Copertina
Autore Mircea Cartarescu
Titolo Perché amiamo le donne
EdizioneVoland, Roma, 2009, Intrecci 58 , pag. 156, cop.fle., dim. 14,5x20,5x1 cm , Isbn 978-88-6243-032-6
OriginaleDe ce iubim femeile [2004]
CuratoreBruno Mazzoni
LettoreLuca Vita, 2010
Classe narrativa romena
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Indice


La giovane negretta                           7
Per D., vingt annes après                    13
Buccolette                                   19
Sull'intimità                                25
Nabokov a Brasov                             31
La sera che scende                           45
Con le orecchie mogie mogie                  51
Il diavolo di carta                          57
Chi sono io?                                 65
Petrutza                                     73
"...A lovely little Jewish princess..."      81
Incontro a Torino                            87
Amiamo con un cervello da bambino            95
Irish cream                                  99
L'oggetto che m'ispira                      111
Due specie di felicità                      117
Zaraza                                      121
Il libro magico della mia adolescenza       131
Il grande Sincu                             135
La Bomba d'oro                              143
Perché amiamo le donne                      149
Nota finale                                 153


 

 

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Pagina 7

LA GIOVANE NEGRETTA



Invito le distinti lettrici di questo libro a non etichettarmi fin dall'inizio come un tipo pedante solo perché comincerò con una citazione. Nell'adolescenza avevo la stupida abitudine di parlare per citazioni, perciò godevo di una fama piuttosto triste al liceo D. Cantemir. I miei compagni arrivavano in classe con registratori da dieci chili, mettevano la musica a pieno volume e ballavano durante l'ora di francese... Garsonel, il nostro professore mezzo matto, si attorniava di ragazze e diceva loro come tradurre in francese ogni sorta di porcherie... In fondo alla classe un paio di ragazzi sfogliavano riviste porno svedesi... Solo io, che vivevo esclusivamente nel mondo dei libri, mi applicavo e sbattevo sulla lavagna una citazione da Camus o da T.S. Eliot che si addiceva come i cavoli a merenda all'atmosfera incasinata della nostra classe polverosa e dirupata. Quando la scorgevano, le squinzie che stavano con le gambe accavallate sulla cattedra, tanto che gli si vedevano le cosce fino al succinto margine della mini..., nemmeno facevano più lo sforzo di storcere il naso o di sbuffiare sprezzanti. Si erano abituate. Mi trapassavano con lo sguardo, quasi non esistessi, e così ho vissuto il liceo: un tipo strano con l'uniforme scolastica sdrucita, che scrive testi incomprensibili alla lavagna o parla con i castagni sul bordo della buca del salto in lungo. Mi esprimevo per citazioni non per snobismo, né per darmi arie da grande (era lecito farlo solo con la musica rock e con la lista delle ragazze che dicevi di avere avuto, il resto non contava nulla), ma perché arrivavo ad amare un autore alla follia, a identificarmi con lui e a credere che soltanto le parole un tempo da lui pronunciate esprimessero la verità fondamentale del mondo, mentre tutto il resto fosse chiacchiericcio vuoto.

Nel corso degli anni sono rimasto lo stesso jerk a cui non importa come si veste, cosa mangia e cosa dice in una birreria o a un convegno, ma ho imparato a essere più prudente almeno in due circostanze. La prima riguarda la narrazione dei sogni (ma su ciò ritornerò in altra occasione), la seconda, la citazione dai miei autori prediletti. Entrambe sono di una noia mortale tanto per iscritto quanto in qualsivoglia conversazione, conferendo a chi lo fa un'aria da persona infrequentabile. Eppure ci sono dei momenti in cui mi pare di essere sul punto di morire se non racconto un sogno o non tiro fuori una citazione. Non riesco a immaginare, ad esempio, queste pagine senza le parole iniziali di Salinger – lo scrittore che amo e ammiro più di ogni altro – quasi come se la più parte del racconto constasse di alcuni vagoncini ferroviari, e la citazione ne fosse la locomotiva. Sento che non posso parlare di stile, di cosa significhi una persona stylée, se non comincio esattamente come voglio.

