Copertina
Autore Luca Canali
Titolo L'interdetto
EdizioneHacca, Matelica, 2009 , pag. 208, cop.fle., dim. 14,5x21x1 cm , Isbn 978-88-89920-31-2
LettoreElisabetta Cavalli, 2009
Classe narrativa italiana
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Pagina 11

1

Neanche l'anziano maresciallo Esposito riusciva a capire perché il consueto equilibrio del commissario Strina appariva ora turbato da alcuni episodi di microcriminalità che s'erano verificati in quel quartiere tranquillo, abitato da gente ricca, chiusa in un beneducato egoismo. I due o tre commissari precedenti – Esposito li ricordava bene –, in casi simili ne archiviavano subito le denunce; si impegnavano di malavoglia per risse con un paio di feriti, entravano davvero in azione solo per rapine a mano armata, meglio se ci fosse scappato il morto. Del resto questi meschini reati di cui nessun giornale s'era occupato - danneggiamenti, lettere anonime malevole più che aggressive, e un bossolo di proiettile inviato per posta a una famiglia tedesca -, erano noti soltanto per chiacchiere di portineria senza che vi fosse stata alcuna denuncia in proposito. Ma stranamente il commissario Strina ne era stato scosso assai più che da un recente fatto di cronaca nera ampiamente trattato dalla stampa, anche perché aveva causato un forte contrasto fra lui e il medico legale inviato dall'Istituto di Anatomia patologica. Questa la vicenda: nel parco pubblico era stato trovato, disteso su una panchina, il corpo senza vita, ma apparentemente intatto, di un apolide slavo, certo Bozic, già noto alla polizia per piccoli furti e ubriachezza molesta. Il medico legale aveva concluso frettolosamente l'inchiesta, attribuendo quella morte ad arresto cardiaco causato dalla vita randagia e disordinata di quell'immigrato senza lavoro né fissa dimora. Strina era invece convinto che si trattasse d'un delitto, o almeno di un omicidio preterintenzionale da addebitarsi a un altro immigrato, un certo Iliu, detto il "re del parco" per l'indiscussa autorità esercitata su un gruppo di extracomunitari e barboni che gravitavano intorno a quel luogo spesso deserto e poco sorvegliato. Questo Iliu s'era ricavata una piccola reggia nel ninfeo attiguo alla grande fontana circolare davanti al palazzetto nobiliare, antica residenza estiva della famiglia che aveva dato nome al parco. Strina sapeva da tempo, tramite l'Interpol, che in patria Iliu era stato un pugile abbastanza noto, poi rovinato da alcol e droga, sconfitto più volte e divenuto un violento recidivo, ma non un criminale incallito. Strina in persona, durante una recente ispezione nel parco, lo aveva visto bagnarsi nudo nella fontana, poi lavare la sua biancheria e stenderla al sole su un filo di ferro teso fra due arbusti: tutto in contrasto con il divieto di utilizzare a fini personali attrezzature di pubblica utilità. Ma il commissario sapeva chiudere un occhio su illeciti irrilevanti, e come in quel caso degni di comprensione, e persino di simpatia. Ora, dopo il ritrovamento del corpo di Bozic, aveva subito ipotizzato una rissa fra i due, probabilmente ubriachi — lo spazio erboso fra la panchina e la "reggia" di Iliu era cosparso di bottiglie di birra vuote —, forse una resa di conti per oscuri rancori o qualche parola storta ingigantita da una solenne sbornia. La salma di Bozic non era stata sottoposta ad autopsia, e subito traslata in obitorio giaceva in una cella frigorifera. Strina si era rivolto al Pubblico Ministero di turno, chiedendo la riapertura dell'inchiesta e un'accurata autopsia. Conosceva bene il rischio cui si esponeva: se l'autopsia avesse confermato le conclusioni del medico legale, lui sarebbe stato passibile d'una nota di biasimo per incongrua sfiducia nell'operato di un esperto e stimato professionista. Ma l'autopsia gli aveva dato ragione: il fegato di Bozic era gravemente danneggiato da violenti colpi vibrati da persona dotata d'una gran forza nei pugni. Si era dunque trattato d'un violento match fra i due, con la vittoria dell'ex pugile e la sconfitta, purtroppo letale, del suo rivale. Con la calma consueta e senza sciocca euforia per il proprio successo procedurale, Strina aveva ordinato immediate ricerche del colpevole, vane: la "reggia" era vuota, il "re del parco" scomparso, fuggito chissà dove, portando con sé le sue poche robe.


