Autore Enrico Camanni
Titolo Verso un nuovo mattino
SottotitoloLa montagna e il tramonto dell'utopia
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2018, i Robinson Letture , pag. 244, ill., cop.fle., dim. 14x21x2,2 cm , Isbn 978-88-581-3194-7
LettoreRenato di Stefano, 2018
Classe montagna , sport , movimenti , paesi: Italia: 1960












 

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Indice


Prologo                           3


Danilo                            5
Tre anni prima                   17
I falliti                        25
L'altopiano                      29
Tempi moderni                    35

Noccioline                       40
Asteroidi                        47
Tempi duri                       53
Napalm                           64
Fantalpinismo                    72

Gianni Pajer                     78
Grundal                          85
Zero                             89
Uno e centomila                  97
Il circo                        102

Vertigine                       109
Domenica 13                     115
Il giorno più lungo             121
Fratture                        129
La sommossa patinata            136

La gara                         143
Spettatori                      148
Plastica e progresso            154
L'ultima ideologia              159
Gian Carlo                      165

Novanta                         171
Raccomandate                    178
Falesie                         182
Gelatina                        187
Il mestiere                     191

L'ultima avventura              197
Scalatori del pomeriggio        203
Di corsa                        210
Controcorrente                  215
L'ironia ci tiene insieme       221


Cronologia                      227
Bibliografia e filmografia      231
Indice dei nomi                 239


 

 

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Pagina 13

Nel maggio del 1975 sto finendo il quarto anno al liceo scientifico Piero Gobetti di Torino. Mi trascino verso la maturità sognando montagne, alpinisti e racconti di alpinismo. Gaston Rébuffat , René Desmaison e Reinhold Messner sono il mio pane. La montagna è la mia trasgressione, il modo più fantastico per fottere il sistema.

Ogni tanto mi prendono i dubbi e allora vado a rileggermi I falliti di Gian Piero Motti. Con una chiarezza che non lascia scampo, Gian Piero ha scritto che la montagna può diventare una droga e che gli alpinisti fuggono perché non sanno fare altro. In parete sembrano semidei, li porti in città e sono dei disadattati. Motti non parla di politica, lui non fa politica, però siamo negli anni Settanta, sull'onda lunga del Sessantotto, e l'evasione è permessa solo ai carcerati.

Il tempo libero è un tabù. La cultura post-rivoluzionaria vieta ogni fuga, senza distinzione. È più che mai deplorata quella nel privato, e anche le «scintillanti vette» di romantica memoria sono vietate. Per quelli del Sessantotto la montagna è una cosa vecchia che allude a retoriche fasciste, miti reazionari come la guerra, gli alpini, il sacrificio di patria, perniciose storie di caserma e sacrestia, scappatelle di eroucci rincoglioniti. Perfino la montagna dei partigiani, invecchiata anche lei, è stata silenziosamente messa da parte.

Da studente innamorato di rocce utopie e rivoluzioni credo che esista uno stile eversivo di fare montagna, diametralmente opposto alla stagione degli eroi, ma allo stesso tempo so che le parole di Motti potrebbero essere le mie, precise identiche, virgole comprese, e quindi vivo in una perenne contraddizione, assurda ed esplosiva, quindi rivoluzionaria, ma anche faticosa. A diciott'anni è molto più facile salire duemila metri di sassi con venti chili di zaino sulla schiena che fare qualcosa della propria vita.

