Autore Donato Carrisi
Titolo Il suggeritore
EdizioneTea, Milano, 2014 [2009], SuperTEA , pag. 462, cop.fle., dim. 13x19,8x3,7 cm , Isbn 978-88-502-3734-0
LettoreElisabetta Cavalli, 2014
Classe gialli , thriller , noir












 

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Carcere di xxxxxxx
Distretto Penitenziario n.45.



Report del Direttore, dr Alphonse Bérenger.

23 nov. c.a.

All'attenzione dell'Ufficio del

Procuratore Generale

J.B. Marin


Oggetto: CONFIDENZIALE


Gentile signor Marin,

mi permetto di scriverLe per segnalare lo strano caso di un detenuto.

Il soggetto in questione è il numero di matricola RK-357/9. Ormai ci riferiamo a lui solo in questo modo, visto che non ha mai voluto fornire le proprie generalità.

Il fermo di polizia è avvenuto il 22 ottobre. L'uomo vagava di notte - solo e senza vestiti - in una strada di campagna nella regione di xxxxx.

Il confronto delle impronte digitali con quelle contenute negli archivi ha escluso il suo coinvolgimento in precedenti reati o in crimini rimasti irrisolti. Tuttavia il reiterato rifiuto a rivelare la propria identità, anche davanti a un Giudice, gli è valso una condanna a quattro mesi e diciotto giorni di reclusione.


Dal momento in cui ha messo piede al Penitenziario, il detenuto RK-357/9 non ha mai dato segni d'indisciplina, dimostrandosi sempre rispettoso del regolamento carcerario. Inoltre l'individuo è di indole solitaria e poco incline a socializzare.

Forse anche per questo nessuno si è mai accorto del particolare comportamento, notato solo di recente da uno dei nostri secondini.

Il detenuto RK-357/9 deterge e ripassa con un panno di feltro ogni oggetto con cui entra in contatto, raccoglie tutti i peli e i capelli che perde quotidianamente, lustra alla perfezione le posate e il water ogni volta che li usa.

Siamo dunque di fronte a un maniaco igienista o, molto più verosimilmente, a un individuo che vuole a tutti i costi evitare di lasciare «materiale organico».


Nutriamo, di conseguenza, il serio sospetto che il detenuto RK-357/9 abbia commesso qualche crimine di particolare gravità e voglia impedirci di prelevare il suo DNA per identificarlo.


Fino a oggi il soggetto ha potuto condividere la cella con un altro recluso, il che l'ha certamente favorito nell'opera di confondere le proprie tracce biologiche. Però La informo che come prima misura lo abbiamo tolto da tale condizione di promiscuità, mettendolo in isolamento.


Segnalo quanto sopra al Suo Ufficio per avviare apposita indagine e richiedere, se necessario, un provvedimento d'urgenza del Tribunale che costringa il detenuto RK-357/9 a effettuare la prova del DNA.

1l tutto tenuto conto anche del fatto che fra esattamente 109 giorni (il 12 marzo) il soggetto finirà di scontare la pena.

Con osservanza.

Direttore

dr Alphonse Bérenger

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Un posto nei pressi di W

5 febbraio.


La grande falena lo portava, muovendosi a memoria nella notte. Vibrava le sue ali polverose, schivando l'agguato delle montagne, quiete come giganti addormentati spalla a spalla.

Sopra di loro, un cielo di velluto. Sotto, il bosco. Fittissimo.

Il pilota si voltò verso il passeggero e indicò davanti a sé un enorme buco bianco al suolo simile alla gola luminosa di un vulcano.

L'elicottero virò in quella direzione.

Atterrarono dopo sette minuti in una banchina della statale. La strada era chiusa e l'area presidiata dalla polizia. Un uomo dal vestito blu andò ad accogliere il passeggero fin sotto le eliche, trattenendo a stento un'imbizzarrita cravatta.

«Benvenuto dottore, la stavamo aspettando», ad alta voce, per sovrastare il rumore dei rotori.

Goran Gavila non rispose.

L'agente speciale Stern continuò: «Venga, le spiegherò strada facendo».

