Copertina
Autore Massimiliano Capati
Titolo Finimondo
SottotitoloUna lettura del novecento italiano
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2000, le rane , pag. 120, dim. 115x168x8 mm , Isbn 978-88-359-4933-6
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe critica letteraria , storia contemporanea d'Italia , storia sociale
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Indice

    9    Premessa

   11    Rumori di un mondo altro

   23    Dopo la belle époque

   49    La vita fredda

   69    America amara

   83    I nuovi mostri

   99    Sguardi sul finimondo attuale

  111    Nota

 

 

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Pagina 11

Rumori di un mondo altro


Nessuna epoca come il ventesimo secolo ha impiegato tanto tempo a dire, raffigurare, descrivere se stessa. Se questo sia indizio di maggiore consapevolezza rispetto alle età precedenti o una sorta di malattia della senescenza, non saprei dire. È forse piú importante verificare quanto le nostre visioni del ventesimo secolo, nonostante il surplus storiografico, siano ancora condizionate da intoccabili luoghi comuni. La storia dell'Italia novecentesca è una di queste zone irrigidite da rappresentazìoni talmente schematiche da riuscire convincenti. Formule coniate in momenti di dure polemiche ideologiche continuano ad avere larga diffusione, e alcuni valori primari del novecento si sono persi per strada. Croce e Gentile per esempio; convitati di pietra ai quali fu appeso un cartiglio inamovibile con su scritto, rispettivamente, «dittatore culturale» e «servo di regime». Non era il modo piú adatto di affrontare la loro opera che, proprio per questo motivo, continuò a influenzare intellettuali filosofi letterati negli aspetti piú discutibili e antiquati. Ripensare la vicenda culturale dell'Italia novecentesca dovrebbe essere invece tanto piú urgente in un momento in cui le revisioni storiche, artistiche, letterarie sono affidate sempre piú a polemiche occasionali o subordinate a interessi di schieramento politico e accademico. La difficoltà di un simile proposito è indubbia, ma in compenso le prospettive di indagine sono innumerevoli. Qui proverò a raccontare una sola di queste storie, partendo da una semplice constatazione.

Leggendo una poesia di Pascoli, di D'Annunzio, persino dei primo Montale, o una pagina di Croce, può accadere di avvertire qualcosa di irrimediabilmente arcaico, e non solo per ragioni formali. Come il rumore di un mondo altro. Croce pronuncia le parole patria o morale con una nettezza, una sicurezza storica ormai irraggiungibile. E provando a staccare dal contesto una sua frase ispirata, potremmo persino scambiare una seria riflessione etica per una orazione. Ecco un passo dalla Storia d'Europa, la sua piú alta meditazione sul destino dell'occidente: «Altri, con diversa mente, diversi concetti, diversa qualità di cultura e diverso temperamento, presceglieranno altre vie e, se ciò faranno con animo puro, obbedendo al comando interiore, anch'essi bene prepareranno l'avvenire».

Chi potrebbe esprimersi oggi in questi termini?

In modo se non analogo almeno comparabile, molti versi dei grandi poeti tra otto e novecento ci restituiscono un paesaggio di oggetti e di consuetudini in gran parte scomparsi o comunque lontani dalla nostra esperienza quotidiana: la carrucola poteva cigolare nel pozzo, i galletti potevano essere arguti e il paesaggio era senz'altro nettunio, la vite era pampinea e il villan era pio. Certo, la sopravvivenza di una poesia o di un racconto non è affidata solo agli oggetti evocati, ma a quella «resistente virtú vitale ch'è lo stile» (D'Annunzio) o alla capacità di esprimere sentimenti e concetti di lunga durata o di ampia traducibilità (per non usare il termine universalità, normale in quegli uomini e oggi appunto a rischio di invecchiamento). Ma allo storico toccherà di registrare il mutamento linguistico, sociale, culturale. E dovrà notare che fino agli anni cinquanta o sessanta questi autori potevano essere letti magari con biasimo, ma senza avvertire una distanza semantica assoluta. E non stiamo parlando di scrittori chiusi nella contemplazione del passato, ma di autori che segnano in modi diversi l'impatto della storia e della lingua italiana con la modernità novecentesca.

