Copertina
Autore Luciano Canfora
Titolo Intervista sul potere
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2013, Saggi Tascabili 387 , pag. 284, cop.fle., dim. 11x18x2 cm , Isbn 978-88-581-0742-3
CuratoreAntonio Carioti
LettoreCristina Lupo, 2013
Classe politica , storia antica , storia: Europa , movimenti
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Indice


 1.   Tra Tucidide e Stalin               3

 2.   Cittadini e guerrieri              40

 3.   Oriente e Occidente                70

 4.   Monoteisti e pagani               108

 5.   Istruzione e libertà              143

 6.   La ricchezza e il numero          170

 7.   Élite e popolo                    217


      Bibliografia                      265

      Gli autori                        271

      Indice dei nomi                   275


 

 

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Pagina 16

D. La crisi del 1956, lei ricorda, la spinse a studiare la rivoluzione francese per capire quella sovietica.

R. All'epoca vi fu un drammatico deflusso di intellettuali che lasciarono il comunismo. Io, giovanissimo, vissi quella crisi come un problema da valutare e comprendere in termini storici. Richiamarsi all'esperienza del periodo 1789-93, fino al bonapartismo e al suo crollo finale nel 1814-15, non era un escamotage, ma una via per capire il presente, lungo la quale mi agevolavano l'ambiente famigliare e i libri che trovavo nella biblioteca di casa. Di qui la mia «privata» polemica contro il saggio incompiuto di Alessandro Manzoni sulla rivoluzione francese. Mi sembrava inverosimile mettere in discussione il 1789 e additare una via diversa.

D. Manzoni proponeva come modello positivo il Risorgimento italiano.

R. Sì, ma soprattutto non si limitava a deplorare gli eccessi della rivoluzione: le opponeva una forte obiezione di legittimità, che certo in termini formali è ineccepibile, perché una rivoluzione è tale in quanto infrange una legalità costituita. Per certi versi Manzoni precorreva le posizioni di uno storico di gran lunga successivo come François Furet, che alla vigilia del bicentenario del 1789 presentò la rivoluzione come un evento non inevitabile, da cui erano state stroncate le potenzialità «riformatrici» dell'Ancien Régime che s'intravedevano sotto Luigi XVI.

D. Però al tempo stesso Furet individua nella rivoluzione francese l'origine della politica moderna, secolarizzata, nei suoi aspetti positivi e negativi.

R. Direi di più. Nelle pagine più acute e interessanti del suo libro Critica della rivoluzione francese, ne parla come di un evento aperto su sviluppi di lungo periodo, per certi versi ancora incompiuto, tanto che lo stesso regime collaborazionista di Vichy gli appare una tappa della controrivoluzione, che si pone in termini dialettici nei riguardi del 1789. Furet da una parte ha delle riserve di fondo sul processo rivoluzionario, ma dall'altra getta uno sguardo molto pertinente sulla lunga durata del fenomeno, che in un certo senso finisce per inglobare anche l'esperienza sovietica.

D. Qui si giunge al problema del rapporto tra continuità e mutamento nelle vicende rivoluzionarie, che lei colloca al centro dei suoi interessi. Alexis de Tocqueville individuò una forte continuità fra la tradizione della monarchia assoluta francese e il nuovo assetto repubblicano, altrettanto accentratore. Quanto ereditò secondo lei il regime sovietico dal passato zarista?

R. Già Isaac Deutscher, biografo di Trockij, mise in rilievo i dilemmi dell'ultimo Lenin, allarmato per i risultati della sua azione, che vede risorgere il vecchio vožd, il capo autoritario, nel funzionario di partito che si fa avanti all'interno della realtà sovietica. A me però interessa un altro genere di continuità: cioè il fatto che nel lungo periodo la rivoluzione russa e quella cinese ci appaiono come tappe della storia di quei paesi, forme attraverso cui si è attuata la loro modernizzazione. La veste ideologica funziona per un certo periodo, poi lentamente si screpola. Lo vide bene Arthur Rosenberg, un intellettuale tedesco vicino a Trockij, che fu deputato comunista fino al 1924 e poi «socialista senza partito», fino ad approdare in America e a invaghirsi, credo giustamente, del New Deal. Nella sua Storia del bolscevismo da Marx ai nostri giorni, pubblicata in Italia su iniziativa di Giovanni Gentile nel 1933, Rosenberg sottolinea che con Stalin la rivoluzione russa si nazionalizza, diventa una tappa della trasformazione di quel paese, anche se continua a parlare il linguaggio dell'internazionalismo e a tenere in piedi la Terza Internazionale (Comintern), divenuta però ormai un elemento di contorno dello Stato sovietico. Ai comunisti di allora queste parevano bestemmie, ma in realtà noi oggi capiamo bene che il periodo sovietico appartiene alla storia della Russia. Il guscio ideologico si è svuotato e la Russia di oggi ci appare quella di sempre, con le sue caratteristiche nazionali, ma trasformata, nel bene e nel male, dai settant'anni di esperienza sovietica. E lo stesso si può dire del maoismo per la Cina: è una fase di una lunga storia nazionale, poi sfociata nella politica di Deng Xiaoping, di cui l'odierno sistema misto capitalistico-statalista è l'esito. Leggere in termini di storia nazionale, quindi di continuità, le vicende di questi grandi paesi significa prendere le distanze da un'autorappresentazione ideologica che alla fine gli stessi protagonisti hanno dismesso.

D. In un quadro di questo genere, come interpretiamo la parabola delle altre componenti del movimento comunista mondiale, partiti come quello italiano o quello francese?

R. Oserei dire che ciascuno di essi ha avuto un'analoga evoluzione, ovviamente là dove avevano un peso e una vitalità. Osserviamo che in Francia e in Italia si sono trasformati in realtà inerenti alle rispettive storie nazionali. Ma questo vale anche per l'America del Sud o per l'India, dove per esempio esiste un forte partito comunista nello Stato del Kerala, legato strettamente a quella specifica realtà, che non ha nulla a che vedere con i guerriglieri maoisti indiani. Lo stesso vale d'altronde per il giacobinismo, che nasce dalla rivoluzione francese, si presenta con ambizioni universalistiche e poi aderisce alle specifiche storie nazionali. Così da Filippo Buonarroti si arriva a Giuseppe Mazzini, che del giacobino in senso stretto non ha quasi più nulla. È una generale vittoria della storia, intesa in senso continuistico, sull'ideologia.

D. È per questo che i partiti comunisti di maggior peso tendono a entrare in conflitto con la casa madre moscovita?

R. L'esempio più evidente è la Cina. Stalin diceva che Mao era un «comunista alla margarina», cioè di un genere deteriore, così come lo è appunto la margarina, nell'ambito dei grassi, rispetto al burro. È un'espressione un po' contadinesca, ma rende bene la diffidenza del leader sovietico verso quello cinese.

D. Però i partiti comunisti che non conquistavano il potere, dopo la nazionalizzazione del bolscevismo e la riduzione del Comintern a uno strumento della politica sovietica, finivano per funzionare nei loro paesi – magari inconsapevolmente e in buona fede – come pedine della strategia mondiale di una potenza straniera.

