Copertina
Autore Sean Carroll
Titolo Dall'eternità a qui
SottotitoloLa ricerca della teoria ultima del tempo
EdizioneAdelphi, Milano, 2011, Biblioteca scientifica 49 , pag. n, ill., cop.fle.ril.sov., dim. larxaltxspe cm , Isbn 978-88-459-2643-3
OriginaleFrom Eternity to Here. The Quest for the Ultimate Theory of Time [2010]
TraduttoreFranco Ligabue
LettoreCorrado Leonardo, 2012
Classe cosmologia , fisica , storia della scienza , epistemologia , inizio-fine
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Indice


    Prologo                                              11

    PARTE PRIMA - IL TEMPO, L'ESPERIENZA E L'UNIVERSO

 1. Il passato è ricordo presente                        19
 2. La mano pesante dell'entropia                        36
 3. L'inizio e la fine del tempo                         54

    PARTE SECONDA - IL TEMPO NELL'UNIVERSO DI EINSTEIN

 4. Il tempo è personale                                 79
 5. Il tempo è flessibile                                95
 6. In tondo nel tempo                                  107

    PARTE TERZA - ENTROPIA E FRECCIA DEL TEMPO

 7. Il tempo a ritroso                                  135
 8. Entropia e disordine                                160
 9. Informazione e vita                                 196
10. Incubi ricorrenti                                   219
11. Il tempo dei quanti                                 244

    PARTE QUARTA - DALLA CUCINA AL MULTIVERSO

12. Buchi neri: i confini del tempo                     275
13. La vita dell'universo                               303
14. Inflazione e multiverso                             332
15. La storia futura                                    357
16. Epilogo                                             385


    Appendice: matematica                               395

    Note                                                401
    Bibliografia                                        447
    Ringraziamenti                                      465
    Indice analitico                                    467



 

 

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Pagina 11

PROLOGO



                                     Qualcuno sa davvero che ore sono?

                    CHICAGO, Does anybody really know what time it is?



Questo libro parla della natura del tempo, dell'inizio dell'universo e della realtà fisica che ne sta alla base. Non pensiamo certo in piccolo, qui. Gli interrogativi che tocchiamo sono antichi e illustri: da dove vengono lo spazio e il tempo? L'universo che vediamo è l'unico, o esistono altri «universi» di là da ciò che possiamo osservare? In che cosa il futuro è diverso dal passato?

Secondo i linguisti dell'Oxford English Dictionary, la parola time è il sostantivo più usato della lingua inglese. Siamo immersi nel tempo, prendiamo nota in maniera ossessiva del tempo e corriamo ogni giorno contro il tempo – eppure, sorprendentemente, pochissime persone sarebbero in grado di spiegare in modo semplice che cos'è in realtà il tempo.

Nell'èra di internet possiamo rivolgerci a Wikipedia. Al momento della stesura di questo testo, la voce corrispondente inizia così:

Il tempo è parte del sistema di misura usato per ordinare gli eventi, confrontarne la durata e gli intervalli tra uno e l'altro, e quantificare la rapidità di cambiamento come nel caso del moto degli oggetti. Il concetto di tempo è da sempre un importante argomento nella religione, nella filosofia e nella scienza, ma una definizione del tempo non controversa e applicabile a tutti i settori del sapere non è mai stata trovata neppure dai maggiori studiosi.

Davvero? Alla fine di questo libro avremo definito il tempo in una maniera molto precisa e applicabile a tutti i settori. Purtroppo sarà un po' meno chiaro perché il tempo ha le proprietà che ha – anche se prenderemo in esame alcune idee molto interessanti al riguardo.

La cosmologia, ossia lo studio dell'intero universo, ha fatto passi da gigante negli ultimi cento anni. Quattordici miliardi di anni fa il nostro universo (o quanto meno la parte per noi osservabile) era in uno stato incredibilmente caldo e denso che chiamiamo «big bang». Da allora si è espanso e raffreddato in un processo che sta continuando e, per quel che possiamo prevedere, continuerà in futuro e forse per sempre.

Un secolo fa non sapevamo niente di tutto ciò, gli scienziati non capivano essenzialmente nulla della struttura dell'universo oltre la nostra galassia. Ora abbiamo misurato l'universo osservabile e siamo in grado di descriverne in dettaglio dimensioni, forma e costituenti, nonché di delinearne la storia. Ma ci sono domande importanti a cui non sappiamo rispondere, in particolare riguardo ai primi istanti del big bang. Come vedremo, queste domande rivestono un ruolo cruciale nella nostra comprensione del tempo – non solo negli sconfinati spazi del cosmo, ma anche nei laboratori terrestri e perfino nella nostra vita quotidiana.


IL TEMPO DAL BIG BANG A OGGI

Θ chiaro che l'universo si evolve col passare del tempo – l'universo dei primi istanti era caldo e denso, quello attuale è freddo e rarefatto. Ma il collegamento che farò è molto più profondo. L'aspetto più misterioso del tempo è che ha una direzione: il passato è diverso dal futuro. Θ la cosiddetta freccia del tempo: diversamente da quanto accade per le direzioni spaziali, che nascono tutte uguali, l'universo ha indiscutibilmente una direzione preferita per il tempo. Uno dei principali motivi conduttori di questo libro è che la freccia del tempo esiste perché l'universo evolve in un certo modo.

La ragione per cui il tempo ha una direzione è che l'universo è pieno di processi irreversibili, cose che avvengono in una direzione temporale, ma mai in direzione opposta. Possiamo trasformare un uovo in frittata ma non una frittata in uovo. Il latte si mescola col caffè; i combustibili bruciano e si trasformano in gas di scarico; le persone nascono, invecchiano e muoiono. Ovunque in natura troviamo successioni di eventi in cui un certo tipo di evento accade sempre prima e un altro dopo; sono queste successioni, tutte insieme, a definire la freccia del tempo.

Θ piuttosto notevole che alla base della nostra comprensione dei processi irreversibili vi sia un singolo concetto: una quantità chiamata entropia, che misura il grado di disordine di un oggetto o di un conglomerato di oggetti. L'entropia ha un'ostinata tendenza ad aumentare, o almeno a rimanere costante, col passare del tempo: è il famoso secondo principio della termodinamica. Θ il motivo per cui l'entropia vuole aumentare è ingannevolmente semplice: ci sono più modi di essere disordinati che ordinati, quindi (a parità di altre condizioni) una configurazione ordinata tenderà naturalmente verso un maggiore disordine. Non è così difficile rimescolare le molecole dell'uovo per farne una frittata, ma risistemarle con delicatezza una per una nella configurazione dell'uovo va oltre le nostre possibilità.

La storia che i fisici sogliono ripetere a sé stessi normalmente finisce qui. Ma c'è un ingrediente assolutamente cruciale che non ha ricevuto sufficiente attenzione: se nell'universo tutto evolve verso un disordine maggiore, la configurazione iniziale doveva per forza essere estremamente ordinata. L'intera catena logica che pretende di spiegare perché non si può trasformare una frittata in uovo a quanto pare si regge su un'ipotesi molto importante riguardante l'universo al momento del suo inizio, cioè che esso si trovasse in uno stato di entropia molto bassa, dunque molto ordinato.

La freccia del tempo collega l'universo primordiale a qualcosa che sperimentiamo letteralmente in ogni momento della nostra vita. Non si tratta solo di sbattere le uova o di altri processi irreversibili, come mescolare il latte al caffè, o il fatto che una stanza non ben tenuta diventa sempre più disordinata. La freccia del tempo è la ragione per cui il tempo sembra scorrere o, se preferite, per cui ci sembra di muoverci nel tempo. Quella per cui ricordiamo il passato e non il futuro, quella per cui cresciamo, invecchiamo e da ultimo moriamo. Θ il motivo per cui crediamo in causa ed effetto, ed è fondamentale per il nostro concetto di libero arbitrio.

E tutto questo a causa del big bang.


QUEL CHE VEDIAMO NON Θ TUTTO QUEL CHE ESISTE

Il mistero della freccia del tempo si riduce dunque a questo: come mai l'universo al suo inizio si trovava in una configurazione di bassa entropia che ha permesso a tutti i processi interessanti e irreversibili di verificarsi? Θ questo l'interrogativo che il libro si accinge ad affrontare. Purtroppo, nessuno conosce ancora la risposta corretta. Ma, al punto a cui è giunto lo sviluppo della scienza moderna, abbiamo ormai gli strumenti per poter esaminare la domanda in maniera seria.

Gli scienziati, come i pensatori in età prescientifica, si sono sempre interrogati sulla natura del tempo. Nell'antica Grecia i filosofi presocratici Eraclito e Parmenide assunsero posizioni diverse in proposito. Eraclito sottolineava il primato del cambiamento, mentre Parmenide ne negava del tutto l'esistenza. Il diciannovesimo secolo fu l'èra eroica della meccanica statistica – la disciplina che deduce il comportamento degli oggetti macroscopici a partire da quello dei costituenti microscopici –, nella quale figure come Ludwig Boltzmann , James Clerk Maxwell e Josiah Willard Gibbs stabilirono il significato dell'entropia e il suo ruolo nei processi irreversibili. Ma non si sapeva ancora nulla della relatività generale di Einstein , né della meccanica quantistica, né tanto meno della cosmologia moderna. Per la prima volta nella storia della scienza abbiamo almeno un'opportunità di mettere insieme una teoria sensata del tempo e dell'evoluzione dell'universo.

La via d'uscita qui suggerita sarà la seguente: il big bang non fu l'inizio dell'universo. I cosmologi talvolta dicono che il big bang rappresenta un vero confine per lo spazio e il tempo, prima del quale non esisteva nulla - anzi, dato che non esisteva nemmeno il tempo, lo stesso concetto di «prima» non è applicabile in senso stretto. Ma non sappiamo abbastanza delle leggi fondamentali della fisica per fare un'affermazione del genere con sicurezza. Un numero sempre crescente di scienziati sta prendendo sul serio la possibilità che il big bang non sia stato davvero un inizio, ma solo una fase attraversata dall'universo, o per lo meno dalla nostra porzione di universo. Se questo è vero, la domanda sui nostri esordi a bassa entropia acquista un significato diverso: non «Perché l'universo è iniziato con un'entropia così bassa?», bensì «Perché la nostra porzione di universo ha attraversato un periodo di entropia così bassa?».

La domanda può non sembrare più facile, ma è comunque una domanda diversa, che apre un nuovo ventaglio di possibili risposte. Forse l'universo che vediamo è solo una porzione di un multiverso molto più grande, che non parte affatto da una configurazione a bassa entropia. Sosterrò che il modello di multiverso più ragionevole è quello in cui l'entropia cresce perché può crescere indefinitamente - non esiste uno stato di entropia massima. Come effetto collaterale, un simile multiverso può essere completamente simmetrico nel tempo: da qualche istante nel mezzo in cui l'entropia è alta, evolve nel passato e nel futuro a stati di entropia ancora maggiore. L'universo che vediamo è un minuscolo frammento di un ensemble enormemente più grande, e il nostro particolare viaggio da un denso big bang a un eterno vuoto è parte del percorso del vasto multiverso verso un'entropia sempre maggiore.

In ogni caso, questa è una delle possibilità. L'ho descritta qui per dare un esempio del tipo di scenari che i cosmologi devono considerare, se vogliono prendere sul serio i problemi sollevati dalla freccia del tempo. Ma, indipendentemente dal fatto che questa particolare idea sia o no sulla strada giusta, i problemi in sé restano affascinanti e reali. Nel corso di questo libro esamineremo i problemi del tempo da diverse angolature - viaggi nel tempo, informazione, meccanica quantistica, la natura dell'eternità. Quando non si è sicuri della risposta finale, è opportuno riformulare la domanda nel maggior numero possibile di modi.


VI SARANNO SEMPRE DEGLI SCETTICI

Non tutti sono d'accordo nel ritenere prominente il ruolo della cosmologia per la nostra comprensione della freccia del tempo. Una volta tenni una conferenza sul tema, diretta a un pubblico vasto in un grande istituto di fisica. Uno dei professori più anziani dell'istituto non trovò la mia esposizione molto convincente e fece in modo che tutti i presenti in sala sapessero del suo scontento. Il giorno successivo mandò un messaggio di posta elettronica a tutti i docenti del dipartimento, avendo il tatto di inviarlo in copia anche a me:

Infine, l'andamento dell'entropia dell'universo in funzione del tempo è un problema molto interessante per la cosmologia, ma suggerire che le leggi della fisica dipendano da questo è pura assurdità. L'affermazione di Carroll che il secondo principio debba la sua esistenza alla cosmologia è una delle osservazioni più stupide [sic] che abbia mai sentito nei nostri seminari di fisica, a parte quelle di ... sulla coscienza in meccanica quantistica. Mi sconcerta che i fisici presenti rimangano ad ascoltare in silenzio simili sciocchezze. A cena ho parlato con alcuni studenti di dottorato che hanno capito subito le mie obiezioni, ma Carroll non si è smosso di un millimetro.

