Copertina
Autore Elias Canetti
Titolo Auto da fé
SottotitoloCon l'aggiunta del saggio «Il mio primo libro: Auto da fé»
EdizioneAdelphi, Milano, 2009 [1999], Gli Adelphi 195 , pag. 548, cop.fle., dim. 12,5x19,6x2,7 cm , Isbn 978-88-459-1654-0
OriginaleDie Blendung
EdizioneCarl Hanser, München Wien, 1996
TraduttoreLuciano Zagari, Bianca Zagari
LettoreDavide Allodi, 2010
Classe narrativa bulgara , narrativa tedesca , libri
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Indice


I.  UNA TESTA SENZA MONDO           11

    La passeggiata                  13
    Il mistero                      31
    Confucio pronubo                41
    La conchiglia                   55
    Mobili accecanti                67
    Signora carissima               81
    Mobilitazione                   96
    La morte                        110
    La malattia                     121
    Giovane amore                   133
    Giuda e il Salvatore            141
    Un milione in eredità           153
    Bastonate                       162
    Pietrificato                    174

II. UN MONDO SENZA TESTA            189

    Il paradiso ideale              191
    La gobba                        219
    La grande pietà                 234
    Quattro e il loro futuro        253
    Rivelazioni                     273
    Morta di fame                   287
    L'adempimento                   307
    Il ladro                        320
    Proprietà privata               337
    Una mezza porzione              370

III.IL MONDO NELLA TESTA            417

    Il buon padre                   419
    Pantaloni                       432
    Un manicomio                    450
    Vie traverse                    474
    L'astuto Ulisse                 487
    Il gallo rosso                  522

Il mio primo libro: Auto da fé      533



 

 

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Pagina 13

La passeggiata



«Che fai qui, ragazzo?».

«Niente».

«E allora perché ci stai?».

«Così...».

«Sai già leggere?».

«Oh sì».

«Quanti anni hai?».

«Nove compiuti».

«Cosa ti piace di più: una tavoletta di cioccolata o un libro?».

«Un libro».

«Davvero? Ma bravo. Allora è per questo che te ne stai qui?».

«Sì».

«E perché non l'hai detto subito?».

«Papà mi sgrida».

«Ah, ecco. Come si chiama tuo padre?».

«Franz Metzger».

«Ti piacerebbe andare in un paese straniero?».

«Sì. In India. Là ci sono le tigri».

«E poi dove?».

«In Cina. C'è un'enorme muraglia».

«Ti piacerebbe scavalcarla, vero?».

«È troppo spessa e troppo grande. Nessuno può scavalcarla. Proprio per questo l'hanno costruita».

«Quante cose sai! Hai già letto molto, tu».

«Sì, leggo sempre. Papà mi toglie i libri. Mi piacerebbe frequentare una scuola cinese. Là s'imparano quarantamila lettere. Non c'entrano nemmeno tutte in un libro».

«Questo lo pensi tu».

«Ho fatto il conto».

«Però le cose non stanno così. Lascia perdere i libri in vetrina. È roba che non vale niente. Nella mia borsa ho qualcosa di bello. Aspetta, te lo faccio vedere. Sai che scrittura è questa?».

«Cinese! Cinese!».

«Ma sei proprio un ragazzino sveglio! Ne hai già visti di libri cinesi?».

«No, l'ho indovinato».

«Questi due segni significano Mong Tse, cioè il filosofo Mong. È stato un grand'uomo, in Cina. È vissuto 2250 anni fa, e lo si legge ancor oggi. Te ne ricorderai?».

«Sì. Adesso devo andare a scuola».

«Ah, così ti guardi le librerie mentre vai a scuola! E tu come ti chiami?».

«Franz Metzger. Come mio padre».

«E dove abiti?».

«Ehrlichstrasse 24».

«Ci abito anch'io. Ma non riesco proprio a ricordarmi di te».

«Lei guarda sempre dall'altra parte, quando qualcuno la incontra per le scale. Io la conosco da tanto tempo. Lei è il professor Kien, però non ha niente a che fare con la scuola. La mamma dice che lei non è un professore. Io però penso di sì, perché lei ha una biblioteca. Una cosa da non credersi, dice Maria. Maria è la nostra donna di servizio. Quando sarò grande voglio una biblioteca. Ci dovranno essere tutti i libri, in tutte le lingue, anche uno cinese come questo. Adesso devo scappare».

«Chi ha scritto questo libro? Te lo ricordi?».

«Mong Tse, il filosofo Mong. Esattamente 2250 anni fa».

«Berle. Puoi venire, una volta, a vedere la mia biblioteca. Di' alla governante che t'ho dato il permesso io. Ti mostrerò illustrazioni dell'India e della Cina».

«Magnifico! Ci vengo! Ci vengo di sicuro! Oggi pomeriggio?».

«No, no, ragazzo. Devo lavorare. Fra una settimana, non prima».

Il professor Peter Kien, un uomo lungo e asciutto, uno studioso, specialista di sinologia, infilò il libro cinese nella borsa rigonfia che teneva sotto il braccio, la chiuse con cura e seguì con lo sguardo, finché non fu scomparso, quel ragazzo dalla mente così pronta. Taciturno e scontroso per natura, si rimproverò quella conversazione che aveva avviato senza una vera necessità.

