Copertina
Autore Mario Capanna
Titolo Il Sessantotto al futuro
EdizioneGarzanti, Milano, 2008, Le forme , pag. 152, cop.ril.sov., dim. 13x20,3x2 cm , Isbn 978-88-11-68081-9
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe politica , storia contemporanea d'Italia , movimenti
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Indice


1. La distanza                                                 9

«Il nostro programma si basa sulla convinzione che l'uomo
e l'umanità sono capaci non soltanto di conoscere il mondo,
ma anche di trasformarlo.»
                                         (Alexander Dubcek)

«Ogni previsione sul mondo reale si basa in gran parte su
qualche inferenza per il futuro tratta da ciò che è
accaduto nel passato.»
                                         (Eric J. Hobsbawm)

2. Il re è nudo                                               41

«Sul piano culturale è avvenuto qualcosa di definitivo, il
denudamento delle istituzioni in quanto funzioni del potere.
E da allora che il potere va in giro nudo.»
                                         (Ernesto Balducci)

«La tragedia delle democrazie moderne è che non sono
riuscite a realizzare la democrazia.»
                                         (Jacques Maritain)

3. Rischio estremo                                            59


«La tecnica è una nuova forma di schiavitù. (...) Siamo
schiavi pensando di essere padroni.»
                                       (Hans Georg Gadamer)

«Bisogna accettare il trionfo del capitalismo finanziario,
con tutte le sue conseguenze, la globalizzazione e le
delocalizzazioni, perché sono nel nostro interesse o perché
questa è la direzione intrapresa da un movimento ebbro di
se?»
                                          (Tzvetan Todorov)

4. La presenza                                                85

«1968: l'anno che ha creato il mondo. Ciò che noi oggi
siamo, lo dobbiamo infatti al Sessantotto.»
                                («San Francisco Chronicle»)

«Il fine non è di avere ciascuno la propria strada, ma di
avere una strada che sia la propria.»
                                  (Manifesto di Port Huron)

                ... contiguità...
Una vita                                                     123



 

 

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La rivoluzione del 1968 non ha precedenti, e ciò risulta evidente dalle sue caratteristiche inedite.

In primo luogo per la sua quasi incredibile ampiezza – e simultaneità – planetaria: ogni continente ne fu percorso.

In secondo luogo perché non aveva come obiettivo la presa del potere, secondo i canoni di una rivoluzione classica, ma la radicale messa in discussione dei presupposti su cui il potere, in ogni sua forma, è stato storicamente costruito, e la rivendicazione di essere diversi rispetto a coloro che il potere lo detengono.

Un'alterità di principio e pratica: non possedere il mondo, fino a metterne a repentaglio l'esistenza, ma convivervi.

L'uguaglianza non già nel senso impossibile che tutti sono parimenti forti e intelligenti, ma in quello possibile, e doveroso, della pari dignità. Fra gli esseri umani. E fra loro e tutti gli altri esseri.

In questo senso – e solo in questo senso – Benedetto XVI coglie un fondamentale elemento di verità, quando parla di rivoluzione culturale del Sessantotto.

Si comprende, in ultimo, il terzo tratto distintivo degli sconvolgimenti di allora: è stata l'unica rivoluzione non consumata.

Ovvero: non finita stritolata nelle dinamiche simmetriche a quelle che intendeva combattere. Come accadde, per esempio, alla Rivoluzione francese.

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Avevamo alle spalle l'ecatombe di morti, le immense distruzioni della seconda guerra mondiale, e volevano persuaderci che era necessario, utile e nobile aggredire un popolo a migliaia di chilometri di distanza, che, peraltro, non aveva commesso alcunissimo torto nei confronti dell'aggressore.

Il Vietnam si «meritava» i bombardamenti a tappeto, compreso l'uso del napalm e della diossina, per un totale di bombe sganciate superiore a quelle impiegate in tutto il secondo conflitto mondiale; e i cecoslovacchi del «socialismo dal volto umano» dovevano «gradire» di essere schiacciati dai cingoli dei carri armati: il linguaggio del re, al fondo, era uguale all'Ovest come all'Est.


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Quando prendemmo a mobilitarci massicciamente – in ogni capitale e città, quasi in ogni università, scuola, fabbrica, piazza e strada – non ci muovemmo solo contro l'ignominia di quelle aggressioni.

A essere attaccati frontalmente – e triturati sul piano dialettico – furono le «ragioni» e i «fondamenti» di potere che ne stavano all'origine.

Il Sessantotto costituisce la critica più radicale ai presupposti stessi della guerra – di ogni guerra.

In questo si pone a una distanza enorme dalla Rivoluzione francese, in particolare dal suo giacobinismo guerresco, e va oltre lo stesso orizzonte culturale dell'Illuminismo (fatto salvo il grande Kant di Per la pace perpetua).

Apparivano infatti evidenti, già allora, non solo gli esiti catastrofici della corsa agli armamenti, non solo i pericoli della «guerra fredda», sempre in procinto di divenire calda, ma anche il nesso stretto fra le ingenti spese militari e la miseria, ancora oggi perdurante, di tanta parte dell'umanità.