R. Certamente sì. Ma noi possiamo considerare il fenomeno da un punto di vista storico perché conosciamo la parabola del movimento comunista fino alle sue conclusioni. Chi vive direttamente un'esperienza di militanza rivoluzionaria adotta come verità quella ufficiale e deve lottare per affermarla. Per l'attivista di base è un vero e proprio credo, che però la storia spesso mette in crisi. Convivono così la buona fede e l'oggettiva strumentalizzazione dall'esterno. Quando i comunisti dicevano che lottare per difendere l'Urss significava perseguire la rivoluzione mondiale, quel ragionamento poteva avere un senso. Quanto più si rafforzava la «patria del socialismo», tanto più era possibile sperare in un'estensione dei territori sottratti al sistema capitalistico. Del resto quel paese si chiamava Unione Sovietica, non Russia, perché progressivamente aveva assorbito varie repubbliche formalmente autonome, dall'Asia centrale al Caucaso, che appartenevano in passato all'impero zarista. Di fatto l'Urss si poneva come il nucleo di una più grande aggregazione, che tendenzialmente si doveva estendere senza avere il carattere di Stato nazionale. Stalin scrisse molto su questo tema: egli stesso era un georgiano, divenuto il leader di una grande potenza a predominanza russa. E la posizione della Russia nell'Unione era piuttosto complicata. Ricordo che Sergio Romano, in un articolo apparso sulla «Stampa» nel 1990 (La Lega lombarda di Boris Eltsin) paragonò El'cin, divenuto presidente russo quando ancora esisteva l'Urss, ai leghisti nostrani, perché voleva che la Russia avesse un peso politico paragonabile alla sua rilevanza economica e non dovesse più svenarsi per finanziare le repubbliche più povere. Era un sintomo chiaro dell'avanzata decomposizione del progetto sovietico. Ma un tempo l'Urss poteva apparire come il motore della rivoluzione mondiale. E molte persone, nelle terre più diverse, investirono la loro vita in un'impresa ideale che si veniva trasformando, nelle loro mani, in qualcosa di diverso. La loro non deve essere considerata una banale doppiezza, perché la duplicità di aspetti dell'esperienza sovietica era nelle cose.

D. Però prima o poi bisognava aprire gli occhi, di fronte al comportamento di Mosca.

R. A un certo punto la consapevolezza di ciò si fa strada, ma solo al vertice dei partiti comunisti. D'altronde Nikita ChrušČëv, negli anni Cinquanta, cerca di rilanciare le grandi conferenze dei partiti comunisti e sembra quasi voler riproporre lo spirito internazionalista, superata la parentesi controversa e agghiacciante dell'ultimo stalinismo. Ma forse è troppo tardi. E alcune sue scelte sono sconvolgenti: recupera la Jugoslavia, ammettendo che l'Urss ha sbagliato nei riguardi di Tito; apre all'India, pur sapendo che ciò aumenterà le frizioni con la Cina; si allea con il socialismo arabo di Nasser, che pure falcidia i comunisti egiziani; promuove la coesistenza pacifica, brandendo lo Sputnik e il programma spaziale, nella convinzione che il sistema sovietico si dimostrerà superiore al capitalismo nella competizione economica. Tuttavia l'elemento nazionale alla fine prevale sempre, come dimostra il conflitto russo-cinese (culminato negli scontri lungo il fiume Ussuri, nel 1969), che è il fatto più importante nella storia del comunismo dopo la Seconda guerra mondiale. Una vicenda enorme, comprensibile solo se entriamo nell'ottica della politica di potenza e della statualità.

D. Lei quando è arrivato a concepire in questi termini la vicenda del comunismo mondiale?

R. C'è un episodio che mi piace evocare, risalente al 1976. Allora non ero iscritto al Pci, anzi per qualche tempo avevo simpatizzato per «il manifesto». Mandai però a «Rinascita», rivista teorica del partito, un articolo piuttosto ampio intitolato Eurocomunismo. La mia tesi era che l'evoluzione del Pci costituisse di fatto un inevitabile ritorno alla socialdemocrazia, un movimento che preesisteva alla rivoluzione bolscevica e aveva ripreso vigore nella realtà europea dopo il 1945. A mio avviso gli stessi partiti comunisti occidentali, nella realtà postbellica, si erano fatti portatori di istanze tipicamente socialdemocratiche. Alfredo Reichlin, che allora dirigeva «Rinascita», mi scrisse che avevo ragione, ma per il momento il mio articolo non poteva uscire. Ho pubblicato la sua lettera in un libro del 1990, La crisi dell'Est e il Pci. Reichlin promise di aprire un dibattito che non si aprì mai. Nel frattempo la situazione precipitò e nel 1989 protestai vibratamente – in una rubrica sul «manifesto» intitolata «Il fratello Babeuf» – contro la svolta di Achille Occhetto, decisa dall'alto e all'improvviso, perché mi sembrava antistorica. Invece di cogliere lo sviluppo storico nel suo farsi e prenderne atto in maniera politicamente proficua, ci si trovava a gridare «si salvi chi può» e a cambiare il nome del partito a ridosso dei calcinacci del Muro di Berlino. L'esatto contrario di quello che un leader accorto dovrebbe fare. Io, per parte mia, ero già arrivato da tempo, tramite lo studio della storia e l'osservazione dei fatti politici, alla convinzione che il grande fiume del movimento operaio consista in ciò che, da Karl Marx in avanti, si chiama socialdemocrazia e che l'esperienza bolscevica sia stata figlia legittima della Prima guerra mondiale e del trauma ferocissimo che allora estremizzò il conflitto tra riformisti e rivoluzionari, mostrando i limiti della Seconda Internazionale.

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D. Ma allora dobbiamo concludere che la dimensione militare è la base di ogni potere politico, visto che il nesso tra le due sfere si manifesta non solo nelle monarchie tradizionali, ma anche nei regimi rivoluzionari?

R. Nella storia è avvenuto molto spesso. Non a caso un generale come George Washington fu il primo presidente degli Stati Uniti. Pensiamo poi a de Gaulle e ancora di più a Mao Zedong. Lo stesso Winston Churchill aveva combattuto nelle guerre coloniali e poi aveva avuto un ruolo di rilievo nel primo conflitto mondiale. Poi, dopo Dunkerque, da primo ministro, si afferma come la guida anche militare dell'unica potenza ancora in piedi di fronte al dilagare della Germania nazista.

D. È come se il Novecento, con le guerre mondiali, rinverdisse modelli antichi.

R. Secondo me, la sovrapposizione tra il ruolo di comandante militare e quello di capo politico viene riproposta con forza nel corso della Prima guerra mondiale. Si manifestano allora due fenomeni abbastanza simili. In Germania c'è la cosiddetta «dittatura» del generale Erich Ludendorff, che assieme a Paul von Hindenburg è al vertice dell'alto comando, ma al tempo stesso esercita una poderosa influenza politica: per esempio nel 1917 impone al Kaiser di congedare il cancelliere Theobald von Bethmann-Hollweg, incline a una pace di compromesso senza annessioni. E sul fronte opposto due capi di governo, David Lloyd George in Gran Bretagna e Georges Clemenceau in Francia, si presentano come artefici della vittoria sugli austro-tedeschi. In particolare Clemenceau, soprannominato «il Tigre» per la sua inflessibile determinazione, era stato nel 1917 il protagonista della riscossa francese sul campo di battaglia. E rimase poi molto addolorato per la sconfitta subita nella corsa alla presidenza della Repubblica nel 1920, come allusivamente si intravede anche nel romanzo di Georges Simenon Il presidente.

