Copertina
Autore Emmanuel Carrère
Titolo Limonov
EdizioneAdelphi, Milano, 2012, Fabula 251 , pag. 360, cop.fle., dim. 14x22x2,4 cm , Isbn 978-88-459-2733-1
OriginaleLimonov [2011]
CuratoreAlessia Ballinari, Valeria Perrucci
TraduttoreFrancesco Bergamasco, Valentina Parisi
LettoreCristina Lupo, 2013
Classe narrativa francese , paesi: Russia
PrimaPagina


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Indice


Prologo. Mosca, ottobre 2006-settembre 2007                    11

I.    Ucraina, 1943-1967                                       31

II.   Mosca, 1967-1974                                         79

III.  New York, 1975-1980                                     105

IV.   Parigi, 1980-1989                                       157

V.    Mosca, Char'kov, dicembre 1989                          191

VI.   Vukovar, Sarajevo, 1991-1992                            213

VII.  Mosca, Parigi, Repubblica serba di Krajina, 1990-1993   237

VIII. Mosca, Altaj, 1994-2001                                 275

IX.   Lefortovo, Saratov, Engel's, 2001-2003                  315

Epilogo. Mosca, dicembre 2009                                 345



 

 

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LIMONOV



                                            «Chi vuole restaurare il comunismo
                                            è senza cervello. Chi non lo
                                            rimpiange è senza cuore».

                                                                VLADIMIR PUTIN

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Prima che Anna Politkovskaja venisse ammazzata sulle scale del palazzo in cui abitava, il 7 ottobre 2006, soltanto chi si interessava da vicino alle guerre cecene conosceva il nome di questa giornalista coraggiosa, dichiarata avversaria della politica di Vladimir Putin. Da un giorno all'altro, il suo volto dall'aria triste e decisa è diventato in Occidente un'icona della libertà d'espressione. A quel tempo io avevo da poco finito di girare un documentario in una cittadina russa – andavo spesso in Russia – sicché, appena si è diffusa la notizia, una rivista mi ha proposto di prendere il primo volo per Mosca. Il compito che mi era stato affidato non era di svolgere un'inchiesta sull'assassinio della Politkovskaja, ma di far parlare le persone che l'avevano conosciuta e amata. Ho trascorso così una settimana negli uffici della «Novaja Gazeta», il giornale di cui lei era l'inviata di punta, ma anche nelle sedi di associazioni per la difesa dei diritti umani e di comitati di madri dei soldati uccisi o mutilati in Cecenia. Erano uffici minuscoli, male illuminati, forniti di computer antidiluviani. Non meno in là con gli anni, e pateticamente poco numerosi, erano spesso anche gli attivisti che trovavo ad accogliermi. Si tratta di una cerchia ristrettissima di persone, dove tutti si conoscono, e dove in poco tempo ho conosciuto tutti, una ristrettissima cerchia che rappresenta di fatto l'unica opposizione democratica in Russia.

Oltre ad alcuni amici russi, a Mosca frequentavo, e tuttora frequento, un'altra cerchia ristretta, formata da espatriati francesi, giornalisti o uomini d'affari, che sorridevano con un po' di commiserazione quando, alla sera, raccontavo loro i miei incontri della giornata: i virtuosi democratici di cui parlavo, i militanti per la difesa dei diritti umani erano naturalmente persone perbene, ma la verità è che tutti se ne infischiavano. In un paese in cui nessuno bada granché alle libertà formali, purché gli sia garantito il diritto di arricchirsi, la loro era una battaglia persa in partenza. D'altro canto, nulla divertiva di più i miei amici espatriati – o, a seconda del carattere, niente li irritava di più – della tesi diffusa presso l'opinione pubblica francese secondo cui i mandanti dell'assassinio della Politkovskaja sarebbero stati l'FSB – la polizia politica che ai tempi dell'Unione Sovietica si chiamava KGB – e più o meno lo stesso Putin.

«Senti,» mi disse Pavel, un professore universitario franco-russo che si era dato agli affari «bisogna piantarla di parlare a vanvera. Sai che cosa ho letto – credo sul "Nouvel Observateur"? Che è davvero una strana coincidenza che abbiano fatto fuori la Politkovskaja proprio il giorno del compleanno di Putin. Una strana coincidenza! Ma ti rendi conto di quanto bisogna essere idioti per scrivere, nero su bianco, una strana coincidenza? Ti immagini la scena? Riunione di crisi all'FSB. Il capo fa: "Ragazzi, dobbiamo spremerci le meningi. Fra poco è il compleanno di Vladimir Vladimirovic. Bisogna assolutamente trovare un regalo di suo gradimento. Qualche idea?". Tutti ci rimuginano su, poi si alza una voce: "E se gli portassimo la testa di Anna Politkovskaja, quella rompiballe che non fa altro che criticarlo?". Mormorii di approvazione. "Ottima idea! Al lavoro ragazzi, avete carta bianca". Scusa eh,» ha continuato Pavel «ma una scena del genere non me la bevo. Al limite, in un remake russo di In famiglia si spara, ma non nella realtà. E sai un'altra cosa? La realtà è quella che ha detto Putin scandalizzando tanto le anime belle occidentali: l'assassinio di Anna Politkovskaja e il baccano che ne è seguito danneggiano il Cremlino molto più degli articoli che scriveva lei quand'era viva, in quel suo giornale che non leggeva nessuno».

Ascoltavo Pavel e i suoi amici, in quei begli appartamenti del centro di Mosca che la gente come loro affitta a peso d'oro, mentre difendevano il potere sostenendo che, in primo luogo, le cose potrebbero andare mille volte peggio, e, in secondo luogo, che i russi sono contenti così – e allora in nome di che cosa fargli la lezione? Ma ascoltavo anche donne tristi e sciupate che passavano la giornata a raccontarmi storie di rapimenti compiuti nel cuore della notte da automobili senza targa, di militari torturati non dal nemico ma dai loro stessi superiori, e soprattutto di giustizia negata. Era questo l'argomento che ricorreva incessantemente. Che la polizia o l'esercito siano corrotti rientra nell'ordine delle cose. Che la vita umana valga poco rientra nella tradizione russa. Ma l'arroganza e la brutalità dei rappresentanti del potere di fronte a semplici cittadini che si azzardavano a chiedere spiegazioni, e la certezza che avevano di restare impuniti: ecco quello che non potevano sopportare le madri dei soldati, né le madri dei bambini massacrati nella scuola di Beslan, nel Caucaso, né i familiari delle vittime del teatro della Dubrovka.


Ricordate? Era l'ottobre del 2002. Per tre giorni tutte le televisioni del globo non mostrarono altro. Durante la rappresentazione di una commedia musicale intitolata Nord-Ost, alcuni terroristi ceceni avevano preso in ostaggio tutto il pubblico del teatro. Le forze speciali scartarono ogni ipotesi di negoziato, risolsero il problema gassando insieme sequestratori e ostaggi – fermezza di cui si congratulò vivamente il presidente Putin. Il numero delle vittime fra i civili non è certo, ma si aggira sulle centocinquanta, e i loro familiari passano per complici dei terroristi quando domandano se non si sarebbe potuta tentare un'altra strada e chiedono di essere trattati, loro e il loro dolore, con un po' meno indifferenza. Da allora, ogni anno si ritrovano per una cerimonia commemorativa che la polizia non ha il coraggio di proibire espressamente ma sorveglia come se si trattasse di un'adunata sediziosa – cosa che di fatto è divenuta.

Ci sono andato. Nella piazza del teatro ci saranno state due o trecento persone, e attorno a loro altrettanti OMON, l'equivalente russo dei nostri nuclei antisommossa, come questi dotati di caschi, scudi e pesanti sfollagente. Č iniziato a piovere. Si sono aperti alcuni ombrelli sopra le candele che, con le loro crestine di carta per proteggere le dita dalla cera bollente, mi hanno ricordato le funzioni ortodosse a cui mi portavano da piccolo, a Pasqua. Al posto delle icone c'erano cartelloni con le foto e i nomi dei morti. Reggevano i cartelloni e le candele orfani, vedovi e vedove, genitori che avevano perduto un figlio – per i quali, in russo non meno che in francese, manca un termine. Non c'era nessun rappresentante dello Stato, come ha sottolineato con gelida rabbia un rappresentante delle famiglie, che ha pronunciato poche parole – le uniche di tutta la cerimonia. Nessun discorso, nessuno slogan, nessun canto. Ci si accontentava di restare in piedi, in silenzio, ciascuno con la propria candela in mano, e di parlare piano, a gruppetti, fra i bastioni di OMON che avevano perimetrato la zona. Guardandomi attorno ho riconosciuto parecchi volti: oltre alle famiglie straziate, era presente al gran completo quel piccolo mondo di oppositori che frequentavo assiduamente da una settimana, con i quali ho scambiato alcuni cenni del capo improntati all'afflizione del caso.

