Copertina
Autore Dulce Maria Cardoso
Titolo Il compleanno
EdizioneVoland, Roma, 2011, amazzoni 65 , pag. 214, cop.fle., dim. 14,2x20,6x1,4 cm , Isbn 978-88-6243-095-1
OriginaleO chão dos Pardais [2009]
TraduttoreDaniele Petruccioli
LettoreLuca Vita, 2011
Classe narrativa portoghese
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Indice


Le principesse non muoiono mai. Si sposano e vivono
per sempre felici e contente                                  9

Se chiedi dov'è il paradiso, la risposta è una sola.
Se chiedi dov'è l'inferno, ognuno dà una risposta diversa    19

Il caso è spesso a nostra somiglianza                        35

C'è sempre una spiegazione a tutto, reale o inventata        42

I giorni che mi restano                                      55

Problema e soluzione sono la stessa cosa,
in momenti diversi                                           66

Perché si scrivono poesie?                                   73

Al mio cuore un peso di ferro
legherò nel prendere il mare                                 77

Mi manca tutto                                               81

La realtà non si forma che nella memoria,
i fiori che mi fan vedere oggi per la prima volta
non mi sembrano fiori veri                                   90

Lo sa quanto male ci facciamo per questo maledetto
bisogno di parlare!                                          99

Tragedia di una notte d'estate                              107

Nulla sembra vero, che non possa sembrar falso              121

Dacci un bacio                                              123

Se le scimmie potessero arrivare a provare la noia,
potrebbero diventare uomini                                 128

La festa                                                    140

Babilonia                                                   151

Il funerale                                                 155

La scienza più difficile è disimparare il male              162

Non è tutto guadagno
il chiaro volto del vero perfetto                           171

Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni           178

La decisione è spesso l'arte di essere crudele a tempo      187

Dall'altra parte del mondo                                  197

Duello                                                      204

Le citazioni nel testo                                      211


 

 

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Pagina 9

LE PRINCIPESSE NON MUOIONO MAI. SI SPOSANO E VIVONO PER SEMPRE FELICI E CONTENTE


- L'idea mi verrà quando meno me l'aspetto, - dice Alice - è sempre così. Non posso diventare matta.

È seduta sul divano. Tiene sulle ginocchia un quaderno bianco e ha appena finito di segnare sul primo foglio, in stampatello grande, alcune idee per il regalo di Afonso. Ha tracciato con cura cinque frecce e le ha numerate una dopo l'altra. Dopodiché non ha scritto altro. È la settima lista che fa da quando si è seduta.

Guarda il salotto. Arrotola sull'indice sinistro una ciocca di capelli biondissimi, da bambola.

- Dove la trovo un'idea, - si chiede nel suo tono sussurrato, coltivato fin dall'adolescenza - come si fa?

Strappa il foglio. I pezzetti di carta si aggiungono al mucchio di cartacce a sinistra del divano. Prende un altro foglio. Finché il foglio rimane bianco, tutto le sembra possibile.

- Non succede mai niente, - dice piano - può succedere di tutto, invece non succede quasi mai niente.

Guarda la sua ombra sul muro. L'ombra non compie i gesti contemporaneamente ad Alice, che apre e chiude il pugno diverse volte, attenta al ritardo dell'ombra.

Una ragazza bellissima corre per una strada stretta e solitaria. Si regge male in piedi per via dei tacchi sulle scarpe nere, di vernice. La gonna è troppo stretta per correre più in fretta di così. Alice si distrae sempre dietro alle immagini che le vengono in mente. È notte. La strada è piccola, circondata da muri alti. La donna porta una giacchetta con maniche a tre quarti e una camicia a fiori viola con i primi tre bottoni slacciati. Ha la pelle molto scura. La calze nere a rete mettono in risalto le gambe affusolate. Non ce la fa più. Si appoggia al muro, ansimante. Le sue labbra rossissime disegnano un cuore perfetto. Si lascia scivolare lungo la parete, fino a terra. Non vuole perdere il contegno, perciò piega le gambe in modo strano, di lato, una sopra l'altra, alla maniera delle signore di un tempo nei picnic. Un'ombra si disegna sul muro alle sue spalle. Man mano che si avvicina, la figura diventa grande, sempre più grande, fino a ricoprire il muro. Anche il selciato è tutto oscurato dall'ombra. La donna dice qualcosa di incomprensibile. Supplica. I suoi occhi, grandi e scurissimi, esprimono spavento. Da terra, da un posto molto in basso, un grillo canta. Piano piano.