S'incamminarono per un sentiero accidentato, lasciandosi alle spalle il rumore dell'elicottero che riprendeva quota, risucchiato da un cielo d'inchiostro.

La bruma scivolava come un sudario, spogliando i profili delle colline. Intorno, i profumi del bosco, mischiati e addolciti dall'umidità della notte che risaliva lungo gli abiti, strisciando fredda sulla pelle.

«Non è stato semplice, gliel'assicuro: deve proprio vederlo con i suoi occhi.»

L'agente Stern precedeva Goran di qualche passo, facendosi strada con le mani fra gli arbusti, e intanto gli parlava senza guardarlo.

«È cominciato tutto stamattina, intorno alle undici. Due ragazzini che stanno percorrendo il sentiero con il loro cane. Entrano nel bosco, salgono la collina e sbucano nella radura. Il cane è un Labrador e, sa, a quelli piace scavare... Insomma l'animale quasi impazzisce perché ha fiutato qualcosa. Scava una buca. E salta fuori il primo.»

Goran cercava di tenere il passo mentre si addentravano nella vegetazione sempre più fitta lungo il pendio che si faceva via via più ripido. Notò che Stern aveva un piccolo strappo nei pantaloni, all'altezza del ginocchio, segno che quella notte aveva già percorso più volte quel tragitto.

«Ovviamente i ragazzini scappano via subito, e avvertono la polizia locale», proseguì l'agente. «Quelli vengono, fanno un esame del luogo, i rilievi, cercano indizi. Insomma: tutta l'attività di routine. Poi a qualcuno viene in mente di scavare ancora per vedere se c'è dell'altro... e sbuca fuori il secondo! A questo punto hanno chiamato noi: siamo qui dalle tre ormai. Non sappiamo ancora quanta roba c'è là sotto. Ecco, siamo arrivati...»

Davanti a loro si aprì una piccola radura illuminata dalle fotoelettriche – la bocca di luce del vulcano. Improvvisamente i profumi del bosco svanirono e i due furono investiti da un inconfondibile afrore. Goran alzò il capo, lasciandosi pervadere. "Acido fenico", si disse.

E vide.

Un cerchio di piccole fosse. E una trentina di uomini in tuta bianca che scavavano in quella luce alogena e marziana, muniti di piccole pale e di pennelli per rimuovere delicatamente la terra. Alcuni setacciavano l'erba, altri fotografavano e catalogavano con cura ogni reperto. Si muovevano al rallentatore. I loro gesti erano precisi, calibrati, ipnotici, avvolti da un silenzio sacrale, violato di tanto in tanto solo dalle piccole esplosioni dei flash.

Goran individuò gli agenti speciali Sarah Rosa e Klaus Boris. E c'era Roche, l'ispettore capo, che lo riconobbe e si avviò subito a grandi falcate verso di lui. Prima che potesse aprir bocca, il dottore lo precedette con una domanda.

«Quante?»

«Cinque. Ciascuna è lunga cinquanta centimetri, per venti di larghezza e altri cinquanta di profondità... Secondo te, cosa ci si seppellisce in delle buche così?»

In tutte una cosa. La stessa cosa.

Il criminologo lo fissò, in attesa.

La risposta arrivò: «Un braccio sinistro».

Goran girò lo sguardo sugli uomini in tuta bianca impegnati in quell'assurdo cimitero a cielo aperto. La terra restituiva solo resti in decomposizione, ma l'origine di quel male doveva essere collocata prima di quel tempo sospeso e irreale.

«Sono loro?» domandò Goran. Ma, stavolta, conosceva già la risposta.

«Secondo l'analisi di PCR sono femmine. Inoltre caucasiche e fra i sette e i tredici anni d'età...»

Bambine.

Roche aveva pronunciato la frase senza alcuna inflessione nella voce. Come uno sputo, che se lo tieni dentro ancora un po' ti amara la bocca.

Debby. Anneke. Sabine. Melissa. Caroline.

