il legame con le cosiddette «madrepatrie», vale a dire Serbia e Croazia. E ciò ha indubbiamente influito sulla possibilità di sviluppare un comune sentimento di appartenenza bosniaca, al di là della diversità etnica/religiosa.


4.2 Le guerre di Mostar

La guerra armata fa il suo ingresso ufficiale a Mostar nel 1992 con l'entrata dell'esercito ex jugoslavo (Esercito Popolare Jugoslavo, JNA) serbizzato, coadiuvato da «volontari». I bombardamenti distruggono moschee, cimiteri, palazzi e ponti; tolgono valore alla città; cancellano l'esperienza di cittadinanza. Al seguito dell'esercito, si muovono verso la Serbia anche i cittadini di nazionalità serba. Le loro case vengono dunque occupate da profughi bosniaci e croati.

Nella primavera del 1993 inizia la seconda guerra tra croati e musulmani. Ricominciano i bombardamenti e segue la pulizia etnica. Nelle mani delle milizie e delle bande paramilitari la città perde il suo orizzonte di senso. La distruzione del Ponte Vecchio, avvenuta il 9 novembre 1993 per mano delle armate estremiste croato-bosniache, esplicita la tragedia.

Il 21 novembre 1995 a Dayton, nell'Ohio, le parti belligeranti firmano un accordo di pace che pone fine a una guerra civile interetnica durata tre anni (l'accordo finale venne firmato poi a Parigi il 14 dicembre 1995). Con gli accordi di Dayton la Bosnia Erzegovina viene suddivisa in Federazione di Bosnia Erzegovina e Republika Srpska, ovvero l'entità serba della Bosnia Erzegovina. Dopo gli scontri armati, la città di Mostar si ritrova dunque divisa in due parti: la parte occidentale della città è diventata la «parte croata», mentre il settore orientale è diventato la «parte musulmana». La popolazione esce comunque nel complesso decimata dalla guerra, così come la città subisce radicali devastazioni.

In effetti, la disintegrazione urbana è uno degli elementi più distintivi che hanno caratterizzato le guerre nella ex Jugoslavia. Nel descrivere gli eventi che hanno portato alla dissoluzione della federazione jugoslava, una delle immagini più ricorrenti riguarda infatti la distruzione delle città. Tant'è che la furia distruttrice sui beni culturali e il processo di annientamento delle realtà urbane hanno preso il nome di «urbicidio», un neologismo coniato dal celebre architetto serbo Bogdan Bogdanovic, ex sindaco di Belgrado e oppositore di Milosevic: «Prima la barocca Vukovar; poi Dubrovnik, "gioiello dell'Adriatico", quindi Mostar, dove il centenario Stari Most [il Ponte Vecchio sulla Neretva ultimato nel 1566] è stato distrutto da pochi colpi di mortaio» (dell'Agnese, Squarcina, 2002, p. 155), infine Sarajevo, capitale della Bosnia e simbolo di multiculturalità. Questi paesaggi urbani – distrutti dal tiro incrociato di miliziani, eserciti e mercenari – sono diventati i più potenti simboli della violenza della guerra, e ancora una volta la storia ha mostrato quanto la distruzione delle città sia una pratica bellica consolidata.

A proposito della distruzione di Dubrovnik e delle altre città, che sono oltretutto fra le più belle del paese, Bogdanovic ritiene che: «è duro da dire, ma l'unico scopo dell'attacco a Dubrovnik è stata la distruzione della sua bellezza. Fra noi ci sono barbari che odiano quelle città e traggono piacere dal distruggerle» (Bogdanovic, 1993, p. 20).

Questo processo di uccisione della memoria e delle metafore urbane è stato spiegato da diversi autori (dell'Agnese, Squarcina, 2002; Rumiz, 1996), ma anche dagli stessi «aggrediti» e «aggressori», nel quadro dell'antica opposizione tra popolazioni delle montagne, «più barbare», e popolazioni delle città, «più civilizzate e pacifiche», o come scontro tra popolazioni dalla «purezza indomabile» e popolazioni dalla «mollezza decadente».

L'inquadramento di Mostar all'interno di un più ampio contesto territoriale e una breve ricostruzione storico-analitica delle principali tappe e delle cause delle guerre che hanno portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia, ci sono sembrati fondamentali per fornire il quadro teorico della nostra ricerca, di cui diamo in parte conto anche nel Cd-Rom allegato al presente volume.

