Copertina
Autore Azzurra Carpo
Titolo In Amazzonia
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2006, Traveller , pag. 270, ill., cop.fle., dim. 141x221x18 mm , Isbn 978-88-7108-195-3
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe viaggi , paesi: Brasile
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Indice


    Prefazione                                      9

    Introduzione. Da Cuzco, Perú                   13

 1. Brasile. Da Rio Branco a Xapurí,
    il villaggio di Chico Mendes                   23

 2. Ancora Xapurí. Le cicale di Solentiname        40

 3. Alla frontiera tra Bolivia e Brasile.
    Tra Brasiléia e Cobija                         53

 4. Alla frontiera tra Brasile e Perú.
    Verso la riserva etnoambientale Envira         62

 5. Gli indigeni in isolamento,
    gli uomini della nebbia                        75

 6. La maledetta vigilia di Natale dei masko-piro  90

 7. Le farfalle dell'Envira                       100

 8. Sulla carretera di Tarzan ci sono indigeni
    che navigano in Internet                      117

 9. Gli alberi giganti                            140

10. Indian Wars                                   161

11. 31 dicembre. La Pimenteira,
    la riserva estrattiva di Chico Mendes         186

12. Lungo la carretera Interoceànica
    Assis Brasil-Iñapari-Puerto Maldonado         212

Epilogo. Donne sulla carretera San José
         del Karene-Cuzco                         240



 

 

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Pagina 13

Introduzione
DA CUZCO, PERÙ



Acquazzoni con grandine, stamani, su Cuzco. Poi, sole feroce su un cielo profondo che solo nella sierra è concesso vedere. Ora è notte di freddo pungente. I turisti non si abituano facilmente a questi eccessi climatici delle Ande, in un paesaggio di picchi, baratri e tavole illustrate a forti colori, su una geologia primordiale.

Nel suo viaggio compiuto tra il 1965 e il 1966 in Perú, Guido Piovene descrive l'altalena di sensazioni violentemente contrastanti provate lungo la stradina bianca che si inerpica a zigzag verso Machu Picchu, a strapiombo su una valle molto profonda, rocciosa, solcata dal fiume sacro dell'impero incaico, l'Urubamba. Rimane impressionato dalle colate e dai ritagli di colore della giungla che macchiano e rigano le rocce, riunendosi presso l'acqua, risplendenti di fiori tra cui prevalgono il rosso vivo, l'arancione e il rosa carico. Intravede nel paesaggio orchidee a grappoli, begonie, gladioli, gerani, sterlizie, anturi, fucsie enormi. Resta colpito dai ragazzini che chiedono l'elemosina, e affascinato dal mercatino con le donne accosciate, sul tipo della venditrice di uova di Tiziano. Qui si possono vedere contemporaneamente anche due o tre arcobaleni completi. Su un pendio scosceso, che dà il capogiro, si scorgono anche i colori del Río Urubamba, che si riflettono in alto attraverso profili del monte Huayna Picchu: vibrazioni in un prisma che sembrano proiettare le sagome dei lama.

Poi, di colpo, Machu Picchu, la città sacra, incastrata tra i suoi enigmi. Da contemplare. In silenzio. Come questo cielo stellato sopra di me, ora che è notte su Cuzco, ora che le stelle divampano e hanno il battito della fiamma.

Mi lascio attraversare da qualcosa che è più di un sentimento. È uno status e, insieme, un appuntamento. Borges l'ha descritto nella forma più giusta: "La musica, gli stati di felicità, i miti, i volti tormentati dal tempo, certe notti di stelle e certi luoghi vogliono dirci qualcosa, che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dirci qualcosa; questa imminenza di una rivelazione, che non si produce, è forse il fatto estetico".

Un brivido simile lo provai, nel 1997, durante un viaggio sulla carretera che da Cuzco porta al Parco nazionale del Manú, nel cuore dell'Amazzonia peruviana, in un pulmino stipato di zaini, viveri, turisti giapponesi e australiani e qualche peruviano. Dai 4000 metri di altezza dell'altopiano andino, lì dove vigila la montagna dell'Apu Kanahuay (tradotto dal quechua significa "Colui che sta vicino a Dio") e cresce solo l' ichu (erba secca e tagliente, caratteristica della puna andina), si comincia subito a scendere in tornanti da brivido, su un sentiero sassoso; si giunge in poche ore fino alla selva amazzonica, a livello del mare.

