Copertina
Autore Gianrico Carofiglio
Titolo Testimone inconsapevole
EdizioneSellerio, Palermo, 2005 [2002], La memoria 546 , pag.322, cop.fle., dim.120x167x17mm , Isbn 978-88-389-1800-1
LettoreGiorgia Pezzali, 2005
Classe gialli , narrativa italiana
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Pagina 11

Ricordo molto bene il giorno prima — anzi il pomeriggio prima — che tutto cominciasse.

Ero arrivato in studio da un quarto d'ora e non avevo nessuna voglia di lavorare. Avevo già controllato la posta elettronica, la posta cartacea, riordinato qualche carta fuori posto, fatto un paio di telefonate inutili. Insomma avevo esaurito tutti i pretesti e quindi mi ero acceso una sigaretta.

Adesso mi godo tranquillamente la sigaretta e poi comincio.

Finita la sigaretta avrei trovato qualcos'altro. Magari sarei sceso ricordandomi di un certo libro che dovevo andare a prendere da Feltrinelli e, insomma, avevo rinviato troppe volte.

Mentre fumavo squillò il telefono. Era la linea interna, la mia segretaria dall'anticamera.

C'era un signore che non aveva appuntamento, ma diceva che era urgente.

Quasi nessuno ha mai appuntamento. La gente va dall'avvocato penalista quando ha problemi seri e urgenti, o è convinta di averli. Il che ovviamente è lo stesso.

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Pagina 60

Avevo udienza quella mattina, ma prima dovevo andare a parlare con il consigliere Cervellati. Il pubblico ministero che si occupava del caso di Abdou.

Non era propriamente il magistrato più simpatico degli uffici giudiziari.

Non era alto e nemmeno basso. Non magro e nemmeno esattamente grasso. La pancetta comunque era sempre coperta, d'inverno e d'estate da orribili gilet marroni. Occhiali spessi, pochi capelli, lasciati sempre un po' troppo lunghi, giacche grigie, calzini grigi, colorito grigio.

Una volta una mia collega simpatica, parlando di Cervellati disse che era uno con la canottiera. Le chiesi cosa significasse e mi spiegò che si trattava di una categoria dell'umanità che aveva elaborato lei.

Uno con la canottiera - metaforica - è innanzitutto uno che in piena estate, a 35 gradi, indossa la canottiera - vera - sotto la camicia, «perché assorbe il sudore e non mi prendo un accidente con certi spifferi». Una variante estrema di questa categoria è costituita da quelli che mettono la canottiera sotto la t-shirt.

Uno con la canottiera ha il copricellulare di finta pelle con gancio per la cintura, il pomeriggio arriva a casa e si mette in pigiama, conserva il suo vecchio cellulare e-tacs perché sono sempre quelli che funzionano meglio. Usa le mentine per profumare l'alito, il borotalco e il collutorio.

Talvolta ha un preservativo nascosto nel portafoglio, non lo usa mai e però prima o poi la moglie lo scopre e gli fa il culo.

Uno con la canottiera dice frasi come: pestare una cacca porta fortuna; oggigiorno è impossibile trovare parcheggio in centro; oggigiorno i ragazzi non hanno interessi a parte la discoteca e i videogiochi; io non ho niente contro gli omosessuali / i gay / i ricchioni / i froci / i finocchi, basta che a me mi lasciano stare; se uno è omosessuale / gay / ricchione / frocio / finocchio sono fatti suoi ma non può mica fare il maestro; condoglianze vivissime; destra e sinistra sono tutti la stessa cosa, sono tutti ladri; io lo capisco in anticipo quando cambia il tempo: mi fa male il gomito / il ginocchio / la caviglia / il callo; sbagliando si impara; a buon rendere; io non parlo da dietro, le cose le dico in faccia; sbaglia chi lavora; peggio che andar di notte; bisogna alzarsi da tavola con un po' di appetito; finché c'è vita c'è speranza; mi sembra ieri; devo decidermi a imparare internet / andare in palestra / mettermi a dieta / rimettere a posto la bicicletta / smettere di fumare eccetera eccetera, eccetera.