Avevo creduto inizialmente che il piccolo frammento provenisse da Per Esmé, con passione e abiezione, ho avuto però la sorpresa di trovarlo in L'uomo che ride. Ecco cosa dice Salinger, interrompendo una storia di ragazzini portati a giocare da un conducente d'autobus, che narrava loro storie interminabili, come nei fumetti americani di Spiderman o Batman: "Ora, su due piedi, mi ricordo solo di tre ragazze che mi hanno colpito a prima vista con la loro bellezza indescrivibile. Una fu una ragazza slanciata, in costume da bagno nero, che faticava ad aprire un ombrellone arancione sulla spiaggia di Jones, era all'incirca il 1936. La seconda la incontrai verso il 1939, a bordo di una nave da crociera nel Mar dei Caraibi, mentre lanciava l'accendino contro un delfino nero. La terza è stata l'amica del capo, Mary Hudson."

Anziché cominciare a spiegare ora perché tali flash di bellezza pura sono letterariamente così suggestivi (per quanto possano apparire banali a prima vista), abbandono la locomotiva così com'è e passo ai vagoni. Il primo vagone è tanto più singolare quanto più si rivela essere realmente tale, nel senso vero e proprio della parola. Perché in un vagone della metropolitana ho incontrato – di fatto mi fu data l'occasione di vederla per alcuni minuti – la donna più bella del mondo. Certo, è possibile che il suo splendore si mescoli ora nella mia mente con la dimensione irreale della giostra che era lungo la costa dell'oceano, con i leoni di mare assembrati vicino all'imbarcadero, con l'uomo-mummia impietrito nella sua postura (il primo che abbia mai visto, e che mi fornì l'idea per un intero capitolo del mio Abbacinante), con le interminabili gioiellerie che espongono catene d'oro lungo le falese, con le macchinette automatiche in cui si metteva una monetina da un cent che ti veniva restituita ritorta, in forma ellittica, con le immense sequoie di Red Wood... Con le strade che salgono e scendono, con Chinatown e con le palme che spazzano pigramente il cielo di (posso mantenere ancora il segreto?) San Francisco, città costruita attorno alla giovane negretta della metropolitana, a immagine e somiglianza del suo splendore.

Abitavo, in realtà, a Berkeley e ogni mattina lasciavo il mio piccolo sobborgo, con il KFC e il K-Mart ausiliari, per prendere la metropolitana che mi portava, passando sotto un braccio dell'oceano, proprio nel cuore di Frisco. Nel 1990 ero ancora un pischello zazzeruto, in giacca di pelle marrone, che passeggiava per le strade con le mani in tasca, immaginando di seguire esattamente le orme di Ferlinghetti e Kerouac. La metropolitana, il famoso The Bart, è pure lei di un'eleganza speciale. Che differenza rispetto a quella misera newyorkese, lercia di oli e di fuliggine, che sembra un lugubre paesaggio da utopia negativa! Agile e bianco come il latte, il Bart passa sotto l'oceano così dolcemente che la volta dei vagoni diviene pian piano trasparente, che si può vedere attraverso di essa la luce verde, mossa del mare e il tramestio dei pesci argentati. Una mattina, mentre sonnecchiavo su un sedile di plastica, all'improvviso l'ho vista. Non ero l'unico. Di fatto, tutta la gente del vagone potentemente illuminato la osservava.