D. Anche il fascismo è stato interpretato come una forma di cesarismo o bonapartismo.

R. Di recente, mentre lavoravo al mio libro Gramsci in carcere e il fascismo, ho ripreso in mano le pagine che lo stesso Gramsci dedicò al regime di Mussolini nei Quaderni del carcere e nelle lettere coeve. Sono due i passi importanti. Uno si trova nelle note sul cesarismo. L'altro è conseguente alla lettura, da parte di Gramsci, della Storia d'Europa nel secolo XIX di Croce, che esce nel 1932. Sono due punti di partenza distinti e apparentemente lontani. Il secondo può sembrare sconcertante, ma a mio avviso è il più ricco di novità.

D. Per quale ragione?

R. Gramsci sostiene che Croce ha una predilezione per quella che, mutuando la terminologia di Vincenzo Cuoco, si può definire «rivoluzione passiva». Si tratta della «guerra di posizione», contrapposta alla rivoluzione vera e propria, che è «guerra di movimento». Dal 1789 al 1815 in Europa si svolge una guerra di movimento, poi si avvia una lunga guerra di posizione, che coincide con il predominio del liberalismo, proseguito fino agli inizi del Novecento. È una visione un po' schematica, dato che di mezzo ci sono la rivoluzione francese del 1830 e i moti del biennio 1848-49. Comunque Gramsci sostiene che Croce è lo storico della rivoluzione passiva, dei periodi nei quali la trasformazione della società avviene in modo lento e non traumatico. Dopodiché il leader comunista sostiene che il fascismo è la rivoluzione passiva, la guerra di posizione del secolo XX. E fa capire che forse Croce nel suo libro vuole dire proprio questo. Non solo: Gramsci osserva che il corporativismo è lo strumento della rivoluzione passiva mussoliniana (Quaderno 8, § 236). Colpisce il fatto che egli ha in mente un fascismo destinato a durare per lungo tempo e a produrre, come il liberalismo nell'Ottocento, un mutamento lento, che attraverso il corporativismo determinerà, «senza cataclismi radicali e distruttivi in forma sterminatrice» (qui l'allusione è al carattere cruento dell'esperienza bolscevica), la trasformazione del capitalismo. Non a caso nelle stesse pagine Gramsci mostra interesse per Ugo Spirito e la sua teoria della «corporazione proprietaria».

D. In sostanza, quindi, Gramsci prende sul serio l'idea del fascismo come «terza via» fra capitalismo e socialismo.

R. Non c'è dubbio. Tra l'altro scrive che il fascismo è il soggetto della rivoluzione passiva in Italia e forse anche in Europa. Probabilmente è impressionato dal successo di Hitler, che arriva al potere proprio all'inizio del 1933 sull'onda di un forte consenso elettorale. Gramsci vede nel corporativismo e nell'intervento statale in economia, che il fascismo attua proprio in quegli anni tramite l'Iri, un'esperienza di grande interesse. Certo, bisogna considerare che siamo negli anni Trenta e che Gramsci scrive delle note provvisorie, sulle quali egli stesso si propone di rimettere le mani con più calma per correggerle e modificarle anche radicalmente. È il solito problema degli inediti, dei quali non possiamo dire se e in quale versione l'autore li avrebbe poi pubblicati. Guai però se li avessimo perduti. Virgilio avrebbe voluto che i dodici libri dell' Eneide fossero bruciati, ma per fortuna i suoi amici Vario e Tucca non rispettarono l'indicazione.

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R. In questo consiste il maggiore risultato storico delle conquiste di Alessandro. Non solo la Siria e l'Egitto vengono a lungo governati da un ceto dirigente di origine ellenica, ma in quella parte del mondo si continua a parlare greco per tantissimo tempo. Ancora l'impero bizantino, che dura un millennio, è per molti versi una prosecuzione ulteriore della storia ellenistica.

D. Ma Bisanzio è Oriente oppure Occidente?

R. Non è facile rispondere. Si tende a liquidare l'impero bizantino come Oriente, ma Costantinopoli è la seconda Roma, prosegue l'impero dei Cesari. I suoi abitanti, in greco, chiamano se stessi Romaioi, Romani. E il cristianesimo è un fattore decisivo di questa grande costruzione politica, per cui l'imperatore di Bisanzio è anche il capo della Chiesa e ne convoca i concilii. Le idee di Droysen hanno dunque un fondamento, perché in effetti la religione cristiana trova un terreno fertile in un mondo che era stato unificato politicamente e culturalmente prima da Alessandro e poi da Roma.

D. D'altronde la stessa espansione di Roma porta a un incontro tra Oriente e Occidente.

R. Roma per certi aspetti è – sin dal periodo regio – una città greca. La sua cultura, secoli dopo, decolla quando entra nell'orbita ellenistica. Però crea una grande letteratura in un'altra lingua, quella latina. In un primo tempo è una letteratura che si limita a tradurre gli autori greci, poi acquista una sua originalità. L'impero sarà bilingue. Sorge allora un'unica tradizione letteraria di pari dignità, greca e latina, che occupa l'intero Mediterraneo e poi anche parte del Nord Europa.

D. Un altro dato che colpisce è il modo in cui Roma, al contrario della Persia e della Macedonia, realizza sterminate conquiste territoriali rimanendo, per lungo tempo, una repubblica.

R. È un problema storico molto dibattuto come Roma sia riuscita a espandersi restando formalmente una città-Stato, estendendo man mano la cittadinanza romana al Lazio, poi all'Italia a sud del Po e quindi, con Cesare, anche oltre il Po. Tutti i maschi liberi e adulti della penisola potenzialmente dovrebbero andare a votare a Roma quando si eleggono i consoli: naturalmente ci vanno soltanto le élite municipali. Non è un processo indolore. Esso si intreccia con quel fenomeno che si suole definire la rivoluzione romana, che dura un secolo, dalle riforme di Tiberio Gracco (133 a.C.) al trionfo di Augusto con la battaglia di Azio (31 a.C.). Di mezzo c'è la stagione dei potentati militari: Mario, Silla, Pompeo, Cesare. Essi superano la realtà della Repubblica aristocratica, svuotandone le istituzioni, che alla fine Augusto recupera, ma riducendole a una grandiosa cornice «teatrale». La Repubblica imperiale è un ibrido che resiste molto a lungo, ma poi sfocia in un regime monarchico, mai del tutto tale fino al III secolo.

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Pagina 97

D. Certo però colpisce che l'attuale regime cinese continui a professarsi comunista, pur praticando apertamente il capitalismo.

R. Evidentemente quel richiamo ideologico resta una fonte di legittimazione e di cemento dell'unità del paese, alla quale i governanti di Pechino non possono e non vogliono rinunciare, anche se attuano comportamenti di segno ben diverso.

D. Fa comunque impressione che sotto la bandiera del marxismo si siano realizzate esperienze rivoluzionarie che hanno smentito in pieno le profezie di Marx.

