Autore Luciano Canfora
Titolo La schiavitù del capitale
Edizioneil Mulino, Bologna, 2017, Voci , pag. 112, cop.fle., dim. 11x17,4x1 cm , Isbn 978-88-15-26736-8
LettoreFlo Bertelli, 2017
Classe politica , sociologia , storia contemporanea












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Prologo. «Viva chi sa tener l'orecchie tese»             9

I.   Europa, Occidente, Occidente "estremo"             15

II.  Dov'è l'Occidente                                  29

III. La guerra fredda e i suoi effetti                  49

IV.  La schiavitù che ritorna                           63

V.   Un pianeta in forma di piramide:
     il capitalismo non può essere globale              75

VI.  Cosa resta dell'utopia                             85


Appendici. Schiavitù e indipendenza nazionale

1. «Non rinuncerò»                                     103

2. «Amici greci»                                       107


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Ci sono vari modi di capire il cambiamento, ma forse si possono ridurre sostanzialmente a due: quello stigmatizzato sarcasticamente da Giuseppe Giusti nel Brindisi di Girella («Viva chi sa tener l'orecchie tese»: v. 162) e quello di chi – tenendo aperti anche gli occhi – non perde mai di vista la posta in gioco. Essa è, a mio avviso, la seguente: per ora, chi sfrutta ha vinto la partita contro chi è sfruttato; dunque si tratta di trovare nuove e più efficaci e più convincenti forme di contrasto dell'ineguaglianza e di lotta per una effettiva libertà. Forme che consentano di capovolgere, nella successiva, inevitabile, manche, la temporanea "sentenza della storia". Nella convinzione, condivisa da ogni essere pensante, che nella storia non esistono sentenze definitive. Immaginare che la storia si stia avviando a conclusione – e che noi siamo i fortunati spettatori di tale mirabile evento – è errore comune sia ai rivoluzionari che ai reazionari. Per parte loro, banali come sempre, i liberali, più o meno "puri", addirittura pensano che il cambiamento come tale non esista nemmeno e che l'ordine sociale esistente sia l'unico possibile.

Oggi noi possiamo comodamente osservare, assisi nei nostri studioli o impegnati in dotti seminari, che errore fu credere che quella manche terribile che si è giocata per tutto il Novecento, messa in moto dalla "Grande guerra", fosse l'ultimo atto della storia. Il brusco risveglio fu determinato dal crollo del lungo, ostinato, alla fine insostenibile, esperimento di "socialismo". Di fronte a siffatte lezioni della storia che determinano strumentali conversioni, frettolose abiure e poca volontà di capire, viene alla mente – come antidoto morale – quello che scrisse Isaac Deutscher a proposito del presidente americano Jefferson: «fu disposto a perdonare persino il Terrore, ma si allontanò disgustato dal dispotismo militare di Napoleone e tuttavia non ebbe nulla a che fare con i cosiddetti "liberatori" dell'Europa» (Profilo dell'ex comunista, in Eretici e rinnegati, 1955).

Ma torniamo al brusco risveglio, che è stato una lezione per tutti. Esso ci ha insegnato molte cose:

1) che la partita è solo agli inizi;

2) che il modello capitalistico (in tutte le sue proteiformi manifestazioni) ha conquistato, alla fine del Novecento, la gran parte del pianeta espugnando e pervadendo di sé Russia e Cina;

3) che solo ora il capitalismo è davvero un sistema di dominio mondiale ma non ha di fronte che spezzoni di organizzazioni per lo più sindacali e inevitabilmente settoriali giacché il capitale è davvero "internazionalista" avendo dalla sua la cultura ed ogni possibile risorsa, mentre gli sfruttati sono "dispersi e divisi" (dalle religioni, dal razzismo istintuale etc.);