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Pagina 18

[...] Sulle pareti rocciose dell'Orco aveva avuto luogo un duello cavalleresco tra generazioni, all'insaputa dell'avversario. Una primavera breve e non del tutto consapevole. La lotta di liberazione dall'alpinismo eroico è durata tre anni, dal 1972 al 1975, affidandosi a un movimento urbano piuttosto esclusivo, molto iniziatico, per soli maschi (l'unica ragazza è Laura Trentaz, che partecipa all'apertura del Diedro Nanchez nel 1974). Uno scontro prevalentemente allegorico, concentrato nel tempo e nello spazio. Epopea più letteraria che reale, impregnata di simboli e allusioni leggendarie. Nei nomi delle vie consegnate al mito predominano i pellerossa (il Lungo cammino dei Comanches, il Nanchez), con derive psichedeliche (la via Cannabis, gli Strapiombi delle visioni) e socio-politiche (la via della Rivoluzione). Il primo itinerario si chiama semplicemente e inequivocabilmente via dei Tempi moderni.

È stata chiamata la «rivoluzione» dell'arrampicata, ma forse sarebbe preferibile il termine «rinascimento», e in tal caso la definizione implica una decadenza dell'alpinismo precedente. Per capire la rivolta bisogna partire da quello che c'era prima.

L'ambiente alpinistico era quanto di più retrivo e ottusamenté conservatore si possa pensare — ha testimoniato Massimo Demichela, classe 1954 —. La scuola Gervasutti di Torino ne era un esempio emblematico: si rasentava l'idiozia... Vigevano regole assolute: l'alpinismo è solo questo, il resto è merda; le scarpe da usare sono queste, il resto è merda. Alcune persone ebbero un moto di ribellione verso questa «muffa», una ribellione più o meno cosciente e politicizzata, portata avanti più a livello personale che nella scia di una corrente di pensiero. Nella realtà si trattava forse di rivendicazioni minime, ma era comunque difficile ottenerle. Molto difficile.


L'alpinismo italiano affonda radici nella Grande Guerra. È ancora inchiodato a una cultura maschilista e autoritaria della montagna che dopo la carneficina del Quindicidiciotto è passata attraverso la retorica del fascismo, la glorificazione dell'eroe, il nazionalismo delle spedizioni extraeuropee, la battaglia per gli ottomila himalayani e gli eroismi verticali del secondo dopoguerra. Sulle cime sventolano le bandiere e s'innalzano le croci, immarcescibili simboli di conquista e sacrificio. All'Italia e alla Germania, i paesi alpini segnati dal giogo delle dittature, non sono bastate l'antiretorica della Resistenza, la pace, la ricostruzione e la prosperità economica per liberarsi dal pesante passato.

La Francia è più leggera perché non ha partecipato al massacro degli alpini e dei kaiserjäger durante la prima guerra mondiale, e neppure all'eroica corsa per le grandi pareti nel Ventennio. Ai transalpini sono stati risparmiati i martiri della montagna intrisi di lacrime e sangue, l'esaltazione del sacrificio giovanile, la perniciosa sovrapposizione di fucile e piccozza che ha soffocato lo spirito germanico e italiano.

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Pagina 25

I falliti





                           Solo nel pericolo potevo dimostrare il mio coraggio.
                           Non è questa la virtù degli uomini tutti di un pezzo?

                                                               Armando Biancardi



È difficile datare la prima scintilla del Nuovo Mattino; presumibilmente la brace diventa fiamma nel 1972, quando il torinese Gian Piero Motti consegna il provocatorio articolo sui «falliti» della montagna alla «Rivista mensile del Club Alpino Italiano».

Motti è un giovane brillante scalatore che sa di lettere e filosofia, conosce la storia e scrive da intellettuale, non da scalatore. Detesta l'alpinismo rozzo da caserma. Come tanti altri è uscito dalle rigide maglie della Scuola Gervasutti, sentendosi sempre più a disagio nel ruolo di istruttore, accademico decorato, depositario dell'arte delle vette. Il mondo è rifiorito e l'alpinismo è rimasto vecchio. L'uragano del Sessantotto sembra passato invano.

I falliti è un racconto autobiografico in cui Motti svela i tormenti e le speranze della sua generazione. L'articolo reca la spietata denuncia di una comunità inaridita:

ho conosciuto molti ragazzi e molti uomini che avevano trovato nell'alpinismo il compenso al loro fallimento nella vita di ogni giorno. Uomini che avevano dato e che danno caparbiamente tutto se stessi alla montagna, con l'illusione di trovare un'affermazione che li ripaghi di tutte le frustrazioni...

