Copertina
Autore Truman Capote
Titolo Musica per camaleonti
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [1981], Nuova biblioteca 16 , pag. 262, cop.fle., dim. 142x215x22 mm , Isbn 978-88-11-68309-4
OriginaleMusic for chameleons [1975]
TraduttoreMaria Paola Dèttore
LettoreGiorgia Pezzali, 2004
Classe narrativa statunitense
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Indice

Prefazione                                    9

I - MUSICA PER CAMALEONTI

Uno . Musica per camaleonti                  19
Due . Il signor Jones                        29
Tre . Un lume a una finestra                 33
Quattro . Mojave                             37
Cinque . Ospitalità                          59
Sei . Barbagli                               65

II - BARE INTAGLIATE A MANO

Cronaca vera di un delitto americano         81

III - RITRATTI DIALOGATI

Uno . Una giornata di lavoro                157
Due . Salve, sconosciuto                    173
Tre . Giardini nascosti                     187
Quattro . Temerarietà                       201
Cinque . E poi è successo                   215
Sei . Una bellissima bambina                227
Sette. Rigiramenti notturni ovvero le
esperienze sessuali di due gemelli siamesi  243
 

 

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Pagina 19

Uno . Musica per camaleonti



È alta e snella, forse sui settanta, capelli argentei, soignée, né nera né bianca, un chiaro e dorato color rum. È un'aristocratica della Martinica che risiede a Fort de France ma ha anche un appartamento a Parigi. Ci troviamo seduti sulla terrazza della sua abitazione, una casa leggiadra, elegante, che sembra fatta di trina di legno: mi ricorda certi vecchi edifici di New Orleans. Beviamo tè di menta ghiacciato, lievemente profumato di absinthe.

Tre camaleonti verdi si rincorrono attraverso la terrazza; uno si ferma ai piedi di Madame, facendo guizzare la lingua, e lei commenta: «Camaleonti. Creature straordinarie. Come riescono a mutare colore. Rosso. Giallo. Verdino. Rosa. Lavanda. E lo sapeva che amano moltissimo la musica?» Mi osserva con i suoi begli occhi neri. «Non mi crede?»

Nel corso del pomeriggio mi ha raccontato molte cose curiose. Che di sera il suo giardino è invaso da gigantesche farfalle notturne. Che il suo autista, un personaggio solenne che mi ha accompagnato qui in una Mercedes verde scuro, aveva avvelenato la moglie ed era poi evaso dall'Isola del Diavolo. E mi ha descritto un villaggio su tra le montagne a nord, interamente abitato da albini: «Dei piccoletti con gli occhi rosa, bianchi come il gesso. Ogni tanto se ne incontra qualcuno nelle strade di Fort de France.»

«Certo che le credo.»

Inclina la testa argentea. «No, non è vero. Ma glielo dimostrerò.»

Così dicendo sparisce nel suo fresco salotto caribico, un locale immerso nell'ombra con ventilatori al soffitto, che girano lentamente, e si accomoda a un piano perfettamente accordato. Io mi trovo ancora sulla terrazza ma posso osservarla, questa donna chic, anziana, il prodotto di stirpi diverse. Comincia a eseguire una sonata di Mozart.

In breve i camaleonti si affollarono: una dozzina, un'altra dozzina per lo più verdi, alcuni scarlatti, lavanda. Attraversarono saltellando la terrazza per precipitarsi nel salotto, pubblico sensibile, assorto nella musica aleggiante. E poi interrotta perché d'un tratto la mia ospite si alzò e batté il piede, e i camaleonti si dispersero come scintille da una stella esplosa.

Adesso mi guarda. «Et maintenant? C'est vrai?»

«Sicuro. Ma è talmente strano.»

Sorride. «Alors. Tutta quest'isola galleggia nel fantastico. Questa stessa casa è infestata. Molti spettri vi abitano. E non col buio. Alcuni compaiono nella luce vivida del mezzogiorno, sfacciati al massimo. Impertinenti.»

«È cosa usuale anche ad Haiti. Succede spesso che i fantasmi se ne vadano a passeggio di giorno. Una volta ne ho visto uno sciame lavorare in un campo vicino a Petionville. Stavano eliminando i parassiti dalle piante di caffè.»