In cima alla scalinata, davanti alle porte chiuse del teatro, ho visto una sagoma che mi ricordava vagamente qualcuno, ma non riuscivo a capire chi. Era un uomo con un cappotto nero, reggeva come gli altri una candela, ed era circondato da diverse persone con cui parlava sottovoce. Al centro di quel cerchio dominava la folla, benché defilato attirava gli sguardi, dava l'impressione di essere importante, e per qualche strana ragione mi ha fatto pensare a un boss mafioso che partecipi, attorniato da guardie del corpo, al funerale di uno dei suoi uomini. Lo vedevo di scorcio; dal bavero rialzato del cappotto spuntava un pizzetto. Accanto a me, una donna che pure l'aveva notato si è rivolta alla vicina: «Č venuto Eduard, bene». L'uomo ha girato la testa, come se nonostante la distanza l'avesse sentita. La fiamma della candela ne ha scolpito i lineamenti.

Ho riconosciuto Limonov.

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Ce ne sono a migliaia, forse a decine di migliaia, come loro, in rivolta contro il cinismo diventato ormai la religione della Russia, e tributano a Limonov un autentico culto. Quest'uomo, che potrebbe essere loro padre – e, per i più giovani, addirittura loro nonno –, ha avuto la vita avventurosa che a vent'anni sognano tutti, è una leggenda vivente, e il cuore di questa leggenda, ciò che invoglia tutti a imitarlo, è l'eroismo cool di cui ha dato prova durante la prigionia. Limonov è stato a Lefortovo, la fortezza del KGB che nella mitologia russa non ha nulla da invidiare ad Alcatraz; è stato in un campo di lavoro, sotto il regime più duro, e non si è mai lamentato, non si è mai piegato. Č riuscito non soltanto a scrivere sette o otto libri, ma ad aiutare concretamente i compagni di cella, che hanno finito per considerarlo un vero boss e una specie di santo. Il giorno in cui è stato scarcerato, detenuti e guardie hanno fatto a gara per portargli la valigia.


Quando ho chiesto a Limonov come fosse la prigione, sulle prime si è limitato a rispondere «Normal'no», che in russo vuol dire «Ok, nessun problema», e solamente in un secondo momento mi ha raccontato questa storiella.

Da Lefortovo lo avevano trasferito al campo di Engel's, sul Volga, un istituto modello nuovo di zecca, nato dai pensamenti di architetti ambiziosi, che viene mostrato volentieri ai visitatori stranieri perché si facciano un'idea lusinghiera dei progressi compiuti in Russia in tema di condizione carceraria. In realtà, i detenuti di Engel's chiamano il campo «Euro-gulag», e Limonov assicura che le finezze architettoniche non rendono la vita al suo interno meno dura che nelle classiche baracche circondate da filo spinato – anzi. Fatto sta che nel campo i lavabi, costituiti da una lastra di acciaio sormontata da un tubo di ghisa, dalla linea pura e sobria, sono identici a quelli di un albergo, progettato dal designer Philippe Starck, in cui Limonov è stato ospitato dal suo editore americano quando è passato per New York l'ultima volta, alla fine degli anni Ottanta.

La cosa lo ha fatto riflettere: nessuno dei suoi compagni di prigionia era in grado di fare lo stesso paragone, e neanche nessuno degli eleganti clienti dell'elegante albergo newyorkese. Si è chiesto se ci fossero al mondo molti altri uomini come lui, Eduard Limonov, la cui esperienza comprendeva universi così differenti come quello del detenuto comune in un campo di lavori forzati sul Volga e quello dello scrittore alla moda che si muove in ambienti firmati Philippe Starck. No, ha concluso, probabilmente no, e ne ha tratto motivo di un orgoglio che comprendo, e che è appunto quello che mi ha spinto a scrivere questo libro.


Io vivo in un paese tranquillo, in fase di declino, dalla mobilità sociale ridotta. Nato in una famiglia borghese di un quartiere elegante, abito ora in una zona di Parigi decisamente radical-chic. Figlio di un alto dirigente e di una storica famosa, scrivo libri e sceneggiature, e mia moglie è giornalista. I miei genitori hanno una casa di vacanza sull'Île de Ré, e a me piacerebbe comprarne una nel Gard. Non che questo sia un male o limiti le possibilità di arricchimento dell'esperienza umana, ma, insomma, dal punto di vista geografico e socioculturale non si può dire che la vita mi abbia condotto molto lontano dal mio punto di partenza, e lo stesso vale per la maggior parte dei miei amici.

Limonov, invece, è stato teppista in Ucraina, idolo dell'underground sovietico, barbone e poi domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei Balcani; e adesso, nell'immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados. Lui si vede come un eroe, ma lo si può considerare anche una carogna: io sospendo il giudizio. Comunque, dopo aver trovato semplicemente divertente l'aneddoto dei lavabi di Saratov, ho pensato che la sua vita romanzesca e spericolata raccontasse qualcosa, non solamente di lui, Limonov, non solamente della Russia, ma della storia di noi tutti dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Qualcosa, d'accordo; ma cosa? Comincio questo libro per scoprirlo.

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Al termine della guerra le città non si chiamano più «città» ma «concentrazioni di popolazione», e la giovane famiglia Savenko conduce la propria vita, senza mai poter scegliere la destinazione, tra casermoni e baraccamenti in diverse concentrazioni di popolazione lungo il Volga, prima di stabilirsi, nel febbraio del 1947, a Char'kov in Ucraina. Char'kov è un grosso centro industriale e ferroviario, ragione per cui è stato oggetto di una violenta contesa fra russi e tedeschi, che l'hanno conquistato, riconquistato, occupato a turno massacrandone gli abitanti e lasciando alla fine della guerra soltanto una distesa di macerie. L'edificio costruttivista in calcestruzzo di via dell'Armata Rossa in cui vivono gli ufficiali dell'NKVD e le loro famiglie – indicate come «persone a carico» – si affaccia su quella che è stata l'imponente stazione centrale, ora ridotta a un cumulo di pietre, mattoni e metallo recintato da una staccionata che è vietato scavalcare perché fra le macerie si trovano, oltre ai cadaveri di soldati tedeschi, mine e granate: è così che un ragazzino ha perso una mano. Nonostante quel precedente, la banda di scapestrati cui Eduard si aggrega intensifica le spedizioni fra le rovine alla ricerca di cartucce, per poi versarne la polvere sui binari del tram e provocare botti, fuochi d'artificio e una volta persino un deragliamento divenuto leggendario. Dopo cena, i più grandi raccontano storie spaventose: di crucchi morti che si aggirano fra le rovine e aspettano al varco gli imprudenti; di pentole, in mensa, sul fondo delle quali si trovano dita di bambini; di cannibali e di traffico di carne umana. In quei tempi si soffre la fame, si mangia soltanto pane, patate e soprattutto kaša, la pappetta di grano saraceno che compare a ogni pasto sulla tavola dei russi poveri e qualche volta su quella dei parigini benestanti, come me, che mi vanto di saperla fare bene. Il salame è un lusso rarissimo; Eduard ne va pazzo, al punto che sogna, da grande, di fare il salumiere. Niente cani, niente gatti, niente animali domestici: verrebbero mangiati. In compenso, abbondano i topi. Venti milioni di russi sono morti in guerra, ma altri venti milioni affrontano il dopoguerra senza un tetto. La maggior parte dei bambini non ha più padre, la maggior parte degli uomini ancora vivi è invalida. A ogni angolo di strada si incrociano persone che hanno perso un braccio, o una gamba, o entrambe le gambe. Si vedono ovunque bande di ragazzini abbandonati a se stessi, ragazzini i cui genitori sono morti in guerra o diventati nemici del popolo, ragazzini affamati, ragazzini ladri, ragazzini assassini, regrediti allo stato selvatico, che si spostano in orde pericolose, e per i quali è stata abbassata a dodici anni l'età in cui si diventa responsabili di fronte alla legge, vale a dire l'età in cui si può essere condannati a morte.