Alcuni si illudono di essere qualcuno, credono di essere importanti, solo perché nell'alpinismo hanno raggiunto i vertici. Ma se tu li trasporti in un altro ambiente, se li inserisci in un differente contesto sociale, allora li vedi incapaci di sostenere un dialogo qualsiasi...

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Pagina 30

Secondo l'analisi di Gian Piero Motti la vetta è un pedaggio che comporta il sacrificio rituale, l'esborso obbligatorio. La vetta è un dovere come al tempo degli eroi e implica ancora vincitori e vinti, anche se la Grande Guerra è finita da cinquant'anni. In termini bellici corrisponde all'occupazione della postazione estrema, in termini religiosi alla croce del martirio stagliata nel cielo. Per l'alpinista classico è sempre la fine e il fine dell'ascensione.

Bisogna liberarsene, decidono i ragazzi ribelli. Per sciogliere le catene della scalata urge eliminare il simbolo su cui poggia il cammino della sofferenza. È necessario tagliargli la punta. La risposta al vaneggiamento verticale dev'essere un posto in piano, un apice gentile e riconciliante. Nulla di epico, niente di cartesiano. Serve un luogo semplice, non illustre, indefinito. Una non cima, insomma. È l'intuizione dell'«altopiano», il luogo più antiretorico che si potesse immaginare. Un posto come la piana della Grande Chartreuse.

Con il rinascimento del Nuovo Mattino la vetta sparisce: non c'è più nessun fine, e nemmeno una fine dell'ascensione. La vita in parete consiglia di farne a meno. Per terminare l'arrampicata bastano l'allentarsi del vuoto e l'esaurimento del precipizio.

«La via porta all'altopiano», ripete Motti, e non è un modo di dire ma un modo di pensare. Significa che la cima è superflua. Conta solo il viaggio. Il fine è il viaggio.

[...]

Motti guida la transizione attingendo al mito americano. La frequentazione del parigino Patrick Cordier, salitore solitario di El Capitan nell'autunno del 1972, l'ha portato ad aprirsi alla storia della Yosemite Valley. Motti legge, si documenta, traduce, interpreta. In un argomentato articolo del 1974 che la «Rivista della Montagna» intitola, appunto, Il Nuovo Mattino, Gian Piero ricava il modello della new age piemontese dalla scalata californiana e dalla via di Harding e Caldwell The Wall of the Early Morning Light («Il muro della luce del mattino»), aperta in ventisette giorni sul gigantesco El Capitan. Anche il nome del rinascimento viene dal nuovo continente.

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Pagina 54

In seguito io e Gobetti ci mettiamo d'accordo: politica e scalata non si parlavano, d'accordo, tuttavia erano figlie dello stesso clima. Sono evidenti le affinità elettive. I protagonisti del Nuovo Mattino hanno studiato con esiti molto diversi, qualcuno milita in Lotta Continua, qualcun altro se ne frega, nessuno vive come Heidi in una capanna sui monti. Sono cresciuti sull'onda di un movimento frantumato tra battaglie sociali e fughe interiori, comandamenti di guerra e sogni di armonia. Culturalmente sono figli della contestazione, anche se si sono tenuti fuori dai cortei e dalla lotta di classe. Nel 1968 qualcuno era troppo giovane per la rivoluzione e gli altri pensavano solo a scalare, comunque il Sessantotto è scoppiato nella città della FIAT e il Nuovo Mattino è nato sotto lo stesso cielo.