- Se sento i grilli cantare dovevo essere ancora bambina. Cosa è successo nel frattempo?

Alice guarda l'orologio al polso e poi quello sulla consolle. L'orologio della consolle non segna mai la stessa ora degli altri. C'è sempre una differenza di due o tre minuti fra l'orologio della consolle e gli altri orologi. A volte cinque. Mai più di cinque, però.

L'orologio della consolle ha un pendolo a forma di angioletto grasso, seduto su un'altalena con le gambe dondolanti. Alice ha comprato l'orologio con l'angelo, come lo chiama lei, da un antiquario, durante il suo primo inverno in città. Le strade erano ammantate di un sole pallidissimo. Alice portava un basco di velluto azzurro, molto intonato ai suoi occhi blu e ai capelli biondi. Gli uomini la guardavano. Sapeva cosa pensavano, le piaceva sentirsi guardata così. La città non è più la stessa. Se adesso uscisse con il berretto azzurro, gli uomini non la guarderebbero a quel modo. La città dev'essere cambiata.

Quando l'ombra gigantesca si muove fa muovere anche la luce, dando la sensazione che sia la donna caduta in terra a spostarsi. Lontano, la sirena di una nave echeggia mentre esce dal porto. La donna cerca di tirarsi su, preme i palmi delle mani contro il muro bianco. Il respiro irregolare la costringe a schiudere le labbra, così sembra ancora più indifesa. Perde l'appoggio e cade. Il selciato è di pietre bianche e nere a forma di stella. Piccole stelle. Stelle più grandi. Altre più piccole ancora. La sirena della nave addensa la nebbia, che avvolge in cerchi concentrici la luce giallastra di un lampione poco distante. Sembra quasi di poterla toccare, la nebbia, pare zucchero filato.

- Gli orologi dovrebbero segnare tutti la stessa ora - dice Alice.

Non ha mai fatto nulla per sistemare il ritardo fra gli orologi, simile al ritardo fra l'interno della sua testa e l'esterno. Sono sfasamenti tanto insignificanti da non importare a nessuno.

- Tre minuti non hanno importanza. Nessuna importanza. Tranne nei film, ovviamente.

Alice passa molto tempo a guardare film nella stanza più piccola e buia della taverna. Si siede sulla poltrona di velluto dorato appartenuta al padre. Da molto tempo il velluto ha smesso di essere dorato. Si è sporcato, è diventato di un colore indefinito. Sudicio. Nessuno entra nella stanza dei film. Nemmeno Eugénia, che gira sempre per casa senza fare rumore. Quasi non toccasse terra con i piedi. Alice ci giurerebbe, Eugénia cammina senza toccare terra con i piedi. Quando erano bambine Eugénia toccava terra come gli altri. E andava quasi sempre scalza.

Nemmeno nello studio del padre entrava nessuno. Suo padre stava sempre a lavorare. Apriva il giornale, stendeva le pagine, se le sistemava all'altezza degli occhi, accendeva una sigaretta, quasi sempre con il mozzicone della precedente, tossiva, riempiva il bicchiere di whisky, lo vuotava d'un fiato, posava il bicchiere vicino al secchiello del ghiaccio che veniva cambiato ogni tre ore, dava un altro strattone alle pagine del giornale, riempiva di nuovo il bicchiere, accendeva un'altra sigaretta, tossiva, questo era il lavoro di suo padre, mentre la mamma e le zie di Alice ricamavano o facevano solitari nel salotto davanti al piazzale dove venivano legati i cavalli. Molti anni dopo, quando la casa è andata all'asta, un funzionario ha inventariato tre anelli metallici sul muro che delimitava l'immobile a nord. Gli anelli servivano a legare i cavalli ed erano arrugginiti per mancanza d'uso. Se era freddo, la madre e le zie di Alice si mettevano nell'altro salotto, intorno alla tavola con il braciere, sempre ricoperta da un panno di feltro verde coperto a sua volta da una tovaglia più corta, immancabilmente bianca, all'uncinetto. Il salotto con il braciere stava davanti al giardino dei pavoni. Lo stesso funzionario aveva definito il giardino come un terreno di quattrocentottanta metri quadrati delimitato da un muro a sud.