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Mi sono imbattuto nel suo nome leggendo Il libro dei morti, un libro in cui Limonov ha riunito alcuni ritratti di persone famose o anonime che ha conosciuto nel corso della sua vita e che hanno in comune il fatto di essere morte. La descrizione di Vadim Delaunay data da Limonov corrisponde ai miei ricordi: giovanissimo – vent'anni appena –, bellissimo, affabilissimo. Tutti, dice Limonov, gli volevano bene. Vadim era un discendente del marchese de Launay, comandante della Guardia della Bastiglia nel 1789; i suoi antenati erano emigrati in Russia per fuggire la Rivoluzione, e doveva probabilmente alle sue origini la possibilità di avere rapporti con un diplomatico straniero – cosa del tutto eccezionale nell'era brežneviana. Vadim Delaunay scriveva poesie. Era il beniamino degli smoghisti, quel movimento di avanguardia con cui a Char'kov Brusilovskij aveva martellato sino allo sfinimento Eduard e Anna. Ho controllato le date: nulla mi vieta di immaginare che, proprio quel giorno, dopo aver trascorso l'intero pranzo dal consigliere culturale a parlare dei tre moschettieri con un ragazzino francese, Vadim Delaunay sia andato di volata al seminario di Arsenij Tarkovskij e abbia assistito al debutto del poeta Limonov nell'underground moscovita.


C'era la letteratura ufficiale. Gli «ingegneri dell'anima», come una volta Stalin aveva definito gli scrittori. Quelli che rimanevano ligi al realismo socialista. La coorte dei Fadeev, dei Šolochov, dei Simonov, con appartamento, dacia, viaggi all'estero, ingresso ai negozi riservati ai gerarchi del partito, opere complete rilegate, tirate in milioni di copie e insignite del premio Lenin. Ma questi privilegiati non avevano la botte piena e la moglie ubriaca. Quanto guadagnavano in comfort e sicurezza, lo perdevano in autostima. Ai tempi eroici dei costruttori del socialismo, potevano ancora credere a ciò che scrivevano, essere orgogliosi di ciò che erano, ma al tempo di Brežnev, dello stalinismo morbido e della nomenklatura, non potevano più farsi illusioni. Sapevano bene di essere al servizio di un regime corrotto e di aver venduto l'anima, e sapevano che gli altri lo sapevano. Solženicyn , il loro comune rimorso, lo ha scritto: uno degli aspetti più deleteri del sistema sovietico era che a meno di non diventare martiri non si poteva essere onesti. Non si poteva avere una buona opinione di se stessi. Gli intellettuali di regime, se non erano completamente abbrutiti o del tutto cinici, si vergognavano di quel che facevano, si vergognavano di quel che erano. Si vergognavano di scrivere sulla «Pravda» lunghi articoli di denuncia contro Pasternak nel 1957, Brodskij nel 1964, Sinjavskij e Daniel' nel 1966, Solženicyn nel 1969, mentre in cuor loro li invidiavano. Sapevano che erano quelli gli autentici eroi della loro epoca, i grandi scrittori russi a cui il popolo chiedeva, come un tempo a Tolstoj: «Che cos'è bene? Che cos'è male? Come dobbiamo vivere?». I più infingardi dicevano sospirando che se fosse dipeso soltanto da loro avrebbero seguito quegli esempi sublimi, ma avevano una famiglia, figli che avevano intrapreso lunghi studi, tutte le validissime ragioni che ognuno di noi ha per diventare un collaboratore anziché un dissidente. Molti si rifugiavano nell'alcol; alcuni, come Fadeev, si suicidavano. I più furbi, che erano anche i più giovani, imparavano a giocare su due tavoli, pratica ormai possibile perché al potere facevano comodo questi semidissidenti moderati ed esportabili che Aragon si era specializzato nell'accogliere da noi a braccia aperte. Evgenij Evtušenko, che incontreremo più avanti, si prestava ottimamente alla bisogna.

Ma per restituire il colore dell'epoca, va detto che c'era anche la massa di quanti non erano né eroi, né corrotti, né furbetti. Erano tutti quelli che appartenevano all'underground, e avevano due certezze assolute: che i libri pubblicati, i quadri esposti, i drammi rappresentati fossero necessariamente compromessi con il potere e mediocri; che un artista autentico fosse necessariamente un fallito. Non per colpa sua, ma di un'epoca in cui essere un fallito era un marchio di nobiltà. Lo era, per un pittore, guadagnarsi da vivere come portiere di notte. Lo era, per un poeta, spalare la neve davanti a una casa editrice a cui mai e poi mai avrebbe dato in lettura le proprie poesie, e toccava al direttore sentirsi a disagio quando scendeva dalla sua Volga e lo vedeva nel cortile con la pala in mano. Facevano una vita di merda, ma non avevano tradito. Ci si scaldava, tra falliti, nelle cucine dove si discuteva per nottate intere, facendo circolare samizdat e bevendo samogonka, la vodka fatta in casa nella vasca da bagno, con zucchero e alcol denaturato.


C'è stato uno che tutto questo l'ha raccontato. Si chiamava Venedikt Erofeev. Aveva cinque anni più di Eduard, era nato come lui in provincia e, dopo essere passato per tutte le tappe comuni alle persone sensibili di quel tempo (l'adolescenza appassionata, la deriva alcolica, l'assenteismo e una vita di espedienti), era giunto a Mosca nel 1969 con un manoscritto in prosa che però lui chiamava «poema», come Gogol' faceva con Le anime morte. Aveva ragione: Mosca sulla vodka è il grande poema dello zapoj, l'ubriacatura russa di lungo corso a cui, sotto Leonid Brežnev, tendeva ad assomigliare la vita intera. La squallida, catastrofica odissea dello sbronzo Venedikt fra la stazione Kurskaja a Mosca e Petuški, un centro sperduto all'estrema periferia; centoventi chilometri in quarantott'ore, senza biglietto ma con l'aiuto di un imprecisato numero di litri di alcolici: vodka, birra, vino e soprattutto cocktail inventati dal narratore, che ne fornisce ogni volta la ricetta – la Lacrima della Komsomolka, per esempio, è una miscela di birra, white spirit, limonata e deodorante per piedi. Protagonista alcolizzato, treno ubriaco, passeggeri avvinazzati: sono tutti sbronzi in questo libro basato sulla convinzione che «tutti gli uomini di valore, in Russia, bevono come spugne». Per disperazione, e perché in un mondo di menzogne soltanto l'ubriachezza non mente. Lo stile, volutamente enfatico e burlesco, è una parodia del politichese sovietico, le frasi sono citazioni storpiate di Lenin, di Majakovskij, dei maestri del realismo socialista. Tutti gli «under», come gli appartenenti all'underground chiamavano se stessi, si sono riconosciuti in questo trattato del fatalismo e del coma etilico. Assiduamente ricopiato, letto, recitato nella cerchia frequentata da Eduard, tradotto in Occidente, Mosca sulla vodka è diventato una specie di classico, e Venedikt una leggenda: fallito metafisico, ubriacone sublime, incarnazione grandiosa di tutto ciò che quell'epoca aveva di vigorosamente negativo. Si andava e si va ancora in pellegrinaggio alla stazione di Petuški, dove da qualche anno si erge anche la statua di Erofeev.