Spero che quel professore legga questo libro. Ci sono molte affermazioni che suonano teatrali, ma farò la massima attenzione a tracciare una distinzione fra tre diverse categorie: 1) caratteristiche notevoli della fisica moderna che suonano incredibili ma sono ciò nonostante universalmente accettate come vere; 2) affermazioni di vasta portata non necessariamente accettate da molti dei fisici del settore ma che dovrebbero esserlo, non essendoci dubbio che siano corrette; 3) idee speculative che si spingono oltre la zona sicura della conoscenza scientifica allo stato attuale. Non rifuggiremo certo dalle speculazioni, ma queste verranno sempre indicate chiaramente come tali. Arrivato alla fine, il lettore sarà sufficientemente attrezzato per decidere da solo quali parti della storia sono sensate e quali no.

L'argomento del tempo chiama in causa un gran numero di idee, dalle quotidiane alle più astruse. Ci occuperemo di termodinamica, meccanica quantistica, relatività speciale e generale, teoria dell'informazione, cosmologia, fisica delle particelle e gravità quantistica. La prima parte del libro si può vedere come una rapida ricognizione del terreno – l'entropia e la freccia del tempo, l'evoluzione dell'universo, e le diverse concezioni dell'idea stessa di «tempo». Successivamente assumeremo un atteggiamento un po' più sistematico: nella seconda parte rifletteremo in maniera approfondita sullo spazio-tempo e sulla relatività, compresa la possibilità di viaggiare a ritroso nel tempo. Nella terza parte la riflessione approfondita sarà sull'entropia, di cui esploreremo il ruolo in vari contesti, dall'evoluzione della vita ai misteri della meccanica quantistica.

Nella quarta parte metteremo tutto insieme per affrontare direttamente i misteri che l'entropia presenta al cosmologo moderno: quale aspetto dovrebbe avere l'universo, e fino a che punto è paragonabile a quello che effettivamente vediamo? Sosterrò che l'universo - per lo meno se l'universo è solo quello che vediamo - non ha per nulla l'aspetto che «dovrebbe» avere (facendo attenzione a precisare il significato di queste parole). Se il nostro universo ha avuto inizio con il big bang, ci troviamo col fardello di una condizione iniziale finemente calibrata per la quale non abbiamo nessuna spiegazione soddisfacente. Ma se l'universo osservabile facesse parte di un'entità molteplice ben più vasta - il multiverso -, potremmo riuscire a spiegare perché una parte di questa variegata entità subisca un cambiamento di entropia così spettacolare da un estremo all'altro del tempo.

Tutto ciò è impudentemente speculativo, ma vale la pena di prenderlo sul serio. La posta in gioco è elevata - il tempo, lo spazio, l'universo - e anche gli errori in cui probabilmente incapperemo durante il percorso sono senza dubbio consistenti. Talvolta è utile lasciar vagare l'immaginazione, anche se il nostro scopo ultimo è tornare sulla Terra e spiegare che cosa succede in cucina.

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2
LA MANO PESANTE DELL'ENTROPIA



                            Neanche il mangiare è attraente ... Diversi pezzi
                            vengono trattenuti nella mia bocca e, dopo un
                            efficiente massaggio con lingua e denti, li sposto
                            sul piatto per un'ulteriore scultura con coltello,
                            forchetta e cucchiaio. Questo, se non altro, è
                            abbastanza terapeutico, a meno che uno non abbia
                            della minestra o qualcosa del genere, perché può
                            essere una vera condanna. Poi devi affrontare
                            l'arduo compito di rinfrescare, di radunare e di
                            mettere via, prima di restituire queste cibarie al
                            Superette dove, in effetti, vengo immediatamente e
                            generosamente rimborsato per le mie fatiche.
                            Ripercorri allora i corridoi con un carrello o un
                            paniere, rimettendo ogni scatola e ogni pacchetto al
                            proprio posto.

                                               MARTIN AMIS, La freccia del tempo



Dimenticate le navi spaziali, i missili, le guerre con gli extraterrestri. Se volete raccontare una storia che evochi prepotentemente la sensazione di trovarsi in un ambiente alieno, dovete invertire la direzione del tempo.

Potreste, naturalmente, limitarvi a prendere una storia normale e raccontarla a ritroso, dalla conclusione fino all'inizio. Θ una tecnica letteraria detta «cronologia inversa», e compare già nell' Eneide di Virgilio. Ma per smuovere davvero i lettori dalla loro bambagia temporale, bisogna che qualcuno dei personaggi sperimenti lo scorrere a ritroso del tempo. Il motivo per cui la cosa ci colpisce, ovviamente, è che tutti noi personaggi reali sperimentiamo lo scorrere del tempo nella stessa direzione; ciò è dovuto al coerente aumento dell'entropia in tutto l'universo, che definisce la freccia del tempo.


ATTRAVERSO LO SPECCHIO

Il racconto di F. Scott Fitzgerald Il curioso caso di Benjamin Button (da cui è stato recentemente tratto un film con Brad Pitt) ha come protagonista un uomo che nasce vecchio e ringiovanisce col passare del tempo. Le infermiere della clinica in cui nasce Benjamin sono comprensibilmente sconcertate:

Avvolto in una voluminosa coperta bianca, e in parte ficcato in una culla, stava seduto un vecchio all'apparenza sui settant'anni. I radi capelli erano quasi bianchi, e dal mento stillava una lunga barba grigio fumo, che ondeggiava in modo assurdo, sospinta dalla corrente che proveniva dalla finestra. Questi sollevò lo sguardo su Mister Button con occhi offuscati e sbiaditi nei quali si annidava un confuso interrogativo.

«Sono diventato pazzo?» tuonò Mister Button, col terrore che sfociava in rabbia. «Cos'è questo, un pessimo scherzo da dottori?».

«A noi non sembra affatto uno scherzo» replicò secca l'infermiera. «E non so dirle se lei sia pazzo o meno, ma so di certo che questo è suo figlio».

Il sudore freddo aumentò del doppio sulla fronte di Mister Button. Chiuse gli occhi, poi li riaprì e guardò di nuovo. Nessun errore: aveva davanti un uomo sulla settantina — un bambino sulla settantina, un bambino che se ne stava con i piedi penzoloni fuori dalla culla.

Nel racconto non si fa cenno a ciò che deve aver provato la povera signora Button fino a poco prima (nel film, almeno, Benjamin alla nascita ha le dimensioni di un neonato, seppur vecchio e grinzoso).

Essendo così strano, l'espediente di far scorrere il tempo al contrario per alcuni personaggi di una storia è spesso usato per ottenere un effetto comico. In Attraverso lo specchio di Lewis Carroll , Alice rimane sconcertata al suo primo incontro con la Regina Bianca, che vive in entrambe le direzioni del tempo. La regina grida e scuote il dito dolorante:

«Che cosa vi succede?» domandò [Alice] non appena si poté far sentire. «Vi siete punta le dita?».

«Non me le sono punte ancora» disse la Regina. «Ma me le pungerò. Ahi! Ahi! Ahi!».

«E quando credete che ciò avverrà?» chiese Alice con una voglia matta di mettersi a ridere.

«Quando mi riappunterò di nuovo lo scialle» brontolò la povera Regina. «Il fermaglio si aprirà di colpo! Ahi! Ahi! Ahi!». Mentre gridava così il fermaglio si aprì e la Regina lo afferrò con violenza cercando di riappuntarlo.

«State attenta,» gridò Alice «lo state afferrando tutto all'incontrario!». E volle prenderlo lei, ma era troppo tardi; lo spillo sfuggì e punse il dito della Regina.

Carroll (nessuna parentela) gioca con una caratteristica fondamentale della natura del tempo: il fatto che la causa precede l'effetto. La scena ci fa sorridere e al contempo ci ricorda quanto sia centrale la freccia del tempo nella nostra esperienza del mondo.

Il tempo si può invertire per ottenere effetti tragici, oltre che comici. Il romanzo di Martin Amis La freccia del tempo è un classico nel suo genere, pur trattandosi di un genere letterario piuttosto ristretto. Il narratore è una coscienza separata dal corpo di una persona che vive nel corpo di un'altra, di nome Odilo Unverdorben. Questi vive nel senso ordinario del tempo, quello in avanti, mentre l' homunculus narratore vive tutto quanto a ritroso — il suo primo ricordo è la morte di Unverdorben. Non ha alcun controllo sulle azioni di Unverdorben, né ha accesso ai suoi ricordi: ne attraversa passivamente la vita a ritroso. All'inizio Unverdorben ci appare come un medico, professione che al narratore sembra alquanto sadica: al pronto soccorso si affastellano pazienti, a cui il personale aspira i farmaci dal corpo e strappa le bende, per poi spedirli fuori nella notte sanguinanti e urlanti. Ma verso la fine del libro scopriamo che Unverdorben era assistente ad Auschwitz, dove creava vita dal nulla, trasformando sostanze chimiche, elettricità e cadaveri in esseri viventi. Solo adesso, pensa il narratore, il mondo ha finalmente un senso.


LA FRECCIA DEL TEMPO

C'è una buona ragione per cui invertire il verso relativo del tempo è efficace come trucco della fantasia: nel mondo reale non accade mai. Il tempo ha una direzione, ed è la stessa per tutti. Nessuno di noi ha incontrato un personaggio come la Regina Bianca, che ricorda quello che noi chiamiamo «futuro» anziché il (o oltre al) «passato».

Che cosa significa dire che il tempo ha una direzione, una freccia che punta dal passato verso il futuro? Pensiamo a un film proiettato al contrario. In generale, è piuttosto chiaro se stiamo vedendo qualcosa che sta andando «nella direzione sbagliata» del tempo. Un esempio classico è il tuffatore in piscina. Se il tuffatore si butta in acqua e subito dopo c'è un grande tonfo con spruzzo seguito da onde che si propagano in ogni direzione, tutto ci sembra normale. Ma se vediamo una piscina in cui cominciano a formarsi onde, che si raccolgono in un grande spruzzo e contemporaneamente spingono un tuffatore fin sul trampolino, quindi spariscono lasciando l'acqua completamente calma, sappiamo che c'è qualcosa sotto: il film è stato proiettato al contrario.

Certi eventi nel mondo reale accadono sempre nello stesso ordine. Θ sempre tuffo, tonfo, spruzzo, onde; mai onde, spruzzo, tonfo, tuffatore sputato fuori. Prendiamo del latte e lo versiamo in una tazza di caffè, mai un caffellatte che separiamo nei due liquidi componenti. Sequenze di questo genere sono dette processi irreversibili. Siamo liberi di immaginare che una tale sequenza si svolga all'incontrario, ma se lo vedessimo davvero accadere sospetteremmo che sia un trucco cinematografico, anziché una fedele riproduzione della realtà.

I processi irreversibili sono alla base della freccia del tempo. Gli eventi accadono in determinate sequenze e non in altre. E per di più questo ordinamento preferenziale è lo stesso, a quanto ne sappiamo, in tutto l'universo osservabile. Un giorno potremmo scoprire in qualche lontano sistema solare un pianeta che ospita vita intelligente, ma nessuno pensa che troveremo un pianeta in cui gli alieni di norma separano (gli equivalenti locali) di latte e caffè girando distrattamente il cucchiaino. E perché mai? L'universo è grande, le cose potrebbero succedere in ogni sorta di sequenze. Ma non è così. Per certi tipi di processi – grosso modo, le azioni complicate in cui si muovono un sacco di componenti individuali – sembra esserci un ordine prestabilito che è in qualche modo intessuto nella trama stessa del mondo.

La pièce di Tom Stoppard Arcadia usa la metafora della freccia del tempo come principale motivo conduttore. Ecco come Thomasina, una ragazzina prodigio dalle idee molto avanzate rispetto alla sua epoca, spiega il concetto al suo precettore:

THOMASINA: Septimus, quando col cucchiaio mescolo la marmellata di fragole nel budino di riso, si formano strisce rosse, che assomigliano molto all'immagine di una meteora che c'è nel mio atlante astronomico. Ma se poi rimescolo nel senso inverso, la marmellata non torna come prima... continua a sciogliersi nel budino, come se niente fosse. Θ strano, non trovate?