La critica radicale, dunque, riguardava sì il presente, ma anche l'idea di futuro che mostravano di avere coloro che imprigionavano il presente in quel modo.

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Mettere in discussione la finzione della democrazia fu certamente una delle temerarietà maggiori del Sessantotto.

Dov'era la «democrazia» nel decidere di aggredire, manu militari, altri popoli, per impedirne l'autonomo destino?

Dov'era la «democrazia»,nel tenere ancora al laccio le colonie, come la Guinea Bissau, l'Angola, il Mozambico, Hong Kong?

Dov'era la «democrazia» quando la percentuale di laureati arrivava a malapena al 3,8 per cento della popolazione, e il 90 per cento di quel 3,8 per cento era costituito dai figli dei ceti benestanti?

La «democrazia rappresentativa» (di chi? di che cosa?) comincia rapidamente ad apparire come la foglia di fico con cui il «re» cerca di coprire la propria nudità.


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Quando cominciano a prendere forma le esperienze di democrazia diretta – nelle Università, nelle scuole, nelle fabbriche – la scossa non incrina più solo le pareti dell'edificio, ma le sue stesse fondamenta.

Negli ambiti di democrazia diretta non solo si decide – lì, insieme, a viso aperto – ma si va anche a verificare l'applicazione e l'esito delle decisioni prese. Si valuta il loro risultato e, se necessario, si interviene per correggerlo e modificarlo.

L'esercizio effettivo della democrazia è fatica. Non è costituito dalle collaudate cerimonie della delega, nel gioco di rimandi delle attribuzioni e dei ruoli: è impegno qui e ora. È lotta.

L'assemblea ne diviene il luogo naturale, come la palestra per gli esercizi degli atleti.

Prendere la parola, superare il complesso del microfono (cosa meno facile di quanto sembri), venir fuori dal guscio del silenzio e «scoprirsi», dimostrare di avere delle idee ed esporle di fronte a centinaia — spesso migliaia — di persone, criticare e sentirsi criticare, contestare, immaginare e proporre, argomentare e ragionare dinanzi a tutti, non è solo una conquista dell'intelletto.

È, per così dire, la fisicità della mente che prende corpo, insieme a quella degli altri. Dopo, non sei più come prima. Ti senti un altro, perché sei un altro.

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Abituato a lungo a non dover dare conto della propria (il)legittimità, il potere si trovò di colpo a essere messo in discussione alla radice, e praticamente in ogni luogo: in quelli di studio e di lavoro, nelle istituzioni (a cominciare da quelle «totali» come carceri, manicomi, esercito), nelle famiglie, nelle chiese.

Delegittimato nei due campi fondamentali del «diritto» alla guerra e del funzionamento della «democrazia», rimase all'inizio come inebetito quando venne attaccato il cuore stesso della sua esistenza: il profitto.

Quando, sull'esempio degli studenti, cominciano a lottare i lavoratori, lo sconcerto del «re» si trasforma rapidamente in seria preoccupazione.

Da questo punto di vista le battaglie operaie del 1968 e, in particolare, quelle dell'«autunno caldo» del 1969 fanno dell'Italia un caso esemplare.


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Abolizione delle «gabbie salariali», ovvero delle diverse remunerazioni per cui, a mansioni identiche, veniva corrisposto un diverso salario fra regione e regione e, spesso, anche fra province della stessa regione; mentre prima la Costituzione si fermava ai cancelli degli stabilimenti, ora vi sorgono invece organismi di rappresentanza diretta, prima i CUB (comitati unitari di base) poi i consigli di fabbrica, oltre le assemblee; la settimana lavorativa, da 48 e più ore, passa a 40; si ottiene la parità normativa fra impiegati e operai; rifiuto della «monetizzazione della nocività»: non qualche soldo in più a compenso della decurtazione della vita, ma la rimozione delle cause che fanno ammalare sul lavoro; aumenti salariali uguali per tutti, dato che il salario è ritenuto – orrore! – una «variabile indipendente», non legato, dunque, alla redditività dell'impresa, per cui se essa, in un dato momento, produce meno ricchezza, a decurtarsi siano i profitti e non i salari; persino 150 ore l'anno, pagate, che i lavoratori dedicano al miglioramento della propria istruzione: sono tutte cose che il «re» non aveva mai udito, né visto, né mai pensato di dover concedere.

Con una aggravante dolorosa: costavano e alleggerivano non poco le sue tasche.


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La contestazione in merito alla finzione della «democrazia» e la messa in discussione delle «leggi oggettive» del profitto potevano far traballare seriamente il trono.

Per puntellarlo, si ritenne necessario giungere alla strage di piazza Fontana, al tentativo di colpo di stato non riuscito, e a tutte le nefandezze che dal sangue di Milano percorreranno gli anni successivi.