Punk ante litteram, Venedikt era la derisione e la rinuncia personificate, e sotto questo aspetto l'opposto dei dissidenti che si ostinavano a credere nel futuro e nel potere della verità. A quarant'anni di distanza, le cose tendono a essere meno nette: certo, gli under leggevano i dissidenti e facevano circolare le loro opere, ma, tranne rare eccezioni, non si esponevano agli stessi pericoli e soprattutto non erano animati dalla stessa fede. Solženicyn era per loro una specie di statua del Commendatore, con cui per fortuna non avevano nessuna probabilità di avere a che fare: viveva in provincia, a Rjazan', lavorava giorno e notte, e frequentava soltanto ex zek, dei quali stava raccogliendo con immense precauzioni le testimonianze sulle basi delle quali sarebbe stato scritto Arcipelago Gulag. Il piccolo mondo gregario, caloroso, mordace di cui Venedikt Erofeev era l'eroe e Edička Limonov l'astro nascente, Solženicyn non lo conosceva neppure, e se lo avesse conosciuto lo avrebbe disprezzato. La sua determinazione e il suo coraggio avevano qualcosa di disumano, poiché Solženicyn si aspettava dagli altri ciò che chiedeva a se stesso. Giudicava vile scrivere di un argomento diverso dai gulag, perché questo significava tacere i gulag.

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Gli esuli russi della sua generazione – tutti tranne Solženicyn – erano convinti di non fare ritorno in patria, convinti che il regime da cui erano fuggiti sarebbe durato, se non secoli, almeno fino a dopo la loro morte. Eduard seguiva quanto stava accadendo in URSS con un certo distacco. Pensava che la sua patria fosse in ibernazione sotto la banchisa, che a lui convenisse starne lontano, ma anche che l'URSS restasse, tetra e potente, come l'aveva sempre conosciuta, e questo pensiero lo rassicurava. La televisione mostrava sfilate militari sempre uguali davanti a una schiera di vecchi fossili con il petto costellato di decorazioni. Da molto tempo ormai Brežnev non faceva un passo senza qualcuno che lo sorreggesse. Quando infine è spirato, dopo diciotto anni di immobilismo e di premi Lenin per il suo inestimabile contributo teorico alla comprensione del marxismo-leninismo, al suo posto è stato messo Andropov, un čekista che negli ambienti bene informati godeva della reputazione di uomo duro ma intelligente e che in seguito è diventato oggetto di un culto minore fra i conservatori, persuasi che se fosse vissuto più a lungo avrebbe potuto riformare il comunismo invece di distruggerlo. La nomina di Andropov ha più che altro divertito Limonov, che ricordava di averne rimorchiato la figlia quindici anni prima. Ma Andropov è morto dopo poco più di un anno e al suo posto è stato messo il valetudinario Černenko. Ricordo il titolo di «Libération»: «L'URSS vi presenta i suoi migliori anziani». Io e i miei amici abbiamo riso, ma non Eduard, che non, sopporta le battute sul suo paese. Poi è morto anche Černenko, e al suo posto è stato messo GorbaČëv.


Dopo quella processione di mummie, che venivano seppellite l'una via l'altra, Gorbačëv è piaciuto a tutti – voglio dire: tutti qui da noi – perché era giovane, camminava da solo, aveva una moglie sorridente ed era chiaro che amava l'Occidente. Con lui ci si poteva intendere. A quel tempo i cremlinologi studiavano attentamente la composizione del Politburo, al cui interno distinguevano liberali e conservatori, con grigie sfumature intermedie. Si capiva benissimo che con Gorbačëv e i suoi consiglieri Jakovlev e Ševardnadze i liberali avevano il vento in poppa, ma anche dai più liberali fra i liberali non ci si aspettava altro che una certa distensione in politica interna ed estera: relazioni corrette con gli Stati Uniti, un po' di buona volontà nelle conferenze internazionali, un po' meno dissidenti negli ospedali psichiatrici. Nessuno poteva immaginare che sei anni dopo la nomina di Gorbačëv a segretario generale del Partito comunista dell'Unione Sovietica il partito stesso non sarebbe più esistito, e nemmeno l'Unione Sovietica, e soprattutto non poteva immaginarlo Gorbačëv, apparatčik esemplare e desideroso soltanto, ma questo «soltanto» era già molto, di riprendere il discorso dal punto in cui l'aveva interrotto Chruščëv vent'anni prima, quando era stato rimosso dall'incarico con l'accusa di «volontarismo».


Non intendo tenere una lezione sulla perestrojka, ma devo insistere su un punto: in quei sei anni, la cosa davvero straordinaria in Unione Sovietica, quella che si è tirata dietro tutto il resto, è stata la possibilità di fare storia liberamente.

Nel 1986 ho pubblicato un breve saggio, Le Détroit de Behring, il cui titolo deriva da un aneddoto che mi aveva raccontato mia madre: dopo che Berija, a capo dell'NKVD sotto Stalin, era caduto in disgrazia ed era stato giustiziato, fu data disposizione ai sottoscrittori della Grande Enciclopedia sovietica di ritagliare dalla copia di loro proprietà la voce encomiastica dedicata a quel fervido amico del proletariato per sostituirla con una voce della medesima lunghezza sullo stretto di Bering. Berija, Bering: l'ordine alfabetico era salvo, ma Berija non esisteva più. Non era mai esistito. Allo stesso modo, dopo la caduta di Chruščëv, le biblioteche dovettero lavorare di forbice per eliminare Una giornata di Ivan Denisovič dai vecchi numeri della rivista «Novyj Mir». Il potere sovietico si arrogava il privilegio che san Tommaso d'Aquino negava a Dio: fare che ciò che era stato non fosse stato. E non a George Orwell, ma a Pjatakov, un compagno di Lenin, si deve questa frase straordinaria: «Se il partito lo richiede, un vero bolscevico è disposto a credere che il nero sia bianco e il bianco nero».

Il totalitarismo, che sotto questo aspetto decisivo l'Unione Sovietica ha portato ben oltre la Germania nazionalsocialista, consiste nel dire alle persone che quello che vedono nero è bianco, e nel costringerle non soltanto a ripeterlo ma, a lungo andare, né più né meno a crederlo. Da questo aspetto deriva la qualità fantastica dell'esperienza sovietica, allo stesso tempo mostruosa e mostruosamente comica, messa in risalto da tutta la letteratura clandestina, da Noi di Zamjatin a Cime abissali di Zinov'ev , passando per Il villaggio della nuova vita di Platonov. Č un aspetto che affascina tutti gli scrittori disposti, come Philip K. Dick , Martin Amis o come me, a sorbirsi biblioteche intere su ciò che è accaduto all'umanità in Russia nel secolo scorso, ed è stato così riassunto da uno degli storici di quel paese che più apprezzo, Martin Malia: «Il socialismo integrale non è un attacco a determinate storture del capitalismo ma alla realtà stessa. Č un tentativo di sopprimere il mondo reale, un tentativo a lungo termine destinato a fallire ma che per un certo periodo riesce a creare un mondo surreale fondato su questo paradosso: l'inefficienza, la povertà e la violenza sono presentate come il bene supremo».

La soppressione della realtà passa attraverso quella della memoria. La collettivizzazione delle terre, l'assassinio o la deportazione di milioni di kulaki, la carestia pianificata da Stalin in Ucraina, le epurazioni degli anni Trenta e gli altri milioni di russi uccisi o deportati in modo assolutamente arbitrario: non era mai accaduto nulla di simile. Naturalmente un ragazzo o una ragazza che avessero avuto dieci anni nel 1937 sapevano benissimo che una notte erano venuti a portarsi via suo padre e che poi nessuno lo aveva più rivisto. Ma sapevano anche che non bisognava parlarne, che essere figli di un nemico del popolo era pericoloso, che era meglio fare come se non fosse mai successo. Così un intero popolo faceva come se non fosse mai successo e imparava la storia sul breve compendio che il compagno Stalin si era preso il disturbo di scrivere personalmente.


Solženicyn lo aveva annunciato: appena si comincerà a dire la verità verrà giù tutto. Non era certamente questo che aveva in mente Gorbačëv, il quale pensava piuttosto a una politica di concessioni mirate, da tenere comunque sotto controllo, quando, in un discorso per il settantesimo anniversario della rivoluzione di Ottobre pronunciato davanti a tutti i dignitari del comunismo mondiale – Honecker, Jaruzelski, Castro, Ceausescu, Daniel Ortega presidente del Nicaragua (tranne Castro, negli anni successivi sarebbero caduti tutti quanti, in gran parte a causa di quel discorso) –, aveva lanciato la parola glasnost', che significa «trasparenza», e dichiarato l'intenzione di colmare «le lacune della storia». Certo, in quell'occasione aveva detto che le vittime dello stalinismo erano state «centinaia di migliaia», mentre si trattava di decine di milioni – ma comunque il segnale era stato dato, il vaso di Pandora aperto.