SEPTIMUS: No.

THOMASINA: Io sì. Ciò che si mischia non può più essere scomposto.

SEPTIMUS: Certo che no. Bisognerebbe far scorrere il tempo all'indietro e, siccome non è possibile, dobbiamo andare avanti a mescolarci e mischiarci continuamente, disordine dal disordine finché non diventiamo tutti rosa per sempre anche noi, immutevoli e immutabili. Questo è ciò che chiamiamo libero arbitrio o, se volete, autodeterminazione.

La freccia del tempo è dunque una cruda realtà del nostro universo. Probabilmente la cruda realtà del nostro universo; il fatto che le cose avvengano in un dato ordine e non nell'ordine inverso è profondamente radicato nel nostro modo di vivere nel mondo. Ma qual è il motivo? Perché viviamo in un universo in cui X è spesso seguito da Y, ma Y non è mai seguito da X?

La risposta risiede nel concetto di «entropia» che ho menzionato sopra. Come l'energia o la temperatura, l'entropia ci dice qualcosa sullo stato di un sistema fisico; in particolare, ci dice quant'è disordinato il sistema. Un insieme di fogli ordinatamente impilati ha un'entropia bassa; lo stesso mucchio di carte sparpagliate a caso su una scrivania ha un'entropia alta. L'entropia di una tazzina di caffè e di un cucchiaino di latte separato è bassa, perché c'è una particolare separazione ordinata delle molecole in latte e caffè, mentre l'entropia dei due liquidi mescolati è molto più alta. Tutti i processi irreversibili in cui si manifesta la freccia del tempo — si possono trasformare le uova in frittate ma non le frittate in uova, il profumo si spande in una stanza ma non ritorna mai spontaneamente nella bottiglia, i cubetti di ghiaccio in un bicchiere di acqua calda si sciolgono, ma i bicchieri di acqua calda non producono spontaneamente cubetti di ghiaccio – hanno una caratteristica comune: l'entropia cresce sempre mentre il sistema procede dall'ordine al disordine.

In buona parte il nostro compito in questo libro sarà spiegare come la sola idea di entropia leghi insieme fenomeni così eterogenei, e poi scavare più in profondità su che sia in realtà questa cosa chiamata «entropia», e perché tenda a crescere. Il compito finale — una questione profonda e ancora aperta nella fisica contemporanea — sarà chiedersi perché l'entropia fosse così bassa in passato, da poter aumentare continuamente.

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LA LEGGE DI NATURA PIΩ AFFIDABILE


La fisica alla base dei processi irreversibili è riassunta dal secondo principio della termodinamica:

L'entropia di un sistema isolato rimane costante o aumenta nel tempo.

(Il primo principio afferma che l'energia si conserva). Il secondo principio è, a giudizio di molti, la più attendibile delle leggi fisiche. Se qualcuno vi dovesse chiedere di prevedere quali dei princìpi fisici attualmente accettati saranno ancora considerati inviolati tra mille anni, vi conviene scommettere sul secondo principio della termodinamica. Sir Arthur Eddington , un illustre astrofisico di inizio Novecento, espresse il concetto con enfasi:

Se qualcuno vi fa notare che la vostra teoria preferita dell'universo non va d'accordo con le equazioni di Maxwell [le leggi dell'elettromagnetismo], tanto peggio per le equazioni di Maxwell! Se la si trova contraddetta dall'osservazione... ebbene, qualche volta gli sperimentatori fanno certe confusioni! Ma se si scopre che la vostra teoria è contraria al secondo principio della termodinamica, non posso darvi speranza alcuna: alla vostra teoria non resta che sprofondare nella massima umiliazione!

C.P. Snow , intellettuale, fisico e romanziere britannico, è noto soprattutto perché era solito ribadire che le «due culture», la scientifica e l'umanistica, si erano separate mentre dovrebbero fare entrambe parte della nostra civiltà. Volendo indicare la nozione scientifica più fondamentale, quella che ogni persona istruita dovrebbe conoscere, scelse il secondo principio della termodinamica:

Molte volte mi sono trovato presente a riunioni di persone reputate di elevata cultura, secondo i criteri della cultura tradizionale, che si sono precipitate a dichiarare di non poter credere che gli scienziati fossero così privi di cultura letteraria. Un paio di volte mi sono irritato e ho chiesto alla compagnia quanti di loro se la sentivano di spiegare che cos'è la seconda legge della termodinamica. La risposta era fredda: ed era altresì negativa. Eppure chiedevo qualcosa che è press'a poco l'equivalente scientifico di «Avete mai letto un'opera di Shakespeare?».

Penso proprio che il barone Snow fosse molto richiesto ai ricevimenti di Cambridge (a onor del vero, in seguito ammise che nemmeno i fisici capivano del tutto il secondo principio).

La definizione moderna di entropia fu proposta dal fisico austriaco Ludwig Boltzmann nel 1877. Ma il concetto di entropia e il suo uso nel secondo principio della termodinamica risale al fisico tedesco Rudolf Clausius, che lo introdusse nel 1865. E il secondo principio stesso risale a prima ancora, al 1824 e all'ingegnere militare francese Nicolas Léonard Sadi Carnot. Com'è possibile che Clausius abbia usato l'entropia nel secondo principio senza conoscerne la definizione, e com'è possibile che Carnot sia riuscito a formulare il secondo principio senza usare affatto il concetto di entropia?

L'Ottocento è stato il secolo eroico della termodinamica — lo studio del calore e delle sue proprietà. I pionieri della termodinamica studiavano le relazioni fra temperatura, pressione, volume ed energia. Il loro interesse non era per nulla astratto: si era all'alba dell'èra industriale, e buona parte di questi studi erano motivati dal desiderio di migliorare le macchine a vapore.

Oggi i fisici spiegano che il calore è una forma di energia e che la temperatura di un oggetto è semplicemente una misura dell'energia cinetica (energia dovuta al moto) media degli atomi di un oggetto. Ma nel 1800 gli scienziati non credevano negli atomi, e non capivano molto bene l'energia. Carnot, ferito nell'orgoglio dal vantaggio inglese sui francesi nella tecnologia delle macchine a vapore, si pose l'obiettivo di capire quale potesse essere il rendimento di una macchina di questo genere — quanto lavoro utile si potesse ottenere bruciando una certa quantità di combustibile. Carnot sostenne che c'è un limite massimo a questo rendimento. Compiendo un salto intellettuale dai congegni reali alle «macchine termiche» idealizzate, dimostrò che esiste una macchina migliore di tutte le altre, capace di estrarre la massima quantità di lavoro da una data quantità di carburante, a una data temperatura. Il trucco, come ci si poteva aspettare, consiste nel rendere minima la dissipazione di calore. Possiamo pensare al calore come a qualcosa di utile per riscaldare le nostre case in inverno, ma questo non ci aiuta a produrre quello che i fisici chiamano «lavoro» – spostare un pistone o far girare una turbina. Ciò di cui si rese conto Carnot è che anche la più efficiente delle macchine possibili non è perfetta: parte dell'energia si perde per strada. In altre parole, il funzionamento di una macchina a vapore è un processo irreversibile.

Carnot comprese dunque che i motori fanno qualcosa che non può essere disfatto. Fu Clausius a capire, nel 1850, che alla base di questo c'era una legge di natura, che formulò così: «Il calore non passa spontaneamente da un corpo freddo a un corpo caldo». Se riempiamo un palloncino di acqua calda e lo immergiamo in acqua fredda, tutti sanno che le due temperature tenderanno a una media: quella del palloncino scende e quella dell'acqua sale. Il contrario non accade mai. I sistemi fisici evolvono verso uno stato di equilibrio – una configurazione stazionaria il più possibile uniforme, con temperature uguali per tutte le componenti. A partire da questa intuizione Clausius riuscì a ritrovare i risultati di Carnot riguardanti le macchine termiche.

Ma qual è il legame tra la legge di Clausius (il calore non fluisce mai spontaneamente da un corpo freddo a un corpo caldo) e il secondo principio (l'entropia non si abbassa mai spontaneamente)? La risposta è che sono la stessa legge. Nel 1865 Clausius riuscì a riformulare la sua massima originale in termini di una nuova quantità, da lui chiamata «entropia». Prendiamo un oggetto che si sta raffreddando, che sta cioè trasferendo calore all'ambiente circostante. Via via che il processo avanza, consideriamo a ogni istante la quantità di calore disperso e dividiamola per la temperatura dell'oggetto. L'entropia è l'ammontare cumulativo di questa quantità (il calore diviso per la temperatura) nel corso dell'intero processo. Clausius dimostrò che la tendenza del calore a fluire dagli oggetti caldi a quelli freddi era esattamente equivalente all'affermazione che l'entropia di un sistema isolato può solo aumentare, mai diminuire. Una configurazione è di equilibrio quando l'entropia ha raggiunto il suo valore massimo: tutti gli oggetti in contatto sono alla stessa temperatura.

Se tutto questo sembra un po' astratto, c'è un modo semplice di riassumerlo: l'entropia misura l' inutilità di una certa quantità di energia. C'è energia in un litro di benzina, ed è utile — possiamo estrarne lavoro. Bruciare benzina per far funzionare un motore non cambia la quantità totale di energia: a patto di riuscire a registrare con cura tutto quel che accade, l'energia si conserva sempre. Ma diventa via via più inutile. Si trasforma in calore e in rumore, oltre al moto che il motore imprime al veicolo, ma anche quel moto finisce col rallentare a causa dell'attrito. E man mano che l'energia si trasforma da utile a inutile, l'entropia aumenta.

Il secondo principio non implica che l'entropia di un sistema non possa mai diminuire. Potremmo inventare una macchina che separa il latte dal caffè a partire dal caffellatte, ad esempio. L'inghippo, però, è che possiamo diminuire l'entropia di qualcosa solo creandone ancora di più da un'altra parte. Noi esseri umani, le macchine che potremmo usare per separare il latte dal caffè, il cibo e il combustibile consumati dagli uni o dalle altre: tutto questo possiede entropia, che inevitabilmente andrà crescendo. I fisici distinguono tra sistemi isolati – oggetti che non scambiano calore o lavoro con il mondo esterno – e sistemi non isolati. In un sistema non isolato, come il caffellatte che mettiamo nella macchina, l'entropia può certamente decrescere. Ma in un sistema isolato – ad esempio il sistema totale comprendente il caffè, il latte, gli operatori umani, il combustibile e così via – l'entropia continuerà ad aumentare, o al limite a rimanere costante.

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ENTROPIA E VITA


Tutte queste cose sono molto affascinanti, almeno per i fisici. Ma le implicazioni di queste idee vanno ben oltre le macchine a vapore e le tazze di caffè. La freccia del tempo si manifesta in molti modi diversi – il nostro corpo cambia col passare degli anni, ricordiamo il passato ma non il futuro, gli effetti seguono le cause. Ebbene, tutti questi fenomeni possono essere ricondotti al secondo principio della termodinamica. L'entropia rende possibile la vita, letteralmente.

La fonte principale di energia per la vita sulla Terra è il Sole. Come insegna Clausius, il calore fluisce spontaneamente da un corpo caldo (il Sole) a un corpo più freddo (la Terra). Ma se la storia finisse lì, dopo non molto i due corpi arriverebbero all'equilibrio, ossia raggiungerebbero la stessa temperatura. In effetti questo è proprio quel che accadrebbe, se il Sole riempisse l'intera volta celeste anziché coprire un disco del diametro di circa mezzo grado. Il risultato sarebbe un mondo davvero infelice, totalmente incompatibile con l'esistenza della vita – non solo perché la temperatura sarebbe troppo elevata, ma perché sarebbe un mondo statico. Non cambierebbe mai nulla, in un mondo in equilibrio termico.

Nell'universo reale il motivo per cui il nostro pianeta non si riscalda fino a raggiungere la temperatura del Sole è che la Terra perde calore irraggiandolo nello spazio. E il solo motivo per cui lo può fare, direbbe orgogliosamente Clausius, è che lo spazio interplanetario è molto più freddo della Terra. Θ perché il Sole è un punto caldo in un cielo prevalentemente freddo che la Terra non si riscalda e può invece assorbire l'energia solare, elaborarla e poi irraggiarla di nuovo nello spazio. Durante il processo, ovviamente, l'entropia aumenta; una data quantità di energia sotto forma di radiazione solare ha un'entropia molto più bassa della stessa quantità di energia irraggiata dalla Terra verso lo spazio.

