Copertina
Autore Piero Camporesi
Titolo Camminare il mondo
SottotitoloVita e avventure di Leonardo Fioravanti medico del Cinquecento
EdizioneGarzanti, Milano, 2007 [1997], Saggi , pag. 310, cop.fle., dim. 13,5x21x2,2 cm , Isbn 978-88-11-68078-9
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe storia sociale , viaggi , medicina , biografie , citta': Napoli , citta': Venezia , citta': Palermo
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Indice


 1. Un medico di «nazion bolognese»               7

 2. Apprendista in Sicilia                       35

 3. Fra tradizione e innovazione                 59

 4. Le «maraviglie» di Napoli                    77

 5. Al vento del Mediterraneo                   109

 6. Roma, la «città santa»                      127

 7. Venezia, «ombelico del mondo»               145

 8. Da Firenze a Pola                           177

 9. Ferrara e Milano                            203

10. Da Venezia all'Europa                       221

11. Gli ultimi anni                             249


    APPENDICE

Parte I. Lettere di Leonardo Fioravanti

I.   A Cosimo de' Medici [2 luglio 1560]        279
II.  A Cosimo de' Medici [2 novembre 1560]      280
III. A Cosimo de' Medici [14 dicembre 1560]     281
IV.  A Cosimo de' Medici [6 maggio 1561]        282
V.   A Cosimo de' Medici [21 giugno 1561]       284
VI.  A Cosimo de' Medici [23 agosto 1561]       285
VII. Ad Alfonso ii d'Este [1568]                287
VIII.Ad Alfonso n d'Este [25 novembre 1570]     288
IX.  Supplica di Fioravanti in prigione [1573]  290
X.   Il Governatore di Milano al protofisico
     [20 aprile 1573]                           291
XI.  A Filippo Il di Spagna [1581]              291

Parte II

[I quattro umori]                               293
[Natura e arte]                                 294
Quali sono quelli che sanno più de gli altri
a questo mondo                                  297

Indice dei nomi 301


 

 

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Pagina 7

1. Un medico di «nazion bolognese»



A Palermo aveva trovato un buon alloggio «al largo della marina, appresso santa Maria della Catena». Era sbarcato nella capitale del «fertilissimo regno di Sicilia» forse nell'autunno del 1548, navigando su una nave salpata da Genova dove, lasciata la casa bolognese, si era recato in occasione dell'arrivo di Filippo, primogenito di Carlo V. Qualche dubbio sulla data esatta dell'approdo nell'isola dei Ciclopi è però giustificato. Il computo degli anni non era il suo forte, per lui come per tanti suoi contemporanei. Quando dava alle stampe i suoi ricordi, a Venezia, verso la fine degli anni Sessanta, erano passati da allora vent'anni. Non solo: il computo del tempo, spesso diverso da una regione all'altra (lo stile veneto, quello fiorentino, il napoletano), non doveva aiutare la memoria di chi era passato, come Fioravanti, da una città all'altra, da un calendario all'altro spostandosi fra le varie cronologie in uso fra regni, principati, repubbliche.

Mentre correva l'anno 1548 credeva d'essere trentenne («in quel tempo era di età di 30 anni») ma si sbagliava, facendo sbagliare anche i biografi che lo hanno sempre fatto nascere nel 1518 finché non venne trovato il suo certificato di battesimo. Ne aveva invece trentuno, e suonati. Figlio di un non meglio identificato Gabriele Fioravanti (non si hanno notizie sulla condizione sociale del padre e della madre, Margherita), era stato battezzato nella chiesa cattedrale di Bologna, San Pietro, il 10 maggio del 1517. Il suo orologio doveva essere messo indietro di un anno abbondante. E non solo in questo caso, ma anche per quanto riguarda la sua partecipazione alla campagna navale e poi terrestre sul suolo africano voluta dall'imperatore Carlo V che non si svolse nel 1551 (come Fioravanti continuò a credere a lungo) ma nel 1550. Se il calcolo del tempo non era il suo forte anche sulla grafia del cognome aveva incertezze e oscillazioni. Si firmava infatti ora Fieravanti ora Fieravante, ma talvolta anche, da cavaliere qual era, usava il più sonoro Floravanti. Nulla sappiamo della sua famiglia e delle sue parentele ma il cogmome che portava era stato celebre negli annali artistici bolognesi del Quattrocento per l'operosa attività di Fieravante Fieravanti, ricostruttore di una parte del palazzo Comunale (1425-28), di Bartolomeo che portò a termine il palazzo dei Notai e soprattutto di Aristotele Fioravanti (o Fieravante), capomastro muratore, architetto, inzignario geniale, abilissimo a spostare torri e campanili, più famoso forse a Mosca che in patria per avervi innalzato cattedrali e iniziata la costruzione del Cremlino.


L'arrivo nella «felice» città posta sotto il monte Pellegrino fu dolce e smemorante: nel pieno del vigore fisico, si lasciò prendere dall'incanto del clima e dalle varie lusinghe della metropoli insulare, da quelle «delizie esquisite» che nel secolo seguente ancora seducevano Cervantes e Maiolino Bisaccioni. Stava vivendo un autunno ben diverso da quelli a lui famigliari: l'aria asciutta, il cielo libero dalle nebbie che gravavano solitamente sulla sua patria lontana, i venti d'austro che increspavano le palme, i gridi incomprensibili dei venditori di strada, il sentore ovunque diffuso di zafferano, di anice, di comino, gli allettamenti di una cucina speziata e profumata, l'odore arabo-mediterraneo della seducente «terra» lo resero smemorato e felice. Stordito dai venti del Sud, inebriato dagli aromi che esalavano dagli innumerevoli giardini, trascorse molte settimane con «gran piacere e solazo, senza che uomo nissuno sapesse la profession mia». Si godette tutto il carnevale e solo all'inizio di quaresima i palermitani appresero che «era medico e di nazion bolognese».

Si ricordò allora che era andato a Palermo per lavorare, conoscere ed esser conosciuto e incominciò, molto opportunamente, a orientarsi meglio, a chiedere, a imparare, a immagazzinare informazioni utili al suo mestiere. Vide i palazzi abitati da una «quantità di prencipi e case nobili titolate e cittadinanza di buon garbo e honorati costumi», vide una città popolata da più di centomila abitanti nella quale ogni giorno di buon mattino confluivano migliaia e migliaia di lavoratori che, passata la notte nei paesi del contado, vi entravano a prestare le loro opere e i loro servizi. Incominciò ad avvicinare le persone che potevano aiutarlo nel suo apprendistato, quelle che meglio conoscevano la città, l'ambiente, il paese. I vecchi soprattutto.

Ritrovandomi poi molti anni sono nel fertilissimo regno di Sicilia – ricordava in una pagina Del regimento della peste – in Palermo città famosissima in quel regno dove stetti molti mesi, per investigare e sapere la qualità del paese, la temperatura dell'aere, le complessioni di quelle genti, la diversità delle cose appertinenti al vitto umano, la gravezza delle infermità che quei popoli pativano e i medicamenti co i quali si medicavano; e di continuo cercavo di conversare e praticare con uomini vecchi di età; perciò che i vecchi sogliono sapere molte delle cose passate. E fra gli altri trovai uno speciale vecchissimo, di età d'ottantasette anni, il quale si chiamava Ianuccio Spatafora ch'era di grandissima dottrina ed esperienza. E così ragionando con lui, l'incominciai a interrogare di molte cose, come della qualità dell'aere in quella città; il quale mi disse l'aere di Palermo esser bonissimo tutta volta che non regnassero i venti da ostro o da sirocco; perché tali venti erano molto nocivi a quei paesi, sì alla salute come anco alla fertilità del paese: dicendomi che quei venti gonfiavano gli uomini e che generavano una specie di febbri continue che ammazzavano di molta gente. Mi raccontò di più della fertilità del paese, della generosità di quei gentiluomini e d'infinite altre cose successe in diversi tempi in quel regno.