Non ho particolari fantasie con donne di colore. Ne ho incontrate alcune, in diverse occasioni mondane, e mi sono parse, come pure le cinesi o le arabe, come tutte le altre. È superfluo dire che non ho avuto nessun amore così esotico, con il colore della pelle diverso dal mio, anche se molte hanno avuto un diverso colore della mente, della voce, del sorriso. Eppure, la ragazza dalla quale mi è stato assolutamente impossibile distogliere lo sguardo per ben due fermate di metropolitana (proprio nel tratto in cui i vagoni hanno viaggiato sul fondo dell'oceano) è capitato che fosse nera e avesse all'incirca sedici anni. Indossava un sari di seta bianca con sopra dei fiori pallidissimi (dico sopra perché levitavano a circa un centimetro dalla stoffa lucente), leggermente in rilievo. Sul capo portava un piccolo turbante, della stessa stoffa, che le allungava le tempie come avviene con le bellezze egizie. È pure capitato che la ragazza avesse fili di walkman che le scendevano serpeggiando dalle orecchie per perdersi, esili e duplici, sotto la trama del sari, un dettaglio tecnologico in un contrasto così poco stridente con l'abbigliamento tradizionale che c'era da chiedersi se per caso i suoi antenati africani non avessero tenuto walkman alla cintola, dalla notte dei tempi e fino ad allora. Alla caviglia, un laccetto di pelle con una scritta in arabo, forse dal Corano.

La ragazza non era bella, era però la stessa immagine sensibile della bellezza. Mi riesce impossibile dire se fosse un oggetto estetico assolutamente privo di psicologia o se, al contrario, fosse soltanto psicologia, privata di realtà, proiezione degli sguardi affascinati di chi le stava attorno. Guardandola, capivo perché si dice talvolta "bellezza che rapisce": eravamo tutti suoi ostaggi, quasi aspettassimo, attimo dopo attimo, di essere, a turno, crudelmente sacrificati. Eppure la timidezza e l'innocenza erano i suoi unici poteri.

Non saprei dire quando apparve nel vagone, uscì però insieme a me a Kennedy Square, con i suoi lussuosi negozi e palmizi, e, camminando dritta nel suo sari che le fasciava le spalle e i fianchi, si dissolse nella baraonda delle luci circostanti. Più volte, dopo di allora, ho pensato che se avessi toccato, seguendola, il suo involucro di seta, si sarebbe girata verso di me non perché avesse avvertito il mio tocco, ma per avere percepito che una parte del suo ignoto e mistico potere interiore fluiva dal suo corpo fra le mie dita...

Soltanto ora osservo che tanto le donne descritte da Salinger con tre espressive parole (che meraviglia: la ragazza che lancia l'accendino contro un delfino nero!), quanto quella che io non sono riuscito a descrivere in un'intera pagina appaiono in prossimità del mare. E mi pare che così debba essere, poiché quando penso allo stile (che è grazia, vibrazione all'unisono con quella generale del mondo, fluire nel corso della corrente senza alcun momento di resistenza, seguendo i meandri dei pieni e dei vuoti) mi viene sempre in mente la medesima immagine: alghe filiformi che vengono mosse in alto e in basso dalle correnti e si curvano, si assottigliano e si ispessiscono nell'acqua verde, gelatinosa, sul fondo dei mari.

Non si può fare nulla per avere stile. Perché lo stile non lo si ha, lo si è. È incastonato lì, nell'ingegneria delle vertebre della tua colonna, nella dinamica dei fluidi del tuo corpo, nel fascio di luce sopra la tua pupilla vellutata. Nella saggezza della tua mente, che incede quando l'universo avanza e si ritrae quando l'universo arretra.