Questo processo, a sua volta, spiega perché la biosfera terrestre non è un ambiente statico. Riceviamo energia dal Sole, ma questa non ci riscalda fino a farci raggiungere l'equilibrio; è radiazione a entropia molto bassa, dunque possiamo utilizzarla e poi restituirla come radiazione ad alta entropia. Tutto ciò è possibile solo perché l'universo, e il sistema solare in particolare, hanno un'entropia relativamente bassa attualmente (e ancor più bassa in passato). Se l'universo fosse anche di poco vicino all'equilibrio, non accadrebbe mai nulla.

Nessuna cosa bella dura in eterno. Il nostro universo è un posto vivace perché l'entropia ha parecchio spazio per crescere prima che venga raggiunto l'equilibrio e tutto si fermi. La conclusione non è scontata — l'entropia potrebbe anche continuare a crescere all'infinito. Oppure potrebbe raggiungere un valore massimo e fermarsi. Questo scenario è noto come «morte termica» dell'universo, e fu contemplato già negli anni Cinquanta dell'Ottocento, nel fervore degli entusiasmanti sviluppi teorici della termodinamica. William Thomson, più noto come Lord Kelvin, era un fisico e ingegnere inglese che ebbe un ruolo importante nella posa del primo cavo telegrafico transatlantico. Ma nei momenti più riflessivi, meditava sul futuro dell'universo:

Se l'universo fosse finito e obbedisse alle leggi esistenti, il risultato sarebbe inevitabilmente uno stato di quiete e morte universale. Ma è impossibile concepire un limite alla quantità di materia nell'universo; dunque la scienza indica piuttosto un progredire illimitato, in uno spazio illimitato, di azioni che comportano la trasformazione di energia potenziale in moto tangibile e di qui in calore, anziché un singolo meccanismo finito che si scarica come un orologio e si ferma per sempre.

Qui Lord Kelvin, con notevole lungimiranza, aveva posto il dito sull'interrogativo più importante in questo genere di discussioni, su cui torneremo abbondantemente nel corso del libro: la capacità dell'universo di aumentare la propria entropia è finita o infinita? Se è finita, una volta che tutta l'energia utile sarà stata convertita in forme di energia inutili ad alta entropia l'universo finirà per spegnersi in una morte termica. Ma se l'entropia può crescere senza limite, possiamo almeno contemplare la possibilità che l'universo continui a crescere ed evolversi in eterno, in un modo o nell'altro.

In un famoso racconto di Thomas Pynchon intitolato semplicemente Entropia , i personaggi applicano i princìpi della termodinamica al loro ambiente sociale.

«Comunque,» disse Callisto «trovò nell'entropia la misura del disordine di un sistema isolato, una metafora adeguata a certi fenomeni del suo mondo. Vide ad esempio la nuova generazione reagire a Madison Avenue con lo stesso malumore che la sua aveva provato davanti a Wall Street: e nel "consumismo" americano scoprì una tendenza simile dal meno probabile al più probabile, dalla differenziazione alla somiglianza, dall'individualità ordinata a una specie di caos. Si trovò, in poche parole, a riformulare la profezia di Gibbs in termini sociali, ed ebbe la visione della sua cultura nella stretta di una morte calorica in cui le idee, come energia calorica, non sarebbero più state trasmesse, perché ogni punto finiva con l'avere la stessa quantità di energia; di conseguenza qualsiasi movimento intellettuale sarebbe cessato».

A tutt'oggi gli scienziati non hanno stabilito in maniera soddisfacente se l'universo continuerà a evolversi in eterno o se finirà col sistemarsi in un placido stato di equilibrio.

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IL BIG BANG


Ho lasciato cadere disinvoltamente qua e là l'espressione il big bang. Θ un termine gergale della fisica che è ormai da tempo entrato a far parte del lessico popolare. Ma di tutti gli aspetti non semplici della cosmologia moderna, forse nessuno è stato al centro di affermazioni fuorvianti o semplicemente false quanto «il big bang». Vale la pena di soffermarsi un attimo a mettere in chiaro ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo.

L'universo è uniforme su larga scala, ed è in espansione; la separazione tra le galassie aumenta. Ipotizzando che il numero di atomi nell'universo rimanga costante, la materia diventa sempre più rarefatta col passare del tempo. Nel frattempo i fotoni subiscono uno spostamento verso il rosso, ossia verso lunghezze d'onda maggiori ed energie inferiori, il che significa che la temperatura dell'universo è in calo. Il futuro del nostro universo è rarefatto, freddo e deserto.

Ora proiettiamo il film al contrario. Se l'universo si sta espandendo e raffreddando adesso, era più denso e più caldo in passato. In generale (a parte effetti divertenti riguardanti l'energia oscura, su cui torneremo più in là) la forza di gravità tende a far avvicinare gli oggetti gli uni agli altri. Quindi se estrapoliamo indietro nel tempo a uno stato più denso di quello dell'universo attuale, ci aspettiamo che l'estrapolazione continui a essere buona; in altri termini, non abbiamo motivo di aspettarci qualche genere di «rimbalzo» o inversione di rotta. L'universo deve semplicemente essere stato sempre più denso via via che si procede all'indietro nel tempo. Possiamo immaginare che ci sia stato un certo istante, tornando indietro di un tempo finito, in cui l'universo era infinitamente denso – una «singolarità». Questa ipotetica singolarità è ciò che chiamiamo «il big bang».

Notiamo che il termine big bang si riferisce a un istante nella storia dell'universo, non a un posto nello spazio. Proprio come non esiste nessun punto dell'universo attuale che definisca il centro dell'espansione, così non c'è alcun punto speciale in cui «è avvenuto il big bang». La relatività generale dice che l'universo può essere compresso a dimensioni nulle all'istante della singolarità, ma essere infinitamente grande in ogni istante successivo.

Ma che cosa c'era prima del big bang? Θ qui che molte discussioni di cosmologia moderna escono dal seminato. Si leggono spesso cose di questo genere: «Prima del big bang il tempo e lo spazio non esistevano. La nascita dell'universo non è avvenuta a un preciso istante nel tempo, perché ha coinciso con la nascita del tempo stesso. Chiedersi che cosa c'era prima del big bang è come chiedersi che cosa c'è a nord del Polo Nord».

Tutto questo sembra molto profondo, e potrebbe anche essere corretto. Ma potrebbe anche non esserlo. La verità è che non lo sappiamo. Le regole della relatività generale sono chiare: date certe condizioni dell'universo, dev'esserci stata una singolarità nel passato. Ma questa non è una conclusione internamente coerente, in senso stretto. La singolarità in sé stessa è un istante in cui la curvatura dello spazio-tempo e la densità di materia sono infinite, e a cui le regole della relatività generale non sono applicabili. La deduzione corretta non è che la relatività generale prevede una singolarità, ma che la relatività generale prevede che l'universo evolva verso una configurazione in cui la relatività generale stessa non vale più. La teoria non si può considerare completa; accade qualcosa in cui la relatività generale prevede singolarità, ma non sappiamo cosa.

Forse la relatività generale non è la teoria corretta della gravità, almeno nel contesto dell'universo primordiale. La maggior parte dei fisici sospetta che in ultima analisi, per capire che cosa sia successo nei primissimi istanti, sia necessaria una teoria quantistica della gravità, che sposi il formalismo della meccanica quantistica con le idee di Einstein sulla curvatura dello spazio-tempo. Dunque se qualcuno ci chiede che cosa è successo davvero al momento del cosiddetto big bang, l'unica risposta sincera dovrebbe essere: «Non lo so». Quando avremo un riferimento teorico affidabile in cui sia possibile chiedersi che cosa accade nelle condizioni estreme caratteristiche dell'universo primordiale, dovremmo essere in grado di trovare la risposta, ma al momento non disponiamo di una teoria del genere.

Può darsi che l'universo non esistesse prima del big bang, come la relatività generale convenzionale sembrerebbe implicare. Ma potrebbe benissimo darsi – come io tendo a credere, per motivi che saranno più chiari in seguito – che lo spazio e il tempo esistessero prima del big bang, e che ciò che chiamiamo big bang sia stata una specie di transizione da una fase a un'altra. La nostra ricerca di una spiegazione della freccia del tempo, che trae origine dalla bassa entropia dell'universo primordiale, alla fine dovrà mettere questo punto in primo piano. Continuerò a usare il termine «big bang» per indicare «l'istante della storia dell'universo primordiale immediatamente precedente l'entrata in vigore della cosmologia convenzionale», indipendentemente da che cosa rappresenti questo istante in una teoria più completa, e dal fatto che esista o no un qualche tipo di singolarità o di confine dell'universo.

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IL MISTERO DELL'ENERGIA DEL VUOTO


In fisica teorica non è facile «disinventare» un concetto. La costante cosmologica è la stessa idea dell'energia del vuoto. La domanda corretta da porsi non è se l'energia del vuoto sia un concetto che ha senso, bensì quanto ci dobbiamo aspettare che valga.

La meccanica quantistica moderna predice che il vuoto non sia affatto un posto desolato e noioso, ma che sia invece affollato di particelle virtuali. Una conseguenza cruciale della meccanica quantistica è il principio di indeterminazione di Werner Heisenberg: è impossibile fissare tutte le caratteristiche osservabili di qualunque sistema in uno stato univocamente determinato con precisione infinita, e questo vale anche per il vuoto. Queste particelle virtuali non sono particolarmente misteriose o ipotetiche — esistono, ci sono, e hanno effetti misurabili in fisica delle particelle, che sono stati osservati ripetutamente.

Le particelle virtuali trasportano energia, e quell'energia contribuisce alla costante cosmologica. Possiamo sommare gli effetti di tutte le particelle di questo genere e ottenere una stima di quanto dovrebbe valere la costante cosmologica. Ma non sarebbe giusto includere gli effetti di particelle di energia arbitrariamente alta. Noi crediamo che la nostra attuale rappresentazione della fisica fondamentale non sia adeguata per gli eventi di altissima energia – a un certo punto è necessario tener conto degli effetti della gravità quantistica, l'unione tra la relatività generale e la meccanica quantistica che al momento è ancora una teoria incompleta.

Così, invece di fare appello alla teoria corretta della gravità quantistica, che ancora manca, possiamo prendere in esame il contributo all'energia del vuoto dato dalle particelle virtuali di energia bassa rispetto al valore a cui la gravità quantistica diventa importante. Tale valore è detto energia di Planck, dal nome del fisico tedesco Max Planck , uno dei pionieri della teoria quantistica, e risulta pari a circa 2 miliardi di joule (l'unità di misura convenzionale dell'energia). Possiamo sommare i contributi all'energia del vuoto dovuti alle particelle virtuali di energia compresa tra zero e l'energia di Planck, quindi incrociare le dita e confrontare con ciò che si osserva.

Il risultato è un fiasco totale. La nostra semplice stima di quanto dovrebbe essere l'energia del vuoto risulta essere circa 10^105 joule al centimetro cubo. Θ un bel po', come energia del vuoto. Quella che invece misuriamo è circa 10-15 joule al centimetro cubo. Dunque la stima è superiore al valore sperimentale di un fattore 10^120 - un 1 seguito da 120 zeri. Si è detto che questo è il più grande disaccordo tra previsione teorica e risultato sperimentale nella storia della scienza. Per avere un'idea, il numero totale di particelle in tutto l'universo è circa 10^88, e quello dei granelli di sabbia in tutte le spiagge della Terra è solo 10^20.

Il fatto che l'energia del vuoto sia così piccola rispetto a quel che dovrebbe essere è un problema serio: il «problema della costante cosmologica». Ma c'è anche un altro problema, detto «problema della coincidenza». Ricordiamo che l'energia del vuoto mantiene una densità (quantità di energia per centimetro cubo) costante all'espandersi dell'universo, mentre la densità di materia diminuisce. Oggi, le due non sono molto diverse: la materia rappresenta circa il 25 per cento dell'energia dell'universo, mentre l'energia del vuoto rappresenta il rimanente 75 per cento. Ma il rapporto tra le due cambia apprezzabilmente nel tempo, dato che la densità di materia si riduce e l'altra no. All'epoca della ricombinazione, ad esempio, la densità di materia era un milardo di volte maggiore di quella dell'energia del vuoto. Dunque il fatto che esse risultino all'incirca confrontabili nella nostra epoca, fatto unico nella storia dell'universo, sembra una coincidenza davvero notevole. Nessuno sa spiegarla.