Quando era partito da casa nessun astrologo poteva predirgli che sarebbe rimasto per circa sette anni al Sud, a Palermo prima, poi a Messina, in Calabria e infine a Napoli prima di risalire lentamente la penisola.

Cupido di danaro ma ancor più di fama, avidissimo di conoscenze e di esperienze, spinto da una inesauribile curiosità di vedere, udire, apprendere, fare e provare, aveva lasciato la «dolce patria» per esercitare la professione di medico vagabondo ed errante. Se dobbiamo credere alle sue numerose pagine autobiografiche, agli innumerevoli ricordi affidati soprattutto ai Capricci medicinali e al Tesoro della vita humana – ma disseminati un po' in tutte le opere, dove il suo ipertrofico ego affiora con una frequenza quasi ossessiva – si trattò di una scelta soprattutto culturale. Fosse sincero o no, fosse ardore di conoscenza o più semplicemente bisogno di lavorare per sbarcare il lunario, resta il fatto che i Capricci e il Tesoro soprattutto, ma non unicamente, ci offrono molti materiali adatti a ricostruire una singolare autobiografia unica nella storia medica e culturale italiana (a parte il De propria vita di Gerolamo Cardano), non inferiore ai Voyages faits en divers lieux del suo collega francese Ambroise Paré (1510-1590).

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Pagina 12

Tarda, confusa, orecchiata e di seconda mano fu la conoscenza che Fioravanti ebbe di Paracelso e delle sue opere. Anche se non mancò di elogiare il geniale terapeuta-alchimista-chirurgo elvetico, la sua formazione passò per altre strade. Non fu necessariamente un male. Col paracelsismo ebbe in comune certi aspetti, vistosi ma generici: l'ostentato e sempre troppo declamato timore di Dio, unico vero e grande archiatra che guida la mano del chirurgo e rivela gli arcani dell'arte al medico pio e timorato; la totale fiducia nella forza restauratrice della natura «maestra del medico, non l'uomo» (Paragranum) che l'illuminato guaritore deve interpretare e seguire («non faccia nessuno dei libri o dei testi: la natura compone il testo, il medico il commento dello stesso libro», Labyrinthus medicorum), «natura sanat, medicus curat». Anche Fioravanti riteneva i medici «audiutori della natura e non maestri» ma non arrivò mai a condannare in blocco con lo sprezzante disdegno dell'elvetico la letteratura dottorale antica e moderna. Condivise con Paracelso la convinzione profonda della superiorità dell'esperienza sulla teoria astratta e la necessità dell'esperimento; del vedere e del fare, più che del leggere; l'umiltà del medico, bisognoso d'apprendere anche dagli indotti e dagli analfabeti; la necessità di conoscere le arti manuali per completare il curriculum policentrico dei saperi umani; la scarsa fiducia, se non la disistima, nell'anatomia.

Ma il rifiuto degli antichi maestri, l'irrisione verso Ippocrate, Galeno, Avicenna e gli altri venerati autori del canone è quasi sconosciuta a Fioravanti: seppure un paio di volte – si direbbe per ostentazione e per esibizionismo – li mandasse al bordello, si tenne lontano dall'invettiva istrionica e taverniera, al limite con l'isteria intellettuale, del forsennato Bombasto di Hohenheim. Anche quando, unico fra i medici italiani (e non solo del Cinquecento), demolisce e irride la intoccabile teoria dei quattro umori (alla quale poi, contraddicendosi, continua nella pratica ad aderire) non rigetta il sapere degli antichi inchinandosi con deferenza al «maestro di tutti, Galeno nostro»). Nella definizione di malattia come squilibrio e disarmonia interna alle funzioni degli organi, come discrasia umorale, non esce dal solco tracciato dal grande medico di Pergamo. Pare non avesse sentore, o se l'ebbe non la condivise, della necessità predicata da Paracelso di abbandonare la teoria degli umori e di costruirne una dei semi. Mai arrivò a sostenere che «gli umori sono derivati dalle malattie e non le malattie da loro» (Labyrinthus). Né c'è traccia nei suoi orizzonti culturali della dottrina paracelsiana delle cause patogene esterne, della rivoluzionaria teoria dei semina. Né si lasciò troppo affascinare dal sistema delle «signature», delle occulte simpatie, dalle corrispondenze intercorrenti fra il mondo inferiore e quello astrale.

Ebbe il buon gusto di non autoproclamarsi (al contrario di Paracelso) monarcha medicorum, né mai pretese d'essere considerato sovvertitore del sapere medico. Mai rovesciò secchi di sterco su maestri antichi e colleghi contemporanei, secondo lo stile dell'invettiva scatologica paracelsiana. Riformatore, anzi innovatore, si batté per svecchiare la pratica medica abitudinaria e tradizionalista, deplorando l'«ostinazione di noi altri medici che non vogliamo fare né più né manco di quello che noi troviamo scritto da Galeno o da altri Autori», esortandoli a non applicare gli antichi «canoni come se fussero leggi divine e non scritture umane». Diffidava anche di non pochi moderni autori nei cui confronti esprimeva tutto il suo scetticismo (alla maniera di Cornelio Agrippa di Nettesheym), lamentando che «la scienza di questi tali è vana e i rimedi sono incerti». Proponeva invece con indefessa tenacia il suo «modo nuovo» di trattare le infermità, avvertendo di non aver seguito «lo stile d'Ippocrate né di Galeno né d'Avicenna né d'altri antichi o moderni Auttori» ma solamente il suo «proprio giudicio e la esperienza». Per tutta la vita non si stancò mai di ribadire questo cardine della sua «nuova» medicina, perché «noi dobbiamo credere alla esperienza che ci mostra la verità e non alla scienza, quale è dubbiosa». Avvertendo però – per uscire dall'appiattimento della pura e semplice empiria – che «si può credere ancor alla scienza, non essendo molto differente dalla esperienza... Perché la vera scienza non è altro che la teorica dell'esperienza, come ben si può vedere da coloro che sono esperti in tal professione». Coerente col suo metodo non disdegnava di sporcarsi le mani aprendo cadaveri e di uomini e di animali per cercare di capire meglio per potere poi intervenire con efficacia su certe patologie. Avendo, ad esempio, osservato che l'erba detta «millefoglie» possedeva forti qualità emostatiche, era passato a usarla nelle cure del fegato e del polmone ulcerati, con successo. Lo aveva sperimentato più volte «nelle pecore che si sogliono infermare di una certa infermità che i pecorari le chiamano "bissole", perché son certe posteme che si generano nel fegato e nel polmone e fanno morire gli animali. E vedendo questo io nelli detti interiori delle pecore, ho voluto fare questa esperienza; e così ho pigliato il mille foglie, fatto in polvere e fatto dare alle pecore misto col sale e la maggior parte son sanate; di poi ho sanati infiniti uomini e donne di pessime infermità... e con questa erba se ne possono sanare assai... E di questi ne ho visto io a centenara perché di poi morti gli ho aperti e voluti vedere minutamente».

La sua cura delle cisti da echinococco partiva dell'esperienza diretta e dall'attenzione alla cultura pratica dei pastori e dei contadini. Era insolito ai suoi tempi che un medico uscito dalle scuole galeniche si degnasse d'avvicinarsi ai saperi del mondo analfabeta o addirittura applicasse anche agli uomini le terapie popolari, usate per curare le malattie degli animali. Fioravanti invece, come un guaritore dei campi ignaro di libri, di maestri, di teorie, utilizzava le esperienze e le osservazioni fatte sugli animali per potere efficacemente intervenire sugli uomini. Era un metodo nuovo, non bloccato da pregiudizi scolastici, non ingessato e paralizzato dagli intoccabili canoni dettati da venerabili auctoritates. Egli sapeva che tra gli uomini e gli animali intercorrevano affinità patologiche che soltanto boari, pecorari, sofi di montagna e di villaggio avevano individuato escogitando e mettendo a punto rimedi farmacologici utili a entrambi.