Pochi giorni dopo, una pattuglia in perlustrazione aveva segnalato in una via privata fra due condomini la presenza di un'auto di grossa cilindrata con l'intero treno di gomme squarciato. Ma ancora nessuna denuncia. Ed ecco là stranezza: il commissario Strina cambia umore, appare nervoso e preoccupato. Si sarebbe detto che proprio l'irrilevanza criminale del fatto, malgrado la sua gravità pratica, insieme all'inspiegabile silenzio del danneggiato, avesse fatto perdere al commissario la sua abituale serenità. Da qui lo stupore di Esposito, uno di "quei vecchi arnesi della PS – come li definivano i giovani leoni appena sfornati dalle scuole di polizia -, formati invece sul campo, provati in innumerevoli conflitti a fuoco, in arresti difficili e rischiosi, e, se necessario, capaci di duri pestaggi di criminali omertosi per sciogliergli la lingua, ma anche flessibili nell'accettare qualche regalo, una cassetta di liquori per una loro ricorrenza familiare, un paio di cravatte per i giorni festivi in borghese, qualche bottiglia d'olio che poteva far comodo a mogli o figlie in cucina. Ma Esposito non aveva moglie né figlie, viveva solo con una sorella zitella, tutta chiesa e volontariato umanitario, ma che neanche gli cucinava, né gli rammendava i calzini, e allora lui si preparava i pasti da solo, i regali li passava al gestore di una sala-corse in cambio di qualche puntata sui cavalli in gara: sua passione e vizio segreto. Del resto, qualche piacere lo faceva anche lui, passare un biglietto dei parenti a un "fermato" in camera di sicurezza, affidare l'interrogatorio di qualche arrestato a un agente meno duro di lui, dire una parola ai negozianti sull'imminente visita della Finanza, insomma favori al limite della legalità, ma che in fondo non intralciavano il corso della giustizia. Tutto questo Strina lo sapeva bene, ma lasciava correre, convinto che un po' d'indulgenza verso quei piccoli opportunismi dei suoi agenti favorisse, nell'interesse di tutti, un clima di tranquilla convivenza fra cittadini e poliziotti. Per quell'anziano sottufficiale, poi, aveva nutrito un'istintiva simpatia fin dai primi mesi del suo trasferimento dai commissariati di periferia sempre in tensione, a quello dei tranquilli ma ipocriti e talvolta corrotti quartieri nord-ovest della città, dove spesso gli accadeva di sentirsi a disagio per il suo compito un po' vile di dare la caccia a migranti affamati, ladruncoli rom, neri venditori di calzini e mutande, lavavetri, e solo talvolta malviventi a loro volta incalzati da capibanda spietati e inafferrabili.

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"Questa perizia mi è stata chiesta dal Tribunale, ed è mio dovere compierla, anche se lei ha in parte ragione. Escludo infatti l'ipotesi d'una sua incapacità di intendere e di volere, ma devo chiedermi se la sua lucidità mentale sia o non sia così abbagliante da accecare in lei la capacità di intendere il valore del denaro e della sua utilizzazione. Ad esempio, è vero che lei ha versato somme ingenti a Istituti per la tutela dei diritti degli animali, trascurando i diritti degli uomini, dell'infanzia abbandonata, delle popolazioni affamate, e simili? Badi, in questo momento non esprimo orientamenti ideali e morali, e tanto meno politici, ma dubbi scientificamente fondati, con qualche non indifferente valenza giuridica. A proposito del nostro incontro, che lei ha definito una stupida farsa, non crede che, in fondo, la vita di tutti noi sia nient'altro che una recita, spesso più tragica che comica, sul palcoscenico di una breve esistenza?"