L'accetta come un dato di fatto. «Oui. Oui. Gli haitiani fanno lavorare i loro morti. Sono famosi per questo. I nostri noi li lasciamo alle loro pene. E ai loro giochi. Così volgari, gli haitiani. Così creoli. E là non si può fare il bagno, gli squali sono un tale pericolo. E le loro zanzare: che dimensioni, che audacia! Qui in Martinica non ci sono zanzare. Nemmeno una.»

«L'ho notato; mi sono chiesto come mai.»

«Anche noi. La Martinica è l'unica isola dei Caraibi dove non esistono zanzare, e nessuno sa spiegarlo.»

«Forse le farfalle notturne le divorano tutte.»

Ride. «Oppure i fantasmi.»

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Pagina 65

Sei . Barbagli



Mi affascinava.

Affascinava tutti, ma i più se ne vergognavano, soprattutto le altere dame che regnavano su alcune delle più sfarzose case del Garden District di New Orleans, il quartiere dove abitavano i proprietari delle grandi piantagioni, gli armatori e i petrolieri, i professionisti più ricchi. Gli unici a non far mistero di subire il fascino della signora Ferguson erano i domestici di quelle famiglie del Garden District. E, si intende, alcuni dei bambini, troppo piccoli o ingenui per dissimulare il loro interesse.

Io ero uno di questi, un ragazzino di otto anni che abitava temporaneamente presso certi parenti nel Garden District. Ma per la verità tenevo nascosta quell'attrazione perché provavo un certo senso di colpa: avevo un segreto, qualcosa che mi turbava, una cosa che in realtà mi tormentava profondamente, una cosa che non avrei mai osato dire a nessuno, proprio a nessuno... non avevo idea di quale poteva essere la reazione, era una cosa così strana quella che mi angustiava, che mi angustiava da quasi due anni. Non avevo mai sentito parlare di qualcuno che avesse un problema come quello che travagliava me. Da una parte sembrava una sciocchezza; dall'altra...

Io volevo raccontare il mio segreto alla signora Ferguson. Non che lo desiderassi, ma sentivo che era necessario. Perché correva voce che la signora Ferguson avesse poteri magici. Si diceva, e molte persone serie ci credevano, che riuscisse a imbrigliare mariti scapestrati, indurre a richieste di matrimonio corteggiatori riluttanti, restituire i capelli caduti, recuperare patrimoni dissipati. Insomma, era una fattucchiera in grado di esaudire i desideri. Io avevo un desiderio.

La signora Ferguson non sembrava abbastanza brava da riuscire a fare incantesimi. E neanche giochetti con le carte. Era una donna scialba che poteva avere una quarantina d'anni ma forse era sui trenta, difficile dirlo perché la sua tonda faccia irlandese, con gli occhi tondi da luna piena, aveva poche rughe e scarsa espressione. Faceva la lavandaia, probabilmente era l'unica lavandaia bianca in tutta New Orleans, ed era un'artista nel suo campo: le grandi dame della città chiamavano lei quando le loro trine, lini e sete delicate richiedevano cure. Mandavano a chiamarla anche per altri motivi, per vedere realizzate certe aspirazioni: un nuovo amante, un dato partito per la figlia, la morte dell'amante di un marito, un codicillo nel testamento della madre, l'invito a essere la Regina di Comus, l'evento più importante del Mardi Gras. La signora Ferguson non veniva ricercata solo come lavandaia. La fonte del suo successo, e dei suoi principali introiti, era la sua presunta capacità di setacciare le sabbie dei sogni fino a produrre l'oro della concreta realtà.

E quanto al mio desiderio, quell'affanno che mi portavo dentro dal primo all'ultimo istante della giornata: non era cosa che le potessi chiedere là per là. Occorreva il momento opportuno, un'occasione accuratamente predisposta. Lei veniva di rado a casa nostra, ma quando c'era io mi tenevo nei paraggi, fingendo di osservare i movimenti delicati delle sue brutte dita tozze sui tovaglioli bordati di trina, ma in realtà cercando di attirare la sua attenzione. Non parlavamo mai; io ero troppo nervoso e lei troppo stupida. Sì, stupida. Era una cosa che intuivo: potente maga o no, la signora Ferguson era una donna stupida. Ma ogni tanto i nostri sguardi si incontravano e per quanto lei fosse ottusa, l'intensità, l'attrazione che scorgeva nei miei occhi le dicevano che desideravo divenire suo cliente. Probabilmente pensava che volessi una bicicletta, o un nuovo fucile ad aria compressa; ad ogni modo mai si sarebbe occupata di un ragazzino come me. Che potevo darle? Così piegava all'ingiù le labbra sottili e muoveva altrove i suoi occhi da luna piena.