Ovviamente uno con la canottiera dice che non esistono più le stagioni intermedie e che il caldo / il freddo secco non è un problema, è il caldo / il freddo umido che è insopportabile.

Le imprecazioni dell'uomo con la canottiera: porco zio; porca pupazza; porca madosca; porca trota; porca paletta; perdindirindina; non rompere le spalle; mannaggia a li pescetti; non mi prendere per i fondelli; vaffanbagno; vaffatica; vaffancapo.

Chiunque lo avesse conosciuto sarebbe stato d'accordo. Cervellati era uno con la canottiera.

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Pagina 163

Cervellati parlava - anzi leggeva - con la solita voce, nasale e monotona. Io non mi aspettavo sorprese dalla sua relazione e allora mi misi ad osservare i giudici, ad uno ad uno.

Il presidente Nicola Zavoianni era un personaggio molto conosciuto nella cosiddetta Bari bene. Bell'uomo, sui settanta molto ben portati, frequentatore del circolo della vela, grande giocatore di poker e, dicevano, grande puttaniere. Era uno che non si era mai ammazzato di lavoro ma faceva il presidente della corte di assise da parecchi anni e il mestiere, grosso modo, lo conosceva. Non mi era mai stato simpatico e avevo sempre avuto la sensazione che la cosa fosse reciproca.

Il giudice a latere era un signore grigio, spelato, miope e con la pelle lucida. Veniva dal civile ed era la prima volta che lo incontravo in un processo. Teneva la toga racchiusa sul davanti, con le mani, come se si stesse proteggendo da qualcosa. Non riuscivo a vedere bene i suoi occhi, coperti dalle spesse lenti.

Nella giuria popolare c'erano quattro donne e due uomini. Tutti avevano l'aria fuori posto dei giudici popolari alla loro prima udienza. Due signore fra i cinquanta e i sessanta erano agli estremi opposti. Una delle due mi ricordava quasi ipnoticamente una mia prozia, una cugina di mamma. Mi aspettavo che da un momento all'altro mi chiamasse al banco per offrirmi i dolcetti di mandorla delle suore.

I due uomini erano dalla parte del giudice a latere. Uno aveva i capelli cortissimi e bianchi, un vestito di vecchio taglio con giacca a due bottoni, una cravatta nera, sessant'anni o poco più, gli occhi a fessura e l'aria del militare di carriera in pensione. Non prometteva niente di buono. L'altro era un ragazzo, massimo trent'anni. Si guardava intorno, con una faccia intelligente.

Sul lato del presidente c'erano le altre due donne. Una che - pensai in quel momento - sembrava una preside e l'altra, casualmente vicino al presidente, abbronzata, truccata, labbra vistose, fresca di parrucchiere.

Interruppi la mia osservazione quando mi accorsi che il pubblico ministero stava concludendo, con le richieste di prova.

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Pagina 188

Poi sentii gli spruzzi di acqua sulla faccia e sul petto, e una voce che riconobbi subito. Elena.

«Guido! Guido, da quanto tempo!».

«Elena, che piacere...».

Bugiardo, miserabile bugiardo, pensai testualmente. Io Elena l'avevo sempre detestata. Lei e il suo orribile marito e il suo gruppo di orribili amici. Aveva fatto il liceo e l'università con Sara ed era convinta di essere la sua migliore amica. Sara non era della stessa opinione, ma le dispiaceva essere scortese. Così eravamo costretti, periodicamente, ad accettare gli inviti a cena da Elena e, a volte, anche a ricambiare.

Mi avvolse in una nuvola di Opium mentre si abbassava ad abbracciarmi. Al mare l' Opium? Sapevo per certo che, dopo la separazione, aveva detto molte cose di me, nessuna delle quali piacevole. Adesso, in perfetta coerenza con il suo personaggio, mi abbracciava, mi baciava e mi chiedeva cosa avessi fatto in tutto quel tempo.

«Guido, come stai bene! Hai fatto palestra questo inverno? Sei solo o con qualche fidanzata?». Ammiccante, stile: a me puoi dirlo, che mi limiterò a mettere un annuncio sul giornale e qualche centinaio di manifesti per la città.