Aveva l'abitudine, durante le passeggiate che compiva fra le sette e le otto del mattino, di dare un'occhiata alle vetrine di tutte le librerie che trovava sulla propria strada. Quasi con gioia constatava che robaccia e porcherie d'ogni genere occupavano sempre più spazio. Quanto a lui, possedeva la più importante biblioteca privata di quella grande città, e ne portava sempre con sé una piccola parte. La sua passione per i libri, l'unica che si concedesse in un'esistenza severa e laboriosa, lo costringeva a rispettare molte misure precauzionali. Era facile che un libro, magari insignificante, lo tentasse all'acquisto. Per fortuna, la maggior parte delle librerie apriva solo dopo le otto. Qualche volta un giovane apprendista che voleva guadagnarsi la fiducia del principale faceva la sua comparsa anche più presto e stava ad aspettare il primo commesso, al quale toglieva solennemente le chiavi di mano. «Sono qui dalle sette, io» esclamava, oppure: «Non posso entrare». Un Kien si faceva contagiare facilmente da tanto zelo; gli costava un grosso sforzo dominarsi e non entrare sui due piedi. Fra i proprietari delle librerie minori non mancavano i tipi mattinieri, che già alle sette e mezzo si davano da fare dietro le porte aperte. Per non cedere a queste tentazioni, Kien batteva col palmo della mano sulla sua borsa gonfia di volumi. Se la teneva stretta addosso, in una maniera speciale che aveva escogitato lui perché vi fosse sempre tra essa e il suo corpo il più ampio contatto possibile. Le costole la sentivano oltre l'abito sottile, di qualità scadente. La parte superiore del braccio veniva a disporsi lungo la piega laterale della borsa, dove entrava di giusta misura. Sotto, l'avambraccio fungeva da sostegno. Le dita divaricate si stendevano con voluttà su tutta la superficie. Scusava davanti a se stesso questa cura eccessiva accampando il valore del contenuto. Se la borsa per caso finiva a terra, se la serratura, che lui controllava ogni mattina prima di uscire, si apriva proprio in quell'istante pericoloso, per quelle opere preziose era la fine. Niente lo disgustava più di un libro insudiciato.

Quel mattino, tornando verso casa, s'era fermato davanti a una vetrina e improvvisamente un ragazzo s'era infilato tra lui e il vetro. Kien giudicò questa mossa un atto di maleducazione. Di spazio ce n'era abbastanza. Lui si metteva sempre a un metro di distanza dal vetro; nondimeno leggeva senza il minimo sforzo ogni lettera al di là della vetrina. I suoi occhi funzionavano a meraviglia; cosa notevole in un uomo di quarant'anni che passava tutta la giornata chino su libri e manoscritti. Ogni mattina i suoi occhi gli confermavano l'eccellenza del loro stato. Nella distanza che manteneva tra sé e quei libri offerti in vendita alla massa si esprimeva inoltre quel disprezzo che, rispetto alle opere ponderose e indigeste della sua biblioteca, essi meritavano ampiamente. Il ragazzo era basso, Kien di statura non comune. Si sarebbe aspettato un maggior ossequio. Prima di rimproverargli il suo modo di comportarsi, si spostò di lato, per osservarlo. Il ragazzo teneva gli occhi fissi sui titoli dei libri e muoveva le labbra lentamente, quasi in silenzio. Passava senza stancarsi da un volume all'altro. Ogni due minuti girava di scatto la testa. Sull'altro lato della strada c'era un enorme orologio appeso sopra una bottega di orologiaio. Erano le otto meno venti. Era evidente che il ragazzo temeva di far tardi a qualcosa di importante. Non prestava alcuna attenzione al signore che gli stava dietro. Forse faceva esercizio di lettura; forse imparava i titoli a memoria. Riservava a tutti un trattamento uguale ed equanime. Si vedeva chiaramente su quale punto fermava un attimo di più la sua attenzione.

Kien ne ebbe pena. Perdendosi dietro a quella roba volgare guastava il suo spirito fresco, forse già assetato di letture. Più tardi avrebbe letto certi libracci solo perché il titolo gli era familiare fin da bambino. Com'è possibile porre un limite alla ricettività dei primi anni? Un bambino, non appena ha imparato a camminare e sillabare, si ritrova esposto senza pietà ai pericoli di una qualche strada sconnessa, alle insidie di un qualsiasi mercante che, sa il diavolo per quale motivo, s'è messo nei libri. I piccoli dovrebbero crescere in una buona biblioteca privata. Il contatto quotidiano ed esclusivo con spiriti austeri, un luogo dove regnino saggezza, penombra, silenzio, l'abitudine tenace all'ordine più rigoroso, nello spazio come nel tempo: quale ambiente potrebbe meglio aiutare creature tanto fragili a superare gli anni della giovinezza? L'unica persona che in quella città possedesse una biblioteca privata degna di considerazione era appunto Kien. Lui non poteva prendersi bambini in casa. Il suo lavoro non gli permetteva divagazioni. I bambini fanno chiasso. Bisogna occuparsi di loro. Per curarli è necessaria una donna. Per la cucina basta una governante qualunque, ma per i bambini bisogna tenersi in casa una madre. Se una madre fosse solo una madre: ma quale donna si contenta di quello che è il suo vero ufficio? Una donna, prima di tutto, è una donna, e come tale avanza pretese che uno studioso serio non si sognerebbe neppure lontanamente di soddisfare. Di una moglie Kien fa volentieri a meno. Finora le donne gli sono state indifferenti, e indifferenti continueranno a essergli. Chi ci rimette è il ragazzo dagli occhi sgranati e dalla testa in fermento.

