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| << | < | > | >> |Indice9 Introduzione L'immacolato viaggiatore 20 1. Nel pentolone dei cannibali Viaggio tra i mangiatori di civiltà, 20 Briganti, turisti e viaggi d'azzardo, 23 Con quella faccia da straniero, 28 32 2. Turismo, antiturismo, terrorismo Hotel Ambassador, 32 Turistomachia, 34 La maledizione turistica, 36 «Tourists go home!», 39 Sequestrati e spensierati,43 49 3. Security La valigia elettrica, 49 La civiltà dell'airbag, 51 Il controllo degli andanti, 52 Alzare i tacchi, 57 Nonluoghi nonsicuri, 60 Dietro la linea gialla, 65 67 4. Antropologia del corpo in transito La stagione dei misuratori di uomini, 67 La password incarnata, 7 I Checkpoint: la fine del misterioso viaggiatore, 78 Momenti magnetici: sotto il portico, 83 Momenti toccanti: la perquisizione, 88 91 5. L'ossessione della sicurezza L'illusione della sicurezza, 91 La sicurezza stupida e minacciosa, 95 Guinzagli elettronici e banche dati, 99 Errori e abusi dei controllori, 103 Voglio un popolo con i nervi saldi, 107 114 6. Primo scenario: il turismo militarizzato Destinazioni coloniali e villaggi di Cuccagna, 114 Zone turistiche e «Stati canaglia», 127 132 7. Secondo scenario: il turismo permeabile Per un turismo aperto e sprotetto, 132 Cuocere la frittata, 137 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Introduzione
L'immacolato viaggiatore
Come viaggeremo in futuro? Non lo so, ma ho l'impressione di essere in buona compagnia. Compro il numero speciale di «Newsweek» dedicato ai viaggiatori di domani (maggio 2003) e mi viene' da ridere. In copertina, sotto il titolone Travelers of tomorrow, c'è la foto, volutamente mossa, di un tizio vestito di bianco: una specie di infermiere che tiene in mano una valigetta bianca e cammina lungo un corridoio bianco. Vale a dire: noi non abbiamo la più pallida idea di come sarà il viaggiatore di domani, ma qualcuno in copertina ci dovevamo pur mettere. E così ci hanno messo un immacolato viaggiatore. Con gli occhiali scuri, per eliminare il problema. Quale problema? Quello dello sguardo, naturalmente. Lo sguardo del turista, sul mondo e su se stesso. Chiederselo, come viaggeremo in futuro, mi sembra interessante. Viaggeremo più liberi o più controllati? Da persone adulte e responsabili o da bambini protetti e deresponsabilizzati? Sul sito Internet del Dipartimento di Stato americano, in un documento intitolato A Safe Trip Abroad, un viaggio sicuro all'estero, si legge: «Non accettate cibo né bevande da stranieri». È una raccomandazione scioccante, perché nella sua semplicità cancella millenarie tradizioni di ospitalità. È possibile viaggiare senza accettare cibo da sconosciuti? Dunque in futuro dovremo viaggiare con la valigia piena di cibo in scatola, totalmente auto sufficienti come extraterrestri in missione spaziale? Le domande si moltiplicano. Viaggeremo in un mondo ancora ricco di diversità, o diventato quasi tutto uguale? Ma soprattutto: in un mondo pacifico o tormentato da focolai di guerra, che dovremo evitare prudentemente? E ancora: che cosa accadrebbe delle nostre vacanze, se la guerra contro un fantapolitico asse del male diventasse davvero infinita? Saremo disposti a combattere per continuare a fare i turisti dove e quando ci aggrada? È normale che i clienti degli alberghi di lusso della Casamance si abbronzino sotto la protezione dell'esercito senegalese? Ci piacerà fare turismo con la scorta armata appresso e con i soldati, sui voli di linea, al posto delle hostess? Partire sarà alla lettera prendere armi e bagagli? Ispirandosi a una delle roboanti etichette coniate dal marketing bellico statunitense - Enduring Freedom - forse l'industria lancerà una nuova operazione turistico-militare: Enduring Holidays. Vacanze durevoli e resistenti. Certo meritate, quindi giuste e non negoziabili, così come non è negoziabile lo stile di vita dei paesi occidentali. Turismo blindato. Vacanze a tutti i costi. [...] Configurare scenari, come si dice spiritosamente, è uno sport facile ma pericoloso. Eppure torno a chiedermi: come viaggeremo in futuro? L'instabilità generale di questo periodo storico - che i politologi fanno iniziare da quando la Russia ha cessato di essere il nemico dell'Occidente - permette soltanto previsioni azzardate. Negli ultimi anni il quadro generale è molto cambiato. Viviamo una contingenza