Autore Federico Capitoni
Titolo Toccare
EdizioneJaca Book, Milano, 2020, Filosofia , pag. 106, cop.fle., dim. 15x23x0,9 cm , Isbn 978-88-16-60633-3
LettoreGiangiacomo Pisa, 2021
Classe filosofia , sensi , psicologia












 

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Indice


 1. Piccola storia filosofica del tatto. A tentoni           9

 2. La pelle, la mano, il gesto.
    Critica della ragion plastica                           39

 3. i-Touch: intoccabilità e conoscenza.
    Per una critica della mano teorica                      59

 4. Toccare altrimenti.
    Apologia del mignolo, emancipazione dell'anulare,
    fenomenologia della deglutizione                        71

 5. Toccare il senso, muovere l'anima.
    Metafisica palpabile                                    87

    Rintocco
    (Avvertenza postuma. Per non mettere le mani avanti)   101


 

 

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Pagina 9

1
Piccola storia filosofica del tatto.
A tentoni



Nella Flatlandia , la terra fantastica immaginata da Edwin Abbott Abbott alla fine del 1800, ove tutto è piatto e non esiste la terza dimensione, le figure geometriche che la abitano devono toccarsi per riconoscersi. Apparendo ognuna, alla vista, come una linea retta, l'operazione del «tastare» si rivela il mezzo più efficace per capire se si è intercettato un triangolo, un quadrato o un poligono dai lati più numerosi. Anche l'udito gioca un suo ruolo: permette di riconoscere le caste poligonali (il genere) con minore precisione, ma funziona bene come principio di individuazione per indovinare le singole "persone", cioè le figure particolari (ognuno ha la sua propria voce). Ma nella Flatlandia, sebbene molto affidabile nell'accertare la forma, il tatto non è infallibile, soprattutto nell'identificare con esattezza i poligoni con molti lati - considerando che li deduce a partire da un angolo, essendo sconveniente tastare la figura per tutto il suo perimetro (cioè contando) - e nel rilevare le dimensioni. È qui che arriva in soccorso la vista, che lavorando a distanza consente di far ricorso alla misura e mettere in relazione le lunghezze mostrandosi più precisa nel rispondere delle grandezze. E tuttavia, anche quanto captato con la vista andrebbe poi verificato tattilmente. Quello della vista però, in un mondo a due sole dimensioni, è un senso che va allenato, essendo meno immediato dell'approccio tattile, e appartiene quindi a una classe di abilità superiori che non tutti possono esercitare. Tant'è che nelle caste più elevate viene assunto a unico degno mezzo di riconoscimento («mirabile esercizio per l'intelletto»), poiché alle persone maggiormente altolocate «non sta bene chiedere di lasciarsi tastare» per capire chi sono.

Una tale classificazione dei sensi, con le loro caratteristiche e i relativi vantaggi, ha caratterizzato la storia della filosofia almeno fino all'epoca del positivismo. I tre sensi ritenuti attori principali nella partita della conoscenza (tatto, udito e vista) sono sempre stati oggetto di una valutazione teoretica dai filosofi, così da trovarsi quasi in gara tra loro.

Ora, è evidente tanto per l'uomo moderno quanto per quello antico che il tatto sia il senso dei sensi. Il Senso. E non solo perché passa attraverso la pelle, che ricopre la totalità del corpo umano (il tatto è «quel senso che è diffuso in tutto il corpo», dice Agostino nelle Confessioni), e particolarmente tramite la mano, che è il nostro arto più sensibile ed efficace; non solo perché anche gli altri sensi sono - a pensarci bene - forme più evolute (o più particolareggiate) di tatto. Ma per il semplice fatto che senza tatto non potremmo stare al mondo; non sentiremmo cioè la terra sotto i piedi, né l'aria sul nostro corpo, non ci percepiremmo come esseri viventi... Il tatto è il senso della nostra esistenza. Il senso della vita (anche perché quello che trionfa nel sesso, e nel quale il sesso trionfa).