Era iniziata venticinque giorni prima, come una piccola storia da rotocalco di provincia: la sparizione di una giovane studentessa di un prestigioso collegio per i figli dei ricchi. Tutti avevano immaginato una fuga. La protagonista aveva dodici anni e si chiamava Debby. I suoi compagni ricordavano di averla vista uscire al termine delle lezioni. Al dormitorio femminile si erano accorti della sua assenza solo durante l'appello serale. Aveva tutta l'aria di essere una di quelle vicende che si guadagnano un mezzo articolo in terza pagina, e che poi languiscono in un trafiletto in attesa di uno scontato lieto fine.

Poi invece era scomparsa Anneke.

Era avvenuto in un piccolo borgo con le case in legno e la chiesa bianca. Anneke aveva dieci anni. All'inizio avevano pensato che si fosse persa nei boschi, dove si avventurava spesso con la sua mountain bike. Ai gruppi di ricerca aveva partecipato tutta la popolazione locale. Ma senza esito.

Prima che potessero rendersi conto di ciò che stava realmente accadendo, era successo di nuovo.

La terza si chiamava Sabine, era la più piccola. Sette anni. Era successo in città, di sabato sera. Era andata coi suoi al luna park, come tante altre famiglie con figli. Lì era salita su un cavallo della giostra, che era piena di bambini. Sua madre l'aveva vista passare la prima volta, e l'aveva salutata con la mano. La seconda, e lei aveva ripetuto il saluto. La terza volta, Sabine non c'era più.

Solo allora qualcuno aveva iniziato a pensare che tre bambine scomparse nell'arco di soli tre giorni costituissero un'anomalia.

Le ricerche erano scattate in grande stile. C'erano stati appelli televisivi. Si parlò subito di uno o più maniaci, forse di una banda. In realtà non c'erano elementi per formulare una più accurata ipotesi investigativa. La polizia aveva istituito una linea telefonica dedicata per raccogliere informazioni, anche in forma anonima. Le segnalazioni erano state centinaia, per verificarle tutte ci sarebbero voluti mesi. Ma delle bambine nessuna traccia. Per di più, essendo le sparizioni avvenute in posti diversi, le polizie locali non riuscivano a mettersi d'accordo sulla giurisdizione.

L'unità investigativa per i crimini violenti, diretta dall'ispettore capo Roche, era intervenuta soltanto allora. I casi di scomparsa non rientravano nella sua competenza, ma la psicosi montante aveva indotto all'eccezione.

Roche e i suoi erano sul caso già caldo quando era scomparsa la bambina numero quattro.

Melissa era la più grande: tredici anni. Come a tutte le ragazzine della sua età, anche a lei era stato imposto il coprifuoco dai genitori che temevano potesse diventare vittima del maniaco che stava terrorizzando il paese. Ma la clausura forzata era coincisa con il giorno del suo compleanno, e Melissa aveva altri programmi per quella sera. Con le sue amiche aveva escogitato un piccolo piano di fuga per andare a festeggiare in una sala da bowling. Le compagne ci arrivarono tutte. Melissa fu l'unica a non presentarsi.

Da lì aveva preso inizio una caccia al mostro spesso confusa e improvvisata. I cittadini si erano mobilitati, pronti anche a farsi giustizia da sé. La polizia aveva disseminato le strade di posti di blocco. I controlli nei confronti di soggetti già condannati o sospettati di crimini contro minori si erano fatti più stringenti. I genitori non si fidavano a far uscire di casa i figli neanche per mandarli a scuola. Molti istituti erano stati chiusi per mancanza di alunni. La gente lasciava le abitazioni solo se strettamente necessario. Dopo una certa ora, i paesi e le città diventavano deserti.

Per un paio di giorni non si erano avute notizie di nuove scomparse. In parecchi avevano cominciato a pensare che tutte le misure e le precauzioni adottate avessero sortito l'effetto sperato, scoraggiando il maniaco. Ma si sbagliavano.

Il sequestro della quinta bambina fu il più clamoroso.

Si chiamava Caroline, undici anni. Era stata presa dal suo letto, mentre dormiva nella camera accanto a quella dei genitori, che non si erano accorti di nulla.