Naturalmente, non sempre le sue osservazioni sperimentali coglievano nel segno. Ma lui stesso aveva messo in guardia che, seppur si dovesse «dare opera più alla prattica che alla teorica», era tuttavia sbagliato non credere alla necessità del metodo «perché il metodo o teorica, come vogliam dire, è la luce e strada da caminare alla vera esperienza, perché l'esperimento solo è pericoloso». Non pericolosi, ma sicuramente fallimentari e fuorvianti, furono una serie di esperimenti da lui effettuati per cercare d'individuare la causa del «mal francese», la grande croce della medicina rinascimentale, l'insolubile rebus che alimentò un interminabile dibattito e un inesauribile mulinello di ipotesi, pareri, opinioni, asserzioni. Non solo si discusse per decenni se la lues venerea fosse stata importata dall'America e quindi da definirsi morbo «nuovo»; oppure, come riteneva un'altra altrettanto autorevole corrente di pensiero, fosse male antichissimo conosciuto fin dai tempi dei greci e dei romani seppur non esploso in forme epidemiche particolarmente virulente (problema ancor oggi, del resto, non del tutto chiarito); ma soprattutto si argomentò all'infinito sulle sue possibili origini, attribuendone l'insorgere o all'aria guasta, o alle maligne congiunzioni degli astri, o alle vicende atmosferiche e agli influssi solari, oppure (quando non si vedeva dietro le sue orribili devastazioni la vendetta di Dio sdegnato castigatore dei peccati) a nefandezze dietetiche e all'introduzione di nuovi cibi. Leonardo Fioravanti era fermamente convinto che «sempre, ab initio mundi, il mal francese fu e sempre è stato e sarà».

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Pagina 26

Nella controversa questione sull'utilità della flebotomia, Fioravanti aveva preso una posizione sensata, chiara e (se si considerano gli eccessi ai quali si abbandonavano i numerosissimi partigiani del salasso) moderata.

La flobotomia, o cavar del sangue, come vogliam dire, alcuna volta giova, alcuna altra nuoce e alcuna volta è causa della vita e alcuna altra della morte: percioché, come altre volte ho detto, il sangue è l'anima nostra... E però quando qual si voglia infermità è pericolosa di morire, il cavar del sangue è in tutto e per tutto nocivo, anzi mortifero... Ma quando gli uomini s'infermano, per causa del sangue alterato o corrotto, in quel caso è buona la flobotomia, ma molto meglio è il purgar esso sangue e con medicine levargli l'alterazione e purificarlo. Il che è molto facile e sicuro da fare, come in diversi luochi de' miei libri ho dimostrato con ragione e con esperienza e per essempi... Per essempio dico che il medico dee fare con gli amalati come fa il cuoco, quando la pignatta bolle e fa strepito e va per sopra, che ne cava fuori una picciola quantità e così manca il strepito e non va più fuori. E fatto questo, vi aggiunge sale e alcune altre cose che lo facci saporito e buono al gusto: e così né più né manco de' far il valente medico. Quando conosce che il sangue sia fortemente alterato, cavarne alquanto, acciò non faccia strepito e poi condirlo con medicamenti interiori, che resti gustoso, cioè purificato e netto.

Se perciò l'accorto medico doveva operare col sangue come il buon cuoco col brodo, allo stesso modo, essendo la scienza terapeutica una ponderata miscela di arte e di natura, doveva ispirarsi al modello semplice ma fondamentale del corpo-cucina perché «il corpo nostro si può rassimigliare ad una stanza di cucina dove si faccia fuoco».

La porta della cucina è la bocca nostra per la quale entrano tutte le cose che la natura a guisa del cuoco vuole cucinare. E così come il cuoco cucina nelle caldare, così la natura cucina nel stomaco, e dell'odore che sono le cose che si cucinano, così respira il medesimo odore per la stanza e va su per il camino. Ha ancora la cucina esito, dove svodare tutte l'acque, che si lavano esse vivande che si cucinano e ancor le residenzie di esse materie. Ha la cucina a guisa de gli occhi i balconi o finestre, e questo che io dico, la natura opera in noi: percioché chiaramente si vede che se la natura cucina nelli stomachi nostri tristi succi, o mala qualità di cibi, o il stomaco sia distemperato, sempre ne vediamo partorire mali effetti...

Da queste premesse ne derivava l'infallibile conclusione che «la vera strada da caminare alla salute» passava per le «cinque evacuazioni» (vomito, secesso, cavar sangue, orinare e sudare).

Volendo noi osservare questa regola, la prima cosa da fare dev'essere quello che ci insegnano i medici razionali che sono i cani, i gatti e infiniti altri animali che hanno la medicina per dono della natura, che quando si sentono gravati di alcuna infermità, ricorrono al vomito e mangiano alcune sorti di erbe che li fanno vomitare ed ancor evacuare per secesso e con tal rimedio si sanano senza altro; e così noi ad imitazione di questi medici della natura doveressimo avere questo specchio davanti gli occhi ed osservare questa regola santa: cioè di far sempre vomitare gli amalati prima che li facessimo altro rimedio. Io per me osservo questo ordine e sempre veggio miracoli in tutte l'infermità. Gli animali, ancora, da lor stessi si cavano sangue e la maggior parte della bocca: sì come fa il cane, il bove, il cavallo, il mulo e altri infiniti chi per un modo e chi per l'altro, si cavano sangue. Bevono ancor assai acqua per orinare e si affaticano per sudare. E questo l'ho visto io ne' buoi, ne i cavalli e ne i cani, che si mettono a correre tanto che divengono tutti in sudore. E se noi avessimo tal specchio davanti gli occhi, così come andiamo a imparare chianchiare nelli studi, perché non cerchiamo di imparare la verità da coloro che la sanno per dono di natura?

Se nella medicina i veri medici razionali erano gli animali, nella chirurgia l'agricoltura era il modello culturale da imitare. Naturae scrutator, il buon terapeuta doveva onorarla come vera e insostituibile maestra. Dalla natura e dall'esperienza posseduta dalle arti meccaniche e non dalle vane «chianchiare» imparate nelle università era necessario partire per la costruzione della nuova medicina e della nuova chirurgia.

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Pagina 28

Ci sembra di capire che la novità nel trattamento delle ferite consistesse nella chiusura e nella cucitura serrata dei lembi, abbandonando la tradizionale tecnica del drenaggio che, com'era praticato a quei tempi (con stoppa, lembi di stoffa, «taste»), non solo prolungava i tempi della guarigione (quando essa avveniva) a beneficio esclusivo del medico curante che vi lucrava sopra allegramente (come Fioravanti aveva ripetutamente denunciato), ma soprattutto la rendeva estremamente incerta e rischiosa. Ancor più chiaramente questa sua tecnica veniva illustrata in un capitoletto de La cirugia dove il difficilissimo problema dell'emostasi veniva affrontato ricorrendo anche a sistemi empirici per la cicatrizzazione delle ferite come l'uso del sangue umano polverizzato che anche nel nostro secolo ha riacceso la curiosità e l'interesse degli ematologi. Nella pagina dove trattava «Del flusso di sangue, nelle ferite, e modo di soccorrerlo con prestezza» scriveva:

Quando nelle ferite fosse gran flussione di sangue per causa di vene tagliate e che il cirugico le volesse stagnare, bisogna cusire benissimo la ferita; dico cusirla e non darli punti, come ordinatamente si suol fare; ma cusirla ben stretta e dentro buttarvi della nostra quinta essenza vegetabile e sopra la ferita mettervi sangue umano polverizzato...