In Italia – riepiloga lo storico Giovanni De Luna – tutto cominciò a Torino il 27 novembre 1967... Nel 1968 i fatti presero a rimbalzare sulla carta geografica come la pallina di un flipper impazzito, dal Vietnam agli Stati Uniti (dove furono assassinati Martin Luther King, 4 aprile, e Bob Kennedy, 5 giugno), da Berlino (l'11 aprile, in un attentato, fu ferito il leader degli studenti Rudi Dutschke) a Praga (il 20 agosto arrivarono i carri armati sovietici). Erano episodi che riguardavano la politica, ma anche il costume e la cultura: ritornò sulla scena Bob Dylan, uscì l'album dei Rolling Stones Sympathy for the Devil, cominciarono i grandi raduni giovanili...

In Italia il '68 durò più a lungo: i suoi effetti più significativi si sarebbero protratti fino al cuore degli Anni 70.


Dovrebbe essere ormai chiaro – aggiunge il giornalista Piero Verni – che quella stagione non fu una cosa sola, ma dieci, cento, mille tutte insieme... Accanto al '68 politico, che divenne in breve tempo largamente maggioritario, ne esisteva un altro più interiore, individuale, «privato» lo si sarebbe chiamato un decennio più tardi. Questo «altro '68» era composto da giovani che guardavano a Gandhi più che al Che, ai poeti beat più che a Mao, al flower power più che alla lotta di classe, che si sentivano più ribelli che rivoluzionari, che erano attratti più dalla nonviolenza che dalla guerriglia... E la voglia di un altrove che fosse veramente «assoluto» portò questi giovani a spaziare con lo sguardo su orizzonti molto più distanti.


Evidentemente i ribelli della roccia appartengono all'altro Sessantotto: più al flower power che alla lotta di classe.

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Pagina 83

Quando sono arrivato nel 1976 soffiava ancora aria di lotta, anche,se era già un altro temporale; giravano più ciclostilati che libri di testo e in aula magna volavano le bombe ad acqua di Lotta Comunista. In due ore potevi goderti il Machiavelli di Luigi Firpo, indimenticabile, le bombe e lo sgombero della polizia in assetto antisommossa.

Vestivamo alla vecchia maniera: giacconi, maglioni, sciarpe, scarpe pesanti e sacche a tracolla. Chi portava i mocassini a suola liscia era un fascio oppure un fighetto qualunquista. Se mi fossi vestito da montagna con il piumino, la suola Vibram e lo zaino in spalla avrei anticipato la moda di trent'anni, ma in città stavo bene con la lana addosso e una cinghia di traverso. Erano i segni dell'appartenenza a un tempo spettinato e ribelle, e noi eravamo gli ultimi reduci, i meno convinti, i più recuperabilí, gli unici capaci di parlare con gli studenti acqua e sapone che sopraggiungevano alle nostre spalle ignari, confidando nella scuola e nel sistema. Ragazzi che non avrebbero più fatto a botte per la politica, non si sarebbero fottuti di ideali irrealizzabili e avrebbero ignorato l'eco della strada, dove ogni voce diventa un grido.

Erano gli ultimi scontri: lo sapevamo noi e lo sapeva la polizia, che presto saremmo tornati a Canossa. Incombeva l'ombra della lotta armata e pesava il gap culturale con gli indiani metropolitani; ci sembrava una lotta diversa, sfibrata, senza futuro. Come aveva pensato Motti nel 1975 dopo l'ultimo passo di Itaca nel sole, tutto finisce in questo mondo ed è alquanto patetica una rivoluzione trascinata per assuefazione o per vuoto esistenziale.

Due mesi fa, nel limpido ottobre di Torino, quarantamila impiegati della FIAT hanno sfilato contro gli operai che bloccavano la fabbrica. I colletti bianchi chiedevano di lavorare alla faccia delle tute blu; gli impiegati volevano lo stipendio. Sembravano silenziosi fantasmi apparsi dal pianeta Riflusso. Era il ceto medio che diceva «ci siamo anche noi, il gioco è cambiato, adesso comanda l'obbedienza». Per consumare bisogna produrre.