I massacri e il tragico epilogo delle guerre nella Bosnia Erzegovina sono ormai noti a tutti. Sono invece meno note le conseguenze che i conflitti e il persistere di confini e divisioni hanno avuto e continuano ad avere nelle interazioni sociali e nella memoria delle popolazioni, nonché sui processi di ricostruzione urbana, a oltre dieci anni dalla fine della guerra.

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CAPITOLO 5
Media e creazione dell'odio etnico.
Il caso del Ruanda e della Bosnia Erzegovina
Joshua Massarenti



            Quando comincia una guerra, la prima vittima è la verità.

                                      P. Knightly, The First Casualty



5.1 Introduzione

Col collasso dei regimi comunisti avvenuto alla fine degli anni Ottanta, gli equilibri geopolitici internazionali, che erano nati con la guerra fredda, vennero completamente stravolti. Furono molti, fra analisti e giornalisti, ad annunciare la nascita di una nuova epoca, segnata dall'affermazione su scala mondiale dei principi della democrazia rappresentativa. Purtroppo, le guerre civili in Ruanda e nella ex Jugoslavia occorse negli anni Novanta tolsero tale certezza. Tra gli elementi che furono alla base dell'implosione dei due Stati si deve indubbiamente riconoscere il ruolo giocato dai mass-media. Approfittando della rabbia e della miseria che affliggevano molte fasce sociali, gruppi politici di ispirazione etno-nazionale riuscirono a veicolare appelli alla violenza e all'odio razziale, facendo un uso strumentale e propagandistico dei mass-media.

Anche in Bosnia Erzegovina crimini di guerra divennero pratica quotidiana. Come in Ruanda, anche qui giocarono un ruolo determinante i mass-media, nell'incitazione all'odio razziale e – talvolta – ai massacri. Una parte della stampa (i giornali «Politica» e «Glas»), della radio e della televisione (RTV Serbia, TV Banja Luka) promosse infatti un tipo di comunicazione sociale in totale violazione del diritto internazionale. In particolar modo, veniva violato l'articolo 20 del Patto relativo ai diritti civili e politici, e soprattutto l'articolo 4 della Convenzione internazionale per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale.

In Ruanda fu la radio il più influente mezzo di comunicazione, mentre nella ex Jugoslavia – ad eccezione della Bosnia Erzegovina – fu la televisione. Il presente contributo intende ricordare in primo luogo le tappe fondamentali che segnarono il sopravvento dei media dell'odio in queste due realtà geopolitiche. In secondo luogo, mira ad analizzare – soprattutto in chiave socio-antropologica – il contenuto degli appelli discriminatori, trasmessi prima e durante la guerra in Ruanda e in Bosnia Erzegovina. Infine, ha lo scopo di comprendere i termini effettivi dell'influenza dei media sulla condotta dei civili. Si tratta, a ben vedere, di una problematica cruciale. Dalla seconda guerra mondiale in poi, si è infatti assistito a un sempre maggior coinvolgimento dei civili in guerra rispetto ai militari, tanto da rendere sempre più difficili i processi di riconciliazione tra i diversi gruppi e individui, una volta terminati i conflitti. Ciò viene emblematicamente testimoniato dai casi del Ruanda e della Bosnia-Erzegovina.

Ma a tutt'oggi l'Africa e, in misura minore, i Balcani sono ancora in balìa di tensioni etniche e di conflitti politici di vecchia data, tanto da poter essere suscettibili – come accaduto in passato – di effetti indesiderati, dovuti a una propaganda discriminatoria e razziale, agita da giornalisti senza scrupoli (come nel caso della Costa d'Avorio). Tale situazione porta necessariamente a interrogarsi su quali possano essere le azioni preventive e repressive di cui la comunità internazionale potrebbe disporre, al fine di scongiurare il pericolo di ulteriori conflitti armati.