interessante e inquietante al tempo stesso. La paura di malattie e disordini ci ha fatto passare un po' la voglia di compiere lunghi viaggi. Ciò nonostante, rinunciare a fare turismo per paura di morire non sembra realistico, visto che la grande maggioranza delle persone muore nel proprio letto, e non in viaggio. Per il resto, il viaggiatore del XXI secolo - un nuovo nomade, sì, ma per altri aspetti un consumatore distratto - non pare curarsi più di tanto dei problemi del mondo. Quando cresce la tensione a livello internazionale, regolarmente riscopriamo gli spazi domestici, e alla vecchia Europa non mancano le attrattive. Il recente boom del turismo enogastronomico, per esempio, con tutta la retorica dei sapori che hanno attraversato i secoli e dei «giacimenti golosi», si spiega con la nuova parola d'ordine della valorizzazione delle risorse locali. Quando fuori Europa c'è maretta, il turismo diventa culturale, cioè di ripiego. Come le visite a chiese e musei che si improvvisano nelle giornate piovose. Il turismo di prossimità, ce ne siamo accorti tutti, la butta sempre più sul gastrico. Si crede raffinato (e si vende come tale), ma di fatto è un vorace abbuffarsi: perché se non si mangia, ormai, sembra inutile partire, viaggiare, visitare, conoscere. Non c'è evento culturale che non venga abbinato a una masticazione. Con la scusa e la presunzione di avvicinare altre culture, non c'è più viaggio senza assaggio. Cotoletta e cuscus? Lodevoli mescolanze, peccato che avvengano soltanto nel cavo orale. Poi, dopo la comunione, ciascuno rimane al proprio posto. Ci mancherebbe. I sapori possono anche contaminarsi e attraversare i secoli, ma i marocchini è meglio che stiano a casa loro. È questa chiusura che ci riserba l'avvenire? Francamente, spero di no. Un futuro di turisti grassi e chiusi in se stessi sarebbe, oltre che eticamente meschino, esteticamente piuttosto sgradevole. [...] Intendiamoci: viaggiare informati e desiderosi di comprendere non mette al riparo dalle bombe, né dalla sfortuna, né dai conflitti in generale. Quarant'anni fa, la mia maestra di scuola elementare, che di cognome faceva Terranova, ci esortava a viaggiare, ma a occhi aperti: non «da salami, tornando mortadelle». Ecco, in questo senso, viaggiare in maniera più accorta rende la figura del turista più dignitosa e anche più eroica, se vogliamo. Posto che l'eroismo non stia nell'avventura estrema e neppure nel collezionismo di viaggi esotici. Tanto meno nella difesa armata di Fortezze Paradiso a cinque stelle, circondate dalla miseria. Ma piuttosto in una diversa presenza. Nel provare a capire che cosa succede nel luogo dove si sta, con maggiore consapevolezza. A ben vedere, l' Homo turisticus è ancora, anacronisticamente, convinto di godere di un raro privilegio, che lo distingue dagli altri andanti. Questo privilegio consiste in un lasciapassare tra i conflitti della contemporaneità, un «diritto di mettere piede» (tale è l'etimologia della parola pedaggio) che diamo per scontato sia compreso nel prezzo del biglietto, o del pacchetto. In altri termini, quando portiamo il nostro corpo in giro per il mondo, pretendiamo di riportare a casa la pelle. E perché mai? Solo perché abbiamo accumulato denaro più del necessario alla sopravvivenza, e ci concediamo il lusso di viaggiare? Detto ciò, giustamente ci preoccupiamo che tutto vada bene, grati a chi ci consente di viaggiare, liberi per il mondo, senza rimetterci la pelle. Ma c'è una evidenza innegabile, per chi vuole viaggiare a occhi aperti, non importa se a Zanzibar, Mosca o Cancun: senza giustizia non può esserci svago, né sicurezza. | << | < | > | >> |Pagina 36La maledizione turisticaCome sanno tutti coloro che hanno viaggiato in paesi poveri, il turista è un pollo da spennare. Proviamo, per una volta, a chiedercene il motivo. Sono tutti cattivi gli Altri? O sono i poveri a essere cattivi? Premesso che non tutte le ostilità nei confronti dei turisti raggiungono livelli allarmanti, né lo spirito antituristico né il terrorismo antituristico (due fenomeni da tenere ben distinti) nascono per caso. L'antiturismo ha diverse matrici. Come abbiamo visto, i fenomeni di rigetto nei confronti del turismo affondano le radici nell'ambiguo status del viaggiatore, al contempo supponente e bisognoso, in tutte le sue declinazioni storiche: dal mercante al missionario allo scienziato. Ciò