Il mondo è sottosopra. Dovremo cercarci dei nuovi nemici? Saranno abbastanza cattivi e degni del nostro sdegno? Nel 1980 sono sufficientemente giovane da confidare che verranno altre battaglie, altri Lennon, altri profeti, ma una parte di me dubita. Verranno? Quando? Voltandomi vedo una fila di angeli uccisi e sogni calpestati, davanti vedo gente che urla e fa festa, e nessuno che sappia che cosa ci sia da festeggiare. Il disincanto? Il pensiero debole? La televisione a colori? La Milano da bere? La strage di Bologna?

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Pagina 109

Vertigine





                          La vertigine è una cosa diversa dalla paura di cadere;
                                è la via del vuoto che ci ammalia, sotto di noi,
                                                     è il desiderio della caduta
                                               da cui ci difendiamo con terrore.

                                                                   Milan Kundera



Gli occhi ammirano, la ragione afferra, il corpo si ribella. Potrei tradurre così la mia reazione all'arrampicata sportiva, che presto diventa anche alpinismo sportivo, progetto sportivo, pensiero sportivo. Perfetta incarnazione degli anni Ottanta.

Sarei un ipocrita se non notassi, da giornalista di montagna, la perfezione gestuale dei nuovi arrampicatori; forse solo Comici , tra quelli vecchi, avrebbe potuto competere con i ragazzi degli anni Ottanta. Che lo spit non sia il diavolo lo dimostra il piacere della scalata «protetta», che è divertimento puro, liberato dalla paura. Dunque non è l'inferno, semmai un limbo, o un paradiso molto accessibile. Eppure il mio inconscio dice no e il corpo lo segue come sempre, rifiutandosi di arrampicare. Sono preda delle vertigini.

Ne soffro fin da bambino, quando la voglia di montagna ha cozzato con la paura del vuoto. Finché mi sono arrampicato sugli alberi e sui sassi ho potuto credermi un alpinista del futuro, appena ho visto un precipizio ho dovuto ricredermi.

Il mio 1968 è un tentativo fallito al Grand Tournalin, la bella montagna che riempie il cielo di Cheneil e separa la Valtournenche dalla Val d'Ayas. A dieci anni sogno il Tournalin e mio padre si offre di accompagnarmi. Partiamo di notte, soli.

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Pagina 151

Fino agli anni Ottanta del Novecento l'alpinismo era riuscito a ripartire dai propri errori, mostrandosi più lungimirante della società dei consumi. Per una sorta di diffidenza genetica insita nella loro storia, gli alpinisti si erano convinti che lo sviluppo senza freni portasse all'autodistruzione. Così ogni volta che i seguaci del «progresso» avevano cercato di addomesticare la montagna attraverso un uso dissennato della tecnologia, erano stati duramente contestati dai difensori dell'avventura:

«Alleggeritevi! Solo togliendo avrete di più».

«Voi non tollerate le innovazioni.»

«Infatti: noi guardiamo oltre.»

L'evoluzione della scalata è una continua linea sinusoidale, dalla prima salita del Monte Bianco all'invenzione dell'arrampicata sportiva. Quando il profilo della curva sale troppo in alto arriva un idealista che la riporta giù, in modo che l'avventura possa ricominciare. È successo con il grande scalatore solitario Paul Preuss prima della Grande Guerra, con Cozzolino e Messner negli anni della contestazione, con le spedizioni leggere degli anni Settanta, con l'arrampicata libera di Berhault e Manolo.

La storia dell'alpinismo è una lunga commedia in cui due attori recitano la parte. Sempre la stessa. Si direbbe che gli uni e gli altri confidino nella reazione della parte avversa per la sopravvivenza della passione comune: «Ci provo perché so che se sbaglio qualcuno mi fermerà». L'alpinismo è cresciuto secondo le regole del processo dialettico: i «progressisti» e i «conservatori» hanno avuto modo di fare, sbagliare, pentirsi, e gli idealisti sono stati ascoltati. Non ci sarebbe stata vera evoluzione senza i loro sdegnati rifiuti, le rinunce, í limiti invocati nel nome del mistero. Senza la forza dell'utopia il povero drago sarebbe morto e sepolto.