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Pagina 26

[...] La verità è che all'inizio del novecento la dottrina liberale aveva perso gran parte del suo fascino. Cosí come era accaduto al socialismo, dopo il momento dinamico di fine secolo. Non tutti però chiusero gli occhi o si acconciarono ai nuovi eventi: Nitti, Salvemini, Don Giustino Fortunato - e, tra i piú giovani, Gramscì, Amendola e Gobetti - videro subito il baratro che il fascismo avrebbe aperto sotto i piedi dei paese. Tra gli illusi invece, per breve tempo, ci fu anche Croce, che pure riteneva il fascismo incapace di creare nuove istituzioni politiche, ma adatto a riportare un po' di ordine in attesa della restaurazione di un piú solido regime liberale.

Col definitivo assestamento dittatoriale del regime, che imprimeva alla storia italiana una direzione affatto diversa rispetto a quella da lui auspicata, si pose il problema di una strategia del dissenso. Scrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti e divenne il maggiore oppositore in patria del regime. Con gli anni cominciò a logorarsi in lui persino l'idea risorgimentale della nazione. Fino a quando, durante la seconda guerra mondiale, arrivò ad augurarsi una sconfitta dell'Italia, di quella Italia, con tutte le conseguenze disastrose che avrebbe portato.

Parallela a questi eventi è l'esigenza di rivedere il suo sistema teorico. Croce aveva rappresentato l'ultimo tentativo umanistico e filosofico di comprendere e ricomporre tutto il reale. Viveva in lui il grande sogno enciclopedico europeo, che da tempo ormai era affare di scienziati della natura. Questo tentativo di comprensione enciclopedica avveniva in un paese per tanti aspetti anacronistico come l'Italia della prima metà del novecento: molte espressioni della sensibilità moderna ne erano rimaste fuori. È come se a un certo punto le realtà da lui lasciate ai margini del sistema si ribellassero e chiedessero ascolto. Si accorge che la dialettica storica non domina né elimina il male, il regresso, il negativo. La Storia della età barocca, nella necessità di essere storia di un'epoca da lui considerata in negativo, storia di decadenza, è il segno di una tormentata rielaborazione. Il problema del negativo nella storia arriverà a configurarsi nelle ultime opere come una nuova visione della vitalità. Questa forza primigenia, «i] peccato originale della realtà» - che è dunque, precisamente, fuori dei dominio della Filosofia dello Spirito - infrange le distinzioni, impone un ripensamento della sintesi dialettica. Tale ripensamento Croce non svolgerà per intero, lasciando l'incompiuto progetto come suggestione storico-filosofica per le future generazioni. Sono problemi che sembrano invece non sfiorare Gentile, che resterà fermo a una idea razionale e progressiva della realtà. Nelle sue pagine non c'è una esplicita consapevolezza della crisi della civiltà, come c'è invece in allievi come Ugo Spirito o Delio Cantimori, incessanti interlocutori del nemico Benedetto Croce.

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Pagina 39

[...] Come D'Annunzio, Montale ha sentito un mondo che scompariva e ne ha trattenuto l'immagine. Entrambi hanno vissuto una distruzione. Con una differenza sostanziale, che quasi compendia tutto il bene e tutto il male della loro poesia. Per D'Annunzio la guerra è una avventura formale e sensuale, mentre per Montale è una condizione esistenziale. D'Annunzio è poeta di luce, anche di luce notturna. Da qui la sua intermittente bellezza ma anche la sua profonda irresponsabilità. Per lui è il giorno che non può morire. «'Il Giorno' disse pianamente Erigone / verso la sua luce "non potrà morire. / Mai la sua faccia parve tanto pura, / non ebbe mai tanta soavità." / Era la sua parola come il vento / d'estate quando ci disseta a sorsi».

Al contrario, per esistere, Montale ha bisogno del buio. Il buio gli dà vita; ed è per questo che ha saputo esprimere come nessun altro in lingua italiana il male del secolo. La speranza di luce in Montale è sempre remota, lontana. Deve essere lontana. Accucciato nell'ombra come un paguro in una conchiglia rubata, lí ha trovato il suo abito, la sua certezza. Non osa nemmeno cambiare conchiglia, perché «il paguro non guarda per il sottile / se s'infila in un guscio che non è il suo. / Ma resta un eremita. Il mio male è / che se mi sfilo dal mio non posso entrare nel tuo».