Si tratta di problemi seri per la nostra comprensione teorica dell'energia del vuoto. Ma se mettiamo da parte le preoccupazioni sul perché l'energia del vuoto sia così piccola, e perché sia paragonabile per densità all'energia della materia, quel che abbiamo è un modello fenomenologico che si accorda in maniera notevole ai dati. (Come per Carnot e Clausius non era necessario conoscere gli atomi per fare affermazioni corrette e utili sull'entropia, così per noi non è necessario comprendere l'origine dell'energia del vuoto per capire il suo effetto sull'espansione dell'universo). La prima indicazione diretta dell'esistenza dell'energia oscura arrivò dall'osservazione delle supernove nel 1998, ma da allora il quadro è stato confermato con una grande varietà di metodi. O l'universo sta accelerando sotto il progressivo effetto dell'energia del vuoto, o sta succedendo qualcos'altro di clamoroso e misterioso.

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L'ENTROPIA DELL'UNIVERSO


I fisici teorici hanno dedicato un numero impressionante di ore-uomo al problema del perché l'universo si sia evoluto proprio in questo modo anziché in un altro. Θ possibile che questa domanda semplicemente non abbia risposta: forse l'universo è quello che è, e noi non possiamo fare di meglio che accettarlo. Eppure, non senza ragione, coltiviamo la speranza di riuscire a fare di più che accettarlo, e cioè spiegarlo.

Supponendo di conoscere perfettamente le leggi della fisica, la domanda «perché l'universo si è evoluto come si è evoluto?» è equivalente a «perché le condizioni iniziali dell'universo sono state predisposte proprio in quel modo?». Ma quest'ultima formulazione introduce implicitamente l'idea di un'asimmetria temporale, privilegiando le condizioni passate rispetto a quelle future. Se la nostra conoscenza delle leggi fondamentali e microscopiche della natura è corretta, possiamo specificare lo stato dell'universo a un qualunque istante, e da lì dedurre sia il passato sia il futuro. Sarebbe dunque più appropriato dire che il nostro compito è di capire che cosa potrebbe configurarsi come una storia naturale dell'universo nella sua totalità.

Θ un po' paradossale che i cosmologi abbiano sottovalutato l'importanza della freccia del tempo, che senza dubbio è l'aspetto più evidente dell'evoluzione dell'universo. Boltzmann arrivò a sostenere (correttamente) la necessità di condizioni al contorno di bassa entropia nel passato, senza sapere nulla di relatività generale e meccanica quantistica, e nemmeno dell'esistenza di altre galassie. Prendere sul serio il problema dell'entropia ci aiuta a guardare la cosmologia sotto una nuova luce, che potrebbe suggerirci la soluzione di diversi problemi storici.

Ma prima dobbiamo essere un po' più chiari su che cosa intendiamo esattamente quando parliamo di «entropia dell'universo». Nel capitolo 13 discuteremo l'evoluzione dell'entropia nel nostro universo osservabile in grande dettaglio, ma in poche parole le cose funzionano nel modo seguente:


1. Nell'universo primordiale, prima della formazione di strutture, la gravità ha poco effetto sull'entropia. L'universo è simile a un recipiente pieno di gas, e si possono usare le formule convenzionali della termodinamica per calcolarne l'entropia. L'entropia totale contenuta nello spazio corrispondente al nostro universo osservabile era inizialmente circa 10^88.

2. Quando si arriva al livello attuale nell'evoluzione dell'universo, la gravità è ormai divenuta molto importante. In questo regime non abbiamo una formula ferrea, ma possiamo lo stesso stimare l'entropia totale sommando i contributi dei buchi neri (dotati di quantità enormi di entropia). Un buco nero supermassivo ha un'entropia dell'ordine di 10^90, e ci sono circa 10^11 buchi neri di quel tipo nell'universo osservabile; l'entropia totale oggi vale quindi circa 10^101.

3. Ma c'è ancora molta strada da fare. Se prendessimo tutta la materia dell'universo osservabile e la raccogliessimo in un unico buco nero, questo avrebbe un'entropia di 10^120 Questo può essere interpretato come il valore massimo che può assumere l'entropia se si rimescola la materia nell'universo, ed è questa la direzione in cui stiamo andando.


La nostra sfida è spiegare questa storia. In particolare, perché l'entropia iniziale, 10^88, era così bassa rispetto all'entropia massima possibile, 10^120? Notiamo che la prima è molto, ma molto minore della seconda: se a prima vista non sembra così, è grazie alla potenza della notazione esponenziale.

La buona notizia è che almeno il modello del big bang ci fornisce un contesto nel quale possiamo inquadrare la domanda in maniera sensata. All'epoca di Boltzmann, quando non era stata ancora formulata la relatività generale e non si sapeva dell'espansione dell'universo, il problema dell'entropia era ancora più arduo, perché non esisteva un evento come «l'inizio dell'universo» (ma nemmeno «l'inizio dell'universo osservabile»). Noi, invece, siamo in grado di individuare esattamente quando l'entropia era bassa, e la forma particolare assunta dallo stato di bassa entropia; è un passo fondamentale nel tentativo di spiegare perché le cose siano andate così.

Naturalmente, è possibile che le leggi fondamentali della fisica non siano reversibili (anche se più avanti vedremo argomentazioni contro questa ipotesi). Ma se lo sono, la bassa entropia dell'universo in prossimità del big bang ci lascia essenzialmente due possibilità:


1. Il big bang fu davvero l'inizio dell'universo, l'istante in cui cominciò il tempo. Questo può essere perché le vere leggi della fisica permettono allo spazio-tempo di avere un confine, o perché ciò che chiamiamo «tempo» è in realtà solo un'approssimazione, che cessa di essere valida in prossimità del big bang. In entrambi i casi, l'universo ha avuto inizio in uno stato di bassa entropia per ragioni che esulano completamente dalle leggi dinamiche della natura per spiegare lo stato iniziale – ci serve un nuovo principio indipendente.

2. Non esiste uno stato iniziale, perché il tempo è eterno. In questo caso immaginiamo che il big bang non rappresenti l'inizio dell'intero universo, pur essendo un evento importante nella storia della nostra regione locale. In qualche modo la nostra porzione osservabile di spazio-tempo deve far parte di un quadro più esteso. E il modo in cui vi si incastra deve spiegare perché l'entropia era bassa a un'estremità del tempo, senza che questo imponga condizioni speciali sull'ambiente più grande.


Quanto a quale delle due sia la descrizione corretta del mondo, l'unica risposta possibile è che non lo sappiamo. Io confesso di avere una particolare preferenza per la seconda, perché penso che sarebbe più elegante se il mondo fosse descritto come risultato quasi inevitabile di un insieme di leggi dinamiche, senza bisogno di un principio aggiuntivo che spieghi perché ha l'aspetto che ha. Per trasformare questo vago scenario in un modello cosmologico vero e proprio sarà necessario approfittare della misteriosa energia del vuoto che domina il nostro universo. Per arrivarci dovremo acquisire una conoscenza più approfondita dello spazio-tempo curvo e della relatività, che è quanto ci accingiamo a fare.

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I BUCHI NERI NON HANNO PELI


Ma per quanto sia divertente andare a scovare veri buchi neri nell'universo, lo è ancora di più sedersi e cercare di immaginarli lavorando di fantasia. I buchi neri sono il miglior laboratorio mentale per chiunque sia interessato alla gravità. E ciò che li rende speciali è la loro purezza.

Se da un lato le osservazioni ci convincono dell'esistenza dei buchi neri, dall'altro non ci danno molte informazioni sulle loro proprietà; non possiamo certo avvicinarci a un buco nero e «toccarlo». Perciò quando facciamo affermazioni convinte riguardo a questa o quella loro caratteristica, stiamo sempre implicitamente parlando all'interno di un preciso ambito teorico. Purtroppo gli scienziati non capiscono ancora del tutto la gravità quantistica, la presunta riconciliazione finale tra la relatività generale e i dogmi della meccanica quantistica, e quindi non disponiamo di un'unica teoria corretta che risponde alle nostre domande una volta per tutte.

Quello che spesso si fa, invece, è di cercare risposte all'interno di tre ambiti teorici distinti:


1. La relatività generale classica, così come è stata scritta da Einstein. Θ la migliore teoria completa della gravità che possediamo al momento, ed è del tutto compatibile con i dati sperimentali noti. Capiamo la teoria perfettamente, nel senso che ogni domanda ben posta ha una risposta definita (anche se può risultare impossibile da calcolare per le nostre capacità). Purtroppo non è corretta, essendo completamente classica anziché quantomeccanica.

2. La meccanica quantistica nello spazio curvo. Questo è un ambito dalla doppia personalità: trattiamo infatti lo spazio-tempo, lo sfondo su cui si muovono le cose, come classico e soggetto alle regole della relatività generale; ma trattiamo «le cose» come quantistiche, descritte da funzioni d'onda. Si tratta di un compromesso utile per cercare di capire un certo numero di problemi reali.

3. La gravità quantistica. Non conosciamo la teoria corretta della gravità quantistica, per quanto certi approcci, come la teoria delle stringhe, sembrino molto promettenti. Non siamo completamente spaesati, sappiamo qualcosa di come funziona la relatività e qualcosa di come funziona la meccanica quantistica. Questo spesso basta a fare congetture ragionevoli su come dovrebbero funzionare le cose in una teoria finale della gravità quantistica, anche se non disponiamo della teoria completa.


La relatività generale classica è la meglio capita delle tre, mentre la meno capita è la gravità quantistica, che però è quella più vicina al mondo reale. La meccanica quantistica nello spazio-tempo curvo rappresenta una giudiziosa via di mezzo, ed è l'approccio che seguì Hawking per studiare la radiazione dei buchi neri. Ma prima di avventurarci in idee più avanzate ma speculative, è opportuno capire come funzionano i buchi neri nel contesto relativamente solido della relatività generale.

Nella relatività generale classica, un buco nero è più o meno il più puro tipo di campo gravitazionale che si possa avere. Nel flessibile mondo degli esperimenti mentali possiamo immaginare di creare un buco nero in molti modi: a partire da una palla di gas come quella che costituisce una normale stella, o da un enorme pianeta d'oro massiccio, o da un'enorme palla di gelato. Ma una volta che questi oggetti collassano al punto in cui il loro campo gravitazionale diventa talmente intenso da non lasciar più sfuggire nulla – una volta che sono ufficialmente divenuti buchi neri –, qualunque indicazione sul tipo di materia di cui erano inizialmente fatti scompare completamente. Un buco nero fatto a partire da una palla di gas di massa pari a quella del Sole è indistinguibile da un buco nero fatto a partire da una palla di gelato della stessa massa. Il buco nero, secondo la relatività generale, non è solo una versione molto più concentrata dell'oggetto da cui siamo partiti. Θ puro campo gravitazionale – il materiale originario è sparito nella singolarità, e quel che rimane è una regione a forte curvatura spaziotemporale.

Quando pensiamo al campo gravitazionale della Terra possiamo iniziare descrivendo il pianeta come una sfera perfetta di massa e raggio dati. Ma è chiaramente solo un'approssimazione. Se vogliamo essere un po' più precisi, possiamo tener conto del fatto che la Terra ruota su sé stessa, ed è quindi allargata all'equatore e schiacciata ai poli. E se vogliamo essere estremamente precisi, il valore esatto del campo gravitazionale cambia da un punto all'altro in modo molto complicato: variazioni in altitudine della superficie terrestre, variazioni di densità tra terraferma e acque o tra diversi tipi di roccia causano variazioni piccole ma misurabili del campo gravitazionale. Tutte le caratteristiche locali del campo gravitazionale terrestre in realtà contengono un bel po' di informazioni.

I buchi neri non sono così. Una volta che si sono formati, qualunque bozzo o increspatura presente nell'oggetto originale viene completamente cancellato. Durante la formazione di un buco nero ci può essere una breve fase di assestamento, ma ben presto il sistema diventa uniforme e liscio. Ci sono tre cose che possiamo misurare di un buco nero, una volta che si è stabilizzato: la massa totale, la velocità di rotazione e la carica elettrica (i veri buchi neri astrofisici hanno di solito una carica elettrica vicina allo zero, ma spesso ruotano molto rapidamente su sé stessi). Nient'altro. Due porzioni di materia con la stessa massa, carica e momento angolare, una volta trasformati in buchi neri diventano completamente indistinguibili, dal punto di vista della relatività generale. Questa interessante previsione è riassunta in un arguto motto coniato da John Wheeler (lo stesso che ha inventato il termine «buco nero»): «I buchi neri non hanno peli».