Tuttavia non per tutti i pensatori questa caratteristica essenziale è bastata per eleggere il tatto a re dei sensi, considerato anche il fatto che, essendo il dispositivo sensorio inteso come più corporale e primitivo, avesse poco a che fare con la conoscenza: l'idea metafisica della fallibilità delle sensazioni nel raggiungimento della verità (concezione ribaltata da sensisti ed empiristi) correrà spesso parallelamente a un pensiero che guarda al corpo con sospetto quando non mostrando per esso paura e disprezzo. Nell'iconografia cristiana il patimento del corpo è evidente (piaghe, uomini trafitti, petti aperti a scoprire il cuore vivo): diventa incarnazione di punizione e sacrificio.

Il corpo è sempre stato scomodo affaire per mistici e filosofi, per i religiosi come per gli intellettuali: la cura dello spirito e della mente mal si conciliava con l'attenzione all'aspetto e al piacere fisici. Adorno e Horkheimer condanneranno la dedizione al corpo come indizio di indebolimento dell'intelletto (le conseguenze culturali di questa posizione sono ancora evidenti oggi nella figura dell'intellettuale che svaluta - e invece sottovaluta - l'aspetto, la cura e l'allenamento fisici). Ben più spirituale era la «vergogna del corpo» di Plotino , il quale vedeva nelle membra una trappola per l'anima, aggravata da una spoglia pesante che ne impediva l'innalzamento. Nel considerare però il corpo come un elemento illusorio di separazione dal cosmo e che dota quindi l'individuo della percezione concreta di una singolarità che lo divide dagli altri rendendolo egoisticamente autosufficiente, Plotino inaspettatamente custodisce la speranza che l'uomo impari a "toccare" il resto del mondo, cioè a eccedere il proprio corpo, a "sconfinarlo", seppur con mezzi spirituali: ricordarsi di essere un'unica anima è il corrispettivo trascendentale di un pensiero che riconosce il mondo e gli esseri umani come un corpo solo.

Il corpo umano è il corpo dell'intera umanità.

È all'interno di un pensiero etico-politico che il piacere corporale è stato riabilitato da alcuni - pochi - pensatori ( Spinoza e Foucault , per esempio). Scarsi i filosofi che si sono, propriamente, sporcati le mani.

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Pagina 21

È così che il tatto, più degli altri sensi, mi fa rendere conto che sono un corpo e allo stesso tempo possiedo un corpo. Il dualismo essere/avere si risolve nella propriocezione fisica. Nell'esercitare la capacità tattile capiamo che è tutto su di noi, sentiamo le cose addosso; attraverso gli altri sensi sperimentiamo - ma solo apparentemente - la lontananza dal corpo. Gli oggetti percepiti con i sensi che non siano il tatto sono "fuori" di noi. Ciò che comunicano però lo sentiamo in noi. Come intuisce Tellenbach (ne L'aroma del mondo ), l'odore non è distante; è distante la fonte, ma l'odore lo sentiamo direttamente nelle narici. Confondere però l'olfatto con il tatto sarebbe un errore: ciò che cogliamo attraverso il naso non è una sensazione tattile (salvo un odore pungente, che - assieme all'olezzo - porta anche uno stimolo irritante o solleticante). Così è anche per occhi e orecchi: immagini dalla luce intensa o dai colori vividi e suoni particolarmente acuti o violenti li sentiamo fortemente - talora dolorosamente - negli organi deputati. I quali sono colpiti, dunque, in un certo senso, toccati. Ma ciò è un accessorio dell'oggetto esperito, una sua qualità - evidentemente tattile - che non lo completa fenomenologicamente. E questo discorso vale anche per il gusto, sebbene spesso il sapore sia effettivamente compromesso dall'impressione tattile, proprio perché, in questo caso, il contatto diretto tra il nostro corpo e l'oggetto da assaporare c'è. Vi sono cibi che, pur mantenendo costante il sapore, vengono apprezzati più o meno in base alla loro consistenza: croccantezza e sofficità possono determinare le preferenze di un dato alimento; a molti ciò che non piace delle ostriche non è il gusto, bensì la sensazione del viscido che provano in bocca (allo stesso modo, esistono cibi dagli odori ritenuti sgradevoli ma dal garbato sapore). Il piccante è una percezione sensoriale tattile, non gustativa. In effetti, quando si è piccati, si è punti, offesi, toccati scomodamente; nella sua virata riflessiva, piccarsi significa ostinarsi: battere sullo stesso punto, tenere il punto, non mollare... Continuare a toccare.