Ed è forse per questi motivi che ci si allontanò da quei versi quando si volle dimenticare l'orrore del secolo. Molti lettori si erano comunque ritrovati in quella compresenza di tragica condizione umana e di speranze remote, in quegli appuntamenti mancati con l'alterità della grazia e della morte. «È scorsa un'ala rude, t'ha sfiorato le mani / ma invano: la tua carta non è questa.» L'apparente contraddizione, il messaggio metafisico, l'oscurità, la difficoltà di quei versi prosciugati dei succhi emotivi, non hanno ostacolato la diffusione della sua poesia nella seconda metà del novecento; età che è sembrata volersi allontanare dai grandi entusiasmi, dalle passioni laceranti, per ritrovarsi e riconoscersi in una veramente salvifica mediocrità. Il tempo del non-amore ha sinceramente amato Montale.

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Pagina 49

La vita fredda


Seguendo queste e altre suggestioni, si potrebbe tracciare con qualche approssimazione il grafico italiano della «percezione della fine», durante il trentennio tra le due guerre. Uno dopo l'altro, scrittori, filosofi, intellettuali cominciavano ad avvertire il senso di una sconfitta epocale. Alcuni ne traevano però motivo d'orgoglio. Nella mente di molti suoi sostenitori il fascismo stesso era una continuazione del risorgimento in un'epoca nuova. Si cantava giovinezza. Questo almeno ebbero in comune alcuni capi dei diversi regimi dittatoriali o totalitari (fascisti, nazisti, comunisti) con alcune riflessioni di Nietzsche: avvertivano una decadenza e credevano di trasfigurarla interpretando la parte degli uomini nuovi, giovani, moderni. L'incubo del passato era cosí proiettato e risolto nell'avvenire, che si voleva credere meraviglioso. Nessuno stupore quindi per i toni di fanfara dei fascismo. Era tempo di tromboni e di grancasse. Ma anche l'ottimismo forzoso di regime rivela qualcosa di posticcio: deve essere gridato sempre piú alto per credere a se stesso. Poi la seconda guerra mondiale verrà a sancire tutte le piú buie previsioni. E dopo la breve ripresa della resistenza e dei dopoguerra - in cui poté essere scritta la bella Costituzione - gli anni cinquanta si mostrano come lungo strascico dei grandi conflitti precedenti. È allora che si farà di tutto per svuotare di senso la grande cultura di primo novecento. La guerra fredda evidentemente era entrata a raggelare la mente delle persone, se persino le migliori ne risentiranno gli effetti. L'inferno era ancora troppo vicino nel ricordo per mettersi a festeggiarne la fine. La cultura europea sente tutto il peso delle guerre, delle persecuzioni razziali, e ripiega su di sé. L'Italia, abituata da qualche secolo di precettistica e di retorica, è all'avanguardia in questo movimento di autoimputazione. Terrorizzati dalla catastrofe in cui si erano trovati a vivere, intellettuali e scrittori sembravano tacitamente accordarsi in un'opera di bonifica morale. Si invocava un nuovo illuminismo e un nuovo positivismo. Era tempo di lavorare. Questa invocazione proveniva anche dalla maggiore personalità della vecchia Italia, Benedetto Croce, che già durante il fascismo aveva chiamato gli uomini di cultura al lavoro serio, contro le distorsioni e falsificazioni della propaganda. In seguito divenne una specie di richiamo di guerra, destinato ad avere effetti deleteri. Si antepose il richiamo retorico del Lavoro al pensiero, all'intelligenza, all'immaginazione. Niente piú avventure, fantasie, esperienze vitali esorbitanti dalla norma. Tra l'altro, si pensò di richiudere come pratiche archiviate nel cassetto - o nel subconscio - le grida di dolore sulla fine dell'occidente. Semmai, molti restarono vittime di una nuova retorica della tristezza, elaborando a volte - come nel peggior caravaggismo - una sorta di estetica della povertà, del piede calloso, della fatica del vivere. Certamente c'è una straordinaria ricchezza degli anni cinquanta che smentisce i luoghi comuni sul «periodo tetro»: nei cinema, nella letteratura, persino nella verità e nella certezza dei rapporti umani. Le generazioni che faranno furore negli anni sessanta sentiranno come insopportabile quella atmosfera di mondo chiuso, difeso, autoreferenziale.

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