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CAPITOLO 14
L'umanitarismo tra pragmatismo e principi:
elogio dell'incoerenza
Marcello Flores



La tutela dei diritti umani è una questione di principio, di valori, o è un problema eminentemente pratico? Qualsiasi risposta chiara e netta si dia a questo interrogativo, non può che soddisfare solo parzialmente i problemi di chi si è trovato ad affrontarli direttamente. Un approccio «coerente», infatti, può essere poco produttivo rispetto a un orientamento più duttile ed elastico, quando ci si trovi di fronte a situazioni complesse — come sono ormai tutte, praticamente, le situazioni in cui è coinvolto l'intervento umanitario. Proprio il riferimento costante ai diritti umani da parte di chiunque, e spesso con obiettivi e metodi d'intervento contrapposti o divergenti, dovrebbe suggerire non, come spesso si sostiene, che quella dei «diritti umani» è un'ideologia, strumentalizzata per lo più dal potere e dalla cultura occidentali; ma che la questione dei diritti umani è oggettivamente complessa, spinosa e contraddittoria nel rapporto che concretamente s'instaura tra i principi e l'azione pratica. Non è un caso, del resto, che la maggior parte dell'intervento umanitario — di tipo solidaristico e di alleviamento delle sofferenze — abbia spesso trascurato o sottovalutato la tematica dei diritti umani. E che talvolta le campagne per i diritti umani si siano mosse più sul terreno della denuncia e del richiamo ai principi, senza valutare con attenzione i risultati raggiunti e l'efficacia prodotta.

Un esempio: nel settembre 1997 il Commissario europeo Emma Bonino venne arrestata per qualche ora dai talebani, a Kabul. «La Repubblica» riportò così la notizia, per la penna di Guido Rampoldi: «Emma Bonino ha l'ottimo vizio di immettere nel suo ruolo di commissario europeo ciò che in genere la diplomazia internazionale rifugge: valori, principi, passioni civili. E questo probabilmente spiega perché ieri mattina a Kabul sia incorsa in un incidente mai accaduto prima ai prudentissimi emissari delle Nazione Unite: è stata arrestata dai Taliban, gli ultra-fondamentalisti afghani». Alcuni tra i «prudentissimi emissari delle Nazioni Unite» erano riusciti, dopo mesi di contrattazione, a giungere a un compromesso: alle bambine afgane non era ancora permesso di andare a scuola, in base alla rigida e fondamentalista interpretazione del Corano che guidava il regime talebano, ma potevano essere condotte, se ne avessero avuto bisogno, in ospedale, dove fino ad allora era loro proibito recarsi. Dopo l'intervento della Bonino, quella misura (di buon senso? umanitaria? liberale? di sopravvivenza?) venne immediatamente revocata per diversi mesi. Il mondo occidentale esultò per il coraggio con cui una donna europea aveva difeso principi e valori che dovrebbero essere di tutti; le bambine afgane esultarono un po' meno. Il problema, naturalmente, non è quello di stabilire quale dei due modi di agire – il richiamo ai valori o il difficile e prudente intervento diplomatico – sia da privilegiare. La questione consta nella consapevolezza che entrambi gli aspetti sono facce di una stessa medaglia e meritano, almeno, di essere conosciute e prese in considerazione entrambe per sapere a cosa si può andare incontro con la propria azione. È evidente che per un «democratico» occidentale la presa di posizione di Emma Bonino abbia costituito un elemento di soddisfazione maggiore che non il lavoro dei «prudentissimi emissari» delle Nazioni Unite, dipinti ormai perennemente (e a volte, naturalmente, a ragione) come cinici, corrotti e profittatori delle disgrazie che dovrebbero cercare di lenire o risolvere. Ma chi lavora sul campo, sia esso diplomatico o militare, membro di una ONG o rappresentante di organismi internazionali, sa quanto spesso i risultati concreti possano giungere solo perché si è arrivati a un compromesso sui principi o si sono momentaneamente accantonati.

Spesso i valori e i principi che vorremmo difendere, trasmettere, applicare e fare vincere entrano in conflitto gli uni con gli altri. È stato a lungo così – e lo è tuttora, anche se soprattutto fuori dall'Occidente – nei contrasti che hanno visto sovente contrapposti sindacati e mondo del lavoro contro ecologisti e difensori dell'ambiente. Eppure, non si è fatto gran che per analizzare queste contraddizioni, tutte interne al mondo dei valori universalistici che la parte migliore dell'Occidente vorrebbe propagandare.