Il tatto è davvero sfaccettato, complesso, entra in gioco costantemente. A difenderlo - soprattutto contro la dittatura oculare - quale il «più composito tra i sensi», interviene Jonas , che in Organismo e libertà intende la vista come «senso incompleto», bisognoso di essere integrato da altri sensi. La vista è il senso del simultaneo poiché comprende in un solo istante più cose nello stesso spazio. È quello meno vincolato al tempo e più allo spazio. Invece, il legame con il tempo, la limitazione al punto di contatto - che costringe il ricettore a muoversi sulla superficie, abbandonando di volta in volta quanto toccato precedentemente - e una mancata specializzazione fisiologica (il tatto è troppo diffuso) rendono «un'adeguata analisi del tatto forse la più difficile nella fenomenologia della percezione sensoriale». Il tatto riconosce la simultaneità nel tempo: è «rappresentazione di simultaneità attraverso sequenza». L'atto motorio fa la differenza e renderebbe la sensazione tattile troppo labile se non vi fosse una facoltà immaginativa (e mnemonica) che nel tempo fa vedere una cosa nella sua simultaneità e interezza. Allo stesso modo, Nancy definirà il tatto - contro l'immediatezza cartesiana - «locale, modale, frattale» come il leggere e lo scrivere: una lettera, una parola, per volta. Toccarsi è specchiarsi in maniera parcellizzata, un po' alla volta.

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Pagina 25

Lo sforzo della comprensione è quello della condivisione. Condividere spazi e idee significa avvicinare corpi, è nell'abbraccio che sta il simbolo etico della comprensione. Abbracciare, prima che fisicamente, significa comprendere istanze e necessità altrui, riconoscerci, provare la compassione (quindi una condivisione del dolore e del piacere). Abbracciare una causa significa precisamente accogliere e condividere una richiesta: l'abbraccio è un ferro di cavallo, un semicerchio che per chiudersi ha bisogno di un altro abbraccio complementare. La concatenazione è esattamente la figurazione logica del ragionamento.

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Pagina 26

Il tatto costituisce un problema per l'estetica classica visiva, anche riguardo alla bruttezza: il brutto lo riconosciamo con la vista; al tatto possiamo semmai essere impressionati da qualcosa che fa... senso. La bellezza di un tessuto è piuttosto il piacere gustativo che si sente addosso: apprezzare la bellezza al tatto somiglia molto gustare un buon sapore. A pensarci bene, quando, alla visione, una cosa ci "fa schifo", è una sensazione tattile quella che proviamo. Così, il disgusto è precisamente l'impressione negativa che abbiamo nel contatto orale trasferita alla percezione visiva. Il tatto è la ragione della sinestesia, è ciò che - appunto - mette in con-tatto i sensi. È così sotteso al mondo che spesso, linguisticamente, si fa sotto-mettere: noi trasferiamo frequentemente il lessico tattile in quello della vista o dell'udito (l'acqua liscia, il suono morbido ecc.). Ma poi è nel gesto che lo recuperiamo per migliorare la percezione con gli altri sensi: per vedere meglio strizziamo gli occhi; per ascoltare meglio portiamo la mano all'orecchio... Allarghiamo le narici, premiamo la lingua sul palato.