R. Non andò diversamente per la rivoluzione francese, che sfocia nella dittatura e poi addirittura in un impero. Il Risorgimento italiano prende l'avvio senza dubbio dall'ingresso di Napoleone nella nostra penisola, ma non si può dimenticare che i francesi sono invasori e impongono un dominio straniero che non corrisponde certo ai «sacri princìpi» del 1789 o alle teorie di Jean-Jacques Rousseau. Le vicende umane si fanno beffe delle teorie filosofiche, che pure sono una componente indispensabile dello sviluppo storico. Gli ideali del comunismo sovietico non si sono realizzati, ma non bisogna pensare che dal primo momento fossero solo un'impalcatura esteriore non creduta e agitata in malafede. Sono le smentite della politica che infliggono delusioni cocenti e impongono scelte contraddittorie. Si fa presto a condannare il patto Molotov-Ribbentrop, ma non bisogna dimenticare che l'Urss era stata l'unica potenza che aveva portato aiuto alla Repubblica spagnola, sia pure nelle forme aspre ed escludenti che poi determinarono scontri violenti con gli anarchici e i marxisti eretici. Londra e Parigi invece, con la farsa del «non intervento», avevano lasciato via libera all'insurrezione militare di Francisco Franco, che godeva dell'appoggio aperto e massiccio di Mussolini e di Hitler. La Realpolitik non è una parolaccia, ma una dura necessità per chi si trova a dirigere uno Stato.

D. Fa tuttavia impressione che si comporti secondo i canoni del più crudo realismo chi aveva invocato e promesso un mondo nuovo.

R. In effetti l'incoerenza si nota di più nei movimenti che fanno della propria autodescrizione ideologica un architrave. La forza del liberalismo, da questo punto di vista, deriva dal fatto che si tratta soprattutto di un metodo, quasi del tutto privo di contenuti. Perciò risulta adattabile, senza smentirsi, alle più diverse politiche empiriche.

D. Mi sembra un'esagerazione. Fermo restando che il liberalismo comprende diversi indirizzi teorici, il suo nocciolo duro consiste nella tutela dei diritti individuali e nella lotta ai monopoli politici ed economici.

R. Premesso che John Locke, il san Paolo del liberalismo, fu anche azionista di una compagnia dedita alla tratta degli schiavi, diciamo che quando gli Stati liberali fanno la guerra passano allegramente sopra quei princìpi. La smentita è nei fatti, ma il metodo è salvo.

D. Direi piuttosto che il liberalismo è soprattutto una tecnica di regolazione dei conflitti, ovviamente impossibile da applicare nelle situazioni di guerra, che per definizione sono abbandonate alla legge del più forte.

R. Siccome nella storia la guerra è quasi la norma, mentre la pace è l'eccezione, anche il liberalismo finisce facilmente in crisi. Come si diceva, la contraddizione si nota di più nei movimenti socialisti, la cui visione del mondo è una sorta di cornice prospettica, che delinea gli sviluppi successivi che dovrebbero quadrare con le premesse teoriche. Ed è quindi votata alle smentite proprio per la sua strutturale tendenza a formulare profezie sul futuro. Ma lo storico lo sa da subito e deve sforzarsi di capire che cosa c'è sotto le parole destinate inevitabilmente ad essere contraddette dai fatti, senza porsi nella posizione un po' troppo comoda di chi vede la malafede ovunque, anche dove c'è la semplice presa d'atto della realtà.

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Pagina 103

D. Per tornare a Huntington, la sua analisi indicava nella Cina – la «civiltà sinica» diceva lui – un antagonista dell'Occidente rilevante quanto l'Islam. E in questo caso non siamo di fronte a un mondo frammentato e conflittuale, ma a un grande Stato, il più popoloso della Terra, retto da un sistema autoritario. Non pensa che in futuro la dialettica decisiva possa essere quella tra l'Occidente e il regime di Pechino?

R. L'interesse verso la realtà cinese risale anch'esso molto addietro nel tempo, anche perché si tratta di una civiltà antichissima. Voltaire vedeva la Cina come un impero separato dal resto del mondo. Hegel la considerava immobile. Il francese Alain Peyrefitte, scrittore e politico gollista, le dedicò un libro intitolato L'impero immobile ovvero lo scontro dei mondi, quasi a metà tra Hegel e Huntington. Si trattava però di un'immobilità apparente, che celava una visione del tempo storico diversa dalla nostra. La Cina è un caso quanto mai emblematico per l'intreccio fra culture diverse che producono un effetto originale. Il comunismo cominternista staliniano, come abbiamo visto, è diventato in quel paese un fattore di rinascita nazionale e potenzialmente nazionalista, anche se questo termine in Oriente ha un significato diverso da quello che gli attribuiamo noi. Il maoismo ha avuto un limite colossale: ha creduto di poter instaurare un ordine definito ideologicamente secondo un modello di socialismo molto semplificato. Ed è stato travolto nella lotta durissima, di fatto una guerra civile, che ha martoriato la Cina a partire dalla «rivoluzione culturale», lanciata da Mao nel 1966, fino all'affermazione definitiva di Deng, alla fine degli anni Settanta. Quello che ne è venuto fuori è un intreccio straordinariamente interessante, ma anche inquietante, tra la cornice ideologica comunista, sempre più pallida ed esteriore, la tradizione nazionale confuciana e una forte componente occidentalizzante. Il fatto che l'élite cinese vada a studiare in California e poi ritorni in patria, portandosi dietro il patrimonio acquisito con quella formazione avanzata, dimostra che non siamo di fronte a una civiltà che si è risvegliata e levata contro l'Occidente. Piuttosto la Cina assume dalle altre culture ciò che ritiene possa essere funzionale al proprio mix tra marxismo-leninismo, tecnologia avanzata, spirito confuciano e vocazione imperiale. Certe volte, anche se mi rendo conto che è una diagnosi parziale, sono tentato di definire quella realtà come un gigantesco nazionalsocialismo.

D. I governanti di Pechino eredi del Terzo Reich?

R. Può apparire un paragone ardito. Ma oggi abbiamo un miliardo e mezzo di persone che si sono organizzate in un grande Stato con criteri che grosso modo ricordano il nazionalsocialismo tedesco. Capitalismo sotto controllo, ma al tempo stesso posto in condizione di fare profitti molto elevati; disciplina ferrea; militarizzazione delle masse; partito unico con dirigenza ideologizzata; massimo pragmatismo nel perseguire obiettivi di potenza.

D. Manca però un capo carismatico.

R. Come diceva Gramsci, il leader può anche essere di tipo collettivo, non coincidere necessariamente con una persona fisica. Ma per molto tempo in Cina il capo carismatico c'è stato, e tuttora Mao resta un'icona importante, così come Deng. D'altronde un grande difetto dei regimi di tipo fascista era quello di puntare sul carisma di un singolo individuo, destinato inevitabilmente a logorarsi. Invece i cinesi hanno introdotto un meccanismo di leadership a tempo, programmando la successione di diverse personalità alla guida del partito e dello Stato. E mi allarma enormemente la scelta che Pechino sta compiendo di lanciarsi sul mare, di allestire una grande flotta militare. Mi fa venire in mente il proclama del Kaiser Guglielmo II, quando disse: «I mari sono anche nostri». Il conflitto della Germania con la Gran Bretagna precipitò esattamente quando Berlino volle dotarsi di una potente flotta oceanica, con corazzate e sommergibili in grande quantità. Naturalmente la storia non si ripete nelle stesse forme, ma questa decisione dei cinesi, a malapena registrata dalla nostra stampa, potrebbe essere foriera di effetti assai pericolosi. Ciò detto, non mi pare si possa presentare la Cina attuale nei termini in cui la vedeva Huntington, come una civiltà che si è destata e mostra tendenze aggressive. Mi sembra piuttosto un grande intreccio di componenti diverse che, al contrario di quanto pensavano Voltaire e Peyrefitte, non è affatto immobile e non ha nessuna intenzione di rimanere separato dal resto del mondo.