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Pagina 126

Era estate, e io aveva cinque anni, stavo presso certi parenti in una cittadina dell'Alabama. Anche quella città era dotata di un fiume; un corsa d'acqua lento e fangosa che mi ripugnava perché brulicante di serpi testa-di-rame e di baffuti pesci gatto. Ma per quanto non amassi le loro grinte feroci, i pesci gatto pescati erano la mia passione: fritti e cosparsi di salsa; avevamo una cuoca che li preparava spesso. Si chiamava Lucy Joy, anche se ben poche volte ho incantrato un essere meno gioioso. Era una nera robusta, riservata, molto seria; pareva vivere solo in attesa della domenica, giorno in cui cantava nel coro di una qualche chiesa sperduta. Ma un giorno in Lucy Joy si verificò un grosso cambiamento. Mentre mi travavo da solo con lei in cucina cominciò a parlarmi di un certo Reverendo Bobby Joe Snow, descrivendamelo can un entusiasmo che accese la mia fantasia: era un famoso predicatore, capace di compiere miracoli, e presto sarebbe arrivato proprio nella nostra cittadina; il Reverendo Snow, atteso nella settimana seguente, sarebbe giunto per predicare, battezzare, salvare anime! Supplicai Lucy di portarmi con sé a vederlo, e lei sorrise e promise di sì. In realtà aveva bisogno che l'accampagnassi. Perché il Reverendo Snow era un bianco, le sue platee escludevano i neri, e Lucy aveva pensato che l'unico modo per farsi accogliere era portare con sé un ragazzino bianco da battezzare. Naturalmente Lucy non mi avvertì di ciò che mi aspettava. La settimana successiva, quando ci mettemmo in cammino per partecipare al raduno del Reverendo, io pregustavo solo l'emozione di vedere un sant'uomo inviato dal cielo per permettere ai ciechi di vedere e agli storpi di camminare. Ma cominciai ad avvertire un certo disagio quando mi accorsi che ci dirigevamo verso il fiume; quando vi arrivammo e vidi centinaia di persone raccolte lungo l'argine, gente di campagna, miseri bianchi delle zone più isolate, che pestavano i piedi e urlavano, esitai. Lucy era furibonda: mi trascinò in quella calca soffocante. Tintinnio di campanelli, corpi che si dimenavano; sentivo una voce al di sopra delle altre, un baritono risonante che salmodiava. Anche Lucy cantava, gemeva, si contorceva. Come per magia una sconosciuto mi issò sulle sue spalle ed ebbi una breve visione dell'uomo dalla voce dominante. Era immerso nel fiume, con l'acqua che gli giungeva alla vita, vestito di bianco: i capelli erano grigi e bianchi, una massa aggravigliata e fradicia, e le lunghe mani, alzate verso il cielo, imploravano l'umido sole di mezzogiorno. Cercai di scorgerne il volto perché sapevo che quello doveva essere il Reverendo Babby Joe Snow, ma prima che ci riuscissi il mia benefattore mi fece ripiombare in quella disgustosa confusione di piedi esaltati, braccia ondeggianti, tamburelli vibranti. Volevo tornare a casa ma Lucy, ebbra di gloria, mi teneva saldamente. Il sole roteava; sentivo in gola il sapore del vomito. Ma non rigettai; cominciai a strillare e tirar pugni e gridare: Lucy stava tirandomi verso il fiume e la folla si divise lasciandoci passare. Mi dibattei finché giungemmo sulla riva, poi mi fermai, ammutalito dalla scena. L'uomo vestito di bianco, in piedi nel fiume reggeva sulle braccia una bambina; recitò dei versetti biblici prima di immergerla rapidamente satt'acqua e poi risollevarla: con strida e pianti lei barcollò verso l'argine. Adesso le braccia scimmiesche del Reverendo si protesero verso di me. Io morsicai la mano di Lucy, mi liberai dalla sua stretta. Ma un ragazzotto mi agguantò trascinandomi in acqua. Chiusi gli acchi; colsi l'odore dei capelli del Gesù, sentii le braccia del Reverendo che mi facevano sprofondare in un buio asfissiante e poi, dopo ore, mi riportavano verso la luce del sole. I miei acchi, aprendosi, fissarono i suoi, grigi, fanatici. Il volto, largo ma scarno, si accostò e mi baciò sulle labbra. Sentii una risata sonora, un'esplosione di artiglieria: «Scaccomatto!»