Nullian tornò a sorridere, ora con l'indulgenza di un maestro che si rivolga a uno scolaro mediocre:

"Vedo che lei conosce bene le metafore della cosiddetta cultura di massa. Il mio giudizio è diverso: sento in questa perizia tutta l'assurda vacuità che attualmente investe l'intero consorzio umano. Ciò accade forse da sempre, ma nel nostro tempo in modo così massiccio e generalizzato da rappresentare una vera mutazione antropologica, naturalmente in peggio."

"Causata da che?" azzardò Gemma con intenzione polemica, ma senza accorgersi che stava cadendo nella trappola da lei stessa disposta davanti a sé. Nullian diede di nuovo segni d'insofferenza:

"Anche questo dovrebbe saperlo, perché me lo chiede? Allora un breve catalogo di cause: la volgarità e superficialità di tutti i cosiddetti media; le scuole e le università allo sbando per il folle moltiplicarsi degli insegnamenti e il susseguirsi al potere di ministri improvvisati e di qualche loquace scrittrice di successo che s'improvvisa pedagogista d'assalto; infine, un mediocre ceto politico di solito proveniente dalla burocrazia dei partiti o direttamente dall'affarismo sfrenato. Le basta?"

"Ora ascolti me, professor Nullian. Non voglio certo dire", tentò di ribattere Gemma "che la sua visione catastrofista dipenda interamente dai suoi disturbi psichici, ma che almeno una parte di essa ne sia influenzata. Credo che ciò sia confermato dal brano che ora le leggo, e che proviene da uno dei suoi romanzi più recenti. È bellissimo ma agghiacciante. Ascolti:


"Era una sorta di rituale funebre, e insieme confortante. Avrei intascato quattro confezioni di tranquillanti, messo in una busta di supermarket una bottiglia di acqua minerale acidula, simile a quella che un tempo remoto mio padre mi portava a bere alla fonte, e senza mai guardarmi alle spalle avrei cominciato la mia marcia verso la morte.

La pista sarebbe stata quella non tracciata attraverso la campagna che costeggia la via consolare. Avrei camminato lentamente, ma senza mai fermarmi per riposare o cambiare direzione per evitare un ruscello o uno sbarramento liminale, filo di ferro spinato o intreccio di paletti. Sarei stato insensibile alla stanchezza, ai pantaloni bagnati e infangati, alle mani lacerate dai rovi, al viso frustato dai rami più bassi degli alberi. Lo scopo, godere fino in fondo quel progressivo deterioramento del corpo, il venir meno delle forze, il non sapere dove mi trovavo, l'estenuato ma inarrestabile passaggio per luoghi sconosciuti, rasentando dimore anonime, cimiteri d'auto, rottami, carogne di cani o d'uccelli colpiti a volo ma non ritenuti degni del carniere, forse anche un cadavere d'assassinato. Pregustavo l'indifferenza per tutto ciò che in altri momenti avrebbe suscitato in me orrore, disgusto, pietà.

Avrei proseguito con gli abiti a brandelli, sfinito, insanguinato desideroso solo di lasciarmi cadere fra l'erba alta. Non avrei atteso di sentirmi un poco ristorato. Avrei potuto, in tal caso, rinviare la decisione. Unica possibile requie sarebbe stata invece la morte. Mentre il sopore avrebbe cominciato a pervadermi le membra, avrei trangugiato con lunghi sorsi bevuti direttamente dalla bottiglia un congruo numero di compresse di sedativo. Poi mi sarei disteso supino sul giaciglio di zolle e d'erba. E se l'amaro del farmaco fosse rimasto nel palato a guastare la dolcezza dell'abbandono a un imminente nulla, avrei desiderato, ma senza poter esaudire l'auspicio, lenire le labbra con un sapore magico, quasi etereo, gustato in una lontana estate stretto alla mano di mia madre su una strada di campagna, quello delle more gelse."