non toglie che le ragioni del sentimento antituristico possano essere di varia natura. C'è per esempio l'antiturismo storico, che si sviluppa sin dall'Ottocento in diverse località turistiche delle Alpi svizzere, covato dagli escursionisti aristocratici che vedono avanzare, con vivo dispetto, i loro emuli di ceto piccolo-borghese. Più tardi sarà proprio questa classe sociale di parvenus a lamentarsi del turismo di massa: c'è sempre qualcuno che con la sua presenza insidia privilegi venduti come esclusivi. Nella valanga di sfaccendati (l'espressione è dello scrittore francese Pierre Loti) che inquina i siti che pretenderemmo di avere scoperto, solitamente stentiamo a collocare... noi stessi. Il peggior nemico del turista è il turista stesso, il quale ha maturato e interiorizzato un paradossale disprezzo nei confronti della propria attività, che spesso lo spinge a negare di essere turista. Se ne sono accorti anche i letterati, come Gabriel Garcia Márquez: «Non so da dove derivi la vergogna di essere turisti. So che ho sentito molti amici in pieno entusiasmo turistico dire che non volevano mescolarsi ai turisti, senza rendersi conto che, nonostante non volessero mescolarsi, erano turisti esattamente come gli altri». Non c'è niente da fare, è la maledizione turistica. L'unica cosa che legioni di turisti sentimentali rimproverano alla «loro» Venezia è di avervi trovato troppi rivali, per lo più giudicati severamente, come inferiori e quasi abusivi fruitori. Questo genere di disprezzo, larvatamente antidemocratico e in fin dei conti riconducibile a uno snobistico disappunto, genera diverse forme di dissociazione. Ma è una presa di distanza che non arriva mai all'aggressione. Dove le condizioni di vita sono molto povere, il lusso turistico appare come uno schiaffo alla giustizia, e allora l'antiturismo si fa più pericoloso. Alfredo Luis Somoza ha osservato: «Intere città come Bogotà, Sào Paulo, Città del Messico, Managua, Lima, Caracas e Rio de Janeiro sono totalmente o in parte sconsigliate al turista perché è bersaglio annunciato di scippi, furti e aggressioni fisiche. Il ricco turista occidentale da "predatore" diventa preda in quel mondo impoverito delle periferie che fornisce la manodopera a basso costo per incollare le sue scarpe da tennis, per cucire i suoi jeans o per assemblare il suo telefonino. Come si suol dire, i nodi vengono al pettine, e il turista si trova a rappresentare il mondo che opprime e deruba delle materie prime, il mondo che prospera a costo della miseria degli altri. Un turista quindi "da ripulire", da saccheggiare, da sequestrare e addirittura da uccidere». Naturalmente questo può accadere anche nei coni d'ombra dei paesi ricchi, dove il denaro dei turisti fa gola ai malviventi. A Miami, in Florida, le compagnie di autonoleggio hanno fatto sparire dalle vetture noleggiate ai turisti le scritte che le potessero identificare come tali, poiché erano regolarmente prese di mira dai teppisti. E sempre negli Stati Uniti, in Alaska, un sarcastico adesivo da paraurti reca questa scritta: «Se è la stagione dei turisti, perché non possiamo impallinarli?» Ora, l'Alaska non è un paese particolarmente povero, dunque in questo caso il problema non è il differenziale economico. È evidente che in certe circostanze agli occhi degli autoctoni il turismo viene percepito come invasivo, irrispettoso e antipatico. Nonostante il denaro che porta. | << | < | > | >> |Pagina 51La civiltà dell'airbagNella migliore delle ipotesi, in viaggio, si lascia il noto per l'ignoto: è naturale sentirsi più esposti all'azzardo e ai pericoli. È perciò quasi istintiva la nascita del desiderio di proteggersi. A ben vedere, però, non è soltanto quando siamo in viaggio che cerchiamo sicurezza. La retorica della sicurezza dilaga ben oltre l'attività turistica. Le nostre abitudini e il nostro linguaggio quotidiano tradiscono un'ansia di sicurezza e di certezze, di cui non siamo neppure consapevoli. Si va dal mondo delle assicurazioni a quello dell'informatica, dalle automobili ai trattamenti economici previdenziali, dalla sanità all'alimentazione, ai rapporti affettivi e sessuali. In breve, sembriamo davvero appartenere a quella che lo psicoanalista americano James Hillman ha chiamato la «civiltà dell' airbag». Dove il feticismo delle assicurazioni e delle istruzioni di sicurezza ci solleva dal ragionare