Sono sicuro di una cosa – diceva Paul Preuss poco prima di morire –. Con le mie idee sono perfettamente isolato e quando manifesto il mio pensiero la risposta è sempre la stessa: un punto di vista ideale e assurdo.

Eppure ancora oggi si parla di lui e del suo romantico estremismo:

quando si sarà riusciti ad accettare l'uso della corda e dei chiodi solo in casi di estremo bisogno, le montagne come il Campanile Basso di Brenta avranno visite molto più rare, ma di qualità indubbiamente superiore.

Preuss esprimeva un'opinione paradossale e piena di carica eversiva. La guida fassana Tita Piaz rispondeva con sdegno alla provocazione:

la teoria di Preuss, che per il singolo, specie per un rocciatore della sua classe, ha indubbiamente un alto valore etico-sportivo, costituisce per la gran massa, e specialmente per la giovine generazione alla quale predica il suo vangelo, un pericolo autentico, e va quindi combattuta nel modo più energico. L'uso razionale e moderato dei mezzi artificiali non va difeso perché esso è d'antica data e sanzionato da tutti gli scrittori e filosofi dell'alpinismo, ma perché in tal caso essere conservatori vuol dire essere umani. Per conto mio, se un chiodo avesse salvato un'unica vita, ciò sarebbe sufficiente a giustificarne l'uso, e lasciatemi galoppare un po'... anche l'abuso!

Il bisticcio tra conservazione e innovazione suscita una riflessione, perché Piaz scrive che «essere conservatori vuol dire essere umani». Detto da lui suona come uno scherzo, considerato che era un famigerato sovvertitore di regole e si faceva chiamare il «diavolo delle Dolomiti» per i gesti ribelli consumati sui Monti Pallidi alla faccia di ogni prudenza. Eppure, in onestà, il diavolo si sentiva un tradizionalista quando difendeva l'uso dei mezzi artificiali, attribuendo a Preuss il temerario spirito dell'innovatore.

Ad azzardare un paragone con la storia del ciclismo, sarebbe come se l'inventore della bicicletta al titanio riconoscesse il vero avanzamento nei ferri a due ruote di Binda e Girardengo. Avevano di meno e restituivano di più.

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L'ultima ideologia





                              I tuoi nipoti troveranno probabilmente incredibile
                             — o addirittura peccaminoso — che tu abbia bruciato
                                                un gallone di benzina per andare
                                           a prendere un pacchetto di sigarette!

                                                                  Paul MacCready



«Spiegai che il nostro proposito era quello di organizzare una 'operazione di commando' diretta ad aprire una breccia nella cittadella di autocompiacimento in cui la società si era follemente trincerata.» Sono parole di Aurelio Peccei, il fondatore del Club di Roma e l'ispiratore del Rapporto sui limiti dello sviluppo, lo studio che nel 1972 non sconvolse abbastanza il mondo, anche se era il pensiero più sconvolgente e profetico del suo tempo. Peccei ci spiegava con la lucidità della scienza che non può esistere crescita infinita per la semplice ragione che le risorse da sfruttare sono limitate, come lo è la terra, come lo è l'acqua, come lo è la vita. Peccei confutava il capitalismo fondato sul consumo senza limiti, e anche il pensiero, più nostro, che bastasse liberare l'uomo dal giogo dei padroni per salvarlo. Era già un concetto vecchio, legato a un mondo in rapido disfacimento.

Quindici anni dopo il Rapporto sui limiti dello sviluppo, un gruppo di alpinisti parimenti incompresi si allontana dai club alpini per fondare Mountain Wilderness, il movimento in difesa delle terre alte. Il divorzio tra gli ambientalisti e le istituzioni si consuma a Biella nell'autunno del 1987, in un teatro vestito di rosso e in un clima risorgimentale.