D. Lei non pensa che una cultura democratica e di rispetto dei diritti individuali possa farsi strada anche in Cina e nel mondo islamico? Ci sono paesi come la Corea del Sud, Taiwan, il Bangladesh, l'Indonesia, che per lungo tempo hanno avuto regimi dispotici e che ora si possono considerare democrazie.

R. «Democrazie» proprio non direi. Al contrario, il modello politico elettorale rappresentativo, che noi chiamiamo democrazia, mi sembra piuttosto in crisi proprio nei paesi occidentali, mentre ha funzionato come detonatore di cambiamento là dove i diritti politici dei cittadini erano conculcati. È un fenomeno che può apparire curioso, ma in realtà è comprensibile. In fondo anche ad Atene buona parte dell'élite ammirava il modello spartano, pur vivendo in una società aperta. Quando poi tentarono di instaurare l'ideale a cui guardavano, produssero conflitti disastrosi. I modelli politici esercitano un'influenza anche oltre i confini degli Stati che li adottano. Però poi, quando cercano di varcare le frontiere originarie, inevitabilmente si trasformano. Ad esempio l'India, per il fatto stesso di essere stata parte dell'impero britannico, ha adottato un sistema parlamentare pluripartitico, quando ha raggiunto l'indipendenza. Ma ha dato di quel modello un'interpretazione originale, con l'emergere di partiti assai diversi da quelli occidentali: raggruppamenti compositi come il Partito del Congresso, forze di matrice marxista-leninista, formazioni di orientamento tradizionalista o religioso. E la situazione concreta cambia da Stato a Stato della stessa Unione. A tacere dei residui della realtà castale. In altre situazioni, regimi di tipo rappresentativo sono stati messi alla prova e poi sono stati cancellati da svolte autoritarie o da colpi di Stato militari. In Russia ci viene ripetuto quotidianamente che vige una «demokratura» (e di sicuro il capitalismo restaurato ha portato al potere le mafie). Non mi cullerei quindi nell'idea che il potere nei paesi estranei all'Occidente stia assumendo forme «democratiche». Direi piuttosto che da noi il sistema parlamentare è in netta decadenza, attraversato da una trasformazione che lo cambierà radicalmente; mentre quando incontra mondi extra-occidentali, assume caratteristiche del tutto difformi da quelle che abbiamo conosciuto, diventa un'altra cosa. Non mi lascerei abbagliare da un ritorno dell'ottimismo. Anche le cosiddette primavere arabe non mi hanno sedotto: sono state un fenomeno storico rilevante, ma tuttora da capire a fondo nelle sue implicazioni e nei suoi sbocchi. Trovo più realistica la diagnosi che Niall Ferguson ha collocato nella prima pagina del suo recentissimo Civilization. The West and the Rest (trad. it. Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà), che riecheggia il titolo del già ricordato saggio di Toynbee, là dove dice di aver «colto il nocciolo del primo decennio del XXI secolo: stiamo vivendo la conclusione di cinquecento anni di predominio occidentale».

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D. Lei evidenzia l'attitudine del cristianesimo a conquistare le élite. Ma spesso si dice che il messaggio evangelico fa breccia soprattutto tra gli umili, gli emarginati, le donne, gli schiavi.

R. Il cristianesimo è come un grande fiume, che dove passa si arricchisce di tutto ciò che incontra, cambiando colore a seconda della terra attraverso cui scorre. La fede in Gesù non perde mai completamente i suoi tratti di partenza, ma con il tempo include elementi nuovi, che a volte si fanno soverchianti. Va comunque osservato che la religione cristiana non ha mai combattuto l'ordine sociale esistente: ha semmai promesso anche ai derelitti della società una salvezza ultraterrena. Paolo restituisce lo schiavo fuggitivo Onesimo al suo padrone Filemone, però lo fa accompagnare da una lettera in cui raccomanda al proprietario di trattarlo bene, perché è un fratello nella fede.

D. Quindi il cristianesimo legittima l'istituto della schiavitù, ma si preoccupa di mitigarne la durezza.

R. Una preoccupazione umanitaria che in certo senso è comune a diversi autori non cristiani. Il filosofo stoico Seneca è autore della famosa lettera a Lucilio in cui sottolinea che ogni schiavo è comunque un uomo e va trattato come tale. E non a caso più tardi si è immaginato e addirittura costruito un dialogo epistolare tra Seneca e Paolo: i falsi storici, purché li si riconosca come tali, sono spesso molto significativi.

D. Anche Epicuro accoglieva gli schiavi e le donne nella sua scuola, il «giardino» di Atene.

R. Infatti i cristiani combattono aspramente l'epicureismo, perché lo avvertono come un rivale fastidioso, potenzialmente concorrenziale in quanto nella sostanza negatore della religione olimpica. Lattanzio, padre della Chiesa, scrive che Epicuro e Lucrezio «delirano». Più complicato è combattere lo stoicismo, secondo il quale è la pronoia, la provvidenza, a muovere il mondo: una vicinanza di cui è sintomo anche il falso carteggio tra Paolo e Seneca. Ancora più difficile contrastare l'osmosi tra cristianesimo e neo-platonismo (si pensi alla Trinità e alle Triadi di Proclo!).

D. Verso le altre fedi il cristianesimo si mostra però intransigente. E con Teodosio l'impero muta radicalmente la sua politica religiosa, poiché diventa obbligatorio per tutti i sudditi professare soltanto il credo ufficiale cristiano, cosa che non era mai avvenuta con il culto tradizionale pagano. C'è chi sostiene che in questo modo si realizzi una prima forma di regime totalitario.

R. Alla fine del IV secolo effettivamente si fa strada una visione della politica e dello Stato che ha tratti totalitari. In quegli anni ad Alessandria d'Egitto, centro importantissimo della cultura ellenistica e della cristianità, i vescovi Teofilo e Cirillo interpretano il proprio ruolo in maniera violenta e intollerante, concedendo grande spazio ai parabolani, la parte più estremista e violenta del monachesimo. Si arriva così a eccessi come la distruzione del Serapeo, tempio di Serapide (equivalente egizio prima di Dioniso, poi di Zeus), dove era contenuta l'ultima importante biblioteca della civiltà classica, dopo che la ben più grande biblioteca regale dei Tolomei, sempre ad Alessandria, era andata in fumo nel 270 d.C., durante la guerra di riconquista intrapresa in Oriente dall'imperatore Aureliano. Inoltre i fanatici cristiani sopprimono il cenacolo filosofico-scientifico di Teone e della figlia Ipazia, che viene assassinata, senza che il governatore imperiale di Alessandria possa fare nulla contro i nuovi dominatori. L'imperatore Teodosio incarna questa chiusura verso ogni forma di dissenso.