in maniera responsabile sulla correttezza e sulla necessità dei nostri comportamenti. La cosa più importante, ci ripetono, è non andare a sbattere. Per il resto, ognuno si arrangi e provveda come meglio può. Va da sé che le certezze, come gli airbags, abbiano un certo costo, e che occorra lavorare sodo per potersele permettere. | << | < | > | >> |Pagina 59L'uomo è un animale che si adatta a tutto. Il guaio delle logiche emergenziali è che, trascorso un po' di tempo, smettono di essere eccezionali e diventano normali. L'estrema mobilità dei turisti e l'estrema mobilità dei terroristi sono entrambi fenomeni della globalizzazione. Aspiranti turisti e aspiranti terroristi oggi attraversano frontiere e controlli, incrociandosi e condividendo il fastidio di assoggettarsi a sempre più meticolosi controlli.Il terrorismo ha obiettivi demoniaci, il turismo ha obiettivi paradisiaci. Sulle inopinate specularità tra turismo e terrorismo, Hakim Bey (al secolo Peter Lamborn Wilson) va molto oltre. In un saggio intitolato Overcoming Tourism, superare il turismo, ha lanciato una provocazione che fa pensare: «Turisti e terroristi soffrono la stessa fame di autenticità. Ma l'autentico retrocede a mano a mano che la loro inautenticità avanza [...]. Per loro disgrazia, tutto quello che possono fare è distruggere. I turisti distruggono significati, i terroristi distruggono i turisti». | << | < | > | >> |Pagina 108A quanto pare, abbiamo accettato il carico di una routine quotidiana spesso opprimente, ma compensata periodicamente da brevi fughe, con una capacità di spesa che ci dà l'illusione della libertà. Forse non ha torto Hakim Bey quando predica: «Il turismo è la quintessenza del feticismo della merce. È l'ultimo culto del cargo - l'adorazione di beni che non arrivano mai, perché sono stati esaltati oltre il limite della mortalità e della moralità». Sembra quasi che comprare merci e servizi - consumando come tali anche le destinazioni turistiche - possa guarirci dal male di correre, ciascuno dentro la propria gabbia. Con la voglia più o meno repressa di andare via e di cambiare aria. Un anelito generalizzato, che molti spot pubblicitari non si fanno scrupolo di cavalcare.Se la sicurezza delle destinazioni turistiche consente svago e relax, l'insicurezza diventa un boomerang, in particolar modo per la società postindustriale generatrice di turismo. La quale, senza l'utopia turistica, rischierebbe di trovarsi a corto di una importante valvola di sfogo. Naturalmente esistono altre opportunità - più o meno lecite - per trascendere la quotidianità, come lo sport, i grandi concerti, l'intrattenimento televisivo, lo shopping, la religione, le sagre paesane, il sesso più o meno trasgressivo, le feste comandate, le droghe leggere e pesanti, l'alcool. L'importante è riempire il vacuum, il vuoto, generato dalla vacanza, con cuccagne a tempo determinato. | << | < | > | >> |Pagina 112Ultima e massiva spedizione di una lunga serie di missioni religiose, scientifiche, commerciali e militari, il turismo si trova drammaticamente disarmato e innocente in territori che spesso si rivelano ostili. Ma il rischio non è soltanto suo, è un rischio globale. In sintesi: «L'umanità è esposta a gravi pericoli nella misura in cui molte persone nel mondo lottano semplicemente per sopravvivere e per veder crescere i loro figli». Il guaio è che al turista medio le ragioni storiche e sociali di tali difficoltà e ostilità sfuggono, o non interessano affatto: l'importante è sentirsi sicuri. In questo senso, il turismo consiste, sì, nel coprire distanze, ma anche nel frapporle.A questo punto è tempo di delineare due possibili modelli di sviluppo futuro del turismo internazionale. In sostanza, possiamo configurare due scenari opposti: quello del distacco sorvegliato e quello dell'integrazione. Il primo comporta una progressiva militarizzazione del turismo; il secondo una sua maggiore permeabilità e un suo contributo a risolvere quei problemi - di povertà e ingiustizia - che la dittatura del capitale finanziario e il liberismo economico aggravano, anziché sanare. Questi due modelli, opposti, attualmente convivono. Quale prevarrà, è difficile dire. Dipende anche da noi, dalle nostre scelte di viaggiatori, turisti, consumatori. Ma soprattutto di persone che quando vanno in vacanza non lasciano a casa la testa. | << | < | > | >> |Pagina 1327.