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Pagina 190

Se c'è una cosa che detesto sono le persone che mi vengono alle spalle e dicono:

VOCE (roca di whisky, virile, ma femminile): Indovina chi è. (Silenzio) Avanti, Jockey. Lo sai chi sono. (Silenzio; poi, scostando le mani che mi coprono gli occhi, un po' irritata) Jockey, davvero non mi hai riconosciuta? Junebug?

TC (mentre tiro il fiato): Big Junebug Johnson! Comme çava?

BIG JUNEBUG JOHNSON (ridacchiando allegrissima): Oh, non farmi parlare. Su, ragazzo. Un bell'abbraccio a Junebug. Ehi, ma sei magro. Come la prima volta chi ti ho visto. Quanto pesi, Jockey?

TC: Cinquantasei, cinquantasette.


(Mi è arduo cingerla con le braccia, perché lei pesa il doppio, e anche più. La conosco da almeno quarant'anni... fin da quando vivevo da solo in quella tetra casa di Royal Street e frequentavo un chiassoso bar del porto di cui lei era, ed è tuttora, proprietaria. Se avesse gli occhi rosa la si potrebbe dire albina, perché la sua pelle è candida come una calla, e così pure i capelli ricci, radi.

Una volta mi aveva raccontato che i capelli le erano diventati bianchi dalla sera alla mattina, quando non aveva ancora sedici anni. Io ripetei: «Dalla sera alla mattina?» e lei rispose: «Sono state le montagne russe e il pisello di Ed Jenkins. Le due cose successe così vicine. Sai, una sera ero andata sulle montagne russe, al lago, ed eravamo nell'ultimo vagoncino. Be', questo si è sganciato e se n'è andato per conto suo, e per un pelo non è schizzato via dai binari, e la mattina dopo avevo i capelli spruzzati di grigio. Circa una settimana più tardi è successa questa cosa con Ed Jenkins, un ragazzo che conoscevo. Una delle mie amiche mi aveva detto che suo fratello le aveva detto che Ed Jenkins aveva il pisello più grosso che mai si fosse visto. Lui era carino, ma tutto pelle e ossa, non molto più alto di te, e io non ci credevo, così un giorno per prenderlo in giro gli ho detto: «Ed Jenkins, mi hanno detto che tu hai un superpisello», e lui ha detto: «Sì, ti faccio vedere,» e l'ha fatto, e io ho cacciato un urlo; e poi ha aggiunto: «Adesso te lo caccio dentro,» e io ho detto: «Oh no, proprio no!»... Era grosso quanto un braccio di bambino con una mela in mano. Bontà divina! Ma c'è riuscito. A mettermelo dentro. Dopo una zuffa spaventosa. E io ero vergine. Più o meno. Una specie. Per cui puoi immaginarti. Be', poco dopo i capelli mi sono diventati tutti bianchi come quelli di una strega.

B.J.J. è vestita da scaricatore: tuta, camicia azzurra da uomo con le maniche arrotolate fino al gomito, scarponi alti, stringati, e non un filo di trucco ad attenuare il pallore. Ma è femminile, una persona piena di dignità nonostante i modi spicci. E usa profumi costosi, essenze parigine che compera al Maison Blanc, in Canal Street. Inoltre ha uno smagliante sorriso con molto oro: come un rincuorante sprazzo di sole dopo una gelida pioggia. Probabilmente vi sarebbe simpatica, lo è quasi a tutti. Gli altri sono per lo più i proprietari dei bar rivali, giù al porto, perché il locale di Big Junebug è molto frequentato, anche se poco conosciuto fuori dal porto. E composto di tre stanze: il grande bar vero e proprio con il monumentale banco dal ripiano di zinco; una seconda fornita di tre biliardi affollati, e un vano con un jukebox, dove si balla. È aperto ventiquattr'ore su ventiquattro ed è gremito all'alba come al tramonto. Naturalmente ci vanno marinai e portuali, e gli agricoltori che portano i loro prodotti al French Market da lontani distretti, poliziotti e pompieri e giocatori dagli occhi duri e prostitute dagli occhi ancor più duri, e verso il sorgere del sole il locale trabocca della popolazione che lavora nelle trappole per turisti di Bourbon Street. Ballerine, spogliarelliste, travestiti, entraineuses, camerieri, baristi, e i rauchi portieri-imbonitori che si sgolano per attirare i provinciali nei posti per boccaloni del vieux carré.