Emostatico sacro o alchimistico, il sangue era ritenuto un potente rimarginatore. Dal sangue umano si distillavano anche un olio e un sale con cui si preparava il lapis rubeus che ne stagnava il flusso. Nelle amputazioni, Bartolomeo Maggi (1477-1552), medico di Giulio III, interveniva con creta impastata nell'aceto, mentre, quasi un secolo dopo, Cesare Magati, medico e cappuccino (1599-1647), consigliava nel De rara medicazione vulnerum sterco di asino o di cavallo cotto nell'aceto applicato come cataplasmo. Sembra che anche il sangue di gallina venisse usato con buoni risultati nella medicazione di piaghe e ferite. Sistemi quasi d'avanguardia nei confronti di chi si affidava a una miscela composta da fuliggine di camino, polvere di fava franta, chiaro d'uova, pelo di capra oppure ragnatele spalmate sopra la stoppa. Ma nell'arte di tamponare gli squarci più orribili e i flussi più inarrestabili è molto probabile che non poco si debba ai carnefici i quali, perché il suppliziato non morisse prematuramente dissanguato dopo il taglio di una mano, erano soliti incappucciare il moncherino sanguinolento con una vescica d'animale (preferita quella di maiale) strettamente legata. Così potevano continuare ad attanagliarlo senza fretta fino alla decapitazione o allo squartamento. La tecnica dei carnefici fu plagiata dai chirurghi che la praticarono a lungo con successo (servendosi anche d'altri budelli animali).

La magia del sangue, liquido del tutto particolare cui si attribuivano effetti mirabili, è fortemente presente nella «fisica» fioravantiana e nella cultura medica cinquecentesca che tutto era (arte, tecnica, mestiere...) fuorché una scienza. E proprio nell'area del sangue Fioravanti mostra con chiarezza il legame che ancora lo univa all'alchimia negromantica tardomedievale, sia che proponga un «licore miracoloso e divino per fare opere mirabili e grandi che quasi resuscita i morti» passando all'alambicco, insieme al midollo di toro e allo sperma di balena, il sangue umano per distillarne una quintessenza di speciali virtù vivificanti per risolvere le più drammatiche emergenze; sia che esalti orgogliosamente un suo depurativo del sangue, una quintessenza mirifica, un salvavita dei casi disperati:

ho fatto io la quinta essenza del sangue umano, rettificata e circulata, con la quale ho quasi suscitato li morti, dandone a bere una dramma a chi è quasi uscito il fiato, e subito l'ho visto ritornare e in brevissimo tempo risanare. Questa giova molto e fa gran miracoli in quelle infermità che sono causate dal sangue, perché lo rettifica e conserva né più né meno come fa la quinta essenza del vino che mettendo una poca quantità dentro una botte piena di vino, lo purifica e lo conserva per sempre, cosa che non fanno l'altre materie e così nella maggior parte delle infermità grandi e terribili, essa quinta essenza fa grandi operazioni, più assai di quello che si potrebbe credere, né imaginarsi.

L'affinità e la vicinanza cordiale del sangue col vino (una parentela che innamorava Arnaldo di Villanova, la scuola di Montpellier e il divino Rabelais) fa risaltare l'enorme distanza fra l'odierna ematologia e l'antica mistica del sangue.

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3. Fra tradizione e innovazione



Ma poiché sapeva bene che i suoi «ricordi», ovvero consigli e ammaestramenti, erano destinati a rimanere inascoltati, teneva naturalmente di riserva una sua «filosofia medicinatoria» nella quale le «evacuazioni» dovevano essere seguite dalle «restaurazioni» intese a dare energia e vigore al corpo liberato dalle superfluità e dalla «redondanzia d'umori maligni», dopo che lo stomaco (organo chiave, centro di tutte le disfunzioni) era stato mondato dal flegma, dalla colera e soprattutto dall'umore nero, responsabile d'ogni sorta di morbi. Fosse melancholia naturale o nigra, oppure adusta derivata dalla combustione della bile gialla, questo succo maligno filtrava nello stomaco provocando squilibri terribili e devastanti: la melancholia ex stomacho era comunemente considerata dalla tradizione greco-bizantina, araba, dalla scuola salernitana (e anche da Fioravanti) responsabile non solo della «quartana doppia» ma anche di molteplici forme di alienazione mentale, della pazzia acuta oltre che del normale «morbo ipocondriaco» che, ritenuto un distemperamento umorale e quindi dotato di una causa fisiologica oggettiva, veniva curato con i due classici rimedi: gli emetici, che ripulivano dallo stomaco, e la dieta. «Tutte le sorti d'infermità hanno origine e principio dallo stomaco», sentenziava nei Capricci medicinali, perché «tutte le egritudini sogliono venire per replezione». Dopo il vomito e il secesso era assolutamente necessario che i corpi venissero restaurati con «bonissimi cibi» e, in tutti i casi, era ottima regola non vietare ai pazienti «quelle cose che lor dilettano, perché quod sapit nutrit». Era di vitale necessità, dopo le drastiche evacuazioni, dopo le «purgazioni alquanto gagliarde e longhe», dopo massicce dosi di «medicine forti e pungenti, grandi e terribili», evitare la dieta «tenue» per «dar la sustanzia a gl'infermi».

A questo canone rimase sempre fedele (interpretando a modo suo il quarto aforisma d'Ippocrate) e sempre ritenne che «chi vuol servirsi delle medicine, lasci la dieta in tutto e per tutto, essendo che non possono stare insieme» perché la «dieta afflige i corpi e la infermità gli ammazza», anzi era la «dieta troppo grande» a stroncarli. Andava dicendo che delle «tre operazioni molto contrarie all'ordine di natura... cioè flobotomia, dieta e medicina, cose tutte tre molto pericolose in uno infermo», la più perniciosa di tutte era «la vita tenue, cioè farli far dieta».

A lungo però, almeno fino agli inizi degli anni Sessanta, rimase ancorato alla tradizionale patologia umoralistica, prima di liberarsene e di trafiggerla con derisoria ironia. Non era audacia da nulla rigettare quella dottrina che «può essere definita come una delle parti più tenaci, e, per certi aspetti, più conservatrice della cultura moderna». A lungo però continuò a rispettare le auctoritates e se lo Stagirita fu per lui sempre «il gran mastro Aristotele» il sapiente di Pergamo, «Galeno nostro», continuò a esser indicato come «il maestro di tutti» almeno fino agli anni del Tesoro della vita humana (1570), quando ancora la classica trinità greco-araba veniva elogiata come infallibile: «chi intende ben Hippocrate, Galeno e Avicenna non potrà mai errare nelle cure delle infermità».

L'affrancazione, anzi la rivolta contro la tirannia dei quattro umori, iniziata coi Capricci medicinali, esploderà con estrema decisione, addirittura con violenza, nel 1564 nello Specchio di scientia universale, quando polemizzerà duramente contro i medici fisici che ritenevano impossibile curare bene senza una buona conoscenza dell'anatomia. In una delle sue più infuriate riprensioni, esclamerà:

Ma tristi coloro che credono una così grossa bugia. E siamo ancora tanto ignoranti e ostinati che vogliamo essequire le lor false opinioni e con quelle amazzare il prossimo nostro: che per dire il vero egli è cosa empia e crudele e non so come abbino fondato la scienzia di una tanta gloriosa arte sopra cosa incerta, con distinguer le complessioni, divider la colera dalla flemma e dalla malinconia, la pituita della flavabile, la colera negra, lo umore adusto e una quantità grande di molte diavolarie delle quali mai uomo del mondo non è stato capace di poterne avere vera cognizione, e costoro di continuo disputano e leggono [dalle cattedre universitarie] queste materie favolose e nessuno di loro è mai stato bastante di poter saper come opera questa de gli interiori con tutte le particolarità del fatto: ma solamente alla ventura e per imaginazioni e chimere loro che si vanno imaginando nel cervello.