«Sì, stronza, sono solo e vorrei restarci. Comunque visto che sei venuta qui a rompere le palle, ho qualcosa da dirti, perciò ascoltami bene. Le tue cene sono sempre state una tortura e soprattutto il mangiare faceva schifo. Lo so che tutti dicevano che eri una gran cuoca e questo resterà per me, sempre, un mistero. Tuo marito, se possibile, è peggio di te. E i vostri amici, se possibile, sono peggio di lui. Una volta mi proposero anche di iscrivermi al Rotary. Volevo dirti che sono comunista. Per tante sere, per tanti anni hai avuto a cena un comunista. Capito?».

Queste cose, e altre, avrei voluto dire. Ovviamente invece risposi con nauseante garbo. Sì ero solo, no non avevo nessuna fidanzata, sì dicevo sul serio, no, non vedevo Sara da tempo. Ah, lei era qui al mare da sola? Con Mario avevano dei problemi? E chi non ne avrebbe avuti di problemi, con Mario. Anche con lei, se è per questo. Dovevamo vederci, una sera di queste? Lei e io? Certo, come no. Se avevo il suo numero di cellulare? Credevo proprio di sì. Ah, non potevo perché ne aveva uno nuovo. Allora era il caso che me lo desse. Allora l'avrei chiamata? Ci contava. Certo poteva contarci. Sicuro. Ciao, a presto, bacio, Opium, ancora bacio e gran finale con strizzatina d'occhio.

Feci il bagno per vedere com'era l'acqua e per togliermi l' Opium di dosso. L'acqua era veramente fredda. Del resto eravamo ancora a metà giugno e non aveva fatto mai veramente caldo. Feci qualche bracciata, pensai che per il primo bagno della stagione poteva bastare e decisi di fare una passeggiata sulla spiaggia, fra la sabbia e il mare.

I giocatori di racchettoni c'erano, ma non così numerosi come a luglio e agosto. Avrei voluto ucciderli ma ero disposto, dato che eravamo ad inizio stagione, ad accordare loro una morte rapida. A luglio o agosto avrei voluto ucciderli facendoli soffrire.

Io detesto i giocatori di racchettoni, ma mentre camminavo - sforzandomi di infastidirli il più possibile mettendomi deliberatamente in mezzo alle traiettorie della palla - vidi un tipo di creatura che detesto ancora di più dei giocatori di racchettoni. Il fumatore di pipa alla spiaggia.

Non vado pazzo per chi fuma la pipa. Divento piuttosto nervoso quando vedo qualcuno che fuma la pipa per strada. Divento veramente molto nervoso quando vedo qualcuno - come quel pomeriggio - che fuma la pipa in spiaggia, guardandosi attorno con un sussiego da Sherlock Holmes. In mutande.

Facevo queste riflessioni, su fumatori di pipa e giocatori di racchettoni, e pensai che forse stavo davvero meglio, se avevo recuperato un po' della mia sana intolleranza.

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Pagina 220

Quando ero bambino e mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo lo sceriffo. Il mio idolo era Gary Cooper in Mezzogiorno di Fuoco. Quando mi dicevano che in Italia non esistono gli sceriffi, ma tutt'al più i poliziotti, rispondevo con prontezza. Sarei stato un poliziotto sceriffo. Ero un bambino duttile e volevo dare la caccia ai cattivi, in un modo o nell'altro.

Poi - avrò avuto otto o nove anni - assistetti all'arresto di uno scippatore per strada. In realtà non so se fosse uno scippatore o un borseggiatore o che altro genere di piccolo delinquente. I miei ricordi sono piuttosto sfuocati. Diventano nitidi solo su una breve sequenza.