Ma né il salotto sul piazzale né quello con il braciere e nessun'altra stanza di casa odorava di sigarette e carta quanto lo studio di papà. E nessuna donna aveva la tosse cronica di papà, che riempiva la casa. Nessuna vuotava il bicchiere di whisky e si addormentava con la sigaretta in bocca. Ma no, sciocchezze, suo padre non si addormentava, la correggevano di continuo la mamma e le zie, papà sta pensando, papà ha mille cose a cui pensare. Di tanto in tanto qualche donna accennava al rischio di incendi, ma ce n'era sempre un'altra a dirle di star zitta.

Ad Alice piaceva molto sentire suo padre respirare, così diverso da sua madre e le zie, il cui respiro era silenzioso e agile come quello di chiunque altro arrivasse da fuori. Oggi abbiamo ospiti, le dicevano, comportati bene. Gli ospiti la trovavano adorabile, era bello essere adorabile. Uno dei suoi desideri era imparare a respirare come il papà, con un fischio ogni volta che il petto si alzava o abbassava. Suo padre aveva riso di gusto quando Alice glielo aveva confessato. Le piaceva molto farlo ridere, ma le sembrava ancora più difficile che imparare a respirare con il fischio.

- Otto minuti a mezzanotte - Alice guarda l'orologio con l'angelo. - Che nausea.

Se avesse detto che ansia si sarebbe condannata a un sentimento diverso, niente viene nominato senza conseguenze. Alice ha scelto di dare la colpa al condimento dell'insalata della sera prima. Così è più facile.

- In questa stanza non c'è un errore - stira le braccia, intreccia le dita con il palmo in fuori e sbadiglia. - Niente di peggio di un errore estetico. Oltre a essere irreparabili, gli errori estetici sono contagiosi.

La settimana prossima suo marito compirà sessant'anni e Alice vuole fargli un regalo indimenticabile, ma non ha idee. Quindi scrive di nuovo, su un foglio pulito, i pensieri di prima. Stavolta mette la parola Viaggio dentro un cerchio venuto malissimo. Dal cerchio fa partire una freccia che indica il margine destro del foglio. Scrive Possibilità più in piccolo, poi apre una parentesi graffa, anch'essa asimmetrica. Dentro la parentesi scrive Deserto. E aggiunge Viaggio di lusso nel deserto.

Si sofferma qualche istante su quanto ha appena scritto. Scuote piano la testa. Ci tira un rigo sopra. Con calma. Senza rabbia. Con il distacco con cui si esegue un compito.

- Almeno finora non ho dovuto correggere niente - dice trionfante.

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Pagina 60

Sofia sorride e risponde di essere stanca, un neonato ha pianto tutto il tempo e non è riuscita a dormire. Si avviano mano nella mano con la valigia cigolante dietro, Sofia ha le mani calde, Júlio fredde. Camminano. Le luci dell'aeroporto sono fortissime, per terra è scivoloso, l'altoparlante chiama i passeggeri in ritardo, c'è chi si bacia e si abbraccia, chi piange, chi sorride e chi saluta come se non dovesse sentire nessuna mancanza. Le partenze e gli arrivi sono una questione da gestire con cautela. Il mondo è troppo grande per chi si separa. Né ridiventa piccolo quando ci si ritrova. La distanza è una morte provvisoria. La madre di Sofia piangeva tutte le volte accompagnando il nonno di Sofia all'aeroporto, me ne ritorno all'isola, diceva il nonno prendendo la sacca con dentro i regali per gli altri nipoti, i cugini dell'isola, a cui Sofia non pensa mai. Sua madre ha pianto ancora di più il giorno in cui ha smesso di dover andare a prendere il nonno all'aeroporto. Quando veniva a trovarli, il nonno passava i giorni seduto su uno sgabello di legno in un angolo della tabaccheria cartolibreria libri scolastici articoli da regalo. È questa la definizione esatta per il negozio dei genitori di Sofia, un buco di meno di venti metri quadri zeppo di scaffali pieni di giornali, sigarette, ninnoli, quaderni, matite, bambole che fanno le bolle di sapone, penne indelebili con i pennini troppo fragili, da rispedire alla fabbrica quando i clienti reclamano. Anche le bambole e le macchine telecomandate si rompono ma nessuno reclama mai, la curiosità dei bambini è considerata distruttiva di per sé. Invece le penne, gli accendini, i rasoi elettrici e le calcolatrici sono un altro paio di maniche. Il padre di Sofia si lamenta sempre che non si fa più la roba di una volta, basta guardare i nuovi libri di scuola pieni di pupazzi, cosa vuoi che si impari con tutte quelle pagliacciate, chiede il padre di Sofia alla madre di Sofia, ma lei non risponde mai. Suo marito ha la mania di fare domande difficili e alla madre non piace pensare a cose tanto astratte, né a cose particolari, non le piace pensare e basta.