Salvo esperimenti di laboratorio o congetture mentali, non è possibile isolare i sensi. Per quanto indirizzate a un singolo oggetto, le nostre sensazioni sono sempre multiple. Talvolta accade persino che a determinati stimoli visivi siano associate sensazioni olfattive o uditive, che vedendo un colore si senta un sapore e così via le più svariate commistioni sensoriali. È lì che si realizza la sinestesia, fenomeno per il quale due o più sensi vengono sollecitati simultaneamente da uno stimolo che normalmente ne riguarderebbe uno solo. La scultura, per esempio, lascia spontaneamente manifestare il chiasma sensoriale di vista e tatto, soprattutto quando la plasticità delle forme è particolarmente accentuata oppure quando rappresenta esseri umani che toccano o si toccano: la sensazione tattile è suprema nell'osservare la mano di Plutone affondare nella morbida - seppur marmorea! - coscia di Proserpina della statua berniniana. Il tatto invisibile è frequentemente riscontrabile nelle visioni delle sante che, pur facendo voto di castità, sentivano il contatto fisico - dalla forte valenza erotica - con il corpo e il sangue di Cristo. Più in generale, l'estasi di fronte a un'immagine (sacra o artistica che sia: vale anche per la sindrome di Stendhal) è giusto un'esperienza tattile a distanza. Di fronte all'arte, come nel misticismo, si è toccati, fortemente, senza contatto; di un tocco spirituale, direttamente interno. Sarebbe poco utile toccare un dipinto, non ne estrapoleremmo informazioni maggiori di quelle che la vista ci garantisce (se non la qualità della ruvidezza dell'olio sulla tela o di qualsivoglia altro materiale); particolarmente vantaggioso, per un'esperienza totalizzante, invece sarebbe poter tastare le statue, o i bassorilievi, per sentirne - oltre che il materiale - profondità, solidità e la forma nella sua interezza. Forse provocatorio, pericoloso se mal gestito, ma da suggerire ai sovrintendenti dei musei: «si prega di... toccare». A pochi viene voglia di toccare un quadro, in molti sentono l'impulso di mettere le mani sul marmo. Si tratterebbe di un'esperienza suppletiva, sebbene ben sappiamo - aderendo a un'estetica rigorosa - che il tatto che normalmente richiede lo scultore è un tipo di tatto visivo, non manuale.

È naturalmente sinestetica la musica, l'unica arte che inevitabilmente coinvolge i due sensi di udito e tatto. Pensare che la musica si ascolti soltanto con le orecchie è molto limitativo ed errato. Lo sanno bene i musicisti - e gli "ascoltatori" (non uditori) - sordi: il suono si percepisce acusticamente per via delle vibrazioni aeree, ma lo si sente anche grazie alle risposte vibratorie del terreno e delle superfici percosse che attraversano il corpo. A ogni impulso che il musicista dà al proprio strumento, tramite la nuda mano o una "protesi aptica" quali una bacchetta, un archetto o un plettro, il corpo riceve la vibrazione, suona e - internamente a sé stesso - ri-suona come fosse una cassa di risonanza. Basta ricordarsi i volumi elevati dei suoni gravi in discoteca: certi bassi pulsanti si sentono più nello stomaco e nella cassa toracica che nelle orecchie. Esistono concerti di noise e di musica suonata a volume così alto che i partecipanti vengono forniti di tappi per le orecchie. Si dirà: non basterebbe suonare quella musica a un volume più basso? No, perché l'esperienza sensoriale deve passare per il travolgimento corporale nella sua totalità: il corpo deve patire le vibrazioni; deve essere attraversato dalla musica, toccato, penetrato, messo in moto dal suono. Peri sordi l'oscillazione prodotta dalle membrane - le pelli! - e dalle corde dei loro strumenti è un soffio, che avvertono come aria sul volto. Vi sono numerosi musicisti, anche udenti, che suonano a piedi nudi. La musica li tocca in modo concreto, ancor prima che simbolico; il corpo diventa il loro supremo dispositivo sonoro. Il tatto viepiù conferisce la personalità al suono: sono le mani - e le corde vocali - che hai a restituire il corpo, personale e identitario, del suono. Il tocco di un pianista è anche questo, non deriva soltanto dall'anima che mette a disposizione dell'interpretazione.