Questa storia dell'assenza di peli dovrebbe far suonare un campanello d'allarme. Apparentemente se tutto quello che abbiamo detto è vero, il processo di formazione di un buco nero ha una conseguenza clamorosa: si perdono informazioni. Possiamo prendere due condizioni iniziali di tipo molto diverso (una massa solare di gas caldo, o una massa solare di gelato) e le due possono evolversi esattamente nella stessa condizione finale (un buco nero di una massa solare). Ma fino a ora abbiamo ripetuto che le leggi microscopiche della fisica – di cui fa presumibilmente parte l'equazione di Einstein della relatività generale — hanno la proprietà di conservare l'informazione. Detto in altri termini: la formazione di un buco nero sembra un processo irreversibile, anche se l'equazione di Einstein sembrerebbe perfettamente reversibile.

Θ proprio quel che sembra: un problema di freccia del tempo. Nell'ambito della relatività generale classica c'è una via d'uscita: possiamo dire che l'informazione non va davvero persa: è solo persa per noi, essendo nascosta oltre l'orizzonte degli eventi del buco nero. Decidete da voi se vi sembra una spiegazione soddisfacente o una scappatoia. In ogni caso non possiamo fermarci qui, dal momento che, come ci svelerà Hawking, i buchi neri evaporano, se si tiene conto della meccanica quantistica. Siamo quindi di fronte a un problema serio, un problema che ha generato un migliaio di articoli di fisica teorica.

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Quando le particelle diventano molto energetiche e cominciano a muoversi a velocità prossime a quella della luce, non è più possibile ignorare la lezione della relatività. Per prima cosa l'energia di due particelle che collidono può diventare così elevata da permettere la creazione di nuove particelle, grazie al miracolo di E = mc^2. Decenni di sforzi da parte dei fisici teorici hanno portato al formalismo che concilia correttamente la meccanica quantistica con la relatività speciale, chiamato «teoria quantistica dei campi».

L'idea di fondo della teoria quantistica dei campi è semplice. Il mondo è fatto di campi, e quando si osserva la funzione d'onda di questi campi si vedono particelle. Diversamente dalle particelle, che esistono in un certo punto, un campo esiste ovunque nello spazio: il campo elettrico, quello magnetico e quello gravitazionale sono esempi familiari. In ogni punto dello spazio ogni campo esistente ha un particolare valore (che però può essere zero). Secondo la teoria quantistica dei campi tutto è campi — c'è un campo di elettrone, diversi campi di quark, eccetera. Ma quando guardiamo i campi, vediamo particelle. Quando guardiamo il campo elettrico o magnetico, per esempio, vediamo fotoni, le particelle dell'elettromagnetismo: un campo elettromagnetico che oscilla debolmente ci appare come un piccolo numero di fotoni, mentre se le vibrazioni sono molto ampie il corrispondente numero di fotoni è elevato.

La teoria quantistica dei campi concilia la meccanica quantistica con la relatività speciale, ed è una cosa ben diversa dalla «gravità quantistica», che concilierebbe invece la meccanica quantistica con la relatività generale, ossia con la teoria della gravità e della curvatura dello spazio-tempo. Nella teoria quantistica dei campi si immagina lo spazio-tempo come perfettamente classico, che sia curvo o no; i campi sono soggetti alle regole della meccanica quantistica, mentre lo spazio-tempo funge da sfondo fissato. Nella gravità quantistica completa si immagina invece che anche lo spazio-tempo abbia una funzione d'onda e sia completamente quantistico. Hawking scelse il contesto della teoria dei campi quantistica in uno spazio-tempo fissato.

La teoria dei campi non è un settore di cui Hawking era esperto; sebbene venga spesso messa assieme alla relatività generale nella categoria delle «teorie altisonanti della fisica moderna apparentemente imperscrutabili ai profani», si tratta di un'area della fisica molto diversa, e chi è esperto in uno dei due settori può non saperne molto dell'altro. Dunque Hawking si mise a studiare. Sir Martin Rees, uno dei maggiori astrofisici teorici al mondo e attualmente Astronomo Reale d'Inghilterra, era all'epoca un giovane studioso a Cambridge; come Hawking, aveva ricevuto qualche anno prima il diploma di dottorato sotto la guida di Dennis Sciama. Hawking era già seriamente disabilitato dalla malattia: chiedeva un libro di teoria quantistica dei campi, e Rees glielo metteva davanti. Mentre Hawking fissava il libro in silenzio per ore di seguito, Rees si chiedeva se il fardello della sua condizione non fosse ormai diventato davvero eccessivo.

Per nulla. Hawking stava applicando il formalismo della teoria quantistica dei campi al problema della radiazione dei buchi neri. Sperava di ricavare una formula che riproducesse i risultati di Zel'dovič e Starobinskij per i buchi neri rotanti, ma continuava a trovare qualcosa di incredibile. La teoria dei campi sembrava implicare che anche i buchi neri non rotanti dovessero irraggiare. Anzi, dovevano irraggiare esattamente come un sistema in equilibrio termico a una data temperatura, che in questo caso sarebbe proporzionale alla gravità superficiale, proprio come nell'analogia menzionata sopra tra buchi neri e termodinamica.

Hawking, con sua grande sorpresa, aveva dimostrato che Bekenstein aveva ragione. I buchi neri si comportano davvero come normali oggetti termodinamici. Questo significa, tra l'altro, che l'entropia di un buco nero è realmente proporzionale all'area del suo orizzonte degli eventi: quel legame non è solo una coincidenza divertente. Il calcolo di Hawking, anzi (a differenza dell'argomentazione di Bekenstein) permise di individuare l'esatta costante di proporzionalità: 1/4. Vale a dire, se LP è la lunghezza di Planck, e dunque LP^2 l'area di Planck, l'entropia di un buco nero è 1/4 dell'area dell'orizzonte degli eventi misurata in aree di Planck:

               A
    S    =  -------
     BH      4 L ^2
                P

dove BH sta, secondo i gusti, per black hole («buco nero») o per Bekenstein-Hawking. Questa formula è l'indizio più importante che possediamo riguardo alla conciliazione tra gravitazione e meccanica quantistica. E dato che se vogliamo capire perché l'entropia era bassa in prossimità del big bang, dobbiamo prima capire qualcosa su entropia e gravità, questo è un logico punto di partenza.

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LA STORIA FUTURA



                        Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi sgomenta.

                                                        BLAISE PASCAL, Pensieri



Nel corso di questo libro abbiamo esplorato il significato della freccia del tempo, implicata dal secondo principio della termodinamica, e il suo legame con la cosmologia e con l'origine dell'universo. A questo punto abbiamo abbastanza materiale per tirare le conclusioni e affrontare una volta per tutte la domanda: perché l'entropia dell'universo osservabile era bassa in tempi remoti? (O meglio ancora, per cedere all'uso di un linguaggio asimmetrico fin dall'inizio: perché viviamo nelle vicinanze temporali di uno stato di entropia estremamente bassa?).

Affronteremo la domanda, ma la risposta non la conosciamo. Ci sono idee, alcune più promettenti di altre, ma sono tutte piuttosto vaghe, e sicuramente non abbiamo ancora messo insieme tutti i pezzi del mosaico. Θ un compito che spetterà a voi. In realtà questa è la parte più entusiasmante della scienza — quando si sono messi insieme alcuni indizi, e alcune idee promettenti, ma si è ancora nella fase di ricerca delle risposte definitive. La speranza è che le prospettive abbozzate in questo capitolo servano da guida ai cosmologi qualunque sia la direzione in cui si avventureranno nei loro prossimi tentativi di affrontare queste fondamentali questioni.

A costo di essere ripetitivi rivediamo il problema un'ultima volta, in modo da stabilire che cosa intendiamo per soluzione accettabile.


Tutte le manifestazioni macroscopiche della freccia del tempo — le uova che diventano frittate ma non viceversa, la tendenza del latte a mischiarsi al caffè e a non separarsi mai spontaneamente, il fatto che ricordiamo il passato ma non il futuro — possono essere ricondotte alla tendenza dell'entropia a crescere, in accordo con il secondo principio della termodinamica. Negli anni Settanta del diciannovesimo secolo Boltzmann spiegò le origini microscopiche del secondo principio: l'entropia conta il numero di microstati corrispondenti a ciascun macrostato, dunque se partiamo (per qualunque motivo) da uno stato di entropia relativamente bassa, c'è una schiacciante probabilità che l'entropia cresca in futuro. Tuttavia, grazie alla fondamentale reversibilità delle leggi della fisica, se l'unica cosa su cui ci basiamo è il fatto che lo stato attuale è di bassa entropia, ci aspetteremmo in modo altrettanto legittimo che l'entropia sia stata maggiore in passato. Il mondo reale non sembra funzionare in questo modo, pertanto ci serve qualcos'altro su cui basarci. Il qualcos'altro è l'Ipotesi sul passato, ossia il presupporre che l'universo primordiale si trovasse in uno stato di entropia estremamente bassa, e che oggi noi stiamo assistendo al ritorno verso uno stato di entropia alta. La questione del perché valga l'Ipotesi sul passato appartiene al campo della cosmologia. Il principio antropico è purtroppo inadatto allo scopo, giacché potremmo benissimo trovarci a esistere come fluttuazioni casuali (cervelli di Boltzmann) in un universo di de Sitter peraltro completamente vuoto. Analogamente, l'inflazione da sola non risolve la questione, perché richiede un punto di partenza di entropia ancora più bassa rispetto alla cosmologia convenzionale del modello a big bang. Dunque la domanda rimane: perché nella nostra regione osservabile di universo vale l'Ipotesi sul passato?

Vediamo di riuscire a fare qualche passo avanti su questo.

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EPILOGO



                            Guarda il mondo come se il tempo non esistesse più,
                            e tutto ciò che è storpio ti apparirà retto.

                                                            FRIEDRICH NIETZSCHE



Diversamente da molti altri autori, non ho avuto alcuna difficoltà nello scegliere il titolo di questo libro. Una volta inventato, Dall'eternità a qui mi è sembrato irresistibile. I richiami erano perfetti: da un lato un classico del cinema (tratto da un classico della letteratura), con quella scena iconica in cui le indomite onde del Pacifico si infrangono attorno agli amanti Deborah Kerr e Burt Lancaster colti in un abbraccio appassionato; dall'altro, la grandiosità cosmologica implicata dalla parola eternità.

Ma il titolo è anche più appropriato di quanto possano suggerire queste considerazioni superficiali. Il libro non è solo sull'«eternità»; è anche sul «qui». Il dilemma della freccia del tempo non inizia con telescopi giganteschi o potenti acceleratori di particelle. Si presenta in cucina, ogni volta che rompiamo un uovo in padella. O mescoliamo il latte nel caffè, mettiamo un cubetto di ghiaccio nell'acqua tiepida, rovesciamo del vino sul tappeto, diffondiamo un profumo in una stanza, mescoliamo un mazzo di carte nuovo, trasformiamo un delizioso pasto in energia biologica, viviamo un'esperienza che ci lascia un ricordo indelebile, o diamo alla luce una nuova generazione. Tutti questi eventi comuni sono caratterizzati da quella fondamentale irreversibilità che è il marchio di fabbrica della freccia del tempo.

La catena di ragionamenti iniziata con un tentativo di comprendere quella freccia ci ha portato inevitabilmente alla cosmologia — all'eternità. Boltzmann ci ha fornito un'elegante e convincente descrizione microscopica dell'entropia in termini di meccanica statistica. Ma quella descrizione non spiega il secondo principio della termodinamica a meno che non si postuli anche una condizione iniziale — perché mai l'entropia era inizialmente bassa? L'entropia di un uovo integro è molto minore del valore massimo che potrebbe avere, ma ciò nonostante tali uova sono piuttosto comuni, perché l'entropia globale dell'universo è molto minore di quella che potrebbe essere. E questo perché in passato era ancora più bassa, e il suo valore diminuiva costantemente risalendo verso l'inizio di tutto ciò che possiamo osservare. Ciò che accade qui, nella nostra cucina, è intimamente connesso a ciò che accadde all'inizio della storia dell'universo.