Ora Gemma rimase silenziosa, in attesa di una reazione di Nullian, che aveva seguito con pazienza la lettura di quel brano – da lui ricordato quasi a memoria –, attribuendo alla dottoressa Fornari l'illusione di una rivalsa nel duello dialettico che lei stava perdendo, e forse anche di una "terapia d'urto" che lo convincesse dell'origine patologica della sua cupa visione della società e del mondo: quasi una "malattia" dell'umore, quindi curabile, più che una pessimistica ma razionale filosofia dell'esistenza. E per dimostrare la vanità di tale illusione, Nullian volle escludere dal proprio discorso ogni sottile ragionamento sostituendolo con la rappresentazione di quadri mossi, incontestabili e a tutti noti:

"Dottoressa Fornari, lei è una persona seria e una donna intelligente. Le chiedo dunque di spiegarmi com'è possibile che in paesi cosiddetti civili ci si appassioni a spettacoli di gratuita ferocia e di immonda vigliaccheria come la caccia alla volpe: una muta di cani sguinzagliati e furiosamente latranti, clangore di corni e grida eccitate di dame cavallerizze che attendono di vedere finalmente sbranato quell'unico piccolo animale in fuga disperata. O l'agonia di un toro, ancora un solo animale al centro d'un immenso stadio brulicante di aficionados ambosessi, mentre picadores a cavallo lo torturano con trafitture di lance, poi banderilleros danzanti che si esibiscono in numeri di bravura conficcando nelle sue carni bandierine fissate su aguzze asticciole di ferro; e infine il toreador che, ergendosi sulla punta dei piedi, come una ballerina da avanspettacolo, si prepara a finirlo, sventurato animale, unico innocente in quella folla di virtuali assassini. E ha mai potuto guardare senza orrore, nell'imminenza della Santa Pasqua, le vetrine dei beccai piene di agnelli squartati e sanguinanti, appesi ai ganci, invito ai devoti perché festeggino, divorando quelle tenere carni, la resurrezione dell'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo?"

"Ora non sia blasfemo", cercò di interloquire Gemma, come sua estrema resistenza al dilagare dell'ira fredda di quell'uomo forse vittima anch'egli – lei pensò – della spietata lucidità ed esattezza della sua mente. Del resto tutto ciò che Nullian aveva detto, lo aveva talvolta pensato anche lei, ma affrettandosi a vanificarlo con un sempre riuscito rifiuto di lasciarne turbare la propria egoistica e opportunista visione del mondo. In questa operazione psicologica, cioè in questa rimozione dell'orrore, l'aveva sempre aiutata il ricorso all'argomento tranquillizzante che tutto ciò è legittimato dalla tradizione, e perfino dal folklore. Lo disse a Nullian, che sembrava aver accettato l'interruzione mentre in realtà stava preparando l'affondo finale:

"Le tradizioni, signora, non sono altro che stampelle della storia, coacervo di stragi e obbrobri perpetrati in nome di inganni mostruosi, quale ad esempio l'orgoglio nazionale, che cela sempre sporchi interessi di gruppi finanziari o di aggressive congreghe religiose, e si fonda sull'ignoranza e l'ingenuità di milioni di uomini che in nome di quegli inganni corrono incontro alla morte."