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Pagina 33

[...] Il tatto coglie le cose l'una nell'altra, l'udito invece una dopo l'altra e la vista l'una accanto all'altra. Secondo Herder i concetti si chiarificano alla prova dell'esperienza sensibile, soprattutto se tattile. Ai tre sensi associa tre «media della creazione», tre categorie, che possiamo affiancare ad altrettante estrinsecazioni fisiche, ossia gli oggetti dei sensi stessi: lo spazio per la vista (che vede la superficie); il tempo per l'udito (che ode il suono); la forza per il tatto (che tocca il corpo - cioè sé stesso, prima degli altri - pieno di energia vitale). La forza del tatto è proprio la verifica, l'idea che si solidifica, la conferma, la corroborazione (cum robore, con forza, robustezza, vigore).

[...]


Certo che il tatto è il senso pratico (oltre che patico): chi Io ha, il senso pratico, si rimbocca subito le maniche. Fa. Da qui il lavoro manuale come modalità di concretezza rispetto alla speculazione visivo-uditiva: (manu)fatti vs parole.

Come per "idea", un'altra parola, "teoria", che deriva dal greco theoréo, ha a che fare con l'osservazione (esiste persino un termine sanscrito, dṛṣṭi, per teoria, che significa occhio, visione). Quando diciamo "in teoria" siamo certamente più vaghi di quando sosteniamo "in pratica". Col tatto si passa dalla contemplazione, dall'opinione, all'azione, alla praxis. Il tatto non è un'opinione, non risponde al "punto di vista" o al "per come la vedo". È piuttosto una presa di coscienza del reale, mentre il punto di vista è personale e dà luogo a una teoria, una visione del mondo.

[...]


Il tatto resta così l'ultima frontiera della certezza: una volta che tocchi con mano, non puoi avere dubbi. È puntualmente un pizzico a riportarci dal sogno alla realtà. Non si crede ai propri occhi; si ha fiducia nelle mani. La cosa evidente parla sempre di tatto, di tocco: è patente, palmare, plastica. La prova è tangibile.

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2
La pelle, la mano, il gesto.
Critica della ragion plastica



Il nostro corpo è sempre nudo. Offerto. Aperto. Animale.

Gli occhi hanno le palpebre, posso tappare orecchi e naso, chiudere la bocca. Continuerò invece a sentire sulla superficie del mio corpo, sempre, finché sarò in vita. Il tatto è inevitabile.

La pelle è il suo iniziale, diretto, strumento, senza di essa non avremmo tatto (senza mani ancora invece sì: un tatto monco, infelice, ma un corpo sensibile). Essa è l'organo scoperto, nostro primo indumento, maschera della spaventevole complicatezza del corpo umano. È involucro, membrana che copre le membra, e allo stesso tempo interfaccia rispetto al mondo. Si fa manifesto, portavoce esterno della nostra sensibilità: abbiamo i nervi a fior di pelle, la pelle d'oca; e quando invece ci siamo avvicinati o esposti troppo a ciò che dovremmo tenere a distanza, rimaniamo scottati; e quanta irritazione! Psiche distribuita lungo tutto il perimetro del nostro dispositivo di abitazione del mondo; contorno e soglia, lì dove finisce l'altro e iniziamo noi, dove invitiamo eros, dove intimità e pudore vengono discussi. Luogo dell'"ecco!"... Gli occhi ci fanno dire; "là fuori"; la pelle: "qui fuori".