Gli aveva rivolto la parola spinto da un senso di pena, e contro le proprie abitudini. Si sarebbe liberato volentieri dei suoi sentimenti pedagogici con una tavoletta di cioccolata. Ma a questo punto era venuto fuori che esistono bambini di nove anni capaci di preferire un libro a una tavoletta di cioccolata. Ciò che poi era venuto a sapere l'aveva sorpreso ancora di più. Il ragazzo s'interessava alla Cina. Leggeva contro la volontà di suo padre. Le voci sulle difficoltà della scrittura cinese lo stimolavano invece di spaventarlo. La riconosceva subito senza averla mai vista. La prova d'intelligenza l'aveva superata con lode. Non aveva toccato il libro che gli veniva mostrato. Forse aveva le dita sporche e se ne vergognava. Kien le aveva esaminate: erano pulite. Un altro avrebbe cercato di afferrare il libro anche con le dita sporche. Aveva fretta, la scuola cominciava alle otto, ma rimaneva là fino all'ultimo istante. S'era buttato sull'invito come un affamato, certo il padre doveva proprio tormentarlo. Fosse stato per lui sarebbe venuto subito, già nel pomeriggio, in pieno orario di lavoro. Abitava nella stessa casa.

Kien arrivò a perdonarsi di aver attaccato discorso. L'eccezione che s'era concessa pareva giustificata. Rivolse il pensiero al ragazzo ormai scomparso dalla strada e salutò in lui un futuro sinologo. Chi mai s'interessava a quella scienza tanto remota? I bambini giocavano a pallone, gli adulti si occupavano del guadagno, il tempo libero lo passavano pensando all'amore. Per dormire otto ore e non far niente per altre otto dedicavano il resto del tempo a un lavoro che detestavano. Non solo del ventre avevano fatto una divinità, ma di tutto il loro corpo. Il dio celeste dei cinesi era più severo e più dignitoso. Anche se la settimana prossima il ragazzo non fosse venuto, cosa abbastanza inverosimile, un nome ormai l'aveva in testa comunque, un nome difficile da dimenticare: quello del filosofo Mong. Proprio le spinte occasionali e inattese danno agli uomini un indirizzo per la vita.

Sorridendo, Kien proseguì il cammino verso casa. Sorrideva di rado. Non è frequente che la maggiore aspirazione di qualcuno sia quella di possedere una biblioteca. A nove anni l'oggetto dei suoi desideri era invece una libreria. L'idea di andarvi su e giù da proprietario gli appariva, allora, sacrilega. Un libraio è un re, un re non può essere un libraio. Sapeva di essere troppo giovane per fare il commesso. I fattorini venivano sempre mandati in giro. Che piacere avrebbe ricavato dai libri se si fosse dovuto limitare a portarli impacchettati sottobraccio? Cercò a lungo una soluzione. Un giorno, dopo la scuola, non tornò a casa. Entrò nel negozio più grande della città, sei vetrine piene di libri, e cominciò a piangere forte. «Devo uscire, presto, ho paura che...» frignò. Gli mostrarono il retro del negozio. Lui se l'impresse bene in mente. Alla fine ringraziò e chiese se poteva rendersi utile. La sua faccia raggiante divertì tutti quanti. Non più di un momento prima era stravolta da quella buffa paura. Lo fecero parlare; sui libri sapeva una quantità di cose. Per l'età sua lo trovarono intelligente. Verso sera lo spedirono fuori con un pacco pesante. Lui prese il tram all'andata e al ritorno. Aveva messo da parte il denaro occorrente. Un attimo prima dell'ora di chiusura, già imbruniva, riferì che la commissione era fatta e mise la ricevuta sul bancone. Qualcuno gli dette in premio un dissetante. Mentre i commessi s'infilavano il soprabito lui sgattaiolò nel retrobottega, raggiunse quel tal posticino sicuro e vi si chiuse dentro. Nessuno si accorse di nulla: quelli erano tutti presi dal pensiero della loro serata libera. Aspettò a lungo là dentro. Solo dopo molto tempo, a tarda sera, osò uscire. Nel negozio era tutto buio. Cercò l'interruttore. Di giorno non vi aveva pensato. Lo trovò, e già vi teneva sopra la mano, quando il pensiero di accendere la luce lo spaventò. E se qualcuno lo vedeva dalla strada e lo riportava a casa?

I suoi occhi s'abituarono da soli all'oscurità. Leggere tuttavia non poteva, questo era davvero un peccato. Toglieva dagli scaffali un volume dopo l'altro, ne sfogliava le pagine e riusciva persino a decifrare qualche titolo. Più tardi si arrampicò qua e là sulla scaletta. Voleva scoprire se i ripiani più alti nascondevano qualche segreto. Cadde a terra e disse: «Non mi sono fatto male!». Il pavimento era duro. I libri erano morbidi. In una libreria si cade sui libri. Con essi avrebbe potuto costruire una torre, ma giudicava il disordine una cosa volgare e prima di prendere in mano un nuovo volume rimetteva a posto il precedente. La schiena gli doleva. Forse era soltanto stanchezza. A casa sarebbe stato a letto già da un pezzo. Qui non era possibile, l'eccitazione lo teneva sveglio. Ma ormai i suoi occhi non riuscivano a distinguere nemmeno i titoli più grandi, e ciò l'indispettiva assai. Provò a calcolare quanti anni uno sarebbe potuto rimanere lì dentro a leggere senza metter piede una sola volta in strada o in quella stupida scuola. Perché non restare sempre lì? I soldi per un lettino sarebbe pur riuscito a metterli da parte. La mamma avrebbe avuto paura. Anche lui, ma solo un poco, per via di quel gran silenzio. I lampioni a gas della strada si spensero. Tutt'intorno strisciarono le ombre. I fantasmi dopotutto esistevano sul serio. Di notte si raccoglievano tutti là dentro e si accoccolavano sui libri. E leggevano. La luce a loro non serviva, avevano occhi tanto grandi. Ora, su in alto, lui non avrebbe più osato toccare un solo libro, no davvero, e neanche in basso. Si rifugiò sotto il bancone battendo i denti. Diecimila libri, e su ognuno sedeva un fantasma. Per questo c'era tanto silenzio. A volte li sentiva sfogliare le pagine. Leggevano svelti proprio come lui. Avrebbe potuto abituarcisi, ma erano diecimila, uno di loro poteva anche mordere. I fantasmi si stizziscono se uno li sfiora, credono che li si voglia prendere in giro. Si fece piccolo piccolo; loro gli svolazzavano sopra la testa. Il mattino non venne che dopo molte notti. Allora si addormentò. Quando il negozio venne aperto lui non si accorse di nulla. Lo trovarono sotto il bancone e lo scossero fino a svegliarlo.

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Pagina 48

Giusto, le aveva promesso un libro. Per lei non si poteva prendere in considerazione altro che un romanzo. Non che dai romanzi la mente tragga molto nutrimento. Il piacere che forse offrono lo si paga a carissimo prezzo: essi finiscono per guastare anche il carattere più solido. Ci si abitua a immedesimarsi in chicchessia. Si prende gusto al continuo mutare delle situazioni. Ci s'identifica con i personaggi che piacciono di più. Si arriva a capire qualunque atteggiamento. Ci si lascia guidare docilmente verso le mete altrui e per lungo tempo si perdono di vista le proprie. I romanzi sono dei cunei che un attore con la penna in mano insinua nella compatta personalità dei suoi lettori. Quanto più precisamente egli saprà calcolare la forza di penetrazione del cuneo e la resistenza che gli verrà opposta, tanto più ampia sarà la spaccatura che rimarrà nella personalità del lettore. I romanzi dovrebbero essere proibiti per legge.

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Pagina 74

Kien balzò in piedi e senza voltarsi ordinò:

«Silenzio! Non una parola di più. I mobili restano come sono. Ogni discussione è superflua. D'ora in poi terrò chiusa la porta che comunica con le tue stanze. Ti proibisco di metter piede in questo locale finché ci sono io. Se mi serviranno i libri che stanno di là me li verrò a prendere. All'una in punto e alle sette in punto mi presenterò a tavola. Raccomando di non chiamarmi perché l'orologio so leggerlo da me. Se verrò disturbato prenderò adeguate misure. Il mio tempo è prezioso. E adesso, fuori!».

Diede il segnale facendo schioccare le punte delle dita. Aveva trovato le parole giuste: chiare, precise, ben scandite. Come avrebbe potuto replicare, lei, col suo linguaggio grossolano? Infatti se ne andò e si chiuse alle spalle la porta di comunicazione. Finalmente gli era riuscito di mandare all'aria i suoi piani ciarlieri. Anziché stipulare dei contratti, per lo spirito dei quali lei non mostrava alcuna considerazione, le aveva fatto vedere chi era il padrone. Qualcosa aveva dovuto sacrificare: la vista sulla fuga delle stanze in penombra tappezzate di libri, l'assenza di mobili superflui nel suo studio. Ma ciò che aveva ottenuto in cambio valeva, ai suoi occhi, molto di più, ed era la possibilità di proseguire il suo lavoro, per il quale la prima e suprema condizione era la quiete. Lui aveva bisogno del silenzio come gli altri dell'aria.

Comunque la prima cosa da fare era abituarsi ai radicali cambiamenti subiti da ciò che lo circondava. Per alcune settimane fu tormentato dalla ristrettezza del suo nuovo alloggio. Confinato in un quarto dello spazio che aveva prima a sua disposizione, cominciò a comprendere quanto fosse miserevole lo stato dei prigionieri che un tempo — che occasione unica per capire meglio le cose, mentre in libertà gli uomini non capiscono mai nulla di nuovo — egli aveva stimato, in contrasto con l'opinione corrente, felici. Era finita la possibilità di andare su e giù mentre in lui maturava qualche grande idea. Prima, quando tutte le porte erano ancora aperte, l'intera biblioteca veniva percorsa da un vento salutare. I lucernari facevano entrare aria e pensieri. Nei momenti di eccitazione era possibile alzarsi e percorrere un paio di volte quaranta metri in su e quaranta metri in giù. La vista senza ostacoli che s'apriva verso l'alto corrispondeva a quella vastità ristoratrice. Attraverso i vetri si potevano cogliere le condizioni generali del cielo, più attenuate però e più quiete di quanto fossero nella realtà. Un azzurro pallido diceva: il sole splende, ma non fino a me. Un grigio altrettanto pallido: pioverà, ma non su di me. Un lieve rumore tradiva la caduta delle gocce. Si percepivano da lontano, senza venirne toccati. Si sapeva soltanto: splende il sole, corrono le nuvole, cade la pioggia. Era come se uno si fosse barricato contro la terra; come se si fosse costruito, contro ogni rapporto puramente materiale, contro ogni realtà strettamente planetaria, una cabina, un'enorme cabina, grande abbastanza da poter contenere quel poco che sulla terra è più che terra, più che la polvere in cui la vita alla fine si dissolve; e poi l'avesse serrata ermeticamente e riempita di quel poco. Pur viaggiando attraverso l'ignoto, era come non viaggiare affatto. Era sufficiente convincersi, guardando attraverso i vetri, che talune leggi di natura continuavano a funzionare: l'alternarsi del giorno e della notte, l'incessante, capriccioso variare del clima, il flusso del tempo; così si viaggiava senza accorgersene.

Ora la cabina s'era rimpicciolita. Quando Kien alzava gli occhi dal suo scrittoio, che era collocato di traverso in un angolo della stanza, si vedeva davanti un'assurda porta. Certo, al di là di essa c'erano tre quarti della biblioteca, lui avvertiva la presenza dei suoi libri, l'avrebbe avvertita attraverso cento porte; ma l'amareggiava dover avvertire la presenza di ciò che prima poteva toccare con mano. Talvolta si rimproverava d'avere smembrato di sua volontà un organismo unitario, la sua stessa creatura. I libri non avevano vita, d'accordo, mancava loro la capacità di sentire e quindi anche di soffrire come soffrono invece gli animali e probabilmente anche le piante. Ma chi ha mai dimostrato con prove veramente sicure che la materia inorganica è priva di sensibilità, chi può mai sapere se un libro non senta, in una maniera che noi non conosciamo e quindi ci sfugge, nostalgia per gli altri libri ai quali è stato vicino per tanto tempo? Ogni essere pensante conosce momenti in cui i confini tradizionali tracciati dalla scienza fra mondo organico e mondo inorganico gli appaiono artificiali e superati, al pari di tutti i confini posti dall'uomo. Il nostro segreto rifiuto di questa suddivisione si rivela nell'espressione «materia inerte». Se una cosa è morta vuol dire che è stata viva. Anche se siamo costretti ad ammettere che una certa sostanza non ha vita, le auguriamo che almeno l'abbia avuta un tempo. Ciò che a Kien sembrava più strano era che si tenessero in minor conto i libri degli animali. La cosa più potente, che determina le nostre mete e quindi la nostra esistenza, dovrebbe partecipare della vita meno della nostra impotente vittima, l'animale? Lui ne dubitava, e tuttavia si sottometteva all'opinione corrente. La forza di uno studioso consiste nel limitare tutti i dubbi al proprio campo di specializzazione. In questo modo egli dà loro sfogo, ed essi sono per lui come marosi incessanti e ostinati; negli altri campi, e per la vita nel suo insieme, si rimette alle idee dominanti. Lui ha buoni motivi per dubitare dell'esistenza del filosofo Li-Tse. E viceversa tiene per certo che la terra giri intorno al sole e la luna intorno a noi.

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Pagina 78

Quando si lavava, Kien chiudeva gli occhi per proteggerli dall'acqua. Si trattava di una sua antica abitudine. Serrava le palpebre con forza assai maggiore di quanto non sarebbe stato necessario per impedire il passaggio dell'acqua. Le precauzioni che prendeva per i suoi occhi non gli sembravano mai sufficienti. Ora, con il nuovo lavandino, questa antica abitudine gli tornò molto utile. Appena sveglio, la mattina, si rallegrava all'idea di lavarsi. Infatti, in quale altro momento della giornata era così libero dai mobili? Chinato sulla bacinella, non vedeva nessuno di quegli oggetti traditori. (Tutto ciò che lo distraeva dal lavoro era, in fondo, un tradimento). Immerso nella bacinella, la testa sott'acqua, vagheggiava gli anni passati. Allora regnava il vuoto, una tranquilla intimità. Felici congetture si libravano nello spazio senza incontrare ostacoli. C'era un divano che non faceva troppo sentire la propria presenza, si sarebbe potuto credere che non ci fosse nemmeno, quasi fosse un miraggio che appariva all'estremo orizzonte per scomparire subito dopo.

Andò da sé che Kien prese gusto a tenere gli occhi chiusi. Quando aveva finito di lavarsi, non li riapriva subito e si cullava qualche attimo nell'illusione dell'improvvisa scomparsa dei mobili. E prima ancora di trovarsi davanti al lavandino, appena sceso dal letto, chiudeva gli occhi pregustando il sollievo che avrebbe provato. Come tutti gli uomini abituati a combattere contro le proprie debolezze, a render conto a se stessi delle proprie azioni e a fare ogni sforzo per nobilitarsi, egli diceva a se stesso che questa non era una debolezza, ma, al contrario, una forza. Bisognava favorirla, quand'anche ne fosse venuta fuori una grossa stramberia. Chi ne avrebbe mai saputo niente? Lui viveva solo; ciò che era utile alla scienza aveva maggiore importanza dell'opinione della massa. Therese non l'avrebbe colto sul fatto, non avrebbe osato sorprenderlo nella sua stanza contravvenendo al suo divieto.

Dapprima prolungò lo stato di cecità fino a comprendervi i minuti che impiegava a vestirsi. Poi riuscì a raggiungere a occhi chiusi lo scrittoio. Avendo evitato di guardare ciò che stava dietro di lui, lo dimenticava, una volta al lavoro, tanto più facilmente. Davanti allo scrittoio lasciava piena libertà ai suoi occhi, ed essi godevano al ritrovarsi aperti, acquistavano agilità. Forse acquistavano vigore in quei momenti di riposo che lui accordava loro, tanto generosamente. Li proteggeva da assalti improvvisi. Li adoperava soltanto laddove il loro impiego risultava fruttuoso: per leggere e per scrivere. Andava a prendersi a occhi chiusi i libri che gli servivano. All'inizio rideva lui stesso di quelle stranezze. Quante volte gli capitava di prendere un libro sbagliato e di tornarsene allo scrittoio a occhi chiusi senza sospettare di nulla. Là poi s'accorgeva d'essersi tenuto tre volumi più a destra, o uno più a sinistra, o, talvolta, addirittura troppo in basso, un intero scaffale più sotto. Ma non se ne crucciava, e si metteva pazientemente in cammino una seconda volta. Non di rado gli veniva voglia di sbirciare il titolo, di adocchiare il dorso del libro prima d'essere arrivato. Allora strizzava gli occhi, e in certi casi dava una sbirciatina distogliendo subito dopo lo sguardo. Il più delle volte però riusciva a dominarsi e aspettava di essere nuovamente allo scrittoio, dove il guardare non comportava rischi di sorta.

A furia di esercitarsi divenne un vero maestro nel camminare a occhi chiusi. In capo a tre, quattro settimane fu in grado di trovare nel tempo più breve ciò che voleva, senza inganni o sotterfugi, tenendo gli occhi veramente serrati; una benda non l'avrebbe reso più cieco. Il suo istinto non lo tradiva nemmeno quand'era sulla scaletta. La appoggiava esattamente nel punto dove serviva. Vi si afferrava da tutte e due le parti con le sue dita lunghe e nervose, e saliva a occhi chiusi. Anche in cima o nello scendere conservava l'equilibrio senza sforzo. Riuscì persino a eliminare, incidentalmente, alcune difficoltà che quando si muoveva a occhi aperti non aveva mai superato del tutto, dal momento che non attribuiva loro alcuna importanza. Così, adesso che faceva il cieco, si abituò a usare le gambe. Prima gli erano d'impaccio in ogni movimento; erano troppo sottili in proporzione alla loro lunghezza. Ora si muovevano con passi sicuri e ben calcolati. Pareva che fossero diventate più grasse e muscolose; lui si affidava a loro ed esse lo sostenevano. Vedevano per lui votato alla cecità; e lui a sua volta aiutava con gambe nuove e migliori quelle che un tempo mancavano di robustezza.

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Pagina 96

Mobilitazione



Per anni la casa al numero 24 della Ehrlichstrasse era stata al sicuro da accattoni e venditori ambulanti. Giorno per giorno il portinaio stava in agguato nella sua guardiola vicinissima all'atrio e fermava ogni figura losca. A coloro che facevano assegnamento sulla compassione, lo spioncino ovale che s'apriva ad altezza d'uomo sopra la scritta PORTIERE incuteva una paura diabolica. Ogni volta che vi passavano davanti si chinavano come avessero ricevuto Dio sa quale dono e ringraziassero dal profondo del cuore. Ma la loro precauzione era vana. Al normale spioncino il portiere non dedicava alcuna attenzione. Quando loro cercavano di passare strisciando al di sotto di esso, già da un pezzo erano stati notati. Lui aveva un suo personale e sperimentato sistema. Da buon poliziotto in pensione era scaltro e insostituibile. Li avvistava sì attraverso uno spioncino, ma non quello a cui loro cercavano di sottrarsi.

A cinquanta centimetri da terra aveva praticato nel muro della guardiola un secondo spioncino. Qui, nel punto in cui nessuno avrebbe mai supposto la sua presenza, si metteva in ginocchio e stava all'erta. Il mondo per lui era fatto di gonne e pantaloni. Quelli portati dagli inquilini li conosceva perfettamente, gli altri li giudicava dal taglio, dal valore e dal decoro. In queste valutazioni aveva ormai la stessa sicurezza di cui un tempo dava prova nell'arrestare qualcuno. Di rado si sbagliava. Quando compariva qualche individuo sospetto, lui tendeva, ancora in ginocchio, il braccio corto e nerboruto verso la maniglia della porta che – altra sua invenzione – era applicata alla rovescia: l'impeto con cui balzava in piedi la faceva scattare. Poi investiva urlando l'individuo e lo malmenava fino a lasciarlo mezzo morto. Il primo di ogni mese, quando gli portavano la pensione, lasciava via libera a tutti. Gli interessati lo sapevano e si presentavano in fitte schiere agli inquilini, la cui fame di mendicanti era rimasta insaziata per trenta giorni. Il due o il tre del mese qualche ritardatario riusciva ancora a passare, o per lo meno non veniva liquidato così crudelmente. Dal quattro in poi solo i novellini tentavano la sorte.

Kien, dopo un piccolo incidente, aveva stretto amicizia con lui. Una sera rincasava da una passeggiata inconsueta e nell'atrio era già buio. All'improvviso qualcuno l'aveva apostrofato:

«Lurido pezzente, vuoi che ti trascini alla polizia?».

Il portiere era schizzato fuori dalla guardiola saltandogli alla gola. Questa si trovava assai in alto, e non era facile raggiungerla. L'uomo s'era accorto del suo grossolano errore e se n'era vergognato: era in gioco il suo prestigio d'estimatore di calzoni. Con gentilezza strisciante aveva trascinato Kien nella guardiola rivelandogli il segreto della sua invenzione, e aveva ordinato ai suoi quattro canarini di cantare. Questi non ne avevano voluto sapere. Kien aveva cominciato a capire a chi doveva la propria tranquillità: da alcuni anni infatti i mendicanti non suonavano più alla sua porta. Il marcantonio gli stava a brevissima distanza nell'angusto stanzino, e lui aveva promesso all'uomo, a suo modo solerte, una «gratifica» mensile. La somma che gli aveva nominato superava le mance che quello riceveva da tutti gli altri inquilini messi insieme. Nel primo impeto di gioia, il portiere era stato sul punto di fracassare i muri della guardiola con i suoi pugni coperti di peli rossicci. Così avrebbe mostrato al benefattore fino a che punto si meritasse quel suo apprezzamento. Era tuttavia riuscito a tenere a freno i muscoli, e spalancando la porta che dava sul corridoio s'era limitato a ruggire: «Conti pure su di me, professore».

Da quel momento, in tutta la casa nessuno aveva più osato parlare di Kien se non come del «professore», sebbene in realtà egli non lo fosse. I nuovi inquilini venivano subito informati di questa essenziale condizione che il portiere poneva alla loro permanenza in quella casa.

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Proprio questo era ciò che ora Kien si proponeva. Spostò la buona, vecchia scaletta fino al punto giusto e vi salì alla rovescia, in modo che le sue spalle toccassero gli scaffali, la sua testa il soffitto, il prolungamento delle sue gambe — e cioè la scala — il pavimento, e i suoi occhi abbracciassero tutto intero lo spazio unitario della biblioteca; quindi tenne alla sua amata il seguente discorso:

«Da qualche tempo o, per esser più precisi, dal momento in cui una potenza estranea si è intromessa nella nostra vita, vado accarezzando l'idea di porre le nostre relazioni su una solida base. La vostra esistenza è garantita a termini di contratto; ma noi, credo bene, siamo abbastanza avveduti da non ignorare il pericolo nel quale voi versate nonostante l'esistenza di tale contratto legalmente valido.

«Non c'è bisogno che vi ricordi nei particolari la storia antichissima e superba delle vostre tribolazioni. Scelgo soltanto un esempio per mostrarvi in maniera persuasiva quanto vicini siano odio e amore. La storia di un paese che tutti noi in egual misura veneriamo, di un paese in cui voi avete goduto delle più grandi attenzioni e dell'affetto più grande, di un paese in cui vi si è tributato persino quel culto divino che ben meritate, narra un orribile evento, un crimine di proporzioni mitiche, perpetrato contro di voi da un sovrano diabolico su istigazione di un consigliere ancor più diabolico. Nell'anno 213 avanti Cristo, per ordine dell'imperatore cinese Shi Hoang-ti — un brutale usurpatore che ebbe persino l'ardire di arrogarsi il titolo di "Primo, Augusto, Divino" — vennero bruciati tutti i libri esistenti in Cina. Quel delinquente primitivo e superstizioso era per parte sua troppo ignorante per valutare tutta l'importanza dei libri in virtù dei quali veniva combattuto il suo tirannico dominio. Ma il suo primo ministro Li-Si, un uomo che doveva tutto ai propri libri, e dunque uno spregevole rinnegato, seppe indurlo, con un abile memoriale, a prendere quell'inaudito provvedimento. Era considerato delitto capitale persino parlare dei classici della poesia e della storia cinese. La tradizione orale doveva venire estirpata a un tempo con quella scritta. Venne esclusa dalla confisca solo una piccola minoranza di libri; quali, potete facilmente immaginare: le opere di medicina, farmacopea, arte divinatoria, agricoltura e arboricoltura — cioè tutta una marmaglia di libri di puro interesse pratico.

«Confesso che il puzzo di bruciato dei roghi di quei giorni giunge ancor oggi alle mie narici. A che giovò il fatto che tre anni più tardi toccasse a quel barbaro imperatore il destino che s'era meritato? Morì, è vero, ma ai libri morti prima di lui non ne venne alcun giovamento. Erano bruciati e tali rimasero. Ma non voglio tacere quale fu, poco dopo la morte dell'imperatore, la fine del rinnegato Li-Si. Il successore al trono, che di lui aveva ben capito la natura diabolica, lo destituì dalla carica di primo ministro dell'impero che egli aveva rivestito per più di trent'anni. Fu incatenato, gettato in prigione e condannato a ricevere mille bastonate. Non un colpo gli venne risparmiato. Mediante la tortura fu costretto a confessare i suoi delitti. Oltre all'assassinio di centinaia di migliaia di libri aveva infatti sulla coscienza anche altre atrocità. Il suo tentativo di ritrattare più tardi quella confessione fallì. Venne segato in due sulla piazza del mercato della città di Hien-Yang, lentamente e nel senso della lunghezza, perché in questo modo il supplizio dura più a lungo. L'ultimo pensiero di questa belva assetata di sangue fu per la caccia. Oltre a ciò non si vergognò di scoppiare in lacrime. Tutta la sua stirpe, dai figli a un pronipote di appena sette giorni, sia maschi che femmine, venne sterminata: tuttavia, invece di essere condannati al rogo, come sarebbe stato giusto, ottennero la grazia di venir passati a fil di spada. In Cina, il paese in cui la famiglia, il culto degli antenati, il ricordo delle singole persone sono tenuti in così gran conto, la memoria del massacratore Li-Si non è stata dunque serbata da alcuna famiglia; solo la storia l'ha fatto, proprio quella storia che l'indegna canaglia, giustiziata con la sega, aveva voluto distruggere.

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I discorsi di Gotamo Buddha, in sé molto amanti della pace, minacciarono con miti parole l'obiezione di coscienza. Lui rise beffardamente e gridò: «Provatevi!». Ma dentro di sé non si sentiva così sicuro come poteva sembrare dal tono della voce. Infatti quei discorsi riempivano dozzine di volumi che stavano lì, l'uno accanto all'altro, in pali, in sanscrito, in traduzioni cinesi, giapponesi, tibetane, inglesi, tedesche, francesi, italiane, un'intera compagnia, una potenza che incuteva rispetto. Giudicò la loro condotta pura e semplice ipocrisia.

«Perché non vi siete messi a rapporto prima?».

«Noi non ti abbiamo applaudito, signore».

«Avreste potuto interrompermi».

«Abbiamo taciuto, signore».

«Questa è proprio una cosa degna di voi!» tagliò corto. Tuttavia il loro silenzio gli rimase come una spina nel cuore. Chi, già alcuni decenni prima, aveva elevato il silenzio a regola suprema della propria esistenza? Proprio lui, Kien. Dove aveva imparato a comprendere il valore del silenzio, a chi doveva questa svolta decisiva nella sua evoluzione spirituale? A Buddha, l'illuminato. Buddha era solito tacere. Forse doveva la sua fama appunto al fatto che taceva tanto. Per il sapere non aveva poi grande interesse. A tutte le possibili domande rispondeva o col silenzio o facendo capire che non valeva la pena dare una risposta. Veniva naturale il sospetto che lui, questa risposta, non la sapesse. Infatti ciò che sapeva, la sua famosa serie causale, una forma primitiva di logica, lo sfoderava ad ogni occasione. Quando non taceva ripeteva sempre la stessa cosa. Se dai suoi discorsi si tolgono le similitudini, che cosa rimane? Appunto la serie causale. Un povero di spirito! Uno spirito che ha messo su pancia per pura inerzia. È possibile immaginarsi un Buddha senza pancia? C'è silenzio e silenzio.

Buddha si vendicò di queste offese inaudite: tacque. Kien s'affrettò a girare tutti i volumi dei discorsi per allontanarsi da quel settore demoralizzante e disfattista.

S'era proposto un compito assai difficile. Prendere decisioni bellicose è presto fatto: poi però si tratta di tenere saldamente in pugno ogni singolo individuo. Gli obiettori di coscienza erano comunque una trascurabile minoranza. Le maggiori opposizioni investirono piuttosto il quarto punto del suo proclama, quello che riguardava la democratizzazione dell'esercito, la prima misura veramente concreta che lui aveva preso. Che cumulo di vanità era necessario superare a questo riguardo! Piuttosto che rinunciare alla loro gloria personale quei pazzi preferivano lasciarsi rubare. Schopenhauer annunciò la sua volontà di vivere, rivelando un postumo attaccamento a questo peggiore fra tutti i mondi. Comunque si rifiutava di combattere spalla a spalla con uno Hegel. Schelling rispolverò le sue vecchie accuse e dimostrò l'identità fra la dottrina di Hegel e la sua, che era di precedente formulazione.

Fichte fece l'eroe gridando: «Io!». Immanuel Kant sostenne più categoricamente di quanto non avesse fatto in vita la necessità di una pace perpetua. Nietzsche enumerò a gran voce i propri titoli, Dioniso, Anti-Wagner, Anticristo, Salvatore. Altri s'intromisero e approfittarono di quel momento, proprio di quel momento, per lamentare la loro condizione di geni incompresi. Alla fine Kien volse le spalle al fantastico pandemonio della filosofia tedesca.

Pensò di rifarsi con i francesi, meno sublimi e forse fin troppo lineari, ma venne accolto con una gragnuola di malignità. Lo schernirono per il suo aspetto ridicolo. Non sapeva servirsi a dovere del proprio corpo: per questo andava in guerra. Era sempre stato modesto: per questo li umiliava, per esaltare se stesso. È il sistema di tutti gli innamorati: crearsi un'opposizione immaginaria per potersi presentare come vincitori. Dietro la sua guerra santa non v'era altro che una donna, una governante incolta, vecchia, inservibile e assolutamente insipida. Kien montò su tutte le furie: «Voi non mi meritate,» fremette «vi abbandono quanti siete al vostro destino».

«Sarà meglio che ti rivolga agli inglesi» gli consigliarono. Erano troppo occupati con il loro spirito per impegnare una seria battaglia con lui, e il loro consiglio si rivelò buono.

Dagli inglesi trovò proprio ciò di cui aveva bisogno in quel momento: un solido terreno pragmatico sul quale se la cavavano sempre benissimo. Le loro obiezioni, quelle poche bene inteso che si lasciarono sfuggire nonostante la loro flemma, erano lucide, pratiche e nondimeno ben ponderate. Alla fine comunque non seppero risparmiargli un grave rimprovero. Perché mai aveva cercato la parola d'ordine nella lingua di una razza di colore? Kien esplose e rovesciò anche sugli inglesi una bordata di urla.

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