Superata Paucartambo, sul viottolo verso Shintuya, i banchi di nebbia sono persistenti, ma verso il solstizio d'inverno, il 21 giugno, bisogna fermarsi al passo Tres Cruces. Lì, grazie al fenomeno della distorsione ottica provocata dalla luce del primo mattino che lascia balenare immagini mosse, si contempla la confusa bellezza dell'alba dell'universo che sale dalle brume dell'Oceano Atlantico, rincorre tutto il Brasile e la foresta amazzonica per venire a dipingere di aloni e di strani colori i boschi nani delle Ande peruviane, fatti di licheni e arbusti rinsecchiti dal gelo notturno e popolati di rare creature.

Il sole si alza tra lenzuola gialle a strisce rosse, a migliaia di chilometri di distanza. Nello stesso istante, si leva il verso di interi eserciti di insetti diversi, i richiami di uccelli, pappagalli, corvi ururú, macachi e di milioni di esseri viventi, in adorazione del primo sbadiglio luminoso del dio sole. Vibra il tappeto della foresta e, come un onda che viene da lontano, si affloscia e risorge ogni volta più gonfio di suoni, accompagnando il distendersi della luce nel cielo. Un po' alla volta si distingue l'infinito. Com'è l'oceano? Così, ma azzurro scuro. Le dita del sole precedono la sua gloria e toccano i picchi delle Ande peruviane, con pudore, pochi istanti prima dell'arrivo delle voci della giungla.

Molti identificano l'Amazzonia con il Brasile, che naturalmente ne occupa la maggior parte, il 64 per cento della superficie. Ma i paesi sudamericani con aree amazzoniche sono nove: Brasile, Perú, Bolivia, Colombia, Ecuador, Venezuela, Guiana francese, Guyana inglese, Suriname, con ecosistemi, contesti sociali e culturali così diversi da configurare "tante Amazzonie".

Sotto il passo Tres Cruces di Cuzco si stende, nella fuliggine dell'alba, l'Amazzonia peruviana: il 16 per cento del famoso polmone verde del pianeta, 77 milioni di ettari, foresta tropicale ad alta biodiversità, che pompa milioni di dollari ai laboratori stranieri della biomedicina e della biotecnologia. La marcia della deforestazione supera in percentuale quella del Brasile: 725 ettari al giorno, 262.000 all'anno. Vi operano decine di multinazionali del petrolio, con regolare autorizzazione del governo. E, illegalmente, duemila tagliatori di legname pregiato. Per svendere a basso prezzo un tronco di mogano o di cedro del Libano abbattono alberi nel raggio di chilometri.

Fu in quell'occasione che la guida della piccola comitiva di turisti mostrò una foto della carretera Interoceànica, e sentii parlare per la prima volta di una strada che parte dalle coste dell'Oceano Atlantico, attraversa tutto il Brasile e solca l'ultima foresta primaria dell'Amazzonia peruviana, per poi innestarsi sulle grandi arterie andine e raggiungere l'Oceano Pacifico e i mercati dell'Oriente.

Estrada do Pacifico, la chiamano i camionisti brasiliani che vengono dai centri industriali di San Paolo e Paranà, fermandosi per un cafezinho e una carezza in tutti i motel a luci rosse della famosa strada BR-364, tra le città di Cuiabà, nel Mato Grosso, Porto Velho in Rondònia e Rio Branco do Sul, capitale dello stato dell'Acre. All'entrata di Assis, l'ultima cittadina brasiliana, che segna il congiungersi delle frontiere amazzoniche di Brasile, Perú e Bolivia, un cartello segnaletico verde riproduce le distanze dai due oceani: Oceano Pacifico, 1470 km; Oceano Atlantico, 3968 km. Un tratto di 403 chilometri, ancora sterrato, unisce Assis con il paesino peruviano di Iñapari, e da lì scortica la foresta amazzonica con una strada non asfaltata diretta a Puerto Maldonado, capoluogo della regione Madre de Dios, fino alla biforcazione con il villaggio di Inambari.