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Pagina 46

Strumento di divinazione, strumento per contare, strumento del linguaggio non verbale... La mano, supremo congegno tattile che è secondario in distribuzione corporea rispetto alla pelle, però attivo: ci permette di distinguere con nettezza e comprensione (la pelle recepisce, la mano comprende) noi dal resto, unisce movimento e sensibilità (le grandi funzioni del tatto) nella maniera più alta ed efficace. La pelle della mano non è necessariamente la più sensibile - in altre parti, genitali e bocca, per esempio, lo è maggiormente - ma si trova in una condizione di sollecitazione attiva e intelligente, ricoprendo l'arto più capace e flessibile che abbiamo. Delle due macro-abilità del tatto, ossia la capacità di misurare l'estensione e la facoltà di sentire temperatura, durezza e pressione (peso) esercitata, la mano è specializzata nella prima (la seconda coinvolge maggiormente la pelle).

[...]


La mano, retorica della concretezza, gravida di metonimie: nel dare una mano, si aiuta. Quando proviamo dolore, portiamo subito la mano sulla parte dolorante, prima per ri-conoscere - toccare - il dolore e poi per procurare sollievo. Sentiamo allora il dolore. Così il curatore impone le mani; la sua mano è aiuto. Per affidarsi, ci si mette, in effetti, nelle mani di qualcuno. Man dare (dare la mano), dare mandato, è gesto di fiducia; è affidare qualcosa a qualcuno. Qualcosa che passa di mano.

Ogni istruzione, utensile della formazione, strumento del fare, è raccolta nel manuale, che aiuta e guida. Fatica, la mano: lavora, si sforza, esagera (quando forziamo la mano). È gestificazione della volontà, plasticizzazione della ragione, incarnazione del logos. Votazioni, benedizioni e investiture: nei riti, pratiche chirotoniche e chirotesiche ancora usano la mano come tramite aptico a distanza, protesi magico-divina per esprimere, indirizzare - e imprimere - il volere. Importanti decisioni per alzata di mano.

Oggi, che la mano lavora sempre meno e serve a produrre qualcosa che generi per noi, si comincia ad affacciare la possibilità di un transito da una civiltà "manocentrica", maschile, sempre direzionata, a una "dermocentrica", femminile, luogo di passione, ove il sentire è inteso come ricevere e accogliere, e la mano si trova ad aggiustare, a creare con finezza anziché con forza (la forza nel maschio compensa la maggiore sensibilità epidermica in dote alla femmina). Se non altro per ripristinare socialmente un equilibrio già presente naturalmente nell'individuo: nella sfera tattile del corpo umano c'è una risolta totalità sessuale che si esprime nella convivenza della mano attiva e della pelle passiva; non si verifica cioè la dicotomia "fallo/assenza del fallo".

[...]


È un piacere darsi, stringersi, la mano; la stretta si accompagna (quasi) sempre alla parola - o al pensiero - «piacere». Dare la mano è come guardarsi negli occhi o baciarsi sulle labbra: due stessi strumenti sensibili si intercettano, si toccano, e sono condivisi - perché i corpi sono umani - ma diversi perché altri, di un altro: si fa la stessa cosa, ci si viene incontro. Questo scambio - donare, ricevere, ospitarsi, ricambiare - avviene anche nel passaggio di consegne. Il testimone in gara: finché non si sente che l'altro ha afferrato la presa, non ci si ferma. Ci si accompagna. Allo stesso modo, sentendo, il maestro lascia andare l'allievo. Toccandosi non si è mai l'altro, ma si è come l'altro. Si sente vicino l'altro (specialmente, infatti, se è un tipo alla mano).

[...]


Questo corpo che ci parla anche da fermo. La postura prima, i movimenti dopo, confessano l'inconscio, il carattere, l'essenza: stiamo come siamo.

Nel corpo in fin dei conti c'è il destino. Pensiamoci bene: chiunque di noi avesse avuto un altro corpo avrebbe avuto un'altra vita. Il corpo (le sue dimensioni come il suo aspetto) ci fa comportare come vuole... Anzi, come è. Nel corpo, essere e volere coincidono.