Nel 1988 è diventato accessibile a tutti ciò che prima circolava solo all'interno dell'élite intellettuale sotto forma di samizdat o di edizioni straniere importate clandestinamente, e una smania di leggere si è impossessata dei russi. Ogni settimana veniva pubblicato un nuovo libro fino allora proibito, e le tirature, altissime, andavano ben presto esaurite. Si vedeva la gente fare la fila all'alba davanti ai chioschi e poi leggere come invasata, nel metrò, in autobus o anche camminando per strada, quello che aveva acquistato facendo a gomitate con gli altri. A Mosca per una settimana tutti leggevano Il dottor Živago , e non parlavano d'altro, la settimana dopo toccava a Vita e destino di Vasilij Grossman , e quella dopo a 1984 di Orwell , o ai libri del grande pioniere inglese Robert Conquest , che già negli anni Sessanta aveva raccontato la storia della collettivizzazione e delle epurazioni venendo per questo tacciato di essere un agente della CIA da tutti i compagni di strada occidentali preoccupati di non deprimere il morale del proletariato. Un gruppo di dissidenti fondava con il patrocinio di Sacharov l'associazione Memorial che, un po' come Yad Vashem a Gerusalemme, si è dedicata da allora in poi a realizzare il desiderio espresso da Anna Achmatova in Requiem: «Vorrei, tutti quanti siete, chiamarvi per nome». L'obiettivo era dare un nome alle vittime della repressione, che non erano state soltanto uccise ma anche cancellate dalla memoria. All'inizio Memorial esitava a usare la parola «milioni», poi ha fatto il passo e allora è stato come se tutti lo avessero sempre saputo, e aspettassero solo il diritto di dirlo a voce alta. Il paragone fra Hitler e Stalin è diventato un luogo comune. Per essere sicuri di avere successo in un dibattito bastava ricordare la teoria del cinque per cento formulata dal Piccolo padre dei popoli (in sostanza: si può considerare già un buon risultato se in tutta la massa degli arrestati anche soltanto il cinque per cento è colpevole) o citare la frase del suo commissario alla Giustizia, Krylenko: «Non bisogna eliminare soltanto i colpevoli; eliminare gli innocenti fa molta più impressione». Lo stesso Aleksandr Jakovlev, il principale consigliere di Gorbačëv, ha ricordato in un suo discorso che era stato Lenin il primo uomo politico a usare le parole «campo di concentramento». Tale discorso è stato pronunciato in un'occasione quanto mai ufficiale, il bicentenario della Rivoluzione francese, cioè neanche due anni dopo quello con cui Gorbačëv aveva dato il via alla glasnost', il che rende l'idea di quanta strada era stata fatta e a quale velocità. Sempre Jakovlev, lo stesso anno, si è presentato in televisione per spiegare che il decreto con cui venivano riabilitate tutte le vittime delle repressioni dopo il 1917 non era affatto, come sostenevano i membri del partito, un provvedimento di clemenza, ma di pentimento: «Noi non li perdoniamo; noi chiediamo loro perdono. Lo scopo di questo decreto è riabilitare noi stessi, noi che siamo rimasti in silenzio e abbiamo distolto lo sguardo rendendoci complici di questi delitti». Insomma, era diventata opinione comune che il paese fosse stato per settant'anni in mano a una banda di criminali.

Č stata la liberazione della storia a determinare il crollo dei regimi comunisti dell'Europa dell'Est. Non appena è stata ammessa l'esistenza del protocollo segreto del patto Molotov-Ribbentrop, con il quale nel 1939 la Germania nazista aveva ceduto sottobanco ai russi gli Stati baltici, questi disponevano di un argomento inoppugnabile per rivendicare l'indipendenza. Bastava dire: «L'occupazione sovietica era illegale nel 1939, e lo è ancora cinquant'anni dopo. Andatevene». Un tempo l'URSS avrebbe risposto ad argomenti simili mandando i carri armati, ma quell'epoca era finita, e così il 1989 è diventato l'anno miracoloso dell'Europa. Quello che Solidarnosc in Polonia aveva ottenuto in dieci anni, gli ungheresi lo hanno raggiunto in dieci mesi, i tedeschi dell'Est in dieci settimane e i cechi in dieci giorni. Tranne che in Romania, nessuna violenza: rivoluzioni di velluto che nel tripudio generale portavano al governo protagonisti della cultura come Václav Havel. La gente si abbracciava per strada. Gli editorialisti discutevano con la massima serietà la tesi di un professore americano che annunciava l'avvento della «fine della storia». Tutti i piccoli borghesi dell'Europa occidentale, me incluso, sono andati a trascorrere il Capodanno a Praga o a Berlino.

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Consapevole della propria ignoranza in campo economico, El'cin ha tirato fuori dal cilindro un giovane prodigio che si chiamava Egor Gajdar, una specie di Jacques Attali russo, un po' grassoccio, proveniente dall'alta nomenklatura comunista e dotato di una fede assoluta nel liberalismo. Nessun teorico della scuola di Chicago, nessun consigliere di Ronald Reagan o di Margaret Thatcher credeva con lo stesso fervore di Egor Gajdar nelle virtù del mercato. Si trattava di una sfida colossale perché la Russia non aveva mai conosciuto qualcosa che somigliasse anche solo lontanamente al mercato. El'cin e Gajdar hanno pensato che fosse necessario agire in fretta, molto in fretta, procedere con fermezza per battere sul tempo la reazione che aveva avuto la meglio su tutti i riformatori russi dai tempi di Pietro il Grande. La pillola che bisognava far ingoiare, l'hanno chiamata «terapia shock», e uno shock lo è stato davvero.

Tanto per cominciare, sono stati liberalizzati i prezzi, con il risultato che l'inflazione è schizzata al 2600% ed è fallita l'iniziativa, adottata in parallelo, della «privatizzazione con il sistema dei buoni». Il 1° settembre 1992 erano stati spediti per posta a ogni russo con più di un anno di età buoni per il valore di diecimila rubli, il che corrispondeva alla quota di ogni cittadino nell'economia del paese. Dopo settant'anni in cui in teoria nessuno aveva avuto il diritto di lavorare per sé ma soltanto per la collettività, l'idea era quella di stimolare l'interesse personale e favorire la nascita di imprese e proprietà private, insomma del mercato. Purtroppo però, a causa dell'inflazione, appena recapitati i buoni non valevano più niente. I beneficiari hanno scoperto che ci si poteva comprare tutt'al più una bottiglia di vodka. Così li hanno rivenduti in massa ad alcuni furbetti, che in cambio hanno offerto loro l'equivalente, diciamo, di una bottiglia e mezzo.

Questi furbetti, che nel giro di qualche mese sono diventati i re del petrolio, si chiamavano Boris Berezovskij, Vladimir Gusinskij, Michail Chodorkovskij. Ce n'erano altri, ma per non tediare il lettore gli chiedo di tenere a mente solo questi tre nomi: Berezovskij, Gusinskij, Chodorkovskij. Timmi, Tommi e Gimmi, i tre porcellini che, come nelle compagnie teatrali squattrinate dove ogni attore recita più ruoli, incarneranno nelle prossime pagine tutti quelli che sono stati chiamati «oligarchi». Erano giovani, intelligenti, pieni di energia, non disonesti per vocazione – soltanto, erano cresciuti in un mondo in cui era vietato fare affari, attività per la quale avevano un vero talento, e da un giorno all'altro si erano sentiti dire: «Fatevi sotto». Senza regole del gioco, senza leggi, senza sistema bancario e fiscale. Del resto, lo aveva già detto il giovane ed entusiasta gorilla di Julian Semënov: era il Far West.