Parole che dovevano cadere come scudisciate sopra gli accademici, i «lettori», gli anatomisti disprezzati fin dal tempo in cui Realdo Colombo e altri membri del Collegio medico romano (fra cui anche un professore alla Sapienza, Giustiniano Finetto), lo deferirono all'organo che tutelava la loro rispettabilità e i loro emolumenti. Non credo che la letteratura medica italiana del Cinquescento abbia avuto un iconoclasta più deciso nel denunciare un lungo sonno della mente, le «chimere», le vane «imaginazioni», le «materie favolose», tutta la poltroneria mentale depositata nei cervelli dei fisici, anche in quelli più sottili e innovatori.

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4. Le «maraviglie» di Napoli



Nel tardo autunno del 1549, quasi dopo un anno dal suo sbarco nell'isola dei Ciclopi, gli parve arrivato il momento di riprendere il mare e di far rotta verso Napoli. Era stato preso da un «grandissimo desiderio» di esercitare l'arte e di curare le ferite nella grande piazza napoletana secondo lo stile e l'«ordine» che aveva appreso dai maestri isolani, dai chirurghi di Messina in particolare. In quella «fidelissima città di Messina» non solo aveva avuto la fortuna d'incontrare l'abilissimo Mattio Guaruccio che gli aveva fatto conoscere il «nuovo modo» di sanare le ferite, ma era entrato in confidenza anche con «un certo M. Giovan Antonio che medicava in cirugia e nella cura delle ferite faceva opere stupende con un certo unguento» da cui Fioravanti aveva ricavato la «invenzione del nostro magno licore, medicamento tanto precioso per le ferite». In quella stessa città aveva avvicinata una donna che «medicava mal d'occhi con un unguento» e anche in questo caso si era impadronito della sua ricetta. Come a Palermo, dove da uno «esperimentatore che sanava il mal di ponta [infiammazione polmonare] perfettamente» aveva appreso un nuovo segreto.

L'anno passato nella Trinacria lo aveva fatto crescere: era maturato professionalmente e anche irrobustito fisicamente, lui che in gioventù, «malissimo complessionato», aveva letto tutti i libri di medicina che gli capitavano sottomano ossessionato dall'idea di trovare «il modo di conservare la sanità» e di vincere la sua costituzionale gracilità. Si sentiva ormai pronto a varcare lo Stretto e veleggiare in direzione della grande metropoli ai piedi del Vesuvio, verso la Campania felix abbondante di ogni delizia: aveva sentito dire che per un chirurgo la popolatissima Partenope era una specie di terra promessa perché colà «ogni giorno se ne feriscono molti».

L'Isola gli aveva dato molto: aveva curato baroni e villani, schiavi mori e gentiluomini spagnoli, mercanti lucchesi e ragusei, fialtori di seta liguri, gabellieri ed esattori di bolle pontificie genovesi, donne di Palermo e donne di Messina, dame d'alto rango e popolane. Molto aveva imparato da vecchi, da empirici, litotomi, mammane e praticone: medicato scrofolosi, rognosi, luetici, ciechi, gottosi, epilettici, ulcerati, asmatici, avvelenati, morsicati da vipere. Aveva frequentato alchimisti e distillatori, incontrato «erbolai» e serpari, appreso segreti ignoti, ampliata la conoscenza delle erbe. Era salito sul Monte Pellegrino, «il più bel promontorio del mondo» agli occhi di J.W. Goethe, «altissimo, sopra del quale vi nascono erbe a bezef di gran virtù», paradiso di erboristi e raccoglitori come lo erano a Nord, sopra il Garda, Monte Baldo e ad Est, nel versante adriatico, sul Gargano, Monte Sant'Angelo dove fiorivano «simplici di miracolosa virtù. Ivi nasce il reupontico finissimo, il turbit, l'ermodattilo, l'aloe e nella terra vi si truovano le pietre aquilari, il bolo armeno, il lapis iudaicus e infinite altre cose che sono molto salutifere e di gran virtù per la salute de' corpi umani».

Aveva cavalcato fino a Termini Imerese per vedere di persona quella varietà di palma da cui si ricavava l'unguento «diapalma» o «unguento de zaffaioni», cosiddetto dal nome che i siciliani davano alle sue radici che «simili ad un salciccione... sfogliose e di sapor dolce» venivano adoperate per «sanissimo cibo». Aveva così scoperto che l'unguento diapalma venduto dagli speziali continentali assomigliava al vero unguento di zaffaioni come un gatto — diceva — può assomigliare a un cavallo. Riflettendo su questa falsificazione, era giunto alla conclusione che ogni popolo deve far uso dei beni naturali di cui dispone, perché ogni terra e ogni clima possono offrire prodotti che, durante i lunghi tempi del trasporto, perdono qualità, efficacia e potere curativo. Peggio ancora quando venivano imitati con surrogati, adulterati sfacciatamente dagli aromatari del continente che «non sanno che cosa sia questa palma e non l'hanno mai vista in modo nissuno e pur fanno l'unguento». Un principio di sano localismo farmacologico validissimo ai suoi tempi, su cui non sarebbe inutile riflettere anche oggi, quando le «officine botaniche», le erboristerie di aromatari di dubbia competenza e serietà (ma anche la grande industria farmaceutica non guarda troppo per il sottile quando si tratta di vendere magiche erbe e radici esotiche) smerciano inutili «semplici» privi di ogni principio attivo. Non era, come tutti allora, un viaggiatore sensibile al fascino del paesaggio; era immune da turbamenti estetici e da emozioni ambientalistiche. Attraversare a cavallo o a dorso di mulo l'interno della Sicilia non era impresa da poco, sia al tempo di Goethe sia negli anni di Fioravanti. Poteva accadere di dover dormire «alla campagna, alla pioggia e al vento e senza cena; come altre volte», ricordava negli agiati tempi veneziani, «è intervenuto a me nel Regno di Sicilia, cavalcando da Palermo a Messina, che vi sono ducento e tante miglia, e ogni sera o almanco la maggior parte, dormire alla paglia co i cavalli e cenare con le capre. Allora si laudano gli osti di Romagna e di Lombardia, de' quali altri ne dicono tanto male».

Fra quegli «altri» sicuramente non c'era Miguel de Cervantes, che anzi in una famosa novella ricordava con nostalgia gli «splendidi desinari delle osterie lombarde», i «buoni pollastri, i piccioni, il prosciutto e le salsicce» delle terre padane e dell'«opulenta Milano» specie se confrontati con le miserie e i disagi delle locande e degli alberghi iberici, con «la estrecheza y incomodidades de las ventas y mesones de Espana».

Abituato alla robusta tavola bolognese, ai cervellati, alle luganighe, ai suoi famosi «salsicciotti», si era forse adattato con qualche difficoltà alla «tanta frugalità e sì strema parcità» di quella «ricca isola» che pur «abonda di tutte quelle cose che al vivere umano necessarie sono». Ma senza dubbio aveva subito iniziato ad apprezzare quei «macheroni» che dalle sue parti, dove le paste fatte col grano tenero venivano consumate fresche, erano quasi sconosciuti. Le paste secche, fatte conoscere ai siciliani dagli arabi, essiccate al sole, costituivano anche una voce importante della bilancia commerciale dell'isola, esportate ovunque prima che la concorrenza genovese ne facesse vacillare il monopolio. «Soglionsi cuocere insieme con grassi caponi e caci freschi, da ogni lato stillanti buttiro e latte, e poi con liberale e larga mano vi soprapongono zucchero e canella della più fina che trovar si possa. Ohimé che mi viene la saliva in bocca sol a ricordarmene!», esclamava in estasi il lombardo Ortensio Lando avendo a mente «quei macheroni i quali hanno preso il nome dal beatificare».