D. Ma perché con il trionfo della Chiesa si arriva alla fine della libertà religiosa?

R. Per quanti apporti abbia tratto dal pensiero greco, nella base più combattiva, che esprime il nerbo dei fedeli, il cristianesimo è intimamente intollerante, esclude chi non riconosce la cosiddetta «verità». Teodosio adotta questa concezione rigida, mentre Costantino, più duttile, aveva giocato su una tastiera vasta, muovendosi con sapienza politica tra i diversi culti e anche tra i dissidi intercristiani. Il periodo che intercorre tra i due imperatori segna un mutamento irreversibile: anche l'impero bizantino, che discende recta via da Teodosio, è caratterizzato da un'intolleranza di cui Giustiniano, forse il più importante sovrano di Costantinopoli, è l'esponente emblematico. Nella sua marcia il cristianesimo ha inglobato un po' di tutto, ha incrociato e pervaso di sé gli ambienti sociali più disparati, ha assorbito elementi del paganesimo e della cultura classica. Ma nel momento in cui l'impero scommette su questa religione, il taglio con il passato deve apparire drastico. L'imperatore Giuliano è un personaggio eroico e patetico al tempo stesso: nella seconda metà del IV secolo il suo appello di buon senso alla tolleranza e al rispetto del paganesimo è ormai anacronistico.

D. Nel capitolo precedente abbiamo visto che Toynbee considerava il comunismo una sorta di eresia cristiana, destinata forse ad essere la Chiesa trionfante del futuro. Che cosa pensa di questo paragone?

R. È un'analogia ricorrente. Engels, ancora nella prefazione che scrive nel 1895, poco prima di morire, alla riedizione del libro di Marx Le lotte di classe in Francia, accosta cristianesimo e movimento operaio, nella convinzione che si tratti di un parallelo chiarificatore. E prevede che i socialisti raggiungeranno il potere così come i cristiani avevano conquistato il soglio imperiale. È una lettura a mio avviso sbagliatissima, che però ha avuto una notevole fortuna. Nel libro di Isaac Deutscher La Russia dopo Stalin il paragone torna continuamente. Lenin è accostato a Paolo di Tarso, quale vero costruttore della nuova religione; Stalin è assimilato a Costantino. Sono comparazioni che fanno un po' sorridere, fondate su un'interpretazione «rivoluzionaria» del fenomeno cristiano che è quanto meno unilaterale, per non dire erronea. Si possono invece dare letture alla Gibbon: il cristianesimo come scuola d'intolleranza, che sfocia nelle guerre di religione.

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Pagina 127

D. Torniamo ai rapporti tra religione e potere. Un punto importante è che, mentre nell'impero bizantino s'instaura il cosiddetto cesaropapismo, per cui l'imperatore è anche la massima autorità religiosa, nell'Occidente diviso in tanti regni si afferma il primato spirituale del pontefice romano, che esercita anche il potere temporale su un territorio non irrilevante.

R. Non so se sia stato un bene o una iattura, se ne può discutere. Ma certo la nascita dello Stato pontificio è un interessantissimo inedito storico. Quale altra religione ha avuto tale ventura nel suo sviluppo? Nessuna. A Roma il capo spirituale della Chiesa è anche il monarca di un regno abbastanza esteso. Una situazione senza precedenti, che crea la necessità di improvvisare giustificazioni grossolane – il celebre falso «donazione di Costantino» – e procura grandi problemi al paese dove ha sede questa stranezza, cioè l'Italia. È indubbio che la nostra penisola ha dovuto fare i conti per molti secoli con l'anomalia di uno Stato della Chiesa che era il vertice di un fenomeno religioso mondiale e al tempo stesso una piccola potenza territoriale italiana.

D. Un'altra conseguenza è il lungo conflitto tra papato e impero.

R. Si determina una dualità di poteri che differenzia l'Occidente rispetto alla monocrazia del modello bizantino e più tardi di quello zarista, dove pure il monarca è il capo della Chiesa ortodossa autocefala russa. Invece nel mondo cattolico non c'è solo la dialettica tra il papato e l'impero: tutti gli Stati nazionali, a cominciare dalla Francia, hanno il problema delle relazioni, spesso conflittuali, con questo strano e intrattabile oggetto che è la Santa Sede, munita anche di forze armate, ma soprattutto dotata del prestigio che le deriva dall'essere il vertice della Chiesa. Non spetta a noi dare i voti alla storia e decidere se questo sia stato un vantaggio, ma indubbiamente siamo di fronte a una caratteristica peculiare dell'Occidente europeo, che ne ha vivacizzato la dialettica interna. Ma forse è durata troppo a lungo.

D. In che senso?

R. Quando Cavour cerca disperatamente di spiegare che la fine del potere temporale dei papi sarebbe un bene per la cattolicità, viene considerato dai clericali un provocatore mangiapreti. Cavour, nel discorso parlamentare in cui propone la formula «libera Chiesa in libero Stato» (marzo 1861), si rivolge a Pio IX e sostiene che la stessa Santa Sede finirà per capire la necessità del cambiamento e gliene darà atto. Ma il papa non ne vuole sentir parlare.

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Pagina 134

R. Uno degli effetti «benefici» dell'autocrazia papale cattolica è il controllo dell'opinione in campo teologico, mentre uno degli effetti negativi (non previsti né prevedibili) del libero esame dei testi sacri rivendicato dalla Riforma (il fatto che il fedele possa e debba leggere la Bibbia senza la mediazione di un interprete autorizzato che ne spieghi il significato «autentico») è la proliferazione incontrollata delle sette religiose in ambito protestante. Il controllo censorio esercitato da un forte potere centrale, che s'incarica dell'interpretazione della sacra scrittura sulla base di una tradizione lunghissima, è un antidoto efficace alla moltiplicazione di gruppi che si formano intorno a un predicatore discutibile e spregiudicato, o anche sinceramente pio e infervorato. Infatti queste sette sorgono tra i protestanti, anche se poi tendono a espandersi ovunque. In Brasile, il paese cattolico più popoloso del pianeta, la concorrenza più pericolosa per la Chiesa di Roma viene dalle sette evangeliche nordamericane, che fanno proselitismo attraverso figure carismatiche e clownesche al tempo stesso (un po' come Silvio Berlusconi, si potrebbe dire), che suscitano passione, consenso e fanatismo, con notevoli riflessi anche in campo politico. Nella crisi del nostro presente, in cui l'infelicità umana è accresciuta da una maggiore consapevolezza, che si aggiunge alle difficoltà materiali, lo spazio per l'affermarsi di questi movimenti è molto ampio.

D. Lei sembra quasi fare l'elogio del primato di Pietro, se non addirittura dell'Inquisizione.

R. Al contrario. Descrivo gli effetti del mix libro sacro/fantasie individuali. Non sto certo esaltando l'autocrazia contro la libertà di coscienza. Stiamo considerando un fenomeno palesemente deteriore, un cascame del principio di libera interpretazione dei testi, sorto in contrapposizione all'autoritarismo oppressivo e normativo insito nel cattolicesimo. D'altronde bisogna riconoscere che la Chiesa di Roma, mescolandosi a realtà lontanissime da quella di origine, in America, in Asia e in Africa, a contatto con situazioni di povertà spaventosa e alle prese con una grave difficoltà nel farsi capire, ha saputo assumere connotati diversi nello svolgere il suo apostolato, senza però mai smarrire il nesso che disciplina, orienta e mantiene l'unità. E questo rende i cattolici invisi – per esempio in Nigeria, ma anche in Pakistan e in alcune aree dell'India – alle forze religiose locali, che temono al tempo stesso la loro capacità di adattamento e il loro legame con Roma. Li vedono come colonialisti camuffati: un'accusa sostanzialmente falsa, ma tale da alimentare azioni violente che purtroppo si ripetono con frequenza preoccupante.