Chi tornava in Russia ogni due o tre mesi, come faceva Eduard tra una puntata e l'altra nei Balcani, restava sgomento di fronte alla rapidità con cui Mosca stava cambiando. La gente aveva creduto che il grigiore sovietico sarebbe durato per l'eternità, e adesso, lungo le strade che avevano portato i nomi di grandi bolscevichi e che si chiamavano di nuovo con i loro nomi prerivoluzionari, si accavallavano insegne luminose fitte come a Las Vegas. C'erano ingorghi e, accanto alle vecchie Žiguli, Mercedes nere con i vetri oscurati. Si trovava senza difficoltà tutto quello che un tempo i turisti stranieri infilavano in valigia per far contenti gli amici russi: jeans, CD, cosmetici, carta da cesso. Non si faceva in tempo ad abituarsi alla comparsa di un McDonald's in piazza Puskin che subito accanto apriva un locale alla moda. Prima i ristoranti erano enormi, tetri, i maître sembravano impiegati di malumore e vi portavano dei menu di quindici pagine, ma qualsiasi piatto aveste scelto potevate star certi che era terminato – di fatto ce n'era soltanto uno, di solito immangiabile. Adesso le luci erano soffuse, le cameriere carine e sorridenti, si ordinava manzo di Kobe o ostriche arrivate in giornata da Quiberon. Il personaggio del «nuovo russo», con i suoi rotoli di banconote e uno stuolo di ragazze appariscenti al seguito, con la sua brutalità e la sua cafonaggine, entrava nella mitologia contemporanea. Barzelletta d'epoca: due giovani uomini d'affari si accorgono di avere lo stesso abito. «Io l'ho pagato cinquemila dollari in avenue Montaigne» dice l'uno. E l'altro, trionfante: «Ah sì? Io l'ho avuto per diecimila».


Per un milione di dritti che hanno iniziato ad accumulare freneticamente quattrini grazie alla «terapia shock», centocinquanta milioni di fessi sono caduti in miseria. I prezzi continuavano a salire, ma gli stipendi restavano fermi. Con la sua pensione, un ex ufficiale del KGB come il padre di Limonov poteva a stento comprarsi un chilo di salame. Un ufficiale di grado più elevato, che aveva mosso i primi passi nel settore informazioni a Dresda ed era stato rimpatriato d'urgenza perché la Germania dell'Est non esisteva più, si ritrovava senza lavoro, senza alloggio di servizio, ridotto a fare il tassista abusivo nella sua città natale, Leningrado, maledicendo i «nuovi russi» con la stessa veemenza di Limonov. Questo ufficiale non è un'astrazione statistica. Si chiama Vladimir Putin, ha quarant'anni, pensa, come Limonov, che la fine dell'impero sovietico sia la più grande tragedia del ventesimo secolo, ed è destinato (insieme ad altri) a svolgere un ruolo non trascurabile nell'ultima parte di questo libro.

L'aspettativa di vita del maschio russo è passata dai sessantacinque anni del 1987 ai cinquantotto del 1993. Il triste spettacolo delle file in attesa davanti ai negozi vuoti, caratteristico dell'èra sovietica, è stato sostituito da quello dei vecchietti che tremano di freddo nei sottopassaggi dove cercano di vendere le poche cose che gli sono rimaste. Tutto quello che può essere venduto per sopravvivere viene venduto. Un povero pensionato venderà un chilo di cetriolini, un copriteiera, o dei numeri malridotti di «Krokodil», il pietoso foglio «satirico» degli anni di Breznev; un generale venderà carri armati o aerei – alcuni non si sono fatti scrupolo e hanno aperto compagnie private con gli aerei dell'esercito, intascando i profitti; un giudice metterà in vendita le sue sentenze, un poliziotto il silenzio, un impiegato venderà un timbro su un documento, un veterano dell'Afghanistan le sue competenze di killer – la cifra richiesta per un omicidio è compresa tra i diecimila e i quindicimila dollari. Nel 1994 a Mosca sono stati assassinati cinquanta banchieri, e della banda di uno squalo come Semënov soltanto la metà era ancora viva – e Semënov stesso è finito al cimitero.

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Vite parallele di uomini illustri, continuazione: Eduard e Solženicyn hanno lasciato il paese nello stesso momento, la primavera del 1974, e vi fanno ritorno nello stesso momento, esattamente vent'anni dopo. Quei vent'anni, Solzenicyn li ha trascorsi dietro il filo spinato con cui aveva circondato la sua proprietà nel Vermont per tenere lontani i curiosi — usciva soltanto per scagliare quegli anatemi contro l'Occidente che gli hanno valso la solida reputazione di avere un brutto carattere —, scrivendo sedici ore al giorno per trecentosessantacinque giorni all'anno un ciclo di romanzi sulle origini della rivoluzione del 1917 al cui confronto Guerra e pace è un esile racconto psicologico sul genere dell' Adolphe. Non lo ha mai abbandonato la certezza di tornare un giorno, da vivo, in patria, e di trovare tutto cambiato. Ed ecco che l'Unione Sovietica non esiste più, e lui ha terminato La ruota rossa: quel giorno è arrivato.

Consapevole della rilevanza storica dell'evento, Solženicyn non vuole che il suo ritorno sia quello di un esule qualunque. No: viaggia in aereo fino a Vladivostok, dove prende il treno per Mosca. Un treno speciale, un mese di viaggio, durante il quale si ferma nei paesi e ascolta le lamentele del popolo — il tutto ripreso dalla BBC. Č Victor Hugo che ritorna da Guernsey. Č anche, va detto, Louis de Funès nel Nonno surgelato, e a Mosca questo grandioso ritorno viene accolto con indifferenza o ironia: l'eterna e immancabile ironia dei mediocri verso il genio, ma anche quella dei tempi nuovi verso l'anacronismo che è diventato Solženicyn, davanti al quale le folle si sarebbero prostrate cinque anni prima, quando Arcipelago Gulag era appena stato pubblicato e non pareva vero di poterlo leggere liberamente. Ma lo scrittore fa ritorno in un mondo in cui, dopo qualche anno di bulimia, la letteratura, e soprattutto la sua, non interessa più a nessuno: i russi ne hanno abbastanza dei campi di concentramento, le librerie vendono soltanto best seller internazionali e quei manuali che gli anglosassoni chiamano how-to: come dimagrire, come fare quattrini, come realizzarsi al meglio. Le chiacchiere nelle cucine, il culto dei poeti, il prestigio dell'obiezione di coscienza sono cose passate. I nostalgici del comunismo – Solženicyn non ha idea di quanto siano numerosi – lo considerano un criminale, i democratici un ayatollah, gli appassionati di letteratura parlano della Ruota rossa sghignazzando (non l'hanno letto, nessuno l'ha letto) , e agli occhi dei giovani, nel cimitero delle icone dell'Unione Sovietica, la figura di Solženicyn quasi si confonde con quella di Brežnev.


Più Solženicyn viene deriso, più Eduard se la gode. I capitani Levitin che gli hanno avvelenato la gioventù sono fuori dai giochi: il barbuto è sepolto sotto le sue stesse prediche e Brodskij è venerato dagli accademici e continua a rimasticare odi a Venezia. Gli fa quasi pena: Venezia, che trovata da vecchio rincoglionito! Sia per Brodskij che per Solženicyn la gloria è ormai alle spalle. Invece, pensa Eduard, per lui sta arrivando ora. Infatti, congedatosi dal suo passato in Francia, Eduard si è stabilito definitivamente a Mosca, dove si è reso conto di essere famoso. Dopo che Semënov ha pubblicato L'epoca gloriosa, sono usciti altri suoi libri, i più scandalosi: Il poeta russo preferisce i grandi negri, Storia di un domestico, Diario di un fallito. Č stata la scelta giusta. In Russia non avevano mai letto niente del genere, e se ne vendono centinaia di migliaia di copie. I giornali, abbagliati dalla loro stessa audacia, moltiplicano i servizi su di lui e Eduard non delude le attese. Abita con Nataša in una specie di appartamento occupato in un palazzo evacuato e non ancora ristrutturato, senza illuminazione nelle parti comuni e senza ringhiera lungo le scale. Lui e Nataša posano vestiti di pelle nera e con gli occhiali scuri in quello scenario dark che affascina i fotografi. In Francia, una simile immagine da rockstar sarebbe difficilmente conciliabile con quella di agitatore ultranazionalista, in Russia no: qui si può scrivere su un giornale che periodicamente rispolvera I protocolli dei Savi di Sion ed essere anche un idolo dei giovani. Un'altra differenza tra la Russia e la Francia è che in Russia si possono vendere duecento o trecentomila copie di un libro e restare poveri. La «terapia shock» e la disorganizzazione della rete distributiva riducono i diritti d'autore di Eduard al minimo vitale, ma lui in fondo se ne sbatte. Tra il denaro e la gloria sceglie la gloria, e anche se da giovane ha sognato di avere entrambi ora sa che non è quello il suo destino. Eduard è frugale, spartano, disprezza gli agi, non si sente umiliato dalla povertà che è stata la sua compagna per tutta la vita – anzi, ne trae motivo di aristocratico orgoglio. Eppure, in mancanza di altri finanziamenti, sarà proprio con i suoi magri diritti d'autore che riuscirà a stampare il primo numero del giornale dei suoi sogni.