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Pagina 57

IL DIAVOLO DI CARTA



Victor e Ingrid condividevano un segreto, o così almeno credeva Victor. Per lui, la vicenda che lo legava in maniera tanto forte e singolare a Ingrid era accaduta quasi in sogno o forse in un'altra vita. Talvolta sperava con tutto sé stesso che la ragazza da lui amata avesse dimenticato da tempo ogni cosa. Altre volte avrebbe voluto che anche lei fosse sconvolta quanto lo era lui dal ricordo, così che esistesse tra loro un legame, sia pure tormentoso e inconfessabile. Sempre, quando accompagnava Ingrid verso casa, la sera tardi, dopo la scuola, mentre chiacchieravano di qualunque cosa osservando il cielo in fiamme del tramonto, nei momenti in cui ne incontrava lo sguardo, Victor cercava di appurare dalla sua espressione quanto sapesse, in che misura Ingrid ricordasse e soprattutto quanto le stesse a cuore la cosa. Camminavano per strade dai vecchi edifici gialli, dall'acciottolato irregolare e risonante. Anche la ragazza lo spiava forse allo stesso modo, forse anche lei si chiedeva se lui era ancora cosciente? Aveva anche lei, nel profondo della sua mente, una stanza segreta, identica in ogni dettaglio a quella di Victor? Andava a visitarla ogni notte, prima di addormentarsi, come faceva lui? Victor sperava come un folle e allo stesso tempo temeva disperatamente che in una di queste notti le due stanze, le uniche identiche dei palazzi delle loro menti, si fondessero in una sola, e che essi potessero là rincontrarsi e guardarsi di nuovo come allora.

Avevano abitato entrambi, in un tempo così lontano da sembrare quasi un sogno o forse un'altra vita, in un palazzetto nel più bel quartiere della città. Un gruppo di ragazzini se ne stava tutto il tempo a trafficare sulle scale interne dell'edificio, nella lugubre semioscurità. Per quanto poca fosse, la luce si rifletteva contro le pareti tinteggiate a olio e si diffondeva sui loro volti come pure sui visi più minuti, di cartone smaltato, dei bambolotti. Victor e Ingrid erano coetanei, avevano quasi cinque anni il giorno in cui, interrompendo un qualche gioco, lei lo prese per mano e se lo tirò dietro su per le scale, scale enormi. Il bambino salì lentamente fino al primo piano, il cui pianerottolo gli sembrava remoto e spaventoso. Là si trovava, per lui, una delle fosche estremità del mondo. Ma Ingrid, ridacchiando di sottecchi e ansimando, lo trascinava ora ancora più su, verso il secondo piano, invivibile e inimmaginabile, del quale il bambino aveva soltanto sentito leggende spaventose. Ingrid aveva treccine legate con dei fiocchi di raso celeste, un po' sciupato, e un abitino bianco. Ai piedi calzava dei sandali, aperti dietro, graffiati e polverosi, sulle cui fibbie ricadevano i calzini con motivi di porcellini. "E dài" gli disse "uffa, che fatica farti muovere!"

Territorio delle ombre e della follia! Dal tetto i lucernai lasciavano penetrare lunghi spiragli di luce sul pianerottolo solitario. Il silenzio sibilava nelle orecchie. Ingrid rideva arrossata. "Ora giochiamo al gioco del dottore, però non devi raccontarlo a nessuno" disse al bimbetto, che osservava le immense porte di quelli che abitavano lì e il contatore del gas dal quadrante incomprensibile. La ragazzina si abbassò le mutandine, si distese, tenendo l'abito sollevato fin sopra l'ombelico, su una panchetta di legno verde e lui guardò l'interno di porpora del suo corpicino. Costrinse anche lui a stendersi sulla panca, con la salopette calata giù, mentre lei si coprì il volto con le mani e lanciò appena uno sguardo al suo pisellino floscio. Erano poi ridiscesi verso il mondo abitato e il tempo, il silenzio e la lontananza avevano ricoperto ogni cosa.