Il nonno salutava i clienti dal suo sgabello di legno in un angolo della tabaccheria, mentre rollava sigarette e sputava pezzetti dì tabacco per terra. Il padre di Sofia si arrabbiava, quella porcheria ai clienti gli faceva schifo, la madre chiedeva a bassa voce al padre di non sputare, il nonno guardava il linoleum verde che dopo la ristrutturazione è diventato a scacchi bianchi e blu di piastrelle venti per venti e chiedeva, tanto poi sì pulisce no? I giorni passavano e Sofia non riusciva a capire se era contenta o meno per la visita del nonno. Arrivava il momento della partenza e se capitava in orario di lavoro, il papà di Sofia, il solo a saper guidare, era costretto a chiudere il negozio. Montavano tutti e quattro nella macchina di un colore bruttissimo, il nonno si sedeva dietro con Sofia, madre e padre si sistemavano davanti tutti impettiti. Nel tragitto verso l'aeroporto nessuno parlava, c'è poco da dire quando si è tanto vicini a essere di nuovo lontani. Dopo aver spedito la valigia, il nonno metteva una banconota da venti escudos in mano a Sofia, compraci la cioccolata, diceva, la banconota era sempre umidiccia nella mano calda di Sofia. Sofia non si è mai comprata la cioccolata, i genitori le toglievano i soldi appena arrivati a casa e li mettevano nel salvadanaio che ha rotto il giorno del suo diciottesimo compleanno. A quel punto il nonno era già morto e tutte le banconote messe insieme non sono bastate a comprare niente di quanto avrebbe desiderato a quell'età. La mamma piangeva sempre dopo aver dato l'ultimo abbraccio al nonno, lui si avviava lento verso una porta da cui era inghiottito, la madre di Sofia diceva è l'ultima volta che lo vedo, invece il nonno tornava ogni volta finché non ha smesso di incaponirsi e ha finalmente dato ragione alla figlia.

Dopo non sono mai più andati all'aeroporto. Sofia è cresciuta ed è diventata bella com'è. I suoi genitori hanno ancora la tabaccheria, ci lavorano dalle sette e mezza del mattino alle otto di sera, con un'ora di pausa per il pranzo. Tutti gli anni dicono di voler vendere la licenza ma poi non lo fanno mai. Nessuno si è più seduto in un angolo sullo sgabello di legno a sputare tabacco per terra, uno sgabello nuovo, comprato al momento della ristrutturazione del negozio, nessuno parla con i clienti che ormai entrano ed escono dicendo solo la marca di sigarette o il nome del giornale. Sofia ha terminato gli studi, brevi e noiosissimi, ha cominciato a lavorare e quando sono iniziati i viaggi non ha mai voluto essere accompagnata all'aeroporto. Oggi ha telefonato a Júlio per farsi venire a prendere, ma si è già pentita.

Sofia e Júlio camminano mano nella mano. Restano in silenzio. Sofia vorrebbe confessargli ogni cosa ma non sa da dove incominciare. Forse potrebbe cominciare con questa domanda, non ti importa, vero, sposarti con una puttana, magari può cominciare da qui. Poi dovrebbe spiegare, no, non una puttana qualsiasi, una puttana abituata a scegliere i clienti secondo due criteri, ricchi o ricchissimi, una puttana abituata a scopare solo in alberghi a cinque stelle, preferibilmente all'estero perché quello che si fa all'estero non conta, forse dovrebbe cominciare da qui invece di ricordare suo nonno all'aeroporto. Ma siccome non riesce a trovare le parole, né a confessare tutto dall'inizio alla fine, continua a ripensare al nonno lì all'aeroporto che le mette in mano una banconota da venti escudos. Poi pensa agli uomini con cui va, non molto diversi dal nonno. Il nonno voleva comprare il suo amore. Gli uomini vogliono comprare il suo corpo. Comprare è sempre comprare, a prescindere da cosa.

