Copertina
Autore Luca Canali
Titolo Identikit dei padri antichi
SottotitoloSedici scrittori latini e cristiani
Edizionemanifestolibri, Roma, 2010, Società narrata , pag. 176, cop.fle., dim. 14,5x20,8x1 cm , Isbn 978-88-7285-645-1
LettoreGiovanna Bacci, 2010
Classe classici latini , biografie , critica letteraria
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Indice


Avvertenza                                           6
Il prodigioso Plauto                                 7
È davvero esistito Catullo?                         17
Lucrezio: la sovversione fallita                    25
Sallustio, profeta involontario                     35
Cicerone, uomo scisso                               45
Cesare                                              55
Res gestae in progress                              63
Il grande figlio Virgilio                           73
La satira di Orazio, aristocrazia del banale        81
Orazio, serena maschera dell'angoscia               91
Il piccolo inferno di Persio                       105
Seneca, uomo in prestito                           111
Neutralità e vittoria di Petronio                  121
Tacito all'ombra del suo nome                      131
Giovenale: intelligenza col nemico                 139
La fisiologia di Giovenale                         149
L'entomologo Svetonio                              157
Paolo, copula cristiana con il mondo               165


 

 

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Pagina 7

IL PRODIGIOSO PLAUTO



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TITO MACCIO PLAUTO. Il cognomen Plautus («piedi piatti») sembra sicuro; il praenomen e il nomen sono controversi fin dall'antichità (M. Accius, Titus Maccus, Maccus). Nacque a Sarsina (alta Umbria, attualmente Romagna) intorno al 250 a.C. Venne a Roma con una compagnia di comici, poi intraprese una sfortunata attività commerciale. Indebitato, dovette adattarsi a girare la macina d'un mulino per risarcire i creditori. Di qui trasse argomento per la commedia Addictus («Schiavo per debiti»); ne scrisse altre due, ebbe fortuna, poté riscattarsi, dedicarsi interamente al teatro come autore e come attore. Il favore del pubblico lo accompagnò fino alla morte, nel 184.

Gli furono attribuite 130 commedie. Varrone le selezionò in sicure, incerte, spurie. L'autorità della selezione fu tale che sono state tramandate soltanto le 21 considerate sicure, le cosiddette «varroniane». Amphitruo, Asinaria, Aulularia, Captivi, Curculio, Casina, Cistellaria, Epidicus, Bacchides, Mostellaria, Menaechmi, Miles gloriosus, Mercator, Pseudolus, Poenulus, Persa, Rudens, Stichus, Trinummus, Truculentus, Vidularia.

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Se i filologi classici avessero voluto inventare un autore su cui sperimentare tutti i ferri del loro mestiere, avrebbero dovuto costruire con una serie di ipotesi convergenti – biografiche, linguistiche, metriche, strutturali – il personaggio Plauto e il corpus delle commedie che vanno sotto il suo nome o gli sono state attribuite, facendogli credito della prolificità di tutti i grandi padri della storia, quelli che dimenticano il numero dei loro figli, e possono persino autenticare con sublime noncuranza o reale inconsapevolezza i bastardi e i «falsi» della loro officina creativa.

Plauto possiede il fascino dell'«arcaico», in realtà nutrito di remote e spesso indecifrabili linfe culturali; la capacità di librarsi tra la sfera del popolare e quella dell'artistico tanto più elaborato quanto più semplice e spontaneo ne appaia il dettato; la potenza barbarica e intellettualistica nell'uso della lingua, piegata con forza di gigante e spensieratezza di fanciullo a tutte le esigenze di una espressione inimitabile, una inesauribile invenzione che trasforma i seguaci in balbuzienti manipolatori d'una creta che può accogliere l'impronta d'una bocca senza catturarne il respiro, o d'un sigillo semiotico senza trasformarne gli imprevedibili morfemi in danza, marcia, riso, pianto, urlo: vita in atto insomma, rappresa in segni solo per essere restituita alla vita riflessa di quanti in una parola, in una frase, intendano scoprire il proprio segreto, dischiuso e arricchito da un'altrui chiarezza di genio cresciuto lontano dalle serre della sofisticazione, pascolante selvaggiamente sulla terra degli uomini e degli animali.