Ora studiavano nello stesso liceo e qualche volta facevano insieme la strada verso casa, poiché abitavano di nuovo nello stesso quartiere, anche se non era affatto quello in cui avevano trascorso l'infanzia. Avevano sedici anni, lei era un po' più alta di lui e di molto più bella. Non diede mai alcun cenno di avere riconosciuto nell'adolescente smilzo e moro il bimbetto di quel palazzo sprofondato in un passato lontano. Avevano cominciato a frequentarsi perché prendevano in prestito libri di poesia dalla biblioteca di quartiere, che portava il nome di uno scrittore sconosciuto. Negli intervalli, mentre i suoi compagni parlavano di musica e di calcio, Victor se ne stava seduto sul bordo della buca del salto in lungo, con un libro di versi in mano e leggeva fin quando non si rientrava in aula per la lezione. Un giorno Ingrid gli si sedette accanto e lessero insieme. Poi lessero insieme nel parco e qualche volta su da lei, in una casa piena di porcellane e di vecchie zie. Il fatto che la ragazza più bella del liceo consentisse a un compagno piuttosto scialbo e gracile di accompagnarla a casa era per tutti (e soprattutto per Victor) un grande enigma. Una sera, mentre Ingrid gli raccontava gli ultimi pettegolezzi sulla sua classe, Victor cominciò a piegare, distrattamente, un foglio di carta pieno di scarabocchi che aveva trovato sulla scrivania. La ragazza s'interruppe per seguirne le dita che ripiegavano la carta in diagonale, rovesciavano angoli, stendevano superfici, con l'abilità rituale di uno sciamano o di un insetto. "Fai un aereo?" chiese, ma dopo alcune altre piegature era già chiaro che la complicatissima struttura di carta, dai molteplici angoli simmetrici, era tutt'altro, una cosa quasi viva, come un feto plasmato con foglietti embrionali sovrapposti. "Che cos'è questo?" chiese ancora Ingrid, guardando l'involucro che ora Victor aveva in mano, tenendolo per gli angoli quasi fossero delle zampine. Egli sorrise e, con le guance gonfie, soffiò forte dentro l'orifizio che era nella parte aguzza dello strano garbuglio, che si dilatò subito in un volto di diavolo imbrattato d'inchiostro, con corna puntute e bocca beffarda, da cui pendeva una lingua simile a una lama di rasoio. Ingrid si gettò all'indietro, sul letto dov'era seduta, ridendo fino alle lacrime, con il corpo che sussultava tutto freneticamente. Da allora le faceva ogni giorno un diavoletto di carta che durante la ricreazione, nella strada verso casa, nella stanza di lei o persino al cinema, dov'erano stati insieme un paio di volte, gonfiava a sorpresa, davanti al viso di Ingrid, con suo grande divertimento. C'erano diavoletti di tutte le dimensioni, da certuni piccini che a stento si vedevano fino a diavoli grandi quanto una testa di bimbetto, con oscene corna delle dimensioni di certi coltellacci da cucina. Su ogni foglio di carta, avendo cura che la frase rimanesse all'interno quando la figura si espandeva, Victor aveva scritto con bella grafia "Ti amo, Ingrid!"

L'anno s'inoltrava verso l'inverno, un inverno lungo e duro, in cui le nevicate non finivano più. Alle cinque scendeva già la sera, un imbrunire nostalgico di un azzurro intenso e delicato. In una sera del genere, mentre alle finestre nevicava furiosamente, Ingrid smise d'un tratto il suo cicalare. Tacquero entrambi a lungo, poi la ragazza si distese sul letto e disse a Victor: "Vieni." E Victor, trepidante come un tempo, vide nuovamente la luce purpurea che si sprigionava da una fenditura sottile del corpo della ragazza, quasi che l'interno del suo corpo fosse tutto di porpora fusa. "Ti ricordi?" sussurrò Ingrid. "Voglio guardare anch'io ora." Decine di diavoletti di carta, resi diafani dalla tenue luce dell'abat-jour sul comodino, guardarono avidamente, dal tavolino tondo su cui erano disposti in ordine decrescente, i corpi nudi che si stringevano fra le lenzuola.

[...]