A differenza però dell'inquieto irregolare autore dei Paradossi, anche lui sempre in movimento, Fioravanti che pur aveva curato schiavi e mori, non accenna minimamente all'usanza isolana di «tener le razze d'uomini per venderli come si vendono cavalli, buoi, muli e altri irragionevoli animali»; e non si accorse (o non ritenne opportuno farlo notare) che «i padroni delle razze spesso con le schiave lussuriosamente si rimescolano». Né spese una parola per accennare alla «summa gelosia» degli abitanti di quella terra che «supera certamente tutte l'altre di nobiltà, di ricchezza e di splendore», come non parve accorgersi dell'insicurezza dell'isola «piena di ladri» che «manare, prigioni, forche, ceppi e catene» non erano in grado di spaventare. La «natura» degli abitanti, anche se poteva personalmente interessarlo, non rientrava nella sfera delle sue osservazioni mosse da prevalenti interessi medico-terapeutici.

Meglio così, del resto, che tentare d'interpretare la sicilianità alla maniera di certi scrittori-sociologi del Novecento, o come facevano nel Settecento certi intellettuali come l'Anonimo autore dei Saggi filosofici nascosto sotto il nome di Crittantropo, che discettando dell'«origine fisica della Sicilia e dell'indole dei suoi abitatori antichi e moderni» attribuiva alla «strepitosa voracità della pasta azima, o maccheroni» con cui si cibavano «sera e mattina fino alla crapula», le «fibre imbecilli» e gli «umori crassi» che ne condizionavano il «temperamento flemmatico» nel quale «e l'ozio molle e la silentissima quiete saranno i suoi più forti e saporiti piaceri», salvo poi ad esplodere nell'ira e a «bollire della collera più furibonda» quando gli sia fatta la «minima difficoltà a godere di tale indolenza».

Tutto considerato, era stato un letterato del Trecento, Fazio degli Uberti, a tracciare in una terzina del Dittamondo un sobrio ma attendibile identikit della fauna umana sicana: «Uomini assai sottili ed intendenti / v'ingenera natura e temperati, / con bei costumi e con buoni argomenti».

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Fioravanti era rimasto incantato dall'antica Partenope, dalle «maraviglie di Napoli» e del suo «paese» che aveva percorso in lungo e in largo, fermandosi anche a Capua quando v'infieriva una letale epidemia di febbri. Aveva visitato Baia, le sue rovine «appresso al lito del mar morto», la «piscina mirabile», l'antica «conserva d'acque», il lago d'Averno. Era entrato nello speco della Sibilla Cumana, «grotta in vero stupendissima, dove io con molti compagni vi sono stato dentro e caminatala tutta; ma delle maraviglie che in essa ho veduto non mi stenderò a farne altra menzione, perché sono sì stupende che non mi sarebbe prestata fede da nessuno». Si era fermato sulle rive del lago d'Agnano, osservando i villani che si servivano delle sue acque per «macerarvi lini e canape», e notando che «alla riva di detto lago vi sono ancora di presente molte bocche di fuoco dove vanno molti infermi a stufarsi nel mese di maggio e di settembre per varie e diverse infermità». Aveva percorso quelle terre sulfuree fermandosi a Pozzuoli «picciola terra... al lito del mare fabricata suso una picciola punta di terreno montuoso» lambita da «acque morte», come «Castellamare dove la state per causa delle paludi non vi si può abitare». Guardava quell'insolito paesaggio, quasi un inferno en plein air, con l'occhio di chi è attento a studiare l'ambiente in relazione alla salute e alle attività umane, senza lasciarsi sopraffare da emozioni e trasalimenti estetico-letterari. Il fascino dei paesaggi cupi e desolati, l'attrazione dell'orrido, non erano ancora diventati una maniera pittorico-poetica stregata da atmosfere di tetro squallore. Data anche la formazione e la cultura nella quale era immerso, vedeva il «paese» in un'ottica diversa da un letterato del Seicento come Giambattista Manso (1561-1645) marchese di Villa, consolatore degli ultimi anni di Torquato Tasso, che dipingeva la «solfanaria di Pozzuoli» con cupe, fumiganti tinte demoniache:

                Nuda erma valle, ai cui taciti orrori
                accrescon tema ombre solinghe oscure;
                sulfuree rupi, acque bollenti impure,
                sanguigni fumi e tenebrosi ardori...



A quattro miglia dal castello di Baia si era imbattuto in un bagno «chiamato da Napolitani il bagno da fare impregnar le donne... sterili», ma molto saggiamente si era astenuto dall'esprimere il suo parere sulle virtù di quelle acque perché «io non lo so affermare per non averne veduto esperienza più che tanto». Poco lontano, aveva incontrato la grotta detta «il sudario del cavallo», tanto calda che «entrandovi dentro e dimorandovi un pochetto, si suda infinitamente», dove «vanno una infinità d'ammalati a stufarsi, a quali per tal sudore pare di ricevere alcun beneficio in quell'istante, ma poi col tempo s'aveggono che non ne risulta loro beneficio alcuno». Aveva invece piena fiducia nelle acque della solfatara, un «lago d'acqua che sempre bolle», acqua molto «diseccativa» ideale per sanare «ogni sorte d'ulcere maligne con grandissima prestezza». Non lontano da Napoli, a quattro miglia, sgorgava «un'acqua aluminosa che sempre bolle» chiamata il «Bagnuolo di Buon'uomo» che, portata in città nei barili, veniva versata in domestiche stufe artificiate per curare i disturbi di stomaco. Vicino alla chiesa di Santa Lucia, «a canto il mare vi nasce al piede d'una montagna una fonte d'acqua che gli abitatori della città la chiamano l'acqua ferrata di Santa Lucia, la quale acqua scaturisce d'una vena di ferro che a beverla ha il proprio sapore dell'istesso ferro; e questa bevendone sana quelli che patiscono di mal di flusso». Lettore del De re metallica di Giorgio Agricola, curioso di «fuochi sotterranei», di pegole, di zolfi, di «olio di sasso» — il petrolio che più tardi osserverà nel Modenese «in un luogo detto monte Zibbio» usato per varie e diverse infermità (anche i bagni di Porretta rientravano nella sua mappa delle acque salutari) — quando ancora viveva in Sicilia aveva fatto un sopralluogo ai bagni di Termine Imerese, dove aveva trovato stufe separate per donne da una parte e per uomini dall'altra, e ai bagni di Sacca (l'odierna Sciacca). Visiterà in seguito i bagni sulfurei che sgorgavano nel «territorio de' Signori Lucchesi» (ai quali dedicherà la stampa del 1570 del Tesoro della vita bumana), acque di «mirabile giovamento». Sembra tuttavia che la sua fiducia nelle stufe e nei bagni fosse piuttosto limitata, che non condividesse troppo la cieca fede della gente in abluzioni, immersioni e stufature varie. Riteneva che i benefici fossero, se non proprio illusori, limitati e temporanei, come quando parla dei bagni posti nel territorio padovano, e in particolare di uno chiamato «bagno del fango» dove «infiniti per tumori e per infermità di nervi vanno a stufarsi, sperando, secondo che la fama corre, che quel fango caldo li sani in tutto: ma infiniti restano poi gabati». Anche i «bagni di Ebano» (l'odierna Abano) non scioglievano del tutto le sue perplessità: «la primavera vanno infinite genti a stufarsi e sudano e per far quello aprimento di pori, essala alquanto l'umore e s'allevia un poco la infermità, e così dà all'infermo speranza di salute, ancora che sia di pochissima importanza». Il suo non troppo velato scetticismo nei confronti di acque e bagni (strano, per chi aveva usato con successo l'idroterapia marina) contrasta con l'entusiasmo quasi illimitato per le occulte virtù dei liquidi sgorganti dal ventre della terra madre da cui si faceva prendere Paracelso. La sua fiducia nelle medicine «metalliche» e minerali si estendeva quasi ciecamente alle acque minerali. Non fu il medico svizzero, come è stato detto, il fondatore della moderna balneologia, che non può trascurare fra l'altro il De balneis di Giovanni Michele Savonarola, anche se si può capire che «alle stazioni di acque minerali abbia passato i giorni più felici della sua vita», forse fantasticando, nelle sue oppiate allucinazioni, di silfidi e di ninfe e di melusine. Sarebbe però opportuno aggiungere che questo vinosus, multibibus doctor lodatore dell'acqua che giustamente definiva «Matrix aller Creaturen», non la beveva mai. Quanto ai bagni, non sembra che personalmente ne fosse molto interessato perché – se possiamo credere al suo allievo Oporino – non si spogliava mai.