Da quella sosta alle Tres Cruces iniziò a insinuarsi l'idea del viaggio descritto in questo libro. Idea all'inizio confusa, legata alla foto di questo tratto stradale peruviano non asfaltato, soffocante di polvere di terra rossa che brucia in faville durante l'estate, impraticabile in tempo di piogge. Un viaggio lungo l'Interoceànica amazzonica peruviana, che ancora non c'è. Un viaggio su un sentiero sterrato prima che diventi strada. Prima che arrivi il "progresso" che i fiumi non hanno portato.

Quando ti entra dentro, un viaggio è un colpo di fulmine, una profezia smaniosa di avverarsi. I turisti che viaggiavano sul pulmino erano soci di un club di bird-watcher, ma seduta vicino a me c'era una donna peruviana, che certamente nulla aveva a che spartire con gli interessi e le passioni dei primi. In seguito seppi che si chiamava Edith Kentehuari Tué.

[...]

Arrivammo a Shintuya nel tardo pomeriggio. Cirri di nuvole a coda di cavallo sul cielo chiaro. Le nostre strade stavano per dividersi: Edith doveva proseguire sulla carretera per il suo paese natale, San José del Karene, e io dovevo prendere una barca sul Río Manú e raggiungere la stazione biologica Cocha-Cashu e il posto di vigilanza Pakitza, nel Parco nazionale del Manú. Mentre sistemava lo zaino, mi raccontò che negli istanti che precedono il tramonto del sole, in qualche rara occasione, il cielo amazzonico può essere attraversato da una vibrazione elettrica color verde. Gli indigeni la chiamano il "raggio verde" e l'interpretano come un richiamo misterioso, una folgorazione, e nello stesso tempo come un'esigenza insopprimibile di cambiamento. Un bisogno di evoluzione. Come quando senti che dovresti essere in un altro posto o che devi rispondere a una pulsione di crescita, per diventare – in modo doloroso – quello che devi felicemente essere. A Shintuya il sole se ne andò, senza salutare.

"Questa resta l'ora dell'attesa" mi disse Edith. E aggiunse: "Quando andrai sull'Interoceànica, passa a trovare la mia famiglia". Si accomiatò dandomi un foglietto con una serie di nomi e di indirizzi in Brasile e in Perú, e il numero del telefono comunitario di San José del Karene.


Quelle parole furono qualcosa di più di un invito. Un po' alla volta diventarono un vuoto da colmare. Un appuntamento vitale. Una necessità. Continuai ad alimentare l'idea di partire, consultando per cinque anni tutti i libri a disposizione, montando nella sala oscura della fantasia un film fatto di emozioni e scoperte.

E anche di interrogativi inquietanti: le acque dei fiumi amazzonici vanno verso est, dalle Ande all'Atlantico. Ma sono lontani i giorni in cui i fiumi erano le autostrade dell'Amazzonia, vene dove fluivano i miti e le leggende, rinnovando in ogni ansa l'eterno pulsare del ciclo vitale. Un tempo, i fiumi erano l'origine dello spazio conosciuto, identità e nome della gente. Oltre i fiumi, esisteva solo ciò che sanno gli sciamani. Ora gli sciamani non sanno dell'origine e ignorano la meta perché sono strade asfaltate quelle che veicolano le storie degli uomini, allungandosi come serpenti nella direzione opposta al corso delle acque e portando i "colonizzatori" alla conquista dell' "Ovest selvaggio". Ora, in Amazzonia, i fiumi sono ostacoli da superare con ponti e traghetti per facilitare le linee parallele delle strade che tagliano di netto la foresta.

Esperti ecologisti calcolano che ogni nuova via di penetrazione alteri la foresta per almeno cinquanta chilometri su ogni lato, generando impatti ambientali e sociali irreversibili. In Brasile le carreteras si distinguono con le iniziali nazionali e un numero, per esempio BR-364, BR-365, BR-317.

Quanto è avvenuto in termini di deforestazione e invasione di terre indigene durante la costruzione, negli anni ottanta, del tratto brasiliano della famosa arteria BR-364, che solca il nord del Mato Grosso fino in Rondònia, generò uno scandalo pari a quello suscitato dalla colonizzazione del Kalimantan, in Indonesia. Questo spinse la Banca mondiale e il BID (Banco Interamericano De desarrollo) a stabilire nuovi requisiti ambientali nelle loro operazioni e a premunirsi per evitare di essere accusati di aver indirettamente provocato nuovi disastri ecologici.