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Il vasto studio era immerso nella penombra. Le finestre erano semichiuse. Soltanto sul piano d'una scrivania coperta di libri e cartelle di documenti — evidentemente il posto di lavoro del direttore — un lume da tavolo proiettava un cono di intensa luce azzurrastra. Ma ora Don Cleto si affrettò a spalancare le finestre e a spegnere quella luce artificiale, invitando il suo antico discepolo a sedere su una delle poltroncine disposte ai lati d'un tavolinetto rettangolare. Le pareti della stanza erano spoglie, eccettuata quella di fondo, dove al posto del consueto crocifisso di legno fiammeggiava, inquadrata da una cornice di legno grezzo, una riproduzione della Crocifissione di Masaccio, con Maria e Giovanni ai lati del Cristo morente, e, di spalle, la Maddalena dai biondi capelli sciolti sul manto arancione.

Anche Don Cleto sedette, e indicando le finestre aperte chiese volubilmente:

"Fiat lux. Paolo Strina, ricordi qualche parola di latino?"

Inspiegabilmente imbarazzato e distratto, Strina si riscosse cercando di rientrare nella situazione, cosa che non gli riuscì facilmente.

Don Cleto — egli lo ricordava bene — era una persona difficile, anzi impossibile da decifrare: a volte sereno e persino ilare, altre volte il suo sguardo poteva rivelare un'inquietudine e persino uno smarrimento che forse tradivano segreti tormenti del suo animo e del suo corpo. Era di membra magre, alto di statura, perfettamente eretto, sempre elegante nel clergyman grigio e il rigido colletto bianco inamidato. La sua intera persona esprimeva l'inesauribile energia d'una natura rigidamente impegnata nell'escludere dalla propria vita qualsiasi cedimento alle normali debolezze dei comuni mortali. Seduto o in piedi, nulla appariva in lui di marcatamente virile, ma anche nulla di vagamente femmineo. Si sarebbe detto che fosse un esemplare umano completamente asessuato, ispirante in chiunque lo praticava o lo osservava, una trepida ammirazione e insieme un invincibile disagio, frutto forse della magnetica aura di aristocrazia intellettuale di cui la sua sola presenza si fregiava. Strina ricordava bene tutto ciò, vi era anzi abituato fin dai tempi dei suoi studi di seminarista, e in seguito durante ognuna delle rare visite fatte ai suoi genitori, e poi, puntualmente, anche al suo antico e venerato maestro.

Cercò di arginare tali riflessioni, ricordando di essere venuto lì con un preciso scopo pratico. Ma preferì avviare il discorso con una domanda neutrale, fra conversazione distesa e curiosità culturale:

"Scusi la mia curiosità: perché quel bellissimo quadro al posto del crocifisso quasi obbligatorio in ogni ambiente ecclesiastico?"

La risposta di Don Cleto lo fulminò con la pregnanza teologica, ma audacemente anticonformista, che conteneva:

"Mi è sembrato che per la Chiesa fosse giunta l'ora di superare l'ossessivo culto del dolore, o meglio di alleviarlo coniugandolo con la bellezza, la bellezza dell'arte, intendo. Così anche nel parlatorio ho voluto alla parete la Cacciata dal Paradiso terrestre, ancora di Masaccio, invitando così a rendere problematica e intrisa di pietà la teoria del peccato originale, e marcando la differenza fra la durezza del Dio veterotestamentario e la dottrina dell'amore e del perdono del Cristo-Dio dei Vangeli; e nell'aula magna L'ultima cena di Leonardo, per significare l'inestricabile legame fra gioia del convito e premonizione del martirio e della morte."

Don Cleto rimase qualche istante assorto, forse riflettendo sul significato tutt'altro che ortodosso delle proprie parole. Strina rimase anch'egli in silenzio chiedendosi quale sarebbe stata la sorte di quell'uomo di Dio così rigoroso ma anche così spregiudicato nel proporre le proprie interpretazioni del Verbo. E ora, per evitare di farfugliare qualche sciocco commento, scelse la via della banalità, chiedendo notizie sull'andamento del Seminario.