Le meraviglie idriche della Terra di Lavoro non esaurivano l'attenzione di Fioravanti verso la Campania felix: le pratiche della medicina popolare attiravano i suoi interessi di indagatore dell'etnobotanica terapeutica.

Nasce, non molto lontano dalla città, una radice di erba simile alla zengia che in quel paese la chiamano radice di San Francesco, la quale pistandola e dandone per bocca sana quasi tutte le specie di febri che vengono con freddo; e se la fosse quartana vi aggiongono un'erba che la chiamano cercugnolla. Un'altra erba ancora vi nasce che fa, rompendola, latte bianchissimo, col quale acconciano delli fichi secchi in questo modo: cioè pigliano li fichi ad uno per uno e li aprono in due parti e dentro vi fanno cadere due o tre goccie di quel latte, e poi li tornano a serrare e li acconciano dentro uno bariletto. E quando una persona ha febre calda, li danno a mangiare uno di quei fichi e la febre se ne va.


Medico di gentiluomini e distillatore di acque per le dame, cerusico «di piaga» per gli interventi d'emergenza, Fioravanti teneva la casa aperta a tutti e riceveva in massa rustici e lavoratori d'ogni condizione: «era tanta la quantità de i villani de i casali che concorrevano alla mia porta che era cosa di stupore».

Per loro teneva pronta una farmacopea piuttosto elementare, una, si direbbe, medicina pauperum, limitata a quattro semplici rimedi, preparati nel suo laboratorio, che (a suo dire) riuscivano a sanarli «quasi tutti di ogni infermità».

Il primo era «una pillola fatta con pietra filosofale, ellebor negro, olio di solfo e olio di miele impastate col marzapane»; il secondo consisteva di «pillole solutive fatte con aloe patico, colloquintida, siena e olio di vitriolo impastate col zuccaro e mel comune»; il terzo rimedio era una «unzione fatta con salvia, ramarino, absinzio, ruta, menta, noce moscata, garofali, canella, mastici, rasa, tormentina e cera nova con olio comune»; il quarto rimedio era la «nostra quinta essenza». Li rimandava a casa ordinando che «togliendo tai rimedi, mangiassero bene e di buoni cibi sostanziosi». Ancora una volta pare che queste vaghe terapie funzionassero perché i buoni villici «sempre si lodavano grandemente di questi tai rimedi», anzi «quei popoli mi adoravano come un profeta».

Conoscendo i suoi polli, dava loro quello che esattamente volevano, li accontentava come fossero dei bambini golosi. I villani d'ogni paese, fossero quelli dell'agro campano o dell'entroterra riminese, avevano una particolare idea della malattia: ogni febbre o sfinimento andava combattuto con un antidoto possente: la pancia piena.

Hanno avvertenza [i famigliari del malato] che l'infermo mangi spesso, e quando nel maggior calore della febbre si sentono agitazione, credono che quella sia debolezza, e subito le danno da mangiare. Ma per l'ammalato non v'è cibo più delicato de' macheroni o lasagne, ovi o pancotto, quale per aumentare maggiormente il calore febrile condiscono con la canella o garofoli. Mai s'astengono dal vino per grande fosse il male.

La dietetica fioravantiana avrebbe provocato raccapriccio a Paracelso che riteneva ogni cibo intrinsecamente velenoso, potenzialmente tossico come l'arsenico, la cicuta, il napello. Non pare tuttavia che Fioravanti si compiacesse di sfidare i contadini a gara in colossali bevute come invece piaceva a Paracelso il quale si trovava a proprio agio solo fra minatori, villani, vagabondi, zingari e straccioni. Né risulta che i pazienti curati dal medico bolognese guarissero solo apparentemente e per poco tempo come accadde purtroppo per quegli abitanti di Basilea che, credenti nel verbo del medico-profeta elvetico, dopo un illusorio miglioramento, decedettero tutti nel giro di un anno.

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7. Venezia, «ombelico del mondo»



Quando, nell'autunno del 1558, la barca salpata da Pesaro attraccò al molo di San Marco, gli occhi di Fioravanti si riempirono di stupore. Era arrivato in un mondo nuovo, in un'isola unica, in una città «singolare». Gli parve d'essere approdato nel «centro del mondo». Trovò alloggio in contrada San Giuliano, dove rimase quattro anni per traslocare poi nelle vicinanze della chiesa di San Luca.

Iniziò subito a percorrerla e a perlustrarla in ogni angolo per scoprire meraviglie e segreti della sua nuova patria, per interpretarne a modo suo, seguendo un suo personalissimo metodo, la realtà economica e manifatturiera. Per saggiare – si direbbe – fino a che punto il mito del «volante leone», il simbolo della città incomparabile, s'incarnava con la realtà della vita e del lavoro.

«Fatale sito», «mirabile città amata da Dio» (Pietro Aretino) che «alcuna industria umana sarebbe stata sufficiente a construirla in questo sito», «situata da Dio» responsabile della sua «fondazione» e della sua «conservazione» – come ribadiva Nicolò Contarini –, «miracolosa città» (Girolamo Parabosco), «più celeste che umana, tanto più che i suoi fondamenti sono soprannaturali e non conformi a quelli dell'altre città» perché essa «si conserva stabile per grazia, in mezo de le acque che sono instabili per natura» (Gregorio Leti), paradosso concreto e visibile perché salda sul più incontrollabile e infido degli elementi, in aquis fundata. «Città vergine» per le sue «sante origini» (Carlo de' Dottori), la Serenissima si avvolse per secoli in una dorata e preziosa cortina mitologica ricamata da letterati, storici, cronisti, geografi, poligrafi che, ribadendone la eccezionalità, attesero alla costruzione e alla diffusione del mito della città unica, della «saggia e santa republica» (Parabosco), perfetta anche nelle sue istituzioni politiche, utopia realizzata, sogno trinitario del bello, del buono e dell'utile fattosi realtà.

A mano a mano che si inoltrava sul viale del tramonto, nei decenni in cui la «trionfante» appariva stanca e segnata dalle fatali «rivoluzioni» che gli anni e l'usura inarrestabile del tempo arrecavano alla sua potenza, il panegirico della città di San Marco diventa motivo permanente della letteratura encomiastica.