Quanto alla faccenda del «Jockey», vale a dire fantino, è un nomignolo che devo a Cinger Brennan. Circa quarant'anni fa Cinger era il capo barista nel vecchio originale caffè del Market, aperto tutta la notte, che offriva frittelle e caffè; il locale adesso è scomparso, e Cinger è stato ucciso da un fulmine, molto tempo fa, mentre pescava da un molo sul lago Pontchartrain. Una sera avevo sentito un altro cliente chiedere a Cinger chi era quel «due soldi di cacio» là nell'angolo, e Cinger, che era un bugiardo cronico, che Dio lo benedica, rispose che ero un fantino professionista: «Uno che fa faville alle corse.» Era abbastanza plausibile; ero piccolo, un peso piuma, e potevo benissimo farmi passare per un fantino; ed era un'invenzione che mi andava bene, mi piaceva l'idea che la gente mi scambiasse per uno molto addentro nel giro degli ippodromi. Cominciai a leggere «Racing Form» e imparai il gergo. La voce si sparse in un baleno e di lì a poco tutti mi chiamavano «Jockey» e mi chiedevano informazioni sui cavalli.)


BIG JUNEBUG JOHNSON: Anch'io sono dimagrita. Avrò perso una ventina di chili. Da quando mi sono sposata ho continuato a dimagrire. La maggior parte delle donne, appena infilato l'anello al dito, cominciano a gonfiarsi. Ma dopo che mi sono accaparrata Jim ero così felice che l'ho smessa di far piazza pulita nel frigorifero. La depressione, ecco cosa ti fa ingrassare.

TC: Big Junebug Johnson sposata? Nessuno me l'ha scritto. Credevo che tu fossi uno scapolo convinto.

BIG JUNEBUG JOHNSON: Be', non si può cambiare idea? Una volta superato l'incidente di Ed Jenkins, una volta cancellata quell'immagine dalla testa, gli uomini mi piacevano come a qualsiasi altra donna. Certo, ci sono voluti degli anni.

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Pagina 215

Cinque . E poi è successo



Scena: Una cella nel settore di massima sicurezza nel carcere di San Quentin, in California. La cella è fornita di un solo lettino e l'inquilino fisso e il suo visitatore sono costretti a sedervi in posizione alquanto scomoda. La cella è pulita, spoglia; in un angolo c'è una chitarra ben lucidata. Ma è un tardo pomeriggio d'inverno e nell'aria si avverte un brivido, perfino una traccia di nebbia, come se le brume della Baia di San Francisco si fossero infiltrate nella prigione.

Nonostante il freddo Beausoleil è a torso nudo, indossa solo dei pantaloni di tela, forniti dal carcere, ed è chiaro che è compiaciutò del proprio aspetto, del corpo in particolare, che è elastico, felino e rivela un buon tono muscolare considerando che è in carcere da più di dieci anni. Petto e braccia sono un panorama di emblemi tatuati: draghi stizzosi, crisantemi attorcigliati, serpenti distesi. Alcuni lo considerano di straordinaria bellezza: lo è, ma di un genere volgarotto, da galletto dei bassifondi. Cosa non strana, da bambino ha fatto l'attore ed è comparso in diversi film di Hollywood; in seguito, ragazzo, è stato per un certo periodo il protégé di Kenneth Anger, il regista sperimentale (Scorpio Rising) e scrittore (Hollywood Babylon); anzi, Anger gli aveva affidato la parte principale in Lucifer Rising; un film rimasto incompiuto.

Robert Beausoleil, che adesso ha trentanove anni, è la vera eminenza grigia della setta di Charles Manson; più precisamente - ed è un punto che non è mai stato trattato esplicitamente negli articoli su quel gruppo - è la chiave del mistero delle scorribande assassine della cosiddetta famiglia Manson, in particolare delle stragi Sharon Tate e Lo Bianco.