Sono con mio padre e camminiamo per strada. Uno scoppio di grida alle nostre spalle e poi un ragazzo magro che ci passa di lato correndo - mi sembra - come un fulmine. Mio padre mi tira a sé, giusto in tempo per evitare che un uomo, che arriva subito dopo mi travolga, correndo anche lui. L'uomo ha un maglione nero e grida mentre corre. Grida in dialetto. Grida al ragazzo di fermarsi che altrimenti lo uccide. Il ragazzo non si ferma spontaneamente, ma forse una ventina di metri dopo urta contro un signore. Cade. L'uomo con il maglione nero gli è addosso e intanto ne sta arrivando un altro, più lento e più grosso. Io sfuggo al controllo di mio padre e mi avvicino. L'uomo con il maglione nero colpisce il ragazzo, che da vicino sembra poco più che un bambino. Lo colpisce con pugni sulla testa e quando quello cerca di ripararsi gli toglie le mani e poi lo colpisce di nuovo. Figgh d'p'ttan. Vaffammoc'a l murt d'mam't. Fusc' fusc', figgh d b'cchin. E giù un altro pugno diritto sulla testa, con le nocche. Il ragazzo grida basta, basta. Anche lui in dialetto. Poi smette di gridare e piange.

Io guardo la scena, ipnotizzato. Sento disgusto fisico e un senso di vergogna per quello che vedo. Ma non riesco a distogliere lo sguardo.

Adesso arriva l'altro, il grosso, che ha un'aria pacioccona ed io penso che interviene, e fa finire quello schifo. Lui smette di correre a cinque, sei metri dal ragazzo, che adesso è raggomitolato per terra. Copre quello spazio camminando e ansimando. Quando è proprio sopra al ragazzo prende fiato, e gli dà un calcio nella pancia. Uno solo, fortissimo. Il ragazzo smette anche di piangere e apre la bocca e rimane così, senza riuscire a respirare. Mio padre, che fino a quel momento è rimasto impietrito anche lui, fa il gesto di intervenire, dice qualcosa. È l'unico fra tutta la gente intorno. Quello con il maglione nero gli dice di farsi i cazzi suoi. «Polizia!» abbaia. Però subito dopo smettono tutti e due di picchiare. Il grosso solleva il ragazzo prendendolo per il giubbotto, da dietro e lo fa mettere in ginocchio. Mani dietro la schiena, manette, mentre lo tiene per i capelli. Questo è il ricordo più osceno di tutta la sequenza: un ragazzino legato in balia di due uomini.

Mio padre mi tira via e la scena va in dissolvenza.

Da allora smisi di dire che volevo fare lo sceriffo.

Quell'episodio mi era tornato in mente qualche volta, negli anni. Qualche volta mi ero detto che avevo fatto l'avvocato per una specie di reazione al disgusto di quella scena. Qualche volta, in qualche momento di esaltazione, ci avevo anche creduto.

La verità però era un'altra. Avevo fatto l'avvocato per puro caso, perché non avevo trovato di meglio o perché non ero stato capace di cercarlo. Il che, ovviamente, era la stessa cosa.

Mi ero iscritto a giurisprudenza perché pensavo di guadagnare tempo, visto che non avevo le idee troppo chiare. Dopo la laurea avevo pensato di guadagnare altro tempo andando a parcheggiarmi in uno studio legale, in attesa di chiarirmi le idee.

Per alcuni anni, dopo, avevo pensato che facevo l'avvocato in attesa di chiarirmi le idee.

Poi avevo smesso di pensarlo, perché il tempo passava e avevo paura di dovere trarre qualche conseguenza, dal fatto di chiarirmi le idee. A poco a poco avevo anestetizzato le mie emozioni, i miei desideri, i miei ricordi, tutto. Anno dopo anno. Fino a quando Sara mi aveva messo alla porta.

Allora il coperchio era saltato e dalla pentola erano venute fuori molte cose che non immaginavo e che non avrei voluto vedere. Che nessuno vorrebbe vedere.

«Ogni uomo ha dei ricordi che racconterebbe solo agli amici. Ha anche cose nella mente che non rivelerebbe neanche agli amici, ma solo a se stesso, e in segreto. Ma ci sono altre cose che un uomo ha paura di rivelare persino a se stesso, e ogni uomo perbene ha un certo numero di cose del genere accantonate nella mente».

Dostojevskij. Memorie del sottosuolo.

Non è bene quando quelle cose accantonate vengono fuori. Tutte insieme.

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