4) che, per funzionare, secondo la sua logica del sempre maggior profitto e della lotta spietata per la conquista dei mercati, il capitale ha ripristinato ormai forme di dipendenza di tipo schiavile: non solo in vaste aree dei mondi dipendenti ma creando sacche di lavoro schiavile anche all'interno delle aree più avanzate;

5) che questo fa ovviamente regredire su un piano più generale i "diritti del lavoro" conquistati, in Occidente, grazie alla novecentesca contrapposizione di sistema;

6) che, per gestire questa impressionante mescolanza tra varie forme di dipendenza incluse quelle schiavili e semi-schiavili, il contributo della grande malavita organizzata è fondamentale.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 44

Pierre-Marie Gallois pubblicò a Ginevra, nel 1995, Le soleil d'Allah aveugle l'Occident («Il sole di Allah acceca l'Occidente»). La tesi di fondo di questo libretto, che oggi appare quasi profetico, è duplice: da un lato la constatazione che, nonostante le divisioni interne, l'islam, di nuovo sulla scena della storia, si muove in modo unitario, «come una grande potenza».

Dall'altro che questa nuova grande potenza ha trovato un insperato alleato negli Stati Uniti:

Per ragioni politiche ed economiche, spesso petrolifere – scriveva Gallois –, l'America ha sostenuto la Bosnia contro la Serbia, appoggia la Turchia e il Pakistan, ignora la persecuzione dei cristiani nel Sudan meridionale, non esita a chiudere un occhio di fronte a certe trame degli ambienti islamici più radicali [...] E in ciascuna di queste circostanze non tiene in alcun conto gli interessi dell'Europa (p. 20).

È soprattutto erroneo, nel mondo attuale, credere che un problema stia soltanto da una parte o riguardi solo alcuni. Oggi Orienti e Occidenti si intrecciano inestricabilmente.

E comunque la discriminante non è più tra Oriente e Occidente ma tra Nord e Sud del mondo: e il Sud non sta solo al Sud ma è presente, a chiazze o a "pelle di leopardo", praticamente ovunque. E sarà sempre più così, grazie ad un fenomeno inarrestabile quale l'immigrazione: vengono a riprendersi quello che lo "scambio ineguale" ha tolto loro.

Il Sud è anche nel cuore di New York, di Londra o di Roma, così come chiazze di ipersviluppo nordista sono a Taiwan o a Singapore.

Il problema che sta davanti al secolo, ormai non più in fasce, come un macigno non è quello dei rapporti tra Oriente e Occidente, ma quello di riequilibrare quanto prima possibile l'ingiusta divisione della ricchezza. Senza di ciò, il conflitto per la sopravvivenza (nelle sue forme più varie, compresa l'invivibilità delle metropoli) sarà la caratteristica dominante dei decenni che ci attendono.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 81

Oggi la prospettiva non può che essere storiografica. E soprattutto giova chiedersi quanto dell'analisi che Marx tentò del funzionamento del capitalismo ci aiuta a capire il presente. Azzardiamo una risposta. Non sono più attuali le prospettive operative che Marx propugnò – tutte alla fine contraddette dalla realtà –; resta in piedi invece la sua geniale intuizione di fondo: che il capitalismo è quel titanico stregone il quale, unificando il pianeta nel nome e nel segno del profitto, ha suscitato e scatenato forze che non sa e non può più dominare. Ma queste forze non sono soltanto le ribellioni delle classi oppresse, le quali sono ormai abbagliate soprattutto da follie palingenetiche a base religiosa, sono le ferite irreparabili inflitte al pianeta, avviato al disastro bio-ambientale perché lo "stregone" non intende arretrare rispetto alle sue scelte miopi e devastanti. Non ha torto Sassoon quando fa dire a Marx, nel corso di una intervista immaginaria, che, in ultima analisi, «il capitalismo non può essere globale». (E sbotta in un esempio sarcastico ma a suo modo emblematico: «quattro miliardi e seicento milioni di ascelle che ricorrono allo spray deodorante» produrrebbero «il suono assordante dello strato di ozono che si spacca»!)