A quell'improvviso ritorno in terra, anche Don Cleto si adeguò, e tornando apparentemente sereno rispose:

"Sai cosa sto facendo? Cerco di completare l'elenco dei docenti di cui potrò disporre per l'anno di studi appena iniziato. Insegnanti di italiano e storia a bizzeffe: credono tutti di saperne abbastanza su queste materie credute facili. Ma latino e greco? E matematica e fisica? Un disastro. Ma scusa le chiacchiere. A che devo la tua visita?"

Strina comprese che doveva esporre in fretta la sua richiesta:

"In primo luogo il piacere di rivederla. Poi qualche consiglio."

"Hai ancora tutti i dubbi d'un tempo? Consólati, solo gli sciocchi non ne hanno e non avvertono il mistero che li circonda; la loro fede, quando la hanno, è dunque simile all'idolatria, ed essi possono diventare dei pericolosi integralisti, come oggi si dice. Ma quali consigli pratici posso darti io, che vivo fuori dal mondo?"

"Lei il mondo lo ha tutto nella mente. Ma non è di questo che intendo parlarle. Chiedo solo povere cose della vita quotidiana. Per esempio, dove posso trovare gente esperta e affidabile che si prenda cura del podere che ho ereditato dai miei genitori."

"Le cose che sembrano semplici sono quasi sempre le più complicate, e soggette a errore, mentre quelle complicate dispongono dell'alibi delle parole; quelle semplici no, hanno bisogno di fatti. Il mio consiglio, poi, in questi caso, può sembrare persino sconveniente, a te, uomo di legge. Rivolgiti a un "caporale". Qui in paese ce ne sono due o tre, romeni, esosi, di modi spicci, ma insuperabili nella scelta di uomini giusti per ogni tipo di lavoro. Se si tratta di condurre un intero podere, un "caporale" potrà assumerne lui stesso la responsabilità, scegliendo i suoi collaboratori. Ma ti costerà molto denaro."

Sorpreso dal disinvolto pragmatismo di Don Cleto, Strina provò a scherzarci su, ma con convinzione:

"Machiavelli modernizzato, insomma."

Serissimo, e interessato a quel concetto, Don Cleto precisò:

"Non tanto Machiavelli, quanto Ignazio di Loyola, cioè la casistica gesuitica applicata alle terribili vicende di questo secolo, nel quale sporcarsi le mani è divenuto inevitabile. Ricordi il famoso dramma di Sartre Les mains sales? Insomma, se non vuoi cambiare mestiere, né riprendere in mano la zappa e guidare un trattore, come facevi benissimo da ragazzo, non hai altra scelta."

"Alla zappa no, ma al trattore tornerò forse da pensionato. Per ora seguirò il suo consiglio, anche se spesso i romeni hanno dato filo da torcere anche a noi poliziotti."

"È vero. Sono capaci di delitti efferati, ma di questi siamo capaci anche noi. Non bisogna credere alla favola dei buoni e dei cattivi secondo il luogo di nascita. E ricorda che fuori da ogni definizione dottrinaria, la virtù principale di qualsiasi uomo, non solo del cristiano, non è l'amore del prossimo, ma il perdono, che costa di più a chi è stato colpito a sangue e sogna la vendetta. Ma decidi tu. Per quanto riguarda i delitti e ogni forma di violenza e disonestà, soltanto la fede in Dio — come dono o come sacrificio della propria razionalità la quale porterebbe a negare i dogmi e a rifiutare di vivere nel mistero dell'intero universo — può offrire la redenzione e la salvezza. Le buone opere non bastano senza la fede, anzi senza la fede rischiano soltanto il compiacimento di sentirsi nobili e generosi, quindi migliori degli altri. Se questo ti sembra difficile da capire, potrai convincertene leggendo, come io faccio ogni giorno, qualche brano de Le confessioni di Sant'Agostino o dei Pensieri di Pascal. Credimi, senza fede ci potrà essere solo vanità e persino disperazione e follia".

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