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Pagina 162

Uno degli ultimi uomini politici di rango, il «verde» sudtirolese Alexander Langer , dichiarava che «ognuno di noi non dovrebbe consumare nulla di più di quanto non possano consumare i restanti sei miliardi di abitanti del pianeta». E ancora:

Bisogna riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza). Un vero «regresso» rispetto al motto olimpico del più veloce, più alto, più forte, da trasformare in «più lentamente, più profondamente, più dolcemente e soavemente».

Nell'estate del 1989 Langer partecipa alla seconda manifestazione di Mountain Wilderness alla Vallée Blanche, quando trecento militanti italiani e francesi si vengono incontro a tremilacinquecento metri per comporre la scritta umana «Pour le parc».

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Ha ancora senso la parola avventura? Le prime voci che escono su internet sono «parco avventura», un percorso artificiale, e «Avventure nel mondo», un'agenzia di viaggi. Il patinato mondo della safety and security non prevede zone d'ombra. L'unica «avventura» prevista è quella programmata e sicura, cioè il suo contrario. Un controsenso.

Servirebbe un salto culturale per sanare il cortocircuito delle parole, e allora ripenso al docente della Bocconi di Milano che vedeva nel Nuovo Mattino «una risposta sorprendentemente efficace alla crisi di un fenomeno sociale». Forse quella risposta ci può ancora insegnare qualcosa perché la domanda non è cambiata, se già nel 1972 Motti chiedeva ai lettori e a se stesso: «Ma dov'è finita l'avventura?».

Non è poi così difficile da trovare — concludeva il torinese —, anche se talvolta tutto appare intricato, contorto, quasi impossibile. Ma è in noi stessi la soluzione, nella nostra semplicità. Allora forse scopriremo l'avventura ogni giorno, aprendo solamente la finestra e guardando i tetti grigi delle case di una qualunque città.

Mentre consegna queste frasi ai lettori Motti ha già in mente la soluzione. Batte sulla macchina da scrivere e pensa alla Valle dell'Orco, ai piedi del Gran Paradiso, dove ha ambientato L'ultima avventura e dove sta progettando il Nuovo Mattino. L'articolo esce a maggio sul giornale del Club Alpino Italiano, nell'estate Gian Piero sale come sempre in Val Grande di Lanzo, in autunno si sposta su una valle più a nord, raggiunge il muro del Caporal e scala la via dei Tempi moderni.

Motti non insegue George Mallory o il Duca degli Abruzzi. La risposta alla crisi non è una parete sperduta ai confini del mondo e miracolosamente risparmiata dalla civiltà. Nessun torinese parte per í ghiacci dei poli o le montagne dell'Himalaya. La risposta del Nuovo Mattino è a due passi da casa, tra i larici e i rododendri. L'avventura immaginata è esplorazione filosofica e corporea. Proietta pensieri importanti in limitati spazi geografici, alleggerendo il bagaglio, accorciando il viaggio e riducendo i mezzi tecnici. Più che alzare il livello dell'obiettivo lo concentra, focalizzandosi sullo stile.

Nel fare cose antiche con occhi e modi nuovi, i ragazzi del Nuovo Mattino risvegliano un alpinismo cresciuto nei grandi spazi ma imprigionato dai piccoli progetti. Gli ridanno il senso. Se avventura vuol dire lasciare le sicurezze acquisite per esplorare regioni e idee sconosciute, i ribelli dimostrano che esistono orizzonti sterminati anche in un mondo finito. Perché infiniti sono gli sguardi degli uomini, non le terre da conquistare.

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Mi chiedo se i giovani sentano questa confusione. Noi crescevamo con i nomi forti, ci innamoravamo della montagna leggendo Bonatti e Desmaison e ci arrampicavamo imitandoli. La storia e il mito hanno guidato i nostri passi anche quando abbiamo fatto di tutto per liberarcene, mentre oggi sembra che la sopravvivenza del presente dipenda dall'ignoranza del passato. Si va senza padri né maestri, alla giornata.