Scienziati come Galileo, Newton e Einstein sono celebri perché hanno proposto leggi della fisica che nessuno aveva immaginato prima. Ma i loro risultati hanno anche qualcos'altro in comune: sottolineano l' universalità della natura. Ciò che accade qui accade ovunque: per usare le parole di Richard Feynman , «se osservassimo un bicchiere di vino abbastanza da vicino, vedremmo l'intero universo». Galileo mostrò che i cieli sono caotici e in perenne divenire, proprio come le condizioni qui sulla Terra; Newton comprese che la medesima legge di gravità che spiegava la caduta delle mele poteva spiegare anche il moto dei pianeti; Einstein , infine, si rese conto che lo spazio e il tempo sono aspetti differenti di un'entità unificata, lo spazio-tempo, la cui curvatura è alla base della dinamica del sistema solare e della nascita dell'universo.

Analogamente, le regole che governano l'entropia e il tempo sono le stesse nella nostra vita quotidiana e nelle più remote regioni del multiverso. Non conosciamo ancora tutte le risposte, ma siamo sul punto di fare grandi passi avanti su alcuni degli interrogativi principali.


QUAL Θ LA RISPOSTA?

Nel corso del libro abbiamo amorevolmente esplorato le nostre conoscenze sul funzionamento del tempo, sia nel levigato contesto deterministico della relatività e dello spazio-tempo, sia nello scompigliato mondo probabilistico della meccanica statistica. Siamo da ultimo approdati alla cosmologia, osservando come le migliori teorie sull'universo di cui disponiamo si rivelino incomplete in maniera imbarazzante quando vengono messe di fronte alla caratteristica più evidente dell'universo, ossia la differenza di entropia tra i primi istanti e quelli recenti. Poi, dopo avere analizzato in dettaglio i problemi per quattordici capitoli, abbiamo dedicato un unico scarno capitolo alle possibili soluzioni, senza essere in grado di difenderne alcuna a piena voce.

La cosa può sembrare frustrante, ma la ripartizione degli argomenti è stata assolutamente intenzionale. Capire una caratteristica enigmatica del mondo naturale è un processo che può attraversare molti stadi intermedi - si può brancolare nel buio totale, si può aver capito come formulare il problema senza però avere alcuna idea sulla soluzione, si possono avere a disposizione diverse proposte di soluzione senza sapere se ce ne sia una corretta e quale, o possiamo aver capito tutto. La freccia del tempo si colloca tra il secondo e il terzo di questi casi: sappiamo formulare il problema in maniera molto chiara, ma abbiamo solo poche vaghe idee su quale possa essere la soluzione.

In una situazione di questo genere è giusto soffermarsi sulla comprensione del problema, piuttosto che fissarsi troppo su qualcuna delle soluzioni possibili. Tra un secolo quasi tutto ciò di cui abbiamo parlato nelle prime tre parti del libro dovrebbe essere ancora valido. La relatività poggia su basi ben salde, e lo stesso vale per la meccanica quantistica e l'intelaiatura della meccanica statistica. Siamo anche sicuri di quel che abbiamo capito sull'evoluzione di base dell'universo, almeno a partire da circa un minuto dopo il big bang fino a oggi. Ma le nostre attuali idee sulla gravità quantistica, sul multiverso, e su quanto accaduto prima del big bang sono ancora molto speculative. Potrebbero diventare teorie robuste, ma molte potrebbero venire invece abbandonate del tutto. A questo punto è più importante capire bene la mappa del territorio che battibeccare su quale sia la strada migliore da prendere per attraversarlo.

Il nostro universo non è una fluttuazione a partire da uno sfondo in equilibrio, perché avrebbe un aspetto molto diverso. E non sembra che le leggi fondamentali della fisica siano irreversibili a livello microscopico — o, se lo sono, è molto difficile vedere come possano spiegare l'evoluzione dell'entropia e della complessità che osserviamo nell'universo. Una condizione al contorno fissata all'inizio del tempo è impossibile da escludere, ma sembra anche un modo per aggirare il problema anziché risolverlo. Potrebbe rivelarsi la cosa migliore che sappiamo fare, ma il mio sospetto è che la bassa entropia iniziale del nostro universo sia un indizio di qualcosa di più profondo, non un semplice dato di fatto che possiamo solo accettare.

Ci rimane la possibilità che il nostro universo osservabile sia parte di una struttura molto più vasta, il multiverso. Collocando ciò che vediamo in un insieme molto più ampio, apriamo la possibilità di spiegare il nostro inizio apparentemente calibrato senza imporre una calibrazione fine all'universo nel suo complesso. Questa mossa non è sufficiente, naturalmente; dobbiamo dimostrare perché ci debba essere un gradiente di entropia persistente, e perché quel gradiente si manifesti in un universo simile al nostro e non di tipo diverso.

Abbiamo discusso un modello specifico a cui sono particolarmente legato: un universo prevalentemente costituito da uno spazio di de Sitter ad alta entropia, che però dà origine a universi-baby sconnessi, permettendo all'entropia di crescere senza limiti e di creare regioni di spazio-tempo simili a quella che ci circonda. I dettagli di questo modello sono altamente speculativi e fanno affidamento su ipotesi che, per dirla in maniera delicata, si spingono oltre ciò che lo stato delle conoscenze attuali ci permette di calcolare in maniera attendibile. Più importante, a mio avviso, è il paradigma generale secondo cui si osserva l'entropia aumentare perché ha sempre la possibilità di aumentare, ossia non esiste uno stato di equilibrio dell'universo. Questo allestimento porta naturalmente a un gradiente di entropia, ed è naturalmente simmetrica per inversione temporale rispetto a un istante di entropia minima (anche se non necessariamente «bassa»). Sarebbe interessante vedere se ci sono altri modi di mettere in atto questo programma generale.

C'è anche un altro modo di vedere le cose, che aleggia sullo sfondo e a cui abbiamo di tanto in tanto fatto cenno, senza tuttavia mai dargli piena ed esclusiva attenzione: l'idea cioè che il «tempo» stesso sia un'approssimazione utile in alcuni casi, compreso il nostro universo, ma priva di un significato fondamentale. Θ una possibilità perfettamente legittima. La lezione del principio olografico, unita alla sensazione generale che gli ingredienti di base di una teoria quantistica possono apparire molto diversi da ciò che si manifesta nel regime classico, rendono ragionevole immaginare che il tempo possa essere un fenomeno emergente anziché una parte necessaria della descrizione ultima del mondo.

Una ragione della scarsa enfasi data in questo libro all'alternativa suddetta è che non sembra ci sia molto da dire al riguardo, per lo meno allo stato attuale delle nostre conoscenze. Anche giudicando dal nostro punto di vista finora piuttosto indulgente, il modo in cui il tempo possa emergere da una descrizione più fondamentale non è certo ben capito. Ma c'è anche una ragione più convincente: anche se il tempo è solo un'approssimazione, è pur sempre un'approssimazione che appare estremamente buona nella parte di universo che possiamo osservare, cioè proprio dove sussiste il problema della freccia del tempo. Certo, possiamo immaginare che la validità dello spazio-tempo classico come concetto utile venga completamente a mancare in prossimità del big bang. Ma questo, in sé, non ci dice nulla sul perché le condizioni a quell'estremo del tempo (quello che chiamiamo «passato») debbano essere così diverse da quelle all'altro capo (il «futuro») nella nostra regione osservabile. A meno che non si dica: «Il tempo è un concetto solo approssimato, e dunque l'entropia dovrebbe comportarsi così e così nel regime in cui è lecito parlare di tempo», questa alternativa sembra più una manovra evasiva che una strategia valida. Ma questa è in gran parte un'affermazione di ignoranza da parte nostra; è certamente possibile che la risposta finale sia in questa direzione.


IL CIRCOLO EMPIRICO

I pionieri della termodinamica – Carnot, Clausius e altri – erano spinti da desideri pratici: tra le altre cose, volevano costruire macchine a vapore migliori. Partendo dalle loro intuizioni siamo arrivati direttamente alle grandiose speculazioni sull'esistenza di altri universi oltre al nostro. La domanda cruciale è: come torniamo indietro? Se anche il nostro universo ha una freccia del tempo perché appartiene a un multiverso con entropia illimitata, come facciamo a dimostrarlo?

Gli scienziati sono terribilmente orgogliosi della natura empirica di ciò che fanno. Le teorie scientifiche non vengono accettate perché sono logiche o belle, o perché conseguono qualche obiettivo filosofico ambito dallo scienziato. Queste possono essere le ragioni per cui una teoria viene proposta – ma l'accettazione comporta requisiti ben più stringenti. Le teorie scientifiche devono, alla fine della fiera, quadrare con i dati. Non importa quanto sia convincente una teoria: se non è in accordo con i dati rimane una curiosità, non un risultato scientifico.

Ma questo criterio dell'«accordo con i dati» è più scivoloso di quel che sembra a prima vista. Per cominciare, i dati possono essere compatibili con un sacco di teorie molto diverse tra loro; in secondo luogo, una teoria molto promettente potrebbe non essere perfettamente compatibile con i dati allo stato attuale del suo sviluppo, anche se ha un nucleo di verità. A un livello più sottile, una teoria potrebbe descrivere apparentemente i dati in maniera perfetta, ma condurre a un vicolo cieco concettuale o a una incoerenza intrinseca, mentre un'altra teoria, che non descrive per niente bene quei dati, potrebbe svilupparsi in qualcosa di più accettabile. Dopo tutto, indipendentemente da quanti dati raccogliamo, abbiamo eseguito solo una piccola parte di tutti gli esperimenti possibili. Come facciamo, allora, a scegliere?

La realtà di come si fa scienza non si può ridurre a pochi semplici slogan. Il problema di distinguere tra ciò che è scienza e ciò che non lo è è abbastanza spinoso da meritarsi un nome, quello di problema della demarcazione. I filosofi della scienza si divertono un mondo a discutere fino a notte fonda sul modo corretto di risolverlo.

Sebbene l'obiettivo di una teoria scientifica sia l'accordo con i dati, la peggiore teoria scientifica in assoluto è quella in accordo con tutti i dati possibili. Il vero obiettivo, infatti, non è semplicemente quello di «essere in accordo» con ciò che vediamo nell'universo, ma di spiegare ciò che vediamo. E si può spiegare ciò che si vede solo se si capisce perché le cose sono come sono e non in un altro modo. In altri termini, la teoria deve dire che certe cose non accadono mai — altrimenti non dice molto.

Questa idea è stata propugnata in maniera molto forte da Karl Popper , secondo il quale la caratteristica importante di una teoria scientifica non è di essere «verificabile», bensì di essere «falsificabile»? Questo non significa che ci devono essere dati che contraddicono la teoria – solo che la teoria deve fare chiare previsioni che possano, in linea di principio, essere contraddette da qualche esperimento che si può immaginare di realizzare. La teoria deve esporsi al rischio, altrimenti non è scientifica. Popper aveva in mente la teoria della storia di Karl Marx e la teoria psicanalitica di Sigmund Freud. Queste importanti costruzioni intellettuali, secondo lui, non avevano affatto lo statuto di teoria scientifica reclamato dai rispettivi autori. Popper pensava che si potrebbe prendere qualunque cosa che accade nel mondo, o qualunque comportamento umano, e inventare una «spiegazione» rifacendosi a Marx o Freud – mentre non si sarebbe mai in grado di indicare un evento osservato e dire: «Ecco, questo non c'è modo di renderlo compatibile con quelle teorie». Egli contrapponeva quelle costruzioni alla teoria della relatività di Einstein, che, pur apparendo altrettanto misteriosa all'uomo della strada, faceva previsioni precise che (se gli esperimenti avessero avuto un esito diverso) avrebbero potuto falsificarla.


IL MULTIVERSO NON Θ UNA TEORIA

Tutto ciò dove colloca il multiverso? Noi siamo qui, convinti di star facendo scienza, nel tentativo di «spiegare» la freccia del tempo che osserviamo nel nostro universo postulando l'esistenza di un'infinita pletora di altri universi non osservabili. Come può essere falsificabile questa congettura? Non sorprende che queste teorizzazioni speculative riguardanti cose non osservabili facciano storcere la bocca a molti scienziati. Se non puoi fare una predizione specifica che io possa immaginare di falsificare con un esperimento, dicono, quel che fai non è scienza. Θ filosofia, al limite, e nemmeno tanto buona.

Ma la verità, come accade spesso, è un po' più complicata. Tutto questo discorso dei multiversi può benissimo rivelarsi un vicolo cieco. Tra un secolo, i nostri successori forse scuoteranno la testa pensando a tutto lo sforzo intellettuale sprecato per capire che cosa sia accaduto prima del big bang, proprio come facciamo noi pensando a tutto il lavoro speso sull'alchimia o sulla teoria del calorico. Ma non sarà a causa dell'abbandono della retta via della scienza da parte dei cosmologi del nostro tempo; sarà piuttosto (se le cose andranno così) perché la teoria in questione non si sarà rivelata quella corretta.