Questa macchina infernale non può auto-correggersi se non negando il primum movens che invece ha posto sopra ogni altro valore: il profitto a qualsiasi prezzo e con qualsiasi rischio: anche quello di fare affari vendendo armi a chi le adopera per colpire all'impazzata nel cuore del mondo ricco.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 83

VI.
Cosa resta dell'utopia





Partirò da un dato empirico. Il mondo che già si autodefiniva "libero" (ma «Eleftheros Kosmos» era il quotidiano dei colonnelli greci) – per antitesi al mondo connotato negativamente dal muro berlinese – è invece ormai pieno di muri:

tra Stati Uniti e Messico,

tra Macedonia e Grecia,

tra Ungheria e Serbia,

si ipotizzava anche tra Austria e Italia,

tra Marocco spagnolo e regno del Marocco,

tra Israele e Palestina,

per non parlare di Calais e Ventimiglia...

È certo una catastrofe umana, che però comporta anche un effetto collaterale lessicalmente positivo: la gioviale falange giornalistica rinuncia ormai vieppiù allo pseudo-concetto di datare il decorrere del nuovo secolo (presuntamente radioso) con "la caduta del muro di Berlino"!

Cosa resta, allora, dell'utopia al passaggio nel nuovo secolo? Ma prima si dovrebbe chiarire di quale utopia parliamo. Il socialismo? Ma il suo ciclo vitale si era esaurito già ben prima che finisse il secolo XX, anche se il suo lascito principale fu – imprevisti della storia – il processo mondiale di decolonizzazione. L'idea di progresso? Ma ben sappiamo che tale idea, o speranza, inquadrata a metà Ottocento nello schema un po' scolastico e di origine illuministica di Auguste Comte, in alcune epoche – ad esempio la nostra – viene brutalmente smentita dai fatti: e sembra non solo arretrare ma soccombere.

[...]

Come si sa, l'abituale surplus di retorica ci ha assuefatti ad ascoltare frasi quali: «Il sogno federalista di Altiero Spinelli, messo per iscritto nel confino di Ventotene, s'è alfine fatto realtà». Questo è il rumore di fondo. Ma le cose stanno altrimenti. La visione "europea" di Spinellí, quale è espressa nel Manifesto di Ventotene, comportava grandi e audaci propositi di rinnovamento. Cito alcuni stralci dalla recente ristampa Bur, che «si può acquistare per due dracme nell' agorà»: «La metodologia politica parlamentaristica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria» (p. 22); «la proprietà privata dev'essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso» (p. 30); «non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un'attività monopolistica, sfruttano la massa dei consumatori» (p. 31). E così via (leggere i libri è sempre utile). Oggi possiamo osservare che non solo quel progetto non è mai partito su tali basi, ma addirittura volge al declino anche l'interpretazione meramente bancaria "egoistica" che di quel progetto europeistico è stata attuata. «Brexit» docet.

Resistono, dunque, nel tempo nostro, pur se dotate di armi tutt'affatto diverse, anzi campeggiano sulla scena del mondo, due diverse utopie, tra loro molto distanti, ma entrambe in difficoltà: l'utopia della fratellanza e l'utopia dell'egoismo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 95