«Sono nata nel 1977 — si presenta la scalatrice bresciana Eva Grisoni, detta Eva Kant —, due mesi prima che fosse salita la via dell' Oceano irrazionale sul Precipizio degli Asteroidi. La mia generazione sembra radicalmente allontanata dalla storia, come se i sedimenti del tempo fossero ormai appiattiti in un presente multiforme».

Nel 2013, sul sito specializzato «Planetmountain», Grisoni scrive parole illuminanti sulla scalata contemporanea. Eva fa costante riferimento al Nuovo Mattino e traccia il rapporto distratto dei suoi coetanei con la generazione ribelle: «Così come abbiamo studiato a scuola le contestazioni del '68, i movimenti studenteschi e operai, gli attentati delle Brigate Rosse e dell'estrema destra, abbiamo anche saputo del rifiuto dei giovani di quegli anni nei confronti di una concezione sofferta della scalata». Il pezzo forte viene a metà articolo, quando l'autrice spiega che cosa è successo dopo. Chi sono loro, adesso.

Se confrontata con il Nuovo Mattino, credo che la mia generazione possa essere definita quella degli scalatori pomeridiani... Per noi il terreno del divertimento è già tracciato, non abbiamo niente da inventare o ideali da seguire, la storia è stata scritta e noi ne seguiamo inevitabilmente la traccia, senza essere obbligati a conoscerla... Nella nostra attività di scalatori abbiamo i nostri gusti, le nostre idee, ma credo che oggi non abbiamo più ideali: nella vita di tutti i giorni, nella politica, quindi anche nell'arrampicata. Non c'è più nessuna lotta, nessun valore, nessun cambiamento effettivo che possa trasformare l'attuale situazione di stallo: potendo «far di tutto», decidiamo soprattutto di fare quello che ci piace, che ci diverte. Ma non riusciamo più a distinguere ciò che conta davvero ed eventualmente a sceglierlo... A parte la grandissima crescita sulla difficoltà nell'arrampicata sportiva, cosa lasceremo alle generazioni future?

Grisoni è spietata. Mette il dito nel fondo della piaga. La frase decisiva è: «Potendo far di tutto, decidiamo soprattutto di fare quello che ci piace, che ci diverte». Niente di più naturale, ma il sentimento di onnipotenza crea spiriti passivi. «Non c'è più nessuna lotta, nessun cambiamento», scrive la scalatrice del pomeriggio. Il potere acquisito raffredda l'urgenza di partire, il bisogno di cercare e perfino la voglia di raccontare. Inchioda al porto i naviganti, perché solo i pazzi o gli innamorati lasciano la certezza per l'ignoto. Bisogna avere fame di conoscenza e sete di mistero per solcare l'immenso mare. Rischiare di smarrirsi e forse d'impazzire. Scegliere di perdersi per ritrovare la strada.

Il paradosso è che viviamo nell'epoca del moto perpetuo. Le persone si spostano ogni giorno, in ogni stagione e regione del mondo. Non si è mai viaggiato tanto. Mentre batto queste righe sul mio portatile, quattrocentomila passeggeri stanno volando intorno alla terra e altrettanti alpinisti stanno progettando la scalata del finesettimana. È l'appuntamento rituale, una necessità.

Noi «giovani» dell'arrampicata – continua Grisoni – se non stiamo bene attenti rischiamo solo di scalare senza capire il senso di ciò che accade: una volta lungo una via a spit, un'altra volta su una via a chiodi e un'altra ancora, magari senza saperlo, lungo una via antica a chiodi ri-spittata. Rischiamo di fare le cose senza sapere perché le facciamo, per la fretta di trovare, il venerdì sera dopo il lavoro, una possibilità da salire il giorno dopo.

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