In un testo assolutamente megalomane, scritto alcuni anni dopo, Eduard immagina come gli storici del futuro descriveranno quel momento cruciale nella storia della Russia: la fondazione di «Limonka» nell'autunno del 1994. Tutti, scrive, sosterranno di aver preso parte all'avventura, ma in realtà nel piccolo ufficio occupato da Dugin al giornale «Sovetskaja Rossija» c'erano soltanto «il più grande scrittore e il più grande filosofo russi della seconda metà del ventesimo secolo», Nataša che scriveva articoli firmandosi con lo pseudonimo Margot Führer, qualche punk siberiano e alcuni studenti di Dugin che sbevazzavano discutendo di ortodossia, oltre al fedele Rabko che si occupava degli aspetti organizzativi. Il tipografo lo hanno trovato a Tver', città natale di Rabko. Lui e Eduard sono andati fin laggiù con il vecchio catorcio moldavo per ritirare le cinquemila copie del primo numero e si sono arrangiati alla bell'e meglio per distribuirlo. «Distribuirlo» significava venderlo abusivamente e fare il giro delle stazioni di Mosca per lasciarne alcune copie sui treni che collegavano le grandi città di provincia. La speranza non era che qualcuno lo comprasse, ma che almeno lo aprisse, come si apre una bottiglia affidata al mare. Eduard racconta gli esordi del Partito nazionalbolscevico e di «Limonka» come un'epopea entusiasmante, il cui secondo atto consiste nel riattare un insalubre scantinato dove il gruppo si trasferisce dopo essere stato cacciato dalla «Sovetskaja Rossija». Tutti si rimboccano le maniche («tutti» sarebbero i cinque o sei fondatori storici, escluso Dugin, che come al solito si limita a incoraggiarli e ispezionare i lavori una volta terminati), sgomberano montagne di detriti, preparano il gesso per l'intonaco, riparano le perdite. Per quanto facciano, il luogo rimarrà umido e infestato da topi – ma presto il partito avrà una sede, che verrà chiamata «il bunker».


Il bunker, Margot Führer... Arrivato a questo punto, dubito che il lettore abbia davvero voglia di sentirsi raccontare gli esordi di un giornaletto e di un partito neofascista come un'epopea entusiasmante. E dubito anch'io di averne voglia.

Tuttavia la faccenda è più complicata.

Chiedo scusa, non mi piace questa frase. Non mi piace l'uso che ne fanno quelli che la sanno lunga. Ma purtroppo spesso è vera. In questo caso lo è. La faccenda è più complicata.

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Se c'è una cosa al mondo che Eduard odia è perdere tempo. Ebbene, la prigione è il regno del tempo perduto, del tempo che si trascina senza forma né direzione, e lo è soprattutto una prigione come Lefortovo, in cui i detenuti possono contare unicamente sulle proprie risorse. Sicché, mentre gli altri poltriranno a letto, Eduard si alzerà alle cinque del mattino e sfrutterà al massimo ogni istante, fino all'ora di coricarsi. Si imporrà la regola di guardare la televisione soltanto per i notiziari, mai per un film o un varietà, che per lui sono l'inizio del rammollimento. In biblioteca snobberà i romanzi facili, quelli che fanno, come si dice, «passare il tempo», e chiederà in prestito l'uno dopo l'altro gli aridi volumi della corrispondenza di Lenin, che leggerà seduto al tavolo con la schiena dritta, prendendo appunti su un quaderno. Sono questi gli unici favori che chiederà: un tavolo, una lampada che illumini a dovere e un quaderno – le guardie, sempre più ammirate, glieli concederanno volentieri. Con questo sistema, scriverà in un anno quattro libri, tra cui un'autobiografia politica e un testo inclassificabile, secondo me il suo libro più bello dopo il memorabile Diario di un fallito: il Libro dell'acqua.


L'estate precedente, prima del viaggio nell'Altaj, impellenti necessità economiche lo avevano spinto a scrivere in un mese quel Libro dei morti a cui ho largamente attinto. Lasciandosi portare dall'onda dei ricordi, Eduard vi tracciava il ritratto delle persone, celebri e sconosciute, che aveva incontrato e nel frattempo erano morte, e benché per rispettare le scadenze fosse costretto a scrivere più di venti pagine al giorno, l'esercizio gli era piaciuto a tal punto che in prigione gli è venuta voglia di rifare qualcosa del genere. Avrebbe potuto stilare l'elenco dei letti in cui aveva dormito, come Georges Perec , o quello delle donne che aveva conquistato, come Don Giovanni, oppure, da buon dandy, raccontare la storia di qualcuno dei suoi abiti. Ha scelto l'acqua: mari, oceani, fiumi, laghi, vasche e piscine. Non necessariamente acque in cui avesse fatto il bagno – pur essendosi ripromesso, da quando ha imparato a nuotare, di fare il bagno ovunque sia umanamente possibile, e per come lo conosciamo non è difficile pensare che raramente sia stato frenato dal freddo, dalla sporcizia, dall'altezza delle onde o da correnti pericolose. Il libro non segue uno schema, né cronologico né geografico, ma passa in base all'umore del momento da una spiaggia della Costa Azzurra, dove Eduard guarda Nataša nuotare, a un bagno nel fiume Kuban' in compagnia di Žirinovskij. Eduard ricorda le passeggiate lungo la Senna, quando viveva a Parigi; le sirene delle imbarcazioni che vedeva incrociarsi sullo Hudson dalla sua stanza in casa del miliardario Steven; una fontana di New York, nella quale ha fatto il bagno ubriaco e ha perso le lenti a contatto; la costa bretone con Jean-Édern Hallier e la spiaggia di Ostia, vicino a Roma, dove è stato con Tanja qualche mese prima che vi venisse assassinato Pasolini; il Mar Nero, durante la guerra di Transnistria; i torrenti dell'Altaj in cui il trapper Zolotarëv gli ha insegnato a pescare; e la grande vasca del giardino del Luxembourg in cui, all'inizio del suo soggiorno parigino, aveva meditato di catturare le carpe, tanto era affamato. In tutto una quarantina di brevi capitoli, precisi e luminosi, che intrecciano i luoghi e le epoche, ma nel loro disordine si dispongono malgrado tutto attorno alle donne della sua vita.

Anna, Tanja e Nataša le conosciamo già. Eduard ha raccontato in lungo e in largo quanto le abbia amate, tutte e tre, come abbia lasciato la prima e sia stato lasciato dalle altre due, come queste lo abbiano fatto impazzire di dolore e come, almeno stando a quel che dice, lo abbiano entrambe amaramente rimpianto perché lui era la loro speranza di una vita fuori del comune. Invece abbiamo soltanto intravisto Liza, e poi Nastja, e so con quanta veemenza lo spirito del tempo disapprovi il debole degli uomini maturi per la carne fresca; io stesso, a dire il vero, trovo patetico che un sessantenne vada a letto soltanto con ragazzine, l'una più giovane dell'altra. Ma non importa, perché così stanno le cose, e il Libro dell'acqua è un inno alla piccola Nastja, che quando ha conosciuto Eduard aveva sedici anni e ne dimostrava dodici. Lui le comprava il gelato, controllava che facesse i compiti. Quando passeggiavano mano nella mano lungo la Neva a San Pietroburgo o lungo l'Enisej a Krasnojarsk, nessuno si stupiva perché tutti credevano che fossero padre e figlia. Nastja non era una bellezza spettacolare come Tanja, Nataša o Liza, ma una piccola punk alta un metro e cinquantotto, timida, introversa, ai limiti dell'autismo, che sul suo altare di semidei trasgressivi aveva collocato lo scandaloso scrittore Limonov tra lo scandaloso rocker Marilyn Manson e il serial killer Čikatilo – lo Hannibal Lecter ucraino. Nastja aveva una venerazione per Eduard, e questi, in prigione, ha iniziato ad avere una venerazione per lei. Nel suo libro Eduard incastona come fossero gemme preziose i ricordi dei due anni vissuti con Nastja. Lei ora ha diciannove anni, e Eduard si chiede preoccupato quale sia la sua vita al di là di quelle mura, se la ragazza si stia dimenticando di lui, se lo tradisca. Eduard si vanta di essere, in linea di massima, un uomo lucido e realista. Pur ritenendosi personalmente capace di fedeltà, non si fa illusioni su quella altrui. Non pensa neanche per un secondo che in una situazione simile Tanja, Nataša o Liza lo avrebbero aspettato. Invece Nastja sì. Eduard spera che lo aspetti, crede che lo aspetterà, cadrebbe nella disperazione se venisse a sapere che non l'ha aspettato.