Secondo scenario: il turismo permeabile
Per un turismo aperto e sprotetto Nell'ultima pagina del capolavoro di Ernest Hemingway Il vecchio e il mare, una coppia di turisti confonde i resti del pescespada, legato alla barca del vecchio Santiago, con quelli di uno squalo. L'errore è madornale per chi ha seguito il dramma del pescatore che rientra al porto, con lo scheletro spolpato del suo pesce, dopo giorni di lotta estenuante proprio contro gli squali. L'equivoco in cui i turisti incappano è dovuto a fretta e superficialità: non stanno neppure ad ascoltare le parole del cameriere che si accinge a spiegare la storia, e così confondono la preda con il predatore. Hemingway, elegantemente, non commenta la gaffe. Capire, in senso etimologico, è capacità di contenere. Vuol dire fare spazio dentro di sé per accogliere nuovi stimoli, o per lo meno per prendere in considerazione la diversità, prima di rifuggirla con timore. Di solito, per capire come stanno o come vanno le cose occorre un po' di tempo. Se non altro, per non fare brutte figure. Intendo proprio quel tempo che è mancato alla coppia di turisti in visita a Cuba, descritta dal grande romanziere americano. Capire la diversità, in viaggio, non è un dovere. Casomai è un diritto. È una cosa piacevole, che si fa con tutti i sensi compreso il gusto, come suggerisce Italo Calvino in un bel racconto ambientato in Messico: «Il vero viaggio, in quanto introiezione d'un "fuori" diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell'alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura [...]. Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona». Posto, naturalmente, che al viaggiatore interessi ancora stupirsi e perdere i propri pregiudizi. [...] Ma capire, comprendere gli usi e le ragioni degli ospiti, a cosa serve? Come ho anticipato nel ragionamento di apertura, capire è degno di per sé. Questa dignità turistica già ci pone su un livello relazionale più corretto. In circostanze difficili forse non servirà a salvare la pelle, ma a evitare di metterla stupidamente a rischio, sì. Cambiare modello si può. La via alternativa alla militarizzazione del turismo è praticare un turismo integrato e non refrattario. Un turismo aperto e sprotetto. Nel mondo della tecnologia informatica, per sprotezione s'intende l'apprendimento e la diffusione di espedienti che tolgono la protezione ai software coperti da copyright. Spesso si tratta di programmi che entrano in altri programmi, rendendoli insicuri, cioè accessibili a tutti. A volte questa accessibilità, che produce una condivisione allargata a un gran numero di utenti, permette di migliorarli, quei programmi. [...] Che cosa c'entrano le guerre e le guerriglie delle regioni che sorvoliamo, seduti sulla stretta poltroncina del jet, il naso schiacciato sull'oblò, ignorando tutto di quelle vite? Beh, evidentemente nessi e legami (r)esistono, anche se abbiamo deciso di andarcene in vacanza senza impegni, e di staccare la spina. Il mondo in cui viaggiamo, che si presenta con i suoi dolori e le sue delizie, con orrende torce umane e squisiti kebab nel cuore di Roma o di Parigi, è uno solo. Gli accidenti e le bellezze del mondo non si possono ignorare, per il semplice motivo che ci vengono a cercare. La politica dello struzzo non è più possibile: i confronti sono ovunque, ci aspettano anche sotto la sabbia. Secondo la scrittrice Aminata Traoré, ministro della Cultura del Mali dal 1997 al 2000, abbiamo molto da imparare dalla concezione africana dell'uomo, che «ci predispone a essere i protagonisti di una mondializzazione veramente ideale perché vantaggiosa per tutti, in funzione non tanto dell'abbondanza dei beni e dei servizi, ma della diversità dei popoli e delle culture». E continua: «Il dramma del mondo contemporaneo è che le nazioni ricche - dall'11 settembre 2001 soprattutto Stati Uniti e Gran Bretagna - fanno finta di ignorare il legame tra il rullo compressore che hanno messo in moto in nome del progresso e della civiltà e l'indigenza umana che oggi si diffonde dappertutto, senza risparmiare neanche i loro paesi». [...] La qualità della vita non sta nell'extralusso, altrimenti i potenti della Terra sarebbero tutti contenti e non farebbero le guerre. La qualità, della vita e del turismo, sta nei rapporti umani. Nella verità degli incontri, nella crescita interiore, a contatto con la natura e con le persone. La qualità, e la gioia, nonostante tutte le difficoltà, stanno nello scambio di esperienze e nella fiducia.
Se il nostro modo di viaggiare diverrà più permeabile, non cambierà soltanto
l'uso del tempo libero, ma cambierà il nostro stile di vita e cambierà il mondo.
Perché, in fine, siamo tutti misteriosi viaggiatori in orbita sullo stesso
pianeta.
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