E per finire sia concessa una riflessione analogica: la parabola del cristianesimo e quella del comunismo moderno furono per molti versi affini. Il cristianesimo sorse in Galilea come movimento radicale e di contrapposizione totale ai valori del mondo circostante e dominante. Quando uscì dalla Galilea e, ad opera di Paolo di Tarso, scelse la strada della "mescolanza" con la realtà esterna, in capo a tre secoli, al di là delle intenzioni del suo rifondatore (quale fu appunto Paolo), era già divenuto tutt'altra cosa: e rassomigliava ormai parecchio all'antagonista di un tempo. Era diventato quasi uno Stato dentro l'Impero. Alla fine fu esso a restare saldamente in piedi mentre l'Impero cadeva in pezzi, come un intonaco troppo vecchio. Ma l'assimilazione all'antagonista non fu solo politica, fu molto più profonda anche sul piano stesso della religione. Le due forme di assimilazione si alimentarono a vicenda. Il cristianesimo infatti per un verso si grecizzò impregnandosi – nelle sue fasce più alte – di filosofia greca, e per l'altro, nella base popolare, si paganizzò. Prese, dal paganesimo e dai culti che ad esso avevano fatto da contorno come "religione popolare", quasi tutto il prendibile: il politeismo risorse attraverso il culto dei santi, ricomparve la triade divina, ricominciarono i prodigi, furono in auge i santoni guaritori, e daccapo trionfò la maestosità dei riti. Ponendosi in sempre più mimetica continuità con il lunghissimo passato della religiosità preesistente, il cristianesimo si assicurò un lunghissimo futuro. Che dura ancora. Del cristianesimo autentico e originario, in compenso, rimase poco o nulla.

Analogo è stato il processo del comunismo, dal tragico ed eroico esordio con la Comune di Parigi (1871) alla trasformazione delle postreme élite del declinante "socialismo reale" in nuovi oligarchi del ripristinato capitalismo.

Nel caso del comunismo del secolo XX il processo è stato ben più veloce che nel trapasso da Paolo di Tarso a Teodosio il Grande. Tutto si è consumato, per la velocità tipica dei processi storici moderni, nel giro di meno di un secolo. E questo ha reso ancora più evidente e più chiaro l'andamento delle cose.


Sorge a questo punto la domanda che fa soffrire nel profondo le persone morali che hanno attraversato di scacco in scacco la politica dell'ultimo mezzo secolo: fu dunque tutto vano? dal "discorso della montagna" alla presa della Bastiglia, dall'Ottobre rosso alla "lunga marcia", dalle tesi di Lutero alla liberazione di Saigon, o di Cuba (già «bordello dell'impero americano» ai tempi gloriosi del sedicente "mondo libero") e via esemplificando? Tutto torna dunque ogni volta al punto di partenza ed è inutile consolazione ripetersi a fior di labbra «Eppur si muove»? Credo di no.

La storia procede a spirale. Dà l'impressione di tornare indietro anche quando, faticosamente, procede. Ma non fa questo per tener contenti i filosofi né perché animata da una logica immanente (e, e chi sa perché, progressiva, come pensavano per diverse vie Spinoza e Marx). Procede così perché movimentata necessariamente dalla ingiustizia lancinante: che risulta fisicamente intollerabile, beninteso per chi si trova dalla parte "sbagliata".

«A tre chilometri dal mio villaggio – disse Mao a Malraux in una celebre intervista – certi alberi non avevano più la corteccia fino a quattro metri, gli affamati l'avevano mangiata». È proprio da quel lancinante disagio che nasce il movimento permanente della storia: caotico, disordinato, distruttore di idoli e di nomenclature, ma appunto, pur sempre movimento. Che non vuol dire, sempre, progresso.

Ci sarà sempre chi immaginerà di conoscere il senso e la direzione di tale movimento, o addirittura immaginerà di "governarlo" e di "guidarlo". Noi non possiamo prevedere quali nuovi miti e quali nuove parole, nel tempo avvenire, si proporranno ancora una volta come interpreti se non addirittura piloti di esso. Possiamo solo immaginare che anche costoro, alla lunga, non reggeranno: a fronte, oltre tutto, di una veloce e incessante mutazione tecnologica, che destabilizza, in fretta, ogni certezza.

La libertà è un ideale intermittente – osservò Tocqueville nel ripensare il tragico "ciclo" '89-'93 –, l'uguaglianza, invece, è una necessità che si ripresenta continuamente, come la fame. Così Tocqueville si avvicinava di molto alla scoperta dell'impulso primario, del primum movens del moto storico.

| << |  <  |