Júlio non pensa a niente, nemmeno a quanto è felice perché Sofia gli ha chiesto di venirla a prendere. Sofia pensa ad altri nonni, quelli da cui i genitori hanno ereditato il negozio, sempre vissuti accanto a loro in una casa blu con una bouganville appassita aggrappata al cancello. Sono morti ormai. Morti quanto i nonni di Júlio, per lui morti da sempre perché non li ha mai conosciuti. Alla fine il risultato è lo stesso.

La madre di Júlio non sa chi sia il padre di Júlio. A volte cerca ancora di scoprirlo attraverso le somiglianze fisiche. Adesso Júlio è cresciuto, se lei potesse rivedere i possibili padri forse lo scoprirebbe, ma non hai mai rivisto nessuno del gruppo con cui è scappata quando era ancora più giovane di Júlio e Sofia. È stato in un'altra vita, dice così quando ne parla oggi. Il giorno in cui è scappata di casa aveva una gonna indiana lunga fino ai piedi, una camicia stampata a disegni astratti, sandali di cuoio e capelli pieni di treccine. I nonni di Júlio l'hanno descritta alla polizia più o meno così. Non hanno parlato del profumo nauseabondo dal nome impronunciabile, pà, pà culi, chi se ne importa del profumo quando tua figlia è scappata di casa lasciando scritto Voglio essere felice su un foglio di giornale. Una riga su un giornale, e basta.

Il gruppo aveva occupato un casale abbandonato, coltivavano la terra, o meglio praticavano un'attività simile alla coltivazione ma da cui non nasceva niente, cucinavano il pane, o una pasta gommosa simile al pane, accendevano candele per allungare le ombre alle pareti, gli piaceva raccontarsi storie di fantasmi e maledizioni tipo quella della macchina su cui era morto James Dean, che uccideva chiunque la toccasse. Gli occhi grigi della madre di Júlio erano meno grigi alla luce indecisa delle candele, il suo corpo non era così piccolo e magro quando si lavava al fiume. Facevano il bagno nudi e si asciugavano al sole. Erano scappati di casa in estate ed erano talmente giovani che l'inverno sembrava sempre lontano, anche quando si ricordavano del suo prossimo arrivo. Leggevano poesie rivoluzionarie, erano comunisti, suonavano la chitarra, il flauto e il tamburello. Il gruppo odiava l'espressione amore libero, da loro considerata la scusa borghese alla depravazione, sognavano Kathmandu e fumavano erba.

Se genetica e logica vanno a braccetto, il padre di Júlio dovrebbe essere il più alto. In questo caso avrebbe dovuto essere Raul. Ma Raul era morto pochi anni dopo. Di overdose, investito da una macchina, o per quella malattia di cui avevano cominciato a morire gli invertiti all'estero, fatto sta che Raul è morto pochi anni dopo. Molto probabilmente sono morti tutti, uno per volta, nonostante fossero un gruppo, uno per volta, senza mai essere stati a Kathmandu.

Alla polizia, i nonni di Júlio hanno riempito il modulo delle denunce di scomparsa, poi hanno visto la fotografia della figlia alla TV. La stessa televisione in cui apparivano soldati rivoluzionari pronti a giurare di restare al fianco del popolo lavoratore, al servizio della classe operaia e dei contadini. L'annuncio è stato trasmesso per tre giorni. Poi la madre di Júlio ha esaurito la porzione di fama toccatale in sorte.

I nonni di Júlio non hanno mai conosciuto il nipote, non ancora nato quando la nonna di Júlio ha detto ai poliziotti che non era colpa sua, quella era l'unica dei suoi quattro figli a creare problemi. Ben presto la madre di Júlio ha cominciato a creare problemi anche all'interno del gruppo. Tanto per cominciare si è lamentata del cibo. Subito dopo si è rifiutata di recitare le poesie del Che perché secondo lei erano brutte. L'odore dei falò notturni le dava la nausea e la poca luce delle candele la stancava. Voleva ancora essere felice, ma l'acqua del fiume era già gelata a settembre.