Ma fino a quando? Il giorno in cui ha varcato la soglia del carcere Eduard era un uomo di cinquantotto anni che non pesava un grammo di più che a venti, un uomo all'apice delle sue possibilità e del suo fascino, ma nessuno sa quando ne uscirà, e se nonostante la sua volontà e la sua resistenza non sarà diventato anche lui, come la schiacciante maggioranza dei detenuti, un uomo distrutto.


A Lefortovo non c'è l'obbligo di radersi, né di tagliarsi i capelli, e Eduard se li lascia crescere, per sfida. Quando scrive arrivano a toccare il tavolo. Se continua così, finiranno per spazzare il pavimento. Non somiglierà più all'Edmond Dantès del Conte di Montecristo, ma al suo vecchio compagno di prigionia nel Castello d'If, l'abate Faria.

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Pagina 348

A Putin penso parecchio, mentre si avvicina la fine di questo libro. E più ci penso, più ritengo che il dramma di Eduard sia stato credere di essersi sbarazzato dei vari capitani Levitin che gli avevano avvelenato la giovinezza e vedersi invece parare davanti, tanti anni dopo e quando credeva di avere ormai la strada spianata, un super capitano Levitin: il tenente colonnello Vladimir Vladimirovič.

In occasione della campagna presidenziale del 2000 è stato pubblicato un libro di colloqui con Putin il cui titolo, in originale, è «In prima persona». Sarà stato probabilmente trovato da un qualche addetto alla comunicazione, ma è un titolo azzeccato, che potrebbe andar bene per tutta l'opera di Limonov e per una parte della mia. E in realtà va bene anche per Putin. Dicono che Putin parli in politichese: non è vero. Putin fa quello che dice, dice quello che fa, e quando mente è così spudorato che non ci casca nessuno. Se si esamina la sua vita, si ha l'inquietante sensazione di trovarsi davanti a un doppio di Eduard. Putin è nato in una famiglia dello stesso tipo di quella di Eduard, soltanto dieci anni dopo: padre sottufficiale, madre donna delle pulizie, tutti accalcati dentro la stanza di una kommunalka. Ragazzino gracile e introverso, è cresciuto nel culto della patria, della grande guerra patriottica, del KGB e della fifa che esso incuteva a quei senza palle di occidentali. Da adolescente è stato, per usare le sue stesse parole, un teppistello, e se non è diventato un delinquente lo deve soltanto al judo, a cui si è dedicato con tanta intensità che i suoi compagni ricordano ancora le terribili urla provenienti dalla palestra dove si allenava, da solo, la domenica. Č entrato negli organi per romanticismo, perché essi annoveravano uomini eccezionali che difendevano la patria, e lui era orgoglioso di diventare uno di loro. Ha diffidato della perestrojka, non ha mai sopportato che masochisti o agenti della CIA facessero tante storie per i gulag e i crimini di Stalin, la fine dell'impero è stata per lui la più grande catastrofe del ventesimo secolo, e ancora oggi la pensa così. Nel caos dei primi anni Novanta si è ritrovato dalla parte dei perdenti, dei beffati, ridotto a fare il tassista. Adesso che è al potere, adora, come Eduard, farsi fotografare a petto nudo, i muscoli in evidenza, con addosso i pantaloni della tuta mimetica e un coltello da commando alla cintura. Come Eduard è freddo e astuto, sa che l'uomo è un lupo per gli altri uomini, crede solo nel diritto del più forte, nell'assoluto relativismo dei valori e preferisce fare paura piuttosto che averla. Come Eduard disprezza i frignoni che considerano sacra la vita umana. L'equipaggio del sottomarino Kursk può impiegare otto giorni a morire asfissiato sul fondo del Mare di Barents, le forze speciali russe possono gasare centocinquanta ostaggi nel teatro della Dubrovka e trecentocinquanta bambini possono essere massacrati nella scuola di Beslan, ma Vladimir Vladimirovič dà al popolo notizie della sua cagnolina che ha partorito. La cucciolata sta bene, poppa di gusto: bisogna vedere le cose in maniera positiva.

La differenza tra Putin e Eduard è che Putin ce l'ha fatta. Putin è il capo. Può ordinare che i testi scolastici cessino di sparlare di Stalin, richiamare all'ordine le ONG e le anime belle dell'opposizione liberale. Si inchina pro forma davanti alla tomba di Sacharov, ma tiene sulla scrivania, ben visibile a tutti, il busto di Dzeržinskij. Se l'Europa lo provoca riconoscendo l'indipendenza del Kosovo, dice: «D'accordo, ma allora avranno l'indipendenza anche l'Ossezia del Sud e l'Abchazija, e manderemo i carri armati in Georgia, e se non siete carini con noi vi chiuderemo il rubinetto del gas».

Modi tanto virili dovrebbero fare colpo su Eduard, se questi fosse in buona fede. Invece Eduard scrive, come Anna Politkovskaja, dei pamphlet in cui spiega che Putin non solo è un tiranno, ma un tiranno scialbo e mediocre, a cui è toccato in sorte un destino troppo grande per lui. La falsità di questo giudizio mi sembra lampante. Ritengo che Putin sia uno statista di grande levatura e che la sua popolarità non dipenda soltanto dal fatto che la gente è decerebrata dai media a lui asserviti. C'è dell'altro. Putin ripete in tutte le salse una cosa che i russi hanno assolutamente bisogno di sentirsi confermare e che si può riassumere così: «Nessuno ha il diritto di dire a centocinquanta milioni di persone che settant'anni della loro vita, della vita dei loro genitori e dei loro nonni, che ciò in cui hanno creduto, per cui hanno lottato e si sono sacrificati, l'aria stessa che respiravano, nessuno ha il diritto di dire che tutto questo è stato una merda. Il comunismo ha fatto delle cose orribili, d'accordo, ma non era uguale al nazismo. L'equivalenza tra i due, che gli intellettuali occidentali danno ormai per scontata, è un'infamia. Il comunismo è stato qualcosa di grande, di eroico, di bello, qualcosa che credeva nell'uomo e gli dava fiducia. Il comunismo aveva in sé una parte di innocenza, e nel mondo spietato che è venuto dopo tutti lo associano confusamente alla propria infanzia, a ciò che commuove quando riaffiorano i ricordi dell'infanzia».

Sono sicuro che Putin fosse assolutamente sincero quando ha pronunciato la frase che ho riportato in esergo a questo libro. Sono sicuro che essa gli sia sgorgata dal profondo del cuore, perché tutti hanno un cuore. Ed è una frase che in Russia parla al cuore di tutti, a partire da Limonov, il quale, se si trovasse al posto di Putin, certamente direbbe e farebbe tutto quello che Putin dice e fa. Ma Limonov non è al posto di Putin, e non gli resta che occupare quello, così incongruo per lui, di oppositore virtuoso, difensore di valori in cui non crede (democrazia, diritti umani e stronzate del genere) al fianco di persone oneste che incarnano tutto quello che lui ha sempre disprezzato. Non esattamente uno scacco matto, ma certo, in queste condizioni, non è semplice saper stare al proprio posto.

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