Un viaggio "da fare" ti rode dentro, come un voto da sciogliere. Un viaggio per conoscere dove nasce un sentiero amazzonico ancora in terra battuta, prima che diventi una superstrada con una sigla e un numero.

Realizzai questo viaggio a più riprese nel 2002 e 2003, nei periodi in cui il mio lavoro a un progetto di cooperazione internazionale nell'Amazzonia peruviana consentiva la lunga pausa della stagione delle piogge e delle vacanze natalizie.

Partii dalla città di Rio Branco do Sul e, in particolare, da Xapurí, il villaggio di Chico Mendes, un ecologista brasiliano convinto che si potesse convivere con un' "Amazzonia in piedi", cioè che un'oculata gestione della foresta consentisse di migliorare la qualità della vita delle persone e, nello stesso tempo, permettesse agli alberi di rimanere "in piedi", che fosse quindi possibile uno sviluppo sostenibile, senza distruggere la ricchezza naturale degli ecosistemi acquatici e forestali. Chico era convinto che sviluppo e progresso non dovessero significare radere al suolo preventivamente la giungla con incendi ed ecocidi irreversibili, che la carretera dello sviluppo fosse quella che raccoglie e trasforma i prodotti della terra, non quella che rade al suolo l'ecosistema che li genera. E che questa carretera fosse aperta a todos os povos da floresta, a tutti i popoli della foresta, indigeni e non.

Sono passati diversi anni dalla scomparsa di Chico Mendes, assassinato nel 1988. Il mio viaggio inizia dal suo ricordo, da Xapurí, e da una domanda: in Amazzonia sarà possibile migliorare la qualità della vita, combinando giustizia sociale e prudenza ecologica, efficienza economica e sensibilità antropologica?

La carretera Interoceànica bussa alle porte del Perú, afflitto da svariati problemi economici e politici. Vi entra attraverso la regione denominata Madre de Dios, da sempre abitata da numerosi popoli indigeni, fatto che le ha permesso di conservare un patrimonio ecologico tra i più ricchi del pianeta in biodiversità.

Una volta consolidata e asfaltata, è una strada che può diventare un "asse strategico", unendo le città brasiliane dell'Oceano Atlantico con quelle di Ilo, Matarani e San Juan de Marcona, sulla costa peruviana dell'Oceano Pacifico, da dove possono salpare le speranze latinoamericane di riattivazione produttiva verso le opportunità dei mercati orientali.

Sarà possibile costruirla a un prezzo minore – in termini di vite umane e degrado ambientale – rispetto a quello pagato per il tratto brasiliano?

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Pagina 166

Gli indigeni del Río Curanjà che emigrano in Amazzonia portano con sé solo un piccolo fagotto. Non sentono il bisogno di possedere di più, si accontentano dello stretto necessario. Sono ospitali. Vivono altre dimensioni, hanno un concetto differente di vita. La cosa migliore sarebbe accettarli come sono. E che loro accettassero come sono quelli di noi che non vogliono cambiare la rotta e il ritmo della loro migrazione.

Emigrare. Qualcuno ha detto che l'uomo ha cominciato a essere triste quando ha smesso di mettersi "in viaggio". Di essere nomade. I tuareg si spostano continuamente, per loro la patria è là dove piove. Per la gente del Río Curanjà è là dove c'è la "famiglia estesa". Dove il gruppo si ritrova e si rinnova. Emigrando compiono sforzi enormi. In questo simili alla maggioranza delle ottomilaseicento specie di uccelli esistenti nel mondo che, a ogni stagione, sentono l'impulso di partire.

Le rondini artiche, piccoli segni nell'aria, percorrono ogni anno, tra andata e ritorno, trentacinquemila chilometri, cioè il periplo delle tre Americhe. Quando migrano, i gabbiani di Franklin formano stormi così grandi da oscurare il sole. Ai primi freddi di settembre, questi gabbiani si allontanano dai laghi del Canada. Tagliano gli Stati Uniti secondo un misterioso zigzag di lagune e infilano il corridoio biologico lungo tutto il Centroamerica. Costeggiano le spiagge del Pacifico, punteggiate di stagni dove si contendono l'acqua dolce e il cibo con migliaia di aironi, tribù tubanti di colombe e tortore, falchi indispettiti e aquile che afferrano i pesci con gli artigli, per andare a mangiarseli sempre sulla stessa palma.