È scappata di nuovo. Incinta, ma non per un atto d'amore nei confronti del figlio, nato in un bel giorno di maggio, toro ascendente vergine. Su questo non si è mai raccontata storie. Dopo la fuga ha dovuto alzarsi in piena notte per andare a lavorare in panetteria, panini normali farina tipo 1, acqua, sale, lievito, additivi e grasso vegetale, panini di farina integrale, acqua, sale e lievito.

Sofia e Júlio camminano mano nella mano. Sofia ha deciso di non dire niente. Camminano nell'aeroporto mano nella mano. Sembrano felici. Se sembrano felici è perché lo sono.

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Pagina 112

Quando si cresce nel quartiere dove era cresciuto lui, non è difficile comprare un'arma illegale. C'è sempre un amico di un amico cui chiedere chi vende armi senza troppe domande. Júlio e Nandico erano stati amici per anni, e Nandico sapeva tutto sul quartiere. O almeno tutto quanto c'era di illegale, cioè quasi tutto. Júlio si era inventato di essere stato rapinato, si sarebbe sentito più sicuro con una pistola. Nandico non gli aveva creduto ma aveva finto di sì, nel quartiere a nessuno importavano i motivi per cui uno poteva volere una pistola. E nemmeno nei quartieri limitrofi. Dopo i quartieri c'era la sponda sbagliata del fiume e poi il fiume, che quella sera era immobile e scurissimo. Un animale dal corpo molto lungo e luccicante. Dall'altra parte, sulla sponda giusta, c'erano due navi da crociera illuminate. Júlio e Sofia avevano deciso di partire in crociera, quando sarebbero stati più vecchi. Avevano anche pensato ad alcuni paesi dove gli sarebbe piaciuto andare e avevano deciso che valeva la pena pagare un extra per una cabina con vista sul mare.

Seduti al bar, Nandico aveva ordinato un whisky e l'aveva bevuto d'un fiato. Poi aveva sbattuto il bicchiere sul tavolo con forza. Con la mano ne aveva chiesto un altro al gestore dietro al bancone, che asciugava bicchieri con un canovaccio immacolato. Júlio aveva copiato i gesti di Nandico, nel tentativo di guadagnarsi la sua fiducia. Ne avevano bevuti quattro, quando Júlio aveva detto di voler comprare una pistola. Nandico si era grattato la testa. Non come se gli prudesse. Piuttosto come se non sapesse bene che fare. Al liceo erano amici, ma ormai non si vedevano da anni per via delle loro diverse scelte di vita. E adesso ecco Júlio lì davanti a lui, a riempirlo di bugie per farsi suggerire da chi andare a comprare una pistola. C'è sempre un momento, Nandico lo sapeva, in cui chi ha scelto di fare la cosa giusta si pente. Si pente anche chi ha scelto di fare la cosa sbagliata. La differenza non sta nel pentimento. Sta nel fatto che la cosa giusta non paga mai, mentre quella sbagliata di tanto in tanto sì.