Nessun giudizio storico sul Sessantotto potrà dirsi fondato, se non si tiene nel debito conto la repressione, generalizzata e sistematica, che in ogni parte del mondo, quasi ubbidendo a un comune riflesso condizionato, gli venne opposta.

Dai governi, dagli stati, dai parlamenti come dai partiti unici, dagli eserciti come dalle chiese. In forme analoghe, sotto ogni cielo.

Fino a ricorrere agli assassinii (Martin Luther King, Bob Kennedy, l'attentato semimortale a Rudi Dutschke a Berlino Ovest), alla minaccia di colpo di stato (De Gaulle in Francia), alle leggi eccezionali (Germania Ovest), agli eccidi (Città del Messico), ai carri armati (Praga), ai bombardieri (Vietnam), alle stragi.

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Quando, vedendo già bene la degenerazione della «democrazia», demmo vita alle più diverse e diffuse forme possibili di democrazia diretta, non eravamo dunque né illusi né fuori dal mondo.

È grazie alle esperienze vive di democrazia diretta, come si è visto, che le donne e gli uomini possono sviluppare — qui, ora — una immensa forza di trasformazione, smettere di essere «idioti» e divenire intelligenti (capaci di leggere tra e dentro le cose), comportarsi secondo il principio I care («mi interessa») rispetto a tutto, e raggiungere conquiste importanti di libertà e progresso, di cui non a caso si parla tuttora, anche perché tuttora ne godiamo i frutti.

Certo, quella diretta non può essere la forma esaustiva e permanente della democrazia: una abolizione totale della delega è difficilmente pensabile. Ma non è questo il punto.

La questione decisiva è che la democrazia si difende – si allarga, si vivifica, si irrobustisce – con maggiore democrazia, non con meno.

In questo senso la partecipazione diretta, corale, determinata e consapevole, è l'anima della democrazia, mentre il voto (di delega) ne costituisce parte minima.

Viene in mente Giorgio Gaber quando, una manciata d'anni dopo il Sessantotto, cantava: «C'è solo la strada su cui puoi contare / la strada è l'unica salvezza / (...) perché il giudizio universale / non passa per le case / le case dove noi ci nascondiamo / bisogna ritornare nella strada / nella strada per conoscere chi siamo».

E per sapere, e decidere insieme, dove vogliamo andare. Occorre la democrazia, per andare oltre la «democrazia». E la politica, per andare oltre la politika.


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Non è che oggi non si stia muovendo nulla. Non è vero, per esempio, che tutti i giovani siano... bolliti, depersonalizzati dal consumismo ecc.

Molti sono inquieti e si interrogano, e i movimenti new-global (che si portano dentro tanto Sessantotto) lavorano per contrastare le tendenze dominanti più distruttive. Ma non è sufficiente dinanzi alle inedite, tragiche urgenze.

È indispensabile una nuova, generale, durevole irruzione di movimenti trasformatori sulla scena del mondo, per impedire che si superino le «soglie dell'irreversibile», e per garantire il futuro umano.


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In questa direzione è degna di nota l'esperienza di impegno e di mobilitazione di massa, che si è dispiegata in Italia nell'autunno 2007.

Si sono messe insieme, dando vita alla coalizione ItaliaEuropa-liberi da OGM, trentadue organizzazioni: quelle professionali maggiori dell'agricoltura, quelle dell'artigianato, della piccola e media impresa, della moderna distribuzione, degli ambientalisti, dei consumatori, della cooperazione internazionale, con vasto coinvolgimento di ampi settori della scienza e della cultura.

Uno schieramento imponente, che annovera, nelle proprie file, circa 11 milioni di associati.

La coalizione ha organizzato un dibattito-consultazione nazionale sul tema: OGM e modello di sviluppo agroalimentare dell'Italia.

Per ben due mesi, con migliaia di assemblee, convegni, incontri, riunioni fin nei più piccoli comuni (nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, nelle piazze come nelle sagre paesane...), oltre che tramite Internet, e stato coinvolto l'intero paese.

Sono stati raccolti più di 3 milioni di «voti firmati». su un fac-simile di scheda referendaria, contenente il quesito ecc. Si è trattato, in pratica, di un referendum propositivo, posto in essere anche se... non contemplato nel nostro ordinamento costituzionale.


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Tutto questo impegno è stato sorretto da un ragionamento semplice e forte: il vero «petrolio» dell'Italia consiste nella miriade dei suoi prodotti agroalimentari di qualità, legati ai territori e alle loro culture, genuini e unici, pregevoli e famosi, che tutto il mondo apprezza e compera, e molti cercano persino di imitarli, a riprova che sono ineguagliabili.

Perciò l'agroalimentare deve divenire il cuore strategico dello sviluppo. In questa prospettiva non c'è – e non ci può essere – spazio per gli OGM: se introdotti, oltre i problemi di sicurezza e del sequestro brevettuale delle conoscenze, non solo sarebbero economicamente non convenienti, ma farebbero anche tabula rasa della unicità qualitativa dei nostri prodotti, il che costituirebbe una scelta di vero e proprio autolesionismo.

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