Il materiale da costruzione di Plauto è perfettamente storico, inserito in una confluente esperienza di rappresentazioni popolari autoctone e di esperienze drammatiche culte, di origine greca; ma nel medesimo tempo, esso è perfettamente casuale e intercambiabile, un semplice materiale appunto, che presuppone l'architetto di cui assumere il progetto, assecondare il flusso inventivo: la contaminatio è praticata con spregiudicatezza, tanta è la violenza espressiva che arremba i modelli per compiervi sopra, come su battelli predati e spogliati di antenne e bandiere, una propria fantasmagorica avventura privata, ma così ricca di nuovi gonfaloni linguistici e metrici, sventolati intorno a lignei pupazzi, a maschere fisse, ad astrazioni caratteriali stampate sui musi del «gregge» di attori, da poter divenire un rito collettivo, nella cui celebrazione ognuno può apportare il suo contributo di fruizione, e quindi di ricreazione: al livello del semplice stupore per la schidionata di sinonimi (cor meum, spes mea, / mel meum, suavituto, cibus, gaudium: BACCH. I, 17-18; ut celem patrem, / Pistoclere, tua flagitia aut damna, aut desidiabula? / [quibus patrem et me teque amicosque affectas tuos / ad probrum, damnum, flagitium appellere una et perdere]: BACCH. III, 375-378); o dell'ammirazione per la trovata verbale misteriosamente cabalistica e limpidamente perspicua; o ancora dello stupore per l'ardimento d'una sintassi sconfinante nell'arbitrio riconquistato alla norma dalla formula d'un mago che rende comprensibile tutto ciò che pronuncia; o dell'incanto rustico e plebeo per un verbum desueto o trimembre (eunt eccas tandem / probriperlecebrae et persuastrices: BACCH. V, 10 1166-1167), in cui i significati individuali si fondono in una polifonicità che li raggruppa lasciandoli autonomi e insieme li discioglie in un significato diverso dai significanti coagulati, come il ghiaccio in una caldaia sul fuoco si trasforma in acqua bollente, poi in vapore, e la caldaia si vuota e il fuoco si estingue in un nuovo contesto da natura morta, o un intreccio di fronde conserva i suoi steli, bacche, foglie, ma diventa ghirlanda sul capo d'un tiranno o d'un auriga vittorioso. Così i prologhi delle commedie plautine vanno dalla più tradizionale esposizione del soggetto da parte di una divinità, all'eterodossa intrusione della divinità preludiante nell'azione scenica, alla cinematografica inserzione del prologo dopo alcune scene del dramma, a rappresentazione cominciata.

Il segreto di Plauto è proprio nel traboccare da schemi, modelli, procedimenti e strutture della commedia tradizionale, la quale tuttavia non viene mai perduta di vista: senza questo ossequio condizionato, stravolto in aperta infrazione, quella prorompente capacità inventiva rischierebbe di distruggere se stessa, o quantomeno di vanificarsi in tripudii informali. Plauto è debitore della sua libertà ed eccezionalità alla problematica servitù a un codice di norme, le quali aiutano un «arcaico» a trasformarsi in eterno contemporaneo, in poeta al di sopra della storia, perché profondamente radicato in essa.

Il linguaggio delle commedie è arricchito dalla presenza di grecismi, altro elemento prezioso allo svariare del pastiche. «In una Roma in cui il latino serviva per la vita ufficiale ed il greco per la vita del commercio e del divertimento, degli affari e del piacere, Plauto pone in bocca ai personaggi di più umile condizione sociale un maggior numero di vocaboli greci. Dopo generazioni di austerità e di sobrietà, il Romano conosceva finalmente i piaceri della vita; e poiché questa scoperta è collegata con l'Oriente greco, graecari sarà il verbo che indicherà il mondo dei parasiti, dei giovani scialacquatori, dei lenoni. Ma per i suoi personaggi prediletti, per i servi scaltri, Plauto riserba il dialogato di schietta purezza latina, il sermo urbanus, la lingua di quella città che stava allora per diventare la capitale di un impero» (F. DELLA CORTE).

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Pagina 25

LUCREZIO: LA SOVVERSIONE FALLITA



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TITO LUCREZIO CARO: le poche notizie sulla sua vita risalgono alla Cronaca di S. Girolamo. Esse suggeriscono una figura tragica e fascinosa, così somigliante all'intonazione del poema De rerum natura, in quel suo continuo oscillare tra estasi e disperazione, tra razionalità esaltante e sentimento desolato della condizione umana e cosmica, da suggerire insieme il sospetto di un'invenzione, e la certezza di una realtà storica. Lucrezio visse approssimativamente fra il 98 e il 55 a.C. Qualche studioso ha supposto che egli fosse nato in Campania, ove fioriva una scuola epicurea; altri lo ritenne romano. S. Girolamo riferisce che morì a 44 anni, suicida, reso folle da un filtro d'amore; e che la sua unica opera fu scritta per intervalla insaniae, «durante le pause della sua pazzia».
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Il contenuto del De rerum natura è di quelli che generano le asseverazioni o le palinodie dei poetastri, o le strutture del genio: partizione dei diversi livelli della scienza, della religione, della fisiologia, dell'etica, dell'antropologia, della politica; contestazione razionale dei falsi modelli di vita, affermazione dei princìpi d'una [amicizia] universale; al tempo stesso, fraterna contestazione degli umani errori, dottrinaria enunciazione degli schemi di salvezza, un terrestre elisio ancora fuori vista, sostituibile solo da uno zelo di terapeuti innamorati dei sintomi del morbo, dell'irriflessa sanità della materia, o dell'estatica glorificazione del maestro. E paletnologia, paleontologia, linguistica, fenomenologia, patologia, in un succedersi d'intonazioni didascaliche, epiche, tragiche, liriche, satiriche. Un universo per dilettanti dell'enciclopedismo in versi, o per talenti poderosi disposti a soccombere pur di realizzarsi, pellicani suicidi per amore della prole errante negli abbagli d'una società belluina.