Conosceva varie persone a cui rivolgersi, aveva detto Nandico, ma bisognava avere le palle, nel caso qualcosa andasse storto. Se lo beccavano, non doveva mai, ma proprio mai, rivelare neanche un nome. Ci volevano i coglioni. Júlio non gli aveva detto di essere stato rimproverato già svariate volte di non averceli. Del resto a Nandico non interessava. Voleva solo sentirlo giurare. Nemmeno se le guardie ti prendono e ti rifilano un sacco di mazzate, aveva detto, mazzate da lasciare regali tipo questi, e si era arrotolato la manica destra rivelando due bruttissime cicatrici. Guarda come mi hanno ridotto quegli stronzi l'ultima volta, ma io nemmeno una cazzo di parola. Aveva fatto il gesto di sigillarsi la bocca. Mi hanno spaccato le costole, ma non mi hanno strappato nemmeno una cazzo di parola. Júlio aveva provato a immaginare una parola strappata. Un fiore, un dente strappato erano facili da immaginare. Una parola no. Pensava a una gola piena di sangue. La lingua. Poi la parola mentre appassiva. Per visualizzarla meglio, la immaginava con le radici. Ma nemmeno così riusciva a figurarsi una parola strappata. Nandico aveva attaccato a parlare di un infame impiccato da poco. Un lenzuolo e il gancio del lampadario erano serviti alla bisogna. L'infame, dicono, aveva scalciato tanto da slogarsi i piedi. Io la spia non l'ho mai fatta, aveva concluso Nandico. Ne era orgoglioso, orgoglioso come Júlio non era mai stato. Júlio aveva giurato di non farsi strappare una parola, se lo avessero beccato con l'arma. Dopo il giuramento Nandico si era tranquillizzato, pure se Júlio sapeva di poter giurare anche quaranta volte senza che questo garantisse un bel niente. Erano andati avanti a bere whisky come quando erano amici e Júlio aveva cominciato a sentirsi meglio. Presto avrebbe avuto una pistola, e il whisky gli strappava le parole di Sofia via dalla testa. Se la polizia avesse usato whisky al posto delle botte, pensava, avrebbe ottenuto risultati migliori con Nandico. In casi molto particolari, aveva detto Nandico, Japauto accettava il pagamento in due rate, al che Júlio aveva risposto di voler saldare il totale. Non aveva spiegato la sua intenzione di ritirare tutti i contanti dalla carta di credito, tanto non aveva intenzione di coprire l'ammanco. Gli obiettivi della sua vita erano cambiati, di conseguenza anche le regole. La vita di Júlio avrebbe smesso di esaurirsi in Sofia e in un lavoro dove non poteva presentarsi con i capelli lunghi o un tatuaggio come quello di Nandico, un serpente intorno al collo, un collo molto grosso, quello di Nandico. Un collo da toro con un serpente arrotolato. Il tatuaggio era fatto per dare l'illusione che il serpente stesse per morderlo. Júlio era impressionato dalla lingua biforcuta del serpente puntata sul collo da toro di Nandico, tanto da non riuscire a distogliere lo sguardo nonostante fosse concentrato sul suo nuovo obiettivo di vita. Adesso il suo unico compito era annientare il male. Pensando a questo, aveva tirato un sospiro di sollievo. Per la prima volta in vita sua sapeva esattamente cosa fare. Tra l'altro, non era per niente difficile.

Per la prima volta in vita sua non ha paura. Non ha paura di essere licenziato perché non vuole più il lavoro. Non vuole il lavoro perché non vuole più l'appartamento comprato insieme a Sofia nella periferia della sponda giusta del fiume. Non vuole più nemmeno la macchina. Non vuole niente. Non volere niente, non aver bisogno di niente è una sensazione talmente bella che Júlio si chiede come mai non si sia deciso prima. Basta con la paura di sbagliare con Sofia o con i figli non ancora nati. Basta. La sua è diventata una vita perfetta. Con un unico obiettivo raggiungibile a breve, molto a breve, è una vita incredibilmente perfetta.

Ecco perché ha accettato le pasticche, quando Nandico gliele ha offerte. Avrebbe accettato molte altre cose impensabili per l'impiegato di multinazionale che era stato fino a quel momento. Sofia ha fatto bene a tradirlo. Se l'è meritato, per essere stato tanto vigliacco, soprattutto per aver avuto tutta quella paura di essere tradito. È stata la sua paura a provocare il tradimento di Sofia. Le è capitato come a certi animali, che sentono le cose senza saperle spiegare. Ha sentito quanto era diventato vigliacco, ha sentito la vita terribile cui erano condannati. Finora la vita di Júlio è stata solo paura e gestione della paura. Paura di perdere Sofia, il lavoro, che la banca gli togliesse la casa, di ammalarsi, di avere un incidente, di lasciarsi crescere la barba, di non riuscire a mettere incinta Sofia, paura di tutto, anche di quanto ancora non sapeva. Soprattutto di quanto ancora non sapeva. La sua vita è stata un unico tentativo di mascherare il terrore da cui era paralizzato. Si comportava come i garzoni dei saloon nei film di cowboy, nascosti sotto il bancone a ogni sparatoria, di cui tutti, buoni cattivi e pure lui, ridevano.

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