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Pagina 87

INCONTRO A TORINO



Poiché ho avuto sempre un forte senso della predestinazione, faccio fatica a credere nella casualità, soprattutto quando la vita in qualche modo trascende le coincidenze. Ci viene da ridere quando, nei melodrammi di una volta e nelle telenovelas di oggi, gemelli separati fin dalla culla si ritrovano dopo trent'anni, madri e figli scoprono la propria parentela proprio quando stanno per sposarsi gli uni con gli altri ecc. Ma la vita è un affaruccio un po' più complicato di quanto non immaginino i nostri cervelli di mosca. Di' tu pure, mia cara lettrice, come dovrei reagire a ciò che mi è capitato nel corso di una sola settimana, dopo avere scritto il racconto precedente. Dicevo lì, tra le altre cose, di non ricordare più come si chiamasse in realtà Nana, il mio personaggio del racconto REM presente nel volume Nostalgia. Era stata una tipa che nemmeno conoscevo, con la quale avevo avuto un'avventura di una sola notte – l'avevo rimorchiata a un cenacolo letterario e, con mia sorpresa, ero finito nel suo monolocale senza troppe smancerie – ma da questo si è sviluppato quello che ancora oggi ritengo essere il migliore testo che io abbia mai scritto. Non l'ho più vista da allora, per ben diciannove anni, quando, venerdì scorso... Guardavo annoiato la tivù, cambiavo un canale dopo l'altro e all'improvviso Nana, con diciannove anni in più, di molti chili più massiccia, con... – ma non voglio essere ancor più cattivo con lei – mi è comparsa davanti agli occhi. Era nella giuria di un buffo concorso di poesia. Volete saperne di più? Il giorno dopo ho aperto un giornale a caso e ho trovato una recensione a un suo libro di poesie (perché lei non era ingegnere o funzionaria, come l'avevo descritta io in REM, ma poetessa)! Dopo che, ripeto, per diciannove anni non avevo più incontrato il suo nome da nessuna parte... Ne volete sapere ancora di più? Allora occorre che abbandoniamo Nana e che vi dica che, dopo un paio di giorni, mentre ero nella sala d'attesa del dentista, sfogliavo la rivista "Capital", più precisamente il numero speciale con le cinquanta donne di maggiore successo in Romania. E sono scoppiato a ridere come uno sciocco, con gran sorpresa degli altri martiri che aspettavano il turno del loro supplizio: una di quelle cinquanta fortunate era una mia vecchia fiamma! Non cercate la rivista, perché non la indovinereste. Comunque, non era né Andreea Marin, né Mihaela Ràdulescu, le annunciatrici televisive. Se avessi avuto migliaia di morose avrei anche detto che si trattava di una semplice coincidenza, ma così... E se volete molto, ma ancora molto di più, leggete da qui in avanti, non prima però di allacciare le vostre cinture di sicurezza.

Poiché, solo qualche giorno dopo avere saputo quanti soldi guadagna adesso la mia vecchia fiamma, sono partito per Torino. Non ha alcuna importanza cosa dovessi fare lì. Sta di fatto che Torino è stata per me una tra le più inaspettate rivelazioni. Con mia vergogna, di quella città sapevo solo, fino a quel momento, che era da qualche parte nel Nord Italia e che vi si fabbricavano le vetture Fiat. Vi immaginate la mia incredulità quando, proprio in aeroporto, il mio amico Marco mi ha accolto con le parole: "Suppongo che tu lo sappia, Torino è una città magica." E poi, dopo un'esitazione: "Alcuni usano una parola ancora più forte: diabolica..." In macchina, mentre contemplavo sbalordito il paesaggio circostante, come sempre quando mi trovo in un altro paese, Marco ha continuato: "Si dice che tutte le città tra due fiumi siano spazi propizi per la magia. Torino è una di esse. Le sue tenebre sono tanto più profonde, quanto più il suo aspetto appare razionale. Infatti, cosa può sembrare più rasserenante delle Alpi innevate sulle quali si proietta spettrale la città? E, soprattutto, della sua architettura rigorosa e classica? A Torino si può camminare per giornate intere senza uscire fuori dai portici: ci sono chilometri di gallerie che contornano le facciate degli edifici squadrati e massicci. Ma proprio questi colonnati che si perdono in prospettive infinite diventano dopo un po'... inquietanti, opprimenti come nei quadri di De Chirico..." Il professore si voltò verso me e mi guardò negli occhi: "E poi, non scordare che qui, nel duomo, è custodita la Sindone, il sudario in cui fu avvolto il Redentore e che ne ha conservato l'effigie. Non è uno scherzo. Ogni città in cui è stata conservata, da Edessa del leggendario re Abgar fino a Torino, si è impregnata di forze misteriose..."