D. Ma in Occidente lei crede che si assista davvero a un declino della secolarizzazione e a una rivincita del sacro?

R. Non sono un esperto della materia. Più che altro in Italia vedo un ritorno in grande stile della superstizione, non necessariamente confessionale, di cui notiamo dovunque i segni e fingiamo di non vederli. Mi riferisco per esempio al culto di padre Pio, agli oroscopi, a tutta la subcultura superstiziosa che non ha più bisogno di un retroterra teologico strutturato, ma è semplicemente l'ennesima forma di paganesimo istintuale, mai estirpato davvero dal cristianesimo e oggi risorgente nel tempo dei maghi televisivi e degli astrologi online. È comico, ma in certo senso anche spaventoso, che quotidianamente il giornale radio, al termine delle notizie, dia l'oroscopo. È un'offesa all'intelligenza, ma anche una presa d'atto che masse sterminate di persone, forse senza neanche riconoscerlo davanti a se stesse, ci credono. Altrimenti questi suoni non verrebbero trasmessi nell'etere.

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Pagina 149

D. L'avvento del cristianesimo, religione che si fonda su testi sacri, contribuisce alla diffusione della lettura e della scrittura nel mondo antico?

R. In qualche misura sì, ma con il grosso inconveniente che per i cristiani tutto ciò che conta si trova nella Bibbia, unica fonte della verità. E ne consegue una forte ostilità verso il resto della cultura. Mai come in questo caso si dimostra fondato il detto: «Timeo hominem unius libri». Cioè, mi fa paura l'uomo che segue gli insegnamenti di un unico libro. Gli Atti degli apostoli riportano un episodio molto significativo che si svolge a Efeso, durante la predicazione dell'apostolo Paolo, quando i fedeli convertiti alla nuova religione bruciano in pubblico i loro libri. D'altronde nei testi dell'apostolo ricorre il concetto che la sapienza profana è stata resa inutile e «stupida» dalla rivelazione divina. Gli Atti degli apostoli riferiscono che quei libri erano collegati a pratiche magiche, ma è evidente che siamo di fronte a una sorta di anticipo dei futuri autodafé spagnoli, con il rogo di tutti gli scritti considerati ostili alla fede cristiana. Se il libro che vale davvero è uno solo, gli altri meritano di essere distrutti. È una tendenza che si afferma in modo ancora più netto nell'Islam, come testimonia l'episodio narrato da Bar Hebraeus, un autore medievale siriaco di religione cristiana, a proposito della conquista di Alessandria. Secondo questa fonte, il generale arabo Amr, dopo aver conquistato la metropoli egiziana intorno al 640 d.C., chiese al califfo Omar che cosa si dovesse fare di quanto restava (non molto, come abbiamo visto) del patrimonio librario della biblioteca di Alessandria. La risposta fu che i volumi in disaccordo con il Corano andavano bruciati in quanto contrari alla fede, dunque nefasti, mentre i testi in accordo con il Corano erano per questo stesso motivo superflui, quindi conveniva distruggere anche quelli.

D. Ne esce un quadro delle religioni basate su testi sacri come nemiche della cultura. Non è un po' esagerato?

R. Direi piuttosto che si tratta di una realtà a due facce. Da una parte l'affermazione del cristianesimo, con il suo dogmatismo, determina nella società, specie nelle sue espressioni più complesse e raffinate, un abbassamento del livello culturale. Dall'altra promuove una maggiore diffusione della lettura in ambienti che prima non la praticavano affatto. Si legge di più, quindi, ma la grande maggioranza della gente alfabetizzata legge essenzialmente il libro «sacro». In precedenza, al contrario, era minore il numero di coloro che avevano dimestichezza con la parola scritta, ma ben maggiore l'ampiezza dei testi cui potevano e solevano attingere.

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Pagina 250

D. Lei giudica l'ingresso nell'euro una scelta fallimentare?

R. Sì. Capisco il Pd che la difende, ma è solo perché non ha altro da dire. Se si toglie l'euro, che ci ha rovinati, tutta l'esperienza di governo del centrosinistra, con Romano Prodi e con Carlo Azeglio Ciampi, è finita. Che cosa hanno combinato gli eredi del Pci, da quando quel partito si è sciolto? Hanno procurato agli italiani un po' di miseria in più tramite la scelta di entrare nell'euro, compiuta per giunta in modo autocratico, senza alcun referendum. Per qualche tempo, dopo la caduta del Muro di Berlino, hanno avuto come oracolo Bobbio, che veniva intervistato di continuo da Giancarlo Bosetti, poi si sono dimenticati anche di lui. Ed è rimasto solo un europeismo retorico.

D. Io ritengo però che questo atteggiamento del Pd sia comprensibile. Una volta assodato che quel partito non intende mettere in discussione il sistema fondato sull'economia di mercato, la scelta europeista riflette un'opzione a favore del capitalismo renano – più attento alle esigenze sociali, più rispettoso dell'ambiente, meno ossessionato dal profitto a breve termine – rispetto al modello individualistico anglosassone. Non le sembra ovvio per una forza che vuole salvaguardare gli istituti del Welfare socialdemocratico?

R. Sarebbe bello se il Pd si ponesse un obiettivo del genere. Lei tratteggia molto efficacemente un possibile programma del centrosinistra italiano: un'ipotesi che io condivido al 110 per cento, ma purtroppo non corrisponde affatto alla realtà. Mi sembra piuttosto che stiamo smantellando metodicamente lo Stato sociale proprio in nome dell'Europa. Anzi, ciò che lei dice è difforme da quanto effettivamente sta accadendo non solo nei fatti, ma anche nelle parole che vengono proferite. Se lei parla di socialdemocrazia ai dirigenti del Pd, mal gliene incoglie. E tutti i giorni ci viene detto che lo Stato sociale va assolutamente ridimensionato.

D. Ma non pensa che ciò sia necessario per consentire al nostro paese di recuperare competitività e di proseguire sul cammino dell'integrazione comunitaria?

R. Io contesto alla radice l'attuale retorica europeista. Ci viene fatto credere che questo tipo di costruzione, che notoriamente ci penalizza rispetto alla megapotenza tedesca, sia l'unica possibilità di realizzare delle aggregazioni significanti a livello internazionale. Invece ne esistono altre. La Gran Bretagna, per esempio, persegue una politica atlantica di stretto raccordo con gli Stati Uniti. Non vedo perché noi italiani non possiamo promuovere tra i paesi dell'Europa meridionale, importanti e dotati di vaste risorse, un'aggregazione che non penalizzi le nostre esportazioni come sta succedendo con l'euro, di cui oggi si avvantaggia soltanto la Germania. Questo consentirebbe di ridiscutere i parametri di Maastricht, che non sono la legge mosaica. D'altronde alla fine la realtà sbuca fuori, anche se si cerca di coartarla in tutti i modi, come si è visto con i recenti risultati elettorali. È palmare una considerazione che scaturisce dal voto; l'ha formulata sul «Corriere della Sera» del 26 febbraio Massimo Franco: «Ha vinto un'Italia euro-scettica». Ciò è tanto più significativo se si considera che le decisioni fondamentali, relative all'introduzione dell'euro, all'adozione di una qualche costituzione europea, all'approvazione del cosiddetto «fiscal compact», nonché all'inserzione nel testo della nostra Costituzione dell'obbligo di pareggio di bilancio, non sono mai stati sottoposti a referendum popolare. Il voto del 24-25 febbraio è stato una sorta di referendum surrettizio contro tutto ciò.