Ci mettiamo la testa - la ragione - tra le mani quando non sappiamo che fare. Le mani dovrebbero cioè virtualmente, primordialmente, venirci in ragionevole aiuto, come la carezza materna quando da piccoli si è in difficoltà. Cerchiamo il sapere, la risposta, nel tatto. Più importante qui però non è tanto il contatto tra gli arti e il capo, quanto il gesto immediato di portare le mani alla testa, l'azione al pensiero. Tant'è che capita di tenerle, rigide, a poca distanza dal volto, pur significando la stessa cosa.

[...]


La dattilografia, per esempio, è pericolosa, è appiattimento unidimensionale - nel tempo e nello spazio - della scrittura. Nel digitare le lettere sulla tastiera, si smarrisce il contatto tra il gesto della mano - un gesto unico, irripetibile, per ogni lettera alfabetica da segnare - e il simbolo. Il gesto per realizzare le varie lettere nella dattilografia è sempre lo stesso: la pressione di un tasto. Così non riconosciamo più il legame diretto, tattile, tra la causa (il gesto) e l'effetto (il simbolo): la penna che incide sul foglio analogamente al nostro movimento. Persino la durata nell'emettere un punto o un'aggraziata maiuscola in corsivo diventa la stessa. La perdita della calligrafia è perdita della distinzione: non soltanto della propria "firma", ma della possibilità di toccare la differenza tra una lettera e un'altra attraverso il gesto analogico (e soprassediamo qui sul deficit cognitivo che la dispersione di una facoltà del genere comporta).

Ovviare, se non altro per l'immagine tattile capaci di procurare, potrebbero le lettere in rilievo sui tasti in modo che il corpo possa almeno riconoscere la forma della lettera stessa impressa sulla pelle; purtuttavia resterebbe una configurazione mnemonica analoga a quella visiva, poiché manca il gesto. Per un curioso destino di ambiguità semantica (lì dove il significante impera), proprio il digitale (parola, per indicare in informatica il linguaggio numerico, derivante dal fatto che i numeri si contano con le dita) sta modificando il nostro rapporto con il tatto. Sta sempre più togliendo al toccare il contatto, sottomettendolo all'oculare.

Con i nuovi dispositivi, prima meccanici poi elettronici, sono cambiati i gesti per segnalare la scrittura: le mani digitanti prima, ora i pollici frenetici ("ti scrivo", si dice, mimando la digitazione di un messaggio sullo smartphone). Gesti piccoli. Nessuno più fa il gesto di una penna che arzigogola. Non ondeggia, non danza.

Nella sua rappresentazione digitale, la sinusoide perde la propria sinuosità. Nel digitale non c'è sensualità. La sensualità è sempre relativa al gesto, mai al dettaglio - finanche sessuale - o al corpo immobile. È il movimento che è sensuale, perché muove effettivamente tutti i sensi. Il particolare, immobile, fotografato, è invece sessuale (soprattutto per lo sguardo maschile). Ecco perché l'erotismo può passare sovente da un corpo vestito, ma che si sa muovere, più che da uno nudo, sfacciato, intimamente - pure pornograficamente - aperto sullo sguardo bramoso.

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Pagina 82

L'indifferente, generalizzando, è l'essere peggiore. Chi ti vuole male ti tocca: lo farà, sì, per procurare danno, ma per prevaricare ti dovrà considerare. Almeno. Per l'indifferente, al contrario, non esisti, sei invisibile, intoccabile, senza corpo, senza presenza; egli ti passa sopra come se non fossi al mondo. È disumano, mentre chi odia è molto umano. L'indifferente è il vero insensibile, perché - non sentendo - non dà al prossimo neanche lo statuto dell'esistenza. Non fa differenza.

Il tatto è invece, come osservato, proprio il senso della differenza: «ma chi ti tocca!», si dice quando l'altro per noi potrebbe anche non esserci. L'indifferenza non ha senso, non produce sensibilità. Non è oleosa, né umida, né tanto meno appiccicosa; ma neanche riesce a essere viscida. E dimentica, non ricorda. L'indifferenza, in quanto non-toccare, è la morte.