Giunti in città, ho preso alloggio in una pensione e sono uscito in strada, intrigato dalle spiegazioni del professor Marco. Ma la città sembrava molto tranquilla. Palazzi che assomigliano tantissimo a un municipio, statue dei duchi di Savoia su cavalli di bronzo, infine, i famosi portici. Turisti, gente colorata e mescidata. Dov'era la magia della città tra due fiumi? La sera ci siamo ritrovati con alcuni altri amici, Bruno, il mio traduttore, la famiglia Pop di Cluj ecc. e abbiamo cenato in una trattoria assai pittoresca. Siamo usciti poi sotto la volta stellata. "Adesso vedrete quello che probabilmente non avete ancora mai visto", ci disse Bruno. Avanzavamo per viuzze appena illuminate quando, all'improvviso, a una svolta, ci comparve dinanzi una mostruosità senza limiti. Un edificio alto quasi quanto la torre Eiffel. Una volta gigantesca sulla quale (non mi crederete, nessuno lo crederebbe) erano stati eretti due templi greci uno sopra l'altro, al di sopra dei quali era stata costruita un'agile torre alta cento metri, con in cima una specie di stella enorme! Ma è impossibile descrivere questo edificio pazzesco, va visto con i propri occhi. "È la famosa Mole Antonelliana, opera di un architetto geniale e folle dell'Ottocento. Possanza e grottesco, puro kitsch, ma a un livello al quale il kitsch diventa fantastico, impressionante. Non esiste qualcosa del genere al mondo" ci viene detto. Dopo esserci lussati l'osso del collo guardando la colossale eccentricità ubicata al centro della città, abbiamo fatto qualche altro passo per vedere la casa in cui è vissuto Nietzsche nel periodo in cui ha scritto il suo distruttivo libro Ecce Homo. Siamo tornati sfiniti alla pensione. Nietzsche, Antonello, il sudario di Gesù mi sono poi frullati in testa per tutta la notte..

Al mattino ho visto una mostra di un futurista, Fortunato Depero (pitture geometriche e variegate, giochi della campana color pastello, uccelli), e poi sono andato all'"Egizio", il celebre museo di egittologia, "il più grande dopo quello del Cairo", come ci fu raccomandato. E qui è avvenuto l'incontro più strano che abbia mai avuto in questa vita. Non sospettatemi di affabulazione o di erudizione libresca. Tutto è stato reale, reale, reale.

Siamo entrati nel museo soltanto la famiglia Pop e io. Che dire? Non vado proprio pazzo per mummie, sarcofaghi, urne funerarie e divinità con testa di uccello. Qui ce n'erano a centinaia, a migliaia. Strisce enormi di papiro, pezzi putrefatti di legno con mappe del mondo dell'aldilà, teschi con la pelle raggrinzita e nera incollata addosso, mani scheletriche con unghie pietrificate. Vetrine con scarabei ossidati e urne con ibis imbalsamati. Una sinistra necropoli che respira silenziosa attorno a te. I turisti andavano di qua e di là, minuscoli sotto le grandi statue dei faraoni, gruppi accompagnati da guide ciondolavano nei glaciali corridoi.

Uno dei gruppi era formato da scolari. Erano radunati attorno a una vetrina e in mezzo a loro si sentiva