Ci sono due punti che vale la pena sottolineare riguardo al ruolo delle cose inosservabili nella scienza. Innanzitutto, è sbagliato pensare che l'obiettivo della scienza sia quello di descrivere semplicemente i dati. Lo scopo della scienza è più profondo, ed è quello di capire il comportamento del mondo naturale. All'inizio del Seicento, Keplero propose le sue tre leggi del moto planetario, che descrivevano correttamente l'enorme mole di dati astronomici raccolti dal suo mentore Tycho Brahe. Ma la dinamica dei pianeti non fu veramente compresa finché Isaac Newton non ebbe dimostrato che tutto poteva essere spiegato in termini di una semplice legge di inverso del quadrato della distanza per la gravità. Analogamente, non è necessario cercare oltre il big bang per capire l'evoluzione del nostro universo osservabile; ci basta specificare com'erano le condizioni nei primi istanti, e finirla lì. Ma questa è una strategia che ci impedisce di capire perché le cose stavano in quel modo.

Una logica simile sarebbe stata contro la necessità di una teoria dell'inflazione, la quale ha solo preso cose che sapevamo già essere vere riguardo all'universo (la piattezza, l'uniformità, l'assenza di monopoli) e ha cercato di spiegarle in termini di semplici regole di fondo. Non ce n'era bisogno, avremmo potuto accettare le cose come stavano. Ma come conseguenza del nostro desiderio di far meglio e di arrivare a capire l'universo anziché limitarsi ad accettarlo, abbiamo scoperto che l'inflazione ci dà più di quel che avevamo richiesto: una teoria sull'origine e la natura delle perturbazioni primordiali che si sono evolute in galassie e strutture su larga scala. Θ questo il vantaggio di ricercare per capire, anziché accontentarsi di descrivere i dati: la vera comprensione ci porta dove non sapevamo di voler andare. Se un giorno capiremo perché l'universo primordiale aveva bassa entropia, possiamo star sicuri che il meccanismo di base ci insegnerà molto più di un singolo fatto.

Il secondo punto è ancor più importante, anche se può sembrare banale: la scienza è qualcosa di complicato e turbolento. Non cesserà mai di esser vero che la base della scienza è empirica: siamo guidati dai dati, non dalla pura ragione. Ma per arrivare a farci guidare dai dati usiamo ogni tipo di indizi e gusti personali non empirici nel costruire modelli e nel confrontarli tra loro. Non c'è nulla di sbagliato in questo. Il fatto che il prodotto finale debba essere giudicato sulla base dell'accordo con i dati non significa che tutti i passaggi intermedi debbano godere di un contatto intimo e dettagliato con l'esperimento.

Più nello specifico: il multiverso non è una «teoria». Se lo fosse, sarebbe perfettamente lecito criticarla sulla base della difficoltà di immaginare possibili verifiche sperimentali. Il modo corretto di interpretare il multiverso è quello di una predizione. La teoria – nello stato incompleto in cui è ora – è l'unione tra i principi che soggiacciono alla teoria quantistica dei campi e le nostre conoscenze basilari sul funzionamento di uno spazio-tempo curvo. Partendo da queste premesse non ci limitiamo a teorizzare che l'universo possa aver subito un periodo di accelerazione superveloce, ma prediciamo che l'inflazione deve verificarsi, se un campo quantistico di inflatone con le proprietà opportune si viene a trovare nello stato opportuno. Analogamente, non ci limitiamo a dire: «Non sarebbe fantastico se ci fosse un numero infinito di universi distinti?», bensì prediciamo, sulla base di ragionevoli estrapolazioni della gravità e della teoria quantistica dei campi, che un multiverso deve esistere davvero.

La predizione che noi viviamo in un multiverso non è verificabile, per quanto ne sappiamo (anche se non si sa mai... non sarebbe la prima volta che agli scienziati vengono idee geniali). Ma non è questo il punto. Il multiverso fa parte di una struttura più vasta e globale. La domanda da porre non è: «Come facciamo a verificare se esiste un multiverso?», ma: «Come possiamo verificare le teorie che predicono l'esistenza di un multiverso?». Al momento non sappiamo come ottenere da queste teorie una previsione falsificabile. Ma non c'è ragione di pensare che sia impossibile farlo, in linea di principio. Certo, ci vorrà ancora molto lavoro da parte dei fisici teorici, prima che queste idee siano sviluppate a un punto tale da permetterci di dire quali saranno queste eventuali previsioni controllabili. Si può essere insofferenti del fatto che queste previsioni non vengano fornite direttamente dall'inizio, ma questo è un gusto personale, non una fondata presa di posizione filosofica.

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LA RICERCA DI UN SIGNIFICATO IN UN UNIVERSO ASSURDO


Nel corso della storia gli esseri umani hanno (com'è naturale) sempre avuto la tendenza a considerare l'universo in termini antropocentrici. Questo anche nel senso letterale di collocare noi stessi al centro geografico dell'universo – un'ipotesi che ha richiesto un certo sforzo per essere scalzata del tutto. Dall'accettazione del modello eliocentrico del sistema solare in poi, gli scienziati hanno sempre mantenuto il principio copernicano («non occupiamo un punto privilegiato dell'universo») come monito contro la tentazione di riservare a noi stessi un trattamento speciale.

Ma a livello più profondo l'antropocentrismo si manifesta nella convinzione che l'uomo abbia una qualche importanza nell'universo. Questa sensazione è alla base di buona parte delle resistenze in alcuni settori ad accettare la teoria darwiniana della selezione naturale come spiegazione corretta dell'evoluzione della vita sulla Terra. Il bisogno di pensare che noi contiamo qualcosa può prendere la forma di una diretta convinzione che noi siamo (o un certo sottoinsieme di noi sia) il popolo eletto di Dio, oppure di qualcosa di vago come l'insistenza nel sostenere che tutto questo meraviglioso mondo che ci circonda debba essere qualcosa di più di un caso.

Persone diverse hanno diverse definizioni della parola Dio, o diverse idee su quale sia lo scopo della vita umana. Dio può diventare un concetto così astratto e trascendente che i metodi della scienza non hanno nulla da dire al riguardo. Se Dio viene identificato con la Natura, con le leggi della fisica, o con il nostro senso di soggezione quando contempliamo l'universo, il domandarsi se questo concetto rappresenti o no un modo utile di interpretare il mondo esula dall'ambito della ricerca empirica.

C'è tuttavia una tradizione molto diversa, che cerca prove dell'esistenza di Dio nei meccanismi dell'universo fisico. Θ il punto di vista della teologia naturale, che risale a ben prima di Aristotele e arriva a William Paley e alla sua analogia dell'orologiaio, fino ai nostri giorni. La miglior prova a favore della teoria del «disegno» veniva dagli organismi viventi, ma Darwin ha fornito un elegante meccanismo che spiega ciò che prima sembrava inesplicabile. Come risposta, alcuni adepti di questa filosofia hanno spostato il centro della propria attenzione su una cosa in apparenza altrettanto inesplicabile, passando dall'origine della vita a quella del cosmo.

Il modello del big bang, con il suo inizio singolare, sembra offrire un incoraggiamento a chi cerca la mano di Dio nella creazione dell'universo. (Georges Lemaξtre, il sacerdote belga autore del modello del big bang, rifiutò di dargli qualunque connotazione teologica: «Per quel che posso giudicare, questa teoria rimane del tutto estranea a qualsiasi questione metafisica o religiosa»). Nello spazio-tempo newtoniano non c'era nulla di simile alla creazione dell'universo, almeno vista come evento accaduto in un particolare momento: lo spazio e il tempo erano eterni. L'introduzione di un vero e proprio inizio dello spazio-tempo, specialmente se è difficile da capire, crea la tentazione di attribuire a Dio la responsabilità di ciò che è accaduto. Certo, dice il ragionamento, potete trovare leggi dinamiche che governano l'evoluzione dell'universo da un istante all'altro, ma per spiegare la creazione dell'universo stesso bisogna ricorrere a qualcosa di esterno.

Uno degli insegnamenti impliciti di questo libro, che spero di essere riuscito a trasmettere, è che non è una buona idea scommettere contro la capacità della scienza di spiegare qualunque cosa riguardo al mondo, compreso il suo inizio. Quando fu ipotizzato negli anni Venti, il big bang rappresentava un punto oltre il quale la nostra comprensione non arrivava, e ancora oggi le cose stanno così. Non sappiamo esattamente che cosa sia accaduto 14 miliardi di anni fa, ma non c'è alcuna ragione di dubitare che prima o poi lo scopriremo. Gli scienziati stanno attaccando il problema da molte angolazioni diverse. La velocità a cui avanza la conoscenza scientifica è notoriamente difficile da prevedere, ma non è difficile prevedere che la conoscenza avanzerà.

A che punto siamo? Giordano Bruno sosteneva l'esistenza di un universo omogeneo con un numero infinito di stelle e pianeti. Avicenna e Galileo , con la conservazione della quantità di moto, minarono alla base la necessità di un Motore Immobile per spiegare la persistenza del moto. Darwin ha spiegato lo sviluppo delle specie come un processo non guidato di discendenza con modifiche casuali su cui opera la selezione naturale. La cosmologia moderna ipotizza che il nostro universo osservabile possa essere solo uno di un infinito numero di universi all'interno di un vasto multiverso collettivo. Più capiamo dell'universo, più piccoli appariamo noi e più periferica la nostra posizione.

Ma va bene così. Ci ritroviamo non protagonisti centrali nella vita dell'universo, ma minuscoli epifenomeni sviluppatisi per un breve istante sull'onda di un'entropia crescente che va dal big bang al calmo nulla dell'universo futuro. Gli scopi e i significati non si trovano nelle leggi della natura, né nei piani di un agente esterno che ha fatto le cose in quel modo: siamo noi a doverli creare. Tra questi scopi vi è quello che scaturisce dal nostro desiderio di spiegare al nostro meglio il mondo che ci circonda. Se anche le nostre vite sono brevi e prive di guida, possiamo almeno andare fieri del nostro coraggio nella lotta per cercare di capire cose molto più grandi di noi.


I PROSSIMI PASSI

Θ incredibilmente difficile pensare al tempo in maniera chiara. Tutti ne abbiamo dimestichezza, ma il problema è forse che ne abbiamo troppa. Siamo talmente abituati alla freccia del tempo che è difficile concettualizzare il tempo senza la freccia. Siamo portati, senza accorgercene, allo sciovinismo temporale, e favoriamo le spiegazioni del nostro stato attuale in termini del passato rispetto a quelle in termini del futuro. Nemmeno i più esperti tra i cosmologi professionisti ne sono immuni.

Nonostante tutto l'inchiostro versato e tutto il rumore generato dalle discussioni sulla natura del tempo, la mia opinione è che non se ne sia discusso troppo, ma troppo poco. Ma a quanto sembra si sta recuperando. Gli argomenti del tempo, dell'entropia, dell'informazione e della complessità, tutti intrecciati tra loro, interessano una incredibile varietà di discipline intellettuali: fisica, matematica, biologia, psicologia, informatica, arte. Θ tempo di prendere il tempo sul serio, e affrontarne le sfide.

Nella fisica, questo sta cominciando ad accadere. Per buona parte del ventesimo secolo il settore della cosmologia è rimasto piuttosto stagnante; c'erano molte idee, ma pochi dati che permettessero di distinguerle. Una nuova èra di cosmologia di precisione, aperta dalle ricognizioni su larga scala rese possibili dalle nuove tecnologie, ha cambiato tutto questo; vi sono state scoperte straordinarie, e inaspettate, dall'accelerazione dell'universo alla «fotografia» degli istanti primordiali fornitaci dalla radiazione cosmica di fondo. Ora tocca alle idee. Abbiamo suggerimenti interessanti dall'inflazione, dalla cosmologia quantistica e dalla teoria delle stringhe riguardo a come l'universo possa aver avuto inizio e a che cosa possa esserci stato prima. Il nostro compito è trasformare queste idee promettenti in teorie vere e proprie, che si possano confrontare con l'esperimento e conciliare con il resto della fisica.

Predire il futuro non è facile (maledetta l'assenza di una condizione al contorno futura di bassa entropia!). Ma sono ormai stati messi insieme i pezzi necessari perché la scienza compia passi spettacolari verso la risposta agli antichi interrogativi su passato e futuro. Θ tempo di capire qual è il nostro posto nell'eternità.

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