Cinque ragazzine rapite nel giro di una settimana. Poi, diciassette lunghissimi giorni di silenzio.

Fino a quel momento.

Fino a quelle cinque braccia sepolte.

Debby. Anneke. Sabine. Melissa. Caroline.

Goran rivolse lo sguardo al cerchio di piccole fosse. Un macabro girotondo di mani. Pareva quasi di sentirle cantare una filastrocca.

«Da questo momento è chiaro che non si tratta più di casi di scomparsa», stava dicendo Roche mentre con un gesto convocava tutti intorno a sé per un breve discorso.

Era una consuetudine. Rosa, Boris e Stern lo raggiunsero e si misero in ascolto, con lo sguardo fisso per terra e le mani intrecciate dietro la schiena.

Roche cominciò: «Penso a chi ci ha portati fin qui, questa sera. A chi ha previsto che tutto questo accadesse. Noi siamo qui perché lui lo ha voluto, perché lui lo ha immaginato. E ha costruito tutto questo per noi. Perché lo spettacolo è per noi, signori. Solo per noi. L'ha preparato con cura. Pregustando il momento, la nostra reazione. Per stupirci. Per farci sapere che è grande, e potente».

Annuirono.

Chiunque fosse l'artefice, aveva agito indisturbato.

Roche, che aveva da tempo incluso Gavila nella squadra a tutti gli effetti, si accorse che il criminologo era distratto, gli occhi immobili a inseguire un pensiero.

«E tu, dottore, che ne pensi?»

Allora Goran emerse dal silenzio che s'era imposto, e disse soltanto: «Gli uccelli».

Nessuno, sulle prime, sembrò capire.

Lui proseguì, impassibile: «Non me n'ero accorto arrivando, l'ho notato soltanto adesso. È strano. Ascoltate...»

Dal buio bosco si levava la voce di migliaia di uccelli.

«Cantano», disse Rosa, stupita.

Goran si voltò verso di lei e le fece un cenno di assenso.

«Sono le fotoelettriche... Hanno scambiato questa luce per l'alba. E cantano», commentò Boris.

«Vi sembra che abbia senso?» riprese Goran, guardandoli stavolta. «Eppure ce l'ha... Cinque braccia sepolte. Pezzi. Senza i corpi. Se vogliamo, nessuna vera crudeltà in tutto questo. Senza i corpi niente volti. Senza i volti niente individui, niente persone. Dobbiamo chiederci solo 'dove sono quelle bambine?' Perché non sono lì, in quelle fosse. Non possiamo guardarle negli occhi. Non possiamo percepire che sono come noi. Perché, in realtà, non c'è nulla di umano in questo. Sono solo parti... Nessuna compassione. Lui non ce l'ha concessa. Ci ha lasciato solo la paura. Non si può provare pietà per quelle piccole vittime. Vuole farci sapere solo che sono morte... Vi sembra che abbia un senso? Migliaia di uccelli nel buio costretti a gridare intorno a una luce impossibile. Noi non riusciamo a vederli ma loro ci osservano – migliaia di uccelli. Cosa sono? Una cosa semplice. Ma anche il frutto di un'illusione. E bisogna fare attenzione agli illusionisti: il male a volte ci inganna assumendo la forma più semplice delle cose.»

Silenzio. Ancora una volta il criminologo aveva colto un piccolo e pregnante significato simbolico. Ciò che gli altri spesso non riuscivano a vedere o – come in questo caso – a sentire. I dettagli, i contorni, le sfumature. L'ombra intorno alle cose, l'aura buia in cui si nasconde il male.

Ogni assassino ha un «disegno», una forma precisa che gli procura soddisfazione, orgoglio. Il compito più difficile è capire quale sia la sua visione. Per questo Goran era lì. Per questo l'avevano chiamato. Perché ricacciasse quel male inspiegabile fra le rassicuranti nozioni della sua scienza.

In quell'istante un tecnico in tuta bianca si avvicinò a loro e si rivolse direttamente all'ispettore capo con un'espressione confusa sul volto.

«Signor Roche, ci sarebbe un problema... le braccia ora sono sei.»

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