La vita è normalmente un viaggio verso l'indifferenza, l'inesistenza (o l' insensistenza), che si esorcizza con la memoria. Dove è finita l'esplorazione della sensibilità corporale così ben rappresentata da quel giochino dermografico infantile del riconoscere le parole diteggiate su quell'ampia lavagna che è la schiena?

Sentiamo ancora tutto, con la memoria. Ci ricorderemo per sempre, percependola nuovamente addosso, la fanciullesca sensazione dei denti da latte che ballano o della pressione dei braccioli ben gonfi sulle braccia (e dell'attrito per toglierli ancora bagnati); se si cade da adulti e ci si graffia, il tipo di dolore che si sente riporta immediatamente alle sbucciature da ragazzini, per correre dietro a un pallone, a un amico, a una farfalla.

Il cicatrizzarsi e la memoria muscolare: un ri-membrare che è un rifarsi corpo, ogni volta. Tornare a sé.

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Pagina 87

5
Toccare il senso, muovere l'anima.
Metafisica palpabile



Ma insomma, allora, perché ci vietano sovente di toccare, o si scandalizzano se ci tocchiamo (noi e tra noi)? Quel frustrante e insopportabile "guardare e non toccare", che più te lo dicono e più ti viene voglia... L'impossibilità di toccarsi e di toccare appare come una punizione, una legge contronaturale, quindi ingiusta.

Il contatto con il mondo è consunzione. Lo sguardo, come l'ascolto, non ha mai rovinato alcuno (se non chi guarda e ascolta - e chi è guardato e ascoltato, ma soltanto in caso se ne accorga), non si vedrebbe perché proibirlo. Ma toccare consuma, sporca, contagia, deturpa financo. Il contatto è pericoloso. Perché la paura è della vista, ma il dolore è del tatto. Nondimeno, assumersi il rischio di toccare vale la pena, perché anche il piacere è del tatto. Pur con tutte le sublimazioni che vogliamo, guardare fare l'amore non sarà come farlo, mai; dare un calcio a un pallone non ha niente a che vedere con la partita guardata in tv: godimenti, ma diversi.

[...]


Farsi toccare significa essere disposti all'amore. L'amore soltanto visto è incompleto, è ideale, è ipotizzato; quello parlato non sempre attendibile. Cos'è l'amore senza contatto? È vero amore se tocco il malato, il diverso, se non ho paura di essere contaminato, scambiato per un altro. Debordare, esagerare, straripare... Altrimenti non è amore.

Il toccare è il parlare dell'azione, è l'azione che si esprime; così l'amore si fa, non si dice. Non si dice perché, pur parlando, non si può dire. Non in maniera infallibile. Si può dire "amore!", ma non "l'amore" (l'unica verbalizzazione affidabile dell'amore è il bacio con la lingua). Quando si parla d'amore non si sa cosa si sta dicendo. E come si potrebbe? Sarebbe come parlare con gli animali, che hanno sguardi misteriosi, lingue incomprensibili. Ma non il tocco, non la temperatura, non il gesto: quelli mettono in contatto con l'umano. Avere a che fare con l'animale - specialmente il mammifero - non è tanto guardarlo, osservarlo, ascoltarlo, bensì toccarlo, accarezzarlo, averlo con sé.

[...]


Sicché avere tatto non significa soltanto essere delicati ma anche dedicati, disporsi nell'accoglienza e allo stesso tempo saper abitare, riempire, un luogo. Cioè, sostanzialmente, avere senso, significare (fare, creare, senso). Propriamente: essere sensibili. Saper toccare è allora un' assunzione di responsabilità.

Fare un bel gesto, ossia sapersi togliere e saper accarezzare, vuoi dire averlo il tatto, saperci fare. Serve delicatezza perché il tatto, quale senso attivo, è invadente e, quale senso passivo, ricevente ineluttabilmente.

Dove il buono incontra il bello e il vero, li è il toccare.

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