Appaiono nel primo pomeriggio i gabbiani che fungono da avanguardia, come stamattina alle cinque sono arrivate in avanscoperta le prime due canoe dei kaxinawa.

Fanno larghi girotondi di ispezione; scendono a spirale tra i giunchi di totora e i giacinti, che fioriscono bianchi su una selva di minuscole piante acquatiche. Come gli antichi scudieri delle corti, provano il grado di calore e assaggiano la salsedine dell'acqua. Poi ritornano in cielo a dare il responso al capo dello stormo. Solo quando lui dà il segnale positivo, la cometa di innumerevoli piccoli cuori in volo si prepara a virare verso il canneto.

Arrivano in gruppi di seimila, in formazione a V. Planano in fila indiana ma, a pochi metri da terra, si aprono a ventaglio secondo un accordo prestabilito. I nuclei familiari occupano con sicurezza zone contigue. Nessun gabbiano resta a vagare nell'aria. Sostano per un tempo indefinito, vanno a giocare sul bagnasciuga, rincorrendo molluschi. Si ritrovano con gli uccelli yanavico, che vengono dalle lagune altoandine, e con le anatre selvatiche dai mille colori, provenienti dalle cochas dell'Amazzonia.

Alcuni si fermano per morire. Altri ripartono verso il Sud, Ushuaia, Punta Arenas, stabilendo nel silenzio del cielo il sublime ordine delle gerarchie. Verso marzo lasciano la Patagonia argentina. Dalla Terra del Fuoco sorvolano l'Isola Grande di Chiloé in Cile, la penisola di Paracas e le isole del guano in Perú, le Galapagos dell'Ecuador, l'Isla Margarita della Colombia, i frammenti verdi di Maracaibo in Venezuela e Panama, Bluefields e Puerto Cabezas in Nicaragua, i laghi della Costa Rica e quelli del Guatemala e di El Salvador, sotto i vulcani fumanti. Dall'altro lato delle coste atlantiche brasiliane convergono con lo stesso cuore trepidante milioni di nuove ali migratorie verso l'appuntamento a Everglades, la regione dai vasti acquitrini vicino a Miami, dove qualcuno di loro si riposa su qualche tronco galleggiante, che improvvisamente si muove e spalanca le proprie fauci di coccodrillo.


Da sempre terra di migrazioni, l'Amazzonia. Talora con i contorni di questo rituale scambio di doni tra gruppi dello stesso popolo, come quello a cui sto assistendo; talora con la virulenza dell'epopea, come nel caso del misterioso esodo, senza un Mosè, degli indigeni tupí-guaraní. Nel 1540, sedicimila di loro si mettono "in viaggio": partono dal confine del Brasile con il Paraguay alla ricerca della "Terra senza male" (Tierra sin mal). Dopo una peregrinazione durata più di dieci anni, arrivano in trecento a Moyobamba, nell'Amazzonia peruviana, dove, dopo quasi cinquecento anni, i loro discendenti, cocama-cocamilla e omagua, ancora non trovano né terra né pace. Pensano a una terra promessa dove il Creatore ha posto la propria capanna dopo il diluvio. Un giardino dove si semina e si raccoglie senza fatica ma anche un ultimo rifugio, perché "presto" verrà la fine del mondo.

Il millenarismo e il messianismo amazzonico fanno ciclicamente fiorire movimenti religiosi fondamentalisti e fanatici, guidati da leader che vengono venerati come reincarnazioni di qualche profeta dell'Antico Testamento o dello stesso Gesù Cristo. Nel Brasile povero del Sertào del Nordest, dove è nato il padre di Chico Mendes, sorgono varie confraternite pentecostali che poi accompagnano gli emigranti nella progressiva colonizzazione dell'Amazzonia, negli stati di Rondónia e Acre. Qui si sposano con le frustrazioni degli indigeni, a cui i conquistatori europei hanno tolto il territorio.

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