In realtà, non sono certo di sapere e volere prendere posizione per l'uno o per l'altro dei comportamenti che si sono scontrati nell'occasione ricordata. Mi domando, però, se gli operatori umanitari abbiano fatto tutto il possibile per fare anche, nei limiti del loro possibile, una battaglia di principio sui diritti umani; e se Emma Bonino si sia interrogata sugli effetti delle proprie parole e del proprio comportamento nei confronti degli afghani, e abbia chiesto lumi sul lavoro lento e difficile che le agenzie umanitarie stavano compiendo da anni in Afghanistan. È probabile che la risposta sia no a entrambi questi interrogativi.

La situazione dei diritti umani è oggi migliore o peggiore di quella che era nell'epoca della guerra fredda?

Vorrei fare, a questo proposito, qualche osservazione da storico e da comparatista. La cultura dei diritti umani è una scoperta, nella sua dimensione di massa, dell'ultimo quindicennio, forse dell'ultimo ventennio. Prima della Conferenza di Helsinki del 1975, di fatto, era inesistente; e anche dopo ha dovuto faticare parecchio per imporsi, ad esempio, nell'agenda della sinistra. Non c'è dubbio, per quanto possiamo guardare criticamente all'attuale realtà internazionale, che la cultura dei diritti umani abbia progressivamente influenzato la politica internazionale. Certo, quest'ultima ha naturalmente cercato di utilizzarla e strumentalizzarla, ma ha potuto farlo solo fino a un certo punto. Per quanto possiamo considerare illegittime le guerre condotte in Jugoslavia/Kosovo, in Afghanistan e in Iraq (alcune delle quali hanno diviso, proprio sulla questione della loro legittimità, la sinistra democratica: la questione è complessa e si tratta comunque di guerre fra di loro diverse, anche se tutti, favorevoli e contrari, hanno teso a darne una lettura omogenea), queste guerre sono state fortemente influenzate dalla cultura dei diritti, nel modo in cui sono state progettate e attuate. Lo sono state per il tentativo di minimizzare le vittime proprie (obiettivo solo in parte riuscito, soprattutto in Iraq: ma nel dopoguerra), ma anche per la necessità «storica» di violare il meno possibile i diritti umani (cioè, sostanzialmente, uccidere o colpire i civili: la più comune violazione dei diritti in tempo di guerra).

Può sembrare cinico che dica questo mentre è ancora in corso la guerra in Iraq. Eppure, in una dimensione comparata, che non comporta alcun giudizio morale o politico, le ultime guerre sono state davvero, per molti aspetti, guerre più «umanitarie». Basti confrontarle con il Vietnam o con il Guatemala per esserne certi, a dispetto dei bombardamenti su Belgrado e in Afghanistan, o delle uccisioni e delle torture in Iraq. E non è un caso che ci siano voluti tre anni di bombardamenti sul Vietnam perché il movimento pacifista divenisse forte e influente negli USA e in Europa, mentre nel caso dell'Iraq ciò è potuto avvenire, anche se con poca influenza, prima ancora dell'inizio della guerra.

A questo proposito vorrei citare (solo a memoria purtroppo) una testimonianza eccellente, quella di Henry Kissinger. In un'intervista, un giornalista gli ricordava l'accusa di genocidio e di gravi violazioni di diritti umani fatta a Nixon e a Kissinger stesso in diverse occasioni, un'accusa riportata anche nel recente libro di Cristopher Hitchens. L'ex Segretario di Stato riusciva solo a rispondere: a quell'epoca non si parlava di diritti umani, non c'era l'attenzione che c'è adesso, non mi si può accusare di quanto ho commesso allora con la cultura e la mentalità di oggi. Al di là dell'autogiustificazione, questa osservazione ha una sua parte di verità.