Tutto iniziò con l'uccisione di Gary Hinman, un musicista di mezz'età che aveva stretto amicizia con vari esponenti della cricca Manson e, per sua sfortuna, viveva da solo in una casetta isolata a Topanga Canyon, Los Angeles County. Hinman era stato legato e torturato per diversi giorni (tra le altre infamie gli era stato mozzato un orecchio) prima che la sua gola venisse misericordiosamente e definitivamente recisa. Quando il cadavere di Hinman, enfiato e brulicante di mosche estive, venne scoperto, la polizia trovò sulle pareti della sua modesta casa delle scritte tracciate col sangue («Morte ai Porci!»), simili a quelle che di lì a poco si sarebbero viste nelle abitazioni di Sharon Tate e dei signori Lo Bianco.

Tuttavia, solo pochi giorni prima delle stragi Tate e Lo Bianco, Robert Beausoleil, sorpreso alla guida di un'auto che era appartenuta alla vittima, venne arrestato e chiuso in carcere sotto l'accusa di avere assassinato il povero Hinman. Fu allora che Manson e i suoi compagni, nella speranza di liberare Beausoleil, concepirono l'idea di commettere una serie di omicidi simili al caso Hinman; se Beausoleil era in prigione al momento di questi assassini, come poteva essere colpevole dell'efferato delitto Hinman? Questo almeno il ragionamento del branco Manson.

Come dire che fu per devozione a «Bobby» Beausoleil se Tex Watson e le giovani tagliagole Susan Atkins, Patricia Krenwinkel e Leslie Van Hooten intrapresero le loro sataniche missioni.


RB: Strano. Beausoleil. È francese. Il mio è un cognome francese. Significa Bel Sole. In culo. Nessuno vede mai molto sole in questo bel posticino. Senti le sirene da nebbia. Come fischi di treno. Gemono. Gemono. E d'estate sono peggio. Magari perché c'è più nebbia d'estate che d'inverno. Il tempo. In culo, io non vado da nessuna parte. Ma stai a sentire. Gemono, gemono. Allora, cos'hai fatto quest'oggi?

TC: Sono andato in giro. Ho fatto due chiacchiere con Sirhan.

RB (ride): Sirhan B. Sirhan. L'ho conosciuto quando ero su nel Braccio. È tutto fuori. Non è questo il posto per lui. Dovrebbe stare ad Atascadero. Gomma da masticare, vuoi? Già, be', a quanto pare ti ci rigiri bene qui dentro. Ti guardavo mentre eri là fuori. Mi sono meravigliato che il guardiano ti lasci andare attorno per conto tuo. Qualcuno potrebbe servirti una coltellata.

TC: E perché?

RB: Tanto per il gusto. Ma sei venuto spesso qui, eh? Me l'hanno raccontato dei compagni.

TC: Una decina di volte, direi, per varie ricerche.

RB: C'è una sola cosa qui che non ho mai visto. Ma mi piacerebbe dare un'occhiata a quella stanzetta verdina. Quando mi hanno incastrato per quella faccenda Hinman e mi hanno condannato a morte, be' mi hanno tenuto su nel Braccio per un bel po'. Fino al momento in cui la corte ha abolito la pena capitale. Così mi chiedevo com'era quella stanzetta verde.

TC: Be', in realtà sono tre stanze.

RB: Io me l'immaginavo come un piccolo locale rotondo con una specie di igloo di vetro, sigillato, al centro. E delle finestre in modo che i testimoni di fuori possano vedere i tizi che crepano soffocati da quel profumo di pesca.

TC: Sì, quella è la camera a gas vera e propria. Ma quando il condannato viene condotto giù dal Braccio della Morte, dall'ascensore passa direttamente in una stanza di «attesa» attigua a quella dei testimoni. Vi sono due celle in questa stanza di «attesa», due, per l'evenienza di una doppia esecuzione. Sono celle normali, come questa, e il prigioniero passa là l'ultima notte prima di venire giustiziato, al mattino, e legge, ascolta la radio, gioca a carte con le guardie. Ma la cosa interessante che ho scoperto è che c'è una terza camera, dietro una porta chiusa, accanto alla cella di «attesa». L'ho aperta e sono entrato, semplicemente, e nessuna delle guardie che erano con me ha cercato di impedirmelo.

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