Nel poema eroico di Giulio Strozzi, La Venetia edificata (1623), questa «maraviglia dell'universo» appare come un prodigio celeste, frutto del progetto del Grande, Invisibile Architetto predisposto all'erezione di un baluardo inconsumabile «che ha il mar per mura» (C. de' Dottori), destinato a sfidare i secoli. «Fattura divina», ribadiva poco dopo la metà del Seicento Nicolò Doglioni ne Le cose notabili, et maravigliose della città di Venezia, eretta a sfida delle leggi della natura, paradosso della logica e della fisica perché sulla laguna venivano ad incrociarsi due impossibilia. «A me par gran cosa», è il giudizio che su di lei aveva espresso, dopo averla visitata, il giurista Mariano Sozzino, «perch'io ho veduto l'impossibile nell'impossibile». «Volea dire il Sozzino», spiegava Doglioni, «che volendo l'uomo considerar tutte le parti minutamente di questa città, e in quella maniera che si dee considerar una sì gran cosa, com'è questa, era impossibile a farsi perfettamente. Essendo adunque Venezia un'impossibilità, viene anco ad esser posta nell'impossibilità, per esser fondata nel mare, perché ella in questa cosa è fuor dell'ordine di tutte l'altre città».

Nata «fuor dell'ordine di tutte l'altre città», «singolare», cioè unica, secondo la fortunata definizione di Francesco Sansovino, l'anfibia città programmata dall'alto doveva necessariamente essere «nobilissima», come non plebee ma eroiche, nobili e sante le sue origini. Il mito della nobiltà primigenia, delle radici aristocratiche della città si cristallizzò in una specie di martellante e ossessivo tabù storiografico. «Et così è stata principiata questa gloriosa et trionfante città, non da pescatori, né da pastori, né da ladroni e non da persone infami, ma da cittadini e gentiluomini...», riaffermava alla metà del Cinquecento Leandro Alberti sulle orme di Flavio Biondo e di Marc'Antonio Sabellico consolidando un cardine della storiografia aulica che verrà ribadito da altri e, nel secolo successivo, da Nicolò Doglioni quando polemizzerà contro «quelli che dicono Venezia nostra aver avuto principio da pescatori e da gente vile» mostrando «in tutto di esser ignoranti della vera historia». La «vera historia» invece era un'altra, quella comunemente oggi accettata che la «città nazione di Venezia si formò», così Frederic C. Lane, «per la fusione dei proprietari terrieri che fuggivano dalla terraferma con i barcaioli delle lagune». Con tutto il rispetto dovuto al grande storico di Venezia, delle sue flotte, dei suoi mercanti, bisogna ricordare che la stessa opinione sulle origini di Venezia l'aveva maturata quattro secoli fa anche un ignorante della «vera historia», Leonardo Fioravanti.

Era un osservatore molto attento a tutte le forme dell'umana operosità, di tutti i mestieri sedentari e meccanici, dei saperi dei pastori e di quelli degli agricoltori, dei lavori all'aria aperta e dei complessi procedimenti in uso nelle botteghe artigiane delle città e, fertile inventore, fu anche progettatone navale e militare.

Aveva alle spalle una non trascurabile esperienza di mare, e si vantava di aver «trovato nuovo modo di navigare, col quale gli uomini navigaranno tanto sicuramente il mare, quanto si cavalca la terra». Il clima di Venezia – un «agiere dolce in canali salsi... che fa nascer presto le erbette e i spinazzi; un agiere che dà vita a i morti, allegrezza a i vivi, sanità a i ammalai e gaiardezza ai sani» – da lui ritenuto adattissimo a favorire la guarigione delle ferite al cranio, gli faceva bene e lo stimolava come un eccitante elisir. Dopo aver peregrinato in molte parti del mondo «per avere cognizione della natural filosofia e di molte altre arti e scienze», non avendo «cessato mai per tempo alcuno di andare investigando varie e diverse nuove invenzioni», era arrivato in vista dell'Arsenale, «la più stupenda machina del mondo, torzo de Venetiani, e lumiera de tutta la Cristianità» e aveva piantato le tende sulla laguna prendendo casa, nei primi anni, «acanto al frutarolo di san Zuliano», dove aveva deposto le bisacce piene di «stupende cose» da lui ritrovate, «invenzioni stupendissime e rare», «secreti dell'arte trasmutatoria de i metalli», di ricette di «medicamenti... i quali fanno miracoli al mondo».

Dopo aver abbandonato le rotte mediterranee, le isole e i porti del Sud aveva risalito, in una anabasi durata quasi dieci anni, la penisola ed era sbarcato in quella città che a lui apparve subito il «centro d'Italia», anzi il «centro del mondo» («per le maravigliose qualità del sito» – osservava qualche decennio dopo Nicolò Contarini – posta «nell'ombelico del mondo»), dove tutto ciò che «pasce l'occhio, e che diletta il senso, e che dà trattenimento alla curiosità, tutto ciò che ha del nuovo, dell'insolito, dello straordinario e del mirabile, del grande, o dello artificioso» apparteneva a lei: «la maraviglia del suo sito incomparabile», notava il freddo e non provinciale Giovanni Botero, «che par fatto dalla Natura per dar legge a l'acqua, e per metter freno al mare... la grandezza poi del suo inestimabile arsenale, la moltitudine de' vascelli, e da guerra, e da trafico, e da passaggio; il numero incredibile delle machine, degli ordegni, delle munizioni, e d'ogni apparecchio navale: l'altezza delle torri, la ricchezza delle chiese, la magnificenza de' palagi, la bellezza delle piazze, la varietà dell'arti, l'ordine del governo, la bellezza dell'uno, e dell'altro sesso, abbarbaglia gli occhi de' riguardanti». Certo, Fioravanti era sensibile a molte di queste meraviglie: e fra tutti i protagonisti dell'architettura veneziana ammirava particolarmente «M. Antonio da Ponte che sta in Venezia a San Martino».

Trovava infatti particolarmente originale la «nuova» architettura della «miracolosa cità di Venezia», del tutto funzionale ai problemi che lo spazio limitato presentava e ne ammirava lo stile che sapeva congiungere la «commodità» e «insieme la bellezza e la grandezza». Indicava perciò in maestro Antonio da Ponte (colui che riedificherà Palazzo Ducale dopo l'incendio del 1577, il realizzatore nel 1579 all'Arsenale della sala della corderia lunga 316 metri e larga 21) l'architetto che con le sue «bellissime e stupende fabriche» meglio di ogni altro riusciva ad interpretarne lo spirito: «in questa nostra età la intende meglio di tutti».

Ma era soprattutto la «varietà delle arti» ciò che, per parafrasare Botero, «abbarbagliava» i suoi occhi: la fabrilis peritia di mastri e d'artieri, d'ingegneri e di proti, di tipografi e calcografi, di carpentieri e di muratori, un'arte nella quale primeggiava ai suoi tempi mastro Domenico da Luna, «valentissimo uomo» che fabbricava «con poca spesa e bene», «grandissimo ingegniero e di grandissimo giudizio».

Rivelatrice del suo modo di guardare Venezia e della sua storiografia artistica (se così possiamo chiamarla) è l'attenzione verso due protagonisti dell'edilizia lagunare: il primo, l'architetto di grido, il teorico formatosi sui classici che firmava i grandi progetti (il cui nome è oggi gloriosamente consegnato alla storia dell'arte) e l'altro, il modesto capomastro da tutti dimenticato, l'ingegnere, il pratico di scarse o inesistenti letture, l'uomo nato nei cantieri, vissuto sempre all'interno del mestiere di cui conosceva ingegni, macchine, congegni segreti, tecniche, il muratore in una parola «esperto nell'arte sua e che intenda benissimo le cose che al fabricare s'appartengono come il saper ben fare le fondamenta... mettere in squadro, drizzare le riche, piombare gli angoli, squadrare i cantoni, far porte e finestre, metter ferrate, distemperar calcina, far volte, smaltar muri, dare il bianco alle stanze, far camini e salicciare ben le stanze».

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