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CAPITOLO 15
Sopravvivere e vivere
Esther Mujawayo



Bisogna disingannarsi: il genocidio dei tutsi in Ruanda nell'aprile 1994 non è stato un evento brutale, inatteso e spontaneo, come vogliono farci credere i mass media. È stato ben preparato e sperimentato su piccola scala, nei mesi che l'hanno preceduto. Ma bisogna soprattutto ricordare che sia in Ruanda sia al suo esterno le mentalità tanto dei carnefici quanto delle vittime erano state abituate ad accettare come una questione inevitabile la discriminazione quotidiana che ha subissato i tutsi durante l'intero periodo post coloniale. Il che significava un difficile accesso all'istruzione, alla funzione pubblica, ai servizi. La carta d'identità col riferimento obbligatorio all'etnia a cui appartenevi ti seguiva ovunque, negli studi, nell'impiego, perfino nei controlli di ogni tuo spostamento. E in effetti, il genocidio del 1994 arrivò come la soluzione finale — come dicevano gli stessi genocidiari — della questione tutsi, che era sempre stata affrontata in modo solo parziale. Si deve infatti ricordare che c'erano già stati massacri e cacce all'uomo negli anni 1959, 1963 e 1973, ma il successo di tali operazioni era stato parziale, dal momento che c'erano sempre tutsi che riuscivano a fuggire e a ricominciare una nuova vita altrove.

Nel 1994 la parola d'ordine fu invece estremamente chiara: annientateli tutti. Non lasciate bebè, donne, nessuno, niente: non commettete lo stesso errore fatto in passato, quando vi siete lasciati scappare bebè e donne, quando non avete ucciso le persone nascoste nelle chiese e così via. Prima uccidete, poi saccheggiate!

Poter sopravvivere a questa volontà di annientamento non è una questione evidente! Per mesi sei stato braccato come una bestia feroce. Del resto, non vieni più chiamato come un essere umano, sei solo una blatta, un insetto... E ciò rende più facile il compito del carnefice. Non uccide una persona, ma un insetto. Schiaccia, pulisce, lavora. Quando sopravvivi a tutto questo e sei costretto a vivere, non è facile: ieri eri perseguitato come una bestia! Ieri eri una blatta da schiacciare, da ripulire dalla terra! Ieri i cani e i bambini dovevano venirti a scovare in tutti i nascondigli possibili e immaginabili. Ora tutto è finito. Vivo. Ho il diritto di vivere oppure sono forse condannata a vivere?

All'inizio della nostra sopravvivenza, quando ci siamo accorti di essere belli e vivi, di essere stati condannati a vivere, ci siamo trovati smarriti. Del resto i carnefici dei nostri familiari si erano rifiutati di ucciderci. Ci ricordavano spesso che saremmo morti a fuoco lento, poiché per mezzo dello stupro sistematico ci avevano inoculato una morte lenta, per AIDS. Dovevamo morire e ci ritroviamo qui, non morti ma comunque morti viventi.

Come passare da questa morte-vita a una vera vita? Come vivere malgrado l'accanita volontà di annientarti? Perché ti hanno voluto annientare? Per la sola ragione di essere nata tale e quale sono, cioè tutsi?

Dapprima l'istinto di sopravvivenza ci ha tenuti in vita, ma a poco a poco, e grazie soprattutto al sostegno reciproco che ci si offriva nella nostra associazione, chiamata Vedove del Genocidio d'Aprile (AVEGA), abbiamo deciso di fare della nostra sopravvivenza una vera vita! Non fosse che per punire i nostri carnefici.

Ci volevano morte, finite, per terra.

Ed effettivamente siamo morte viventi, siamo quasi finite, siamo per terra. Moriamo di AIDS che ci è stato gratuitamente infettato durante gli stupri che abbiamo subito. Moriamo di una solitudine incredibile dopo aver perduto tutti i nostri cari e ritrovandoci in mezzo ai nostri carnefici. Il vuoto è violento. L'annientamento è quasi riuscito. Non abbiamo più identità. Abbiamo perso perfino ciò che eravamo. Non abbiamo potuto essere in lutto, non abbiamo potuto piangere e seppellire i nostri morti.

Le ferite fisiche e morali rimangono ancora aperte.

Per curarle, ci uniamo. AVEGA è la nostra nuova famiglia. Ci teniamo unite per mano. Piangiamo insieme. Ci struggiamo insieme. Ma ci rialziamo anche insieme. Impariamo a rialzarci, a ridere, a ricostruire le nostre case e i nostri cuori, a medicare le ferite e a pensare al nostro avvenire, perché nonostante tutto, per il tempo che ci resta – per noi e per i morti – non c'è soltanto questo presente, ma anche questo avvenire da VIVERE e non soltanto da SOPRAVVIVERE.

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