La dottrina di Epicuro, fondata sull'atomismo democriteo, filtrata nell'esperienza umana, storica, letteraria di Lucrezio (e degli altri epicurei romani perduti), costituisce in potenza, cioè nelle formulazioni dei gruppi d'iniziati — sembra illusoria l'opinione di B. Farrington che ipotizza una diffusione di massa dell'epicureismo –, l'unica teoria rivoluzionaria dell'antichità latina. Naturalmente essa fu utilizzata dai politici novatori solo nella sua parte negativa, per quel che poteva offrire alla distruzione delle mitologie conservatrici e all'erosione dei fondamenti ideologici del privilegio oligarchico: l'ideale etico della voluptas, cioè del piacere catastematico, remoto sia dall'angoscioso affaccendarsi nei negotia della vita, sia dal brutale voltolarsi nel «piacere di movimento», restava una mèta di spiriti forti, sdegnato, se non ignorato, dalle moltitudini coinvolte nelle lotte economiche, sociali e politiche che si usa definire storia.

Non esiste, nella storia del pensiero latino, un'opera che, al pari del De rerum natura, contenga ed esplichi un così gran numero di argomenti sovversivi, e che, nello stesso tempo, s'inserisca con altrettanta coerenza nelle linee di sviluppo della società e della letteratura di Roma.

La crisi della repubblica e i risultati dell'avanguardia letteraria confluiscono nel poema lucreziano, e in un certo senso lo determinano; ma di quei conflitti e di quelle evasioni Lucrezio è anche il giudice e l'eversore, tanto meno incline al compromesso quanto più colpito, e non ancora guarito, dal comune contagio. Tradizione e rivoluzione si avvinghiano nel poema in una lotta mortale che spesso rassembra un amplesso d'amore, nel sogno della poesia, cioè nel risultato, sull'eco della dottrina; nella dottrina, che non contraddice la poesia (l'anti-Lucrezio è solo un'ingegnosa invenzione), ma ne costituisce la matrice e l'intelaiatura, Lucrezio scardina tutti i fondamenti della società romana, li rovescia nella battaglia per l'intellettuale società epicurea, che in nulla somigli all'autoritaria repubblica dei miliziani della virtus, ma prefiguri un egualitario eden di armonia, di rispetto, di equanimità e di solitudine umana.

I cardini della potenza sono le armi, il diritto, il negotium: per l'epicureo Lucrezio, sullo sfondo dei decenni di Silla, dei triumvirati, di Spartaco, di Catilina, le guerre sono invece la maledizione degli uomini, il diritto è la fonte del loro timore, il negotium la condizione della loro ansia: di arricchire, primeggiare, schiacciare i fratelli; e le guerre, il diritto, il negotium hanno fallito, si sono rivolti contro se stessi, si sono confutati nella loro stessa logica interna. Ad essi si contrappone la pace, la [...], l' otium speculativo del saggio epicureo. La religio, cioè non tanto la concezione delle divinità, relegate negli intermundia, quanto la superstizione cultuale rivolta agli dèi e alimentata dai sacerdoti al servizio del potere, è fonte di terrore e di schiavitù, strumento di ricatto psicologico e di oppressione politica: la paura della morte ne è la premessa; la stoltezza e l'ignoranza – dell'origine delle cose, della materialità dell'universo in continuo movimento, scambio, metamorfosi di aggregati atomici in spazi vuoti nei quali sia possibile il clinamen, premessa fisica della nozione psichica di libero arbitrio – ne costituiscono la condizione. La religione di stato, la funzionarizzazione dei sacerdoti, la devozione delle plebi alle mitologie autoctone o d'importazione, comunque transustanziate nel ferreo Olimpo, su cui le élites intellettuali e filosofiche fondavano il loro predominio politico, erano flagellate dall'irruente polemica lucreziana. La passione amorosa costituiva un'alienazione, oltre che del prestigio, anche dell'identità umana. La stessa tecnologia, se male utilizzata, nella guerra o nella produzione di beni di consumo superflui, cospirava anch'essa alla distruzione o all'asservimento dell'uomo.

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