D. Però le forze più critiche verso l'unione monetaria europea, il Pdl e il Movimento Cinque Stelle, hanno ben poco in comune tra loro.

R. Il fatto è che se io impedisco alla volontà popolare di esprimersi, essa finisce poi per manifestarsi nelle forme più stravaganti. È un po' singolare l'atteggiamento di coloro che hanno impedito che il paese prendesse coscienza e si pronunciasse su una certa politica, ma adesso urlano contro un risultato elettorale imbarazzante, invece di riconoscere l'errore che hanno commesso all'origine. Prendere a calci i fenomeni senza considerarne le cause non è un buon metodo, anche se il Pd è da tempo abituato a farlo. A me non piacciono la violenza verbale e l'isteria di Beppe Grillo e personaggi simili, ma la realtà è che siamo di fronte a un'enorme ondata di disagio e di rifiuto da parte dei cittadini, ai quali è stato impedito di dire la loro quando dall'alto calavano decisioni pesantissime o, peggio ancora, presentate in maniera ingannevole. L'introduzione dell'euro venne esaltata come un grande passo in avanti e invece ha portato al dimezzamento dei salari reali.

D. Lei non crede che, con l'euro o senza l'euro, l'Italia abbia la necessità di ridurre il debito pubblico e la pressione fiscale che gravano sull'economia produttiva?

R. Il problema vero è che ci sono fatti strutturali su cui non mi sembra che si voglia intervenire. È stato detto fino alla nausea che la lotta all'evasione fiscale e all'esportazione illegale dei capitali, ove condotta seriamente, potrebbe risolvere tutti i problemi della finanza pubblica. O si vuole farlo oppure no. Il fatto è che, come notava il grande europeista Altiero Spinelli nel suo libro Pci, che fare? del 1978, quando la sinistra va al governo, i capitali fuggono. E infatti non appena Monti ha cominciato a parlare di rigore e a compiere qualche timida mossa contro l'evasione fiscale, i buoi hanno preso a fuggire dalle stalle.

D. Lei non ritiene che l'avvento di Monti alla presidenza del Consiglio, alla fine del 2011, abbia segnato un miglioramento della situazione rispetto al governo guidato da Silvio Berlusconi?

R. È una domanda un po' imbarazzante, perché si tratta di scegliere tra la peste e il colera. Il governo Monti è stato una soluzione aberrante e disperata, realizzata in modi che tutti sottovoce ammettono essere stati discutibili, non solo per problemi formali, ma anche per questioni sostanziali. Non ho mai avuto nozione di un governo che potesse incidere in maniera drammatica sulla vita delle persone e sui loro mezzi di sussistenza ricorrendo a un ricatto continuo, di modo che i partiti mordevano il freno per mille motivi, ma restavano in ginocchio, blindati ciclicamente dai voti di fiducia imposti dall'alto. A me non piace indossare i panni del predicatore un po' qualunquista, sempre scontento e senza prospettive, ma i fatti sono questi. Si è verificata con Monti una torsione totale del meccanismo democratico. Non si è capito perché in Grecia abbiano votato due volte nel 2012, mentre noi a novembre del 2011, con una campagna elettorale breve, avremmo potuto fare in modo che a prendere le difficili decisioni necessarie fosse un governo politico, legittimato dal suffragio popolare, e invece non lo abbiamo fatto. Tutto questo pasticcio come lo si può giustificare? Di sicuro l'insensata operazione compiuta allora ha messo in ginocchio il Pd, potenziale vincitore di elezioni nell'autunno 2011 e vittima invece del coatto appoggio a Monti per oltre 13 mesi, con il risultato di smarrire in itinere una vittoria annunciata.

D. Sono state proprio le forze presenti in Parlamento che non hanno voluto le elezioni anticipate nel 2011, perché hanno preferito affidare a un governo anomalo come quello di Monti il compito di operare una serie di scelte onerose e dolorose. Su questo i partiti principali si sono trovati d'accordo. Per certi versi abbiamo assistito a un'abdicazione della politica.

R. Non osavo dirlo. Ma se lo dice lei, la seguo: vedo che la sua diagnosi è più feroce della mia. Certo, se siamo arrivati a questo punto, qualcosa non va nella costruzione europea e in particolare nell'euro, visto che, dopo la sua introduzione, il potere d'acquisto di salari e stipendi è sceso vertiginosamente.

D. Non credo però che la colpa si possa addebitare all'euro. C'è una concorrenza globale che molti paesi europei stentano a reggere e la crisi finanziaria in fondo è nata negli Stati Uniti. Forse stiamo assistendo a un declino dell'egemonia occidentale.

R. Può darsi. Ma fenomeni del genere non si puntellano in modo artificioso. Facciamo una terapia di salasso dei contribuenti e di macelleria sociale senza limiti solo per poter dire che l'Europa, cioè la Germania con í suoi vassalli nordici, è una grande potenza? Non mi pare un valore per cui sacrificarsi. Non abbiamo un governo europeo (se ce l'abbiamo, è quello tedesco), non abbiamo un esercito, non abbiamo una statualità di tipo elvetico o statunitense. Abbiamo solo una moneta, che serve alla Germania per imporre all'eurozona i suoi prodotti, peraltro validissimi, mentre noi italiani rinunciamo ad avere una forza espansiva sui mercati. Inoltre, per puntellare tutto ciò, bisogna bastonare la Grecia, mettere in ginocchio la Spagna, schiaffeggiare il Portogallo, strangolare Cipro... Ma nemmeno la Santa Alleanza arrivava a tanto. E non si intravede una prospettiva temporale a questo calvario. Non appena nominato presidente del Consiglio, Monti dichiarò che la politica di austerità doveva durare vent'anni. E in occasione della campagna elettorale ha proposto una sua agenda, fondata sulla prosecuzione della linea restrittiva seguita fino a quel momento. In questo modo ragionava come il famoso prelato — pare si chiamasse monsignor Perrelli — che per risparmiare cercava di abituare i suoi cavalli ad accontentarsi di una razione di biada sempre più ridotta. Quando però li costrinse a non mangiare quasi più nulla, i cavalli morirono e monsignor Perrelli rimase assai stupito. È un aneddoto abbastanza celebre, che ci fa capire perché l'elettorato ha respinto l'agenda Monti.

D. Probabilmente il suo promotore riteneva che quella fosse l'unica strada percorribile per evitare il crollo dell'euro, da cui non usciremmo a pezzi soltanto noi, ma anche la stessa Germania, che infatti si vede costretta a impiegare risorse per aiutare i paesi dell'Europa meridionale.

R. Secondo me i tedeschi terranno in piedi l'euro finché farà comodo alla loro economia, ma hanno già pronta una via d'uscita. Tutta l'Europa orientale è ai loro piedi. Polacchi, sloveni, slovacchi, romeni, bulgari sono in ginocchio con il piattino in mano e riconoscono la Germania come il paese leader. In fondo così si realizza il grande disegno del Führer, il primo vero «europeista». L'unico suo errore fu pensare di raggiungere quel risultato con i carri armati. Si vede che era un uomo ottocentesco, non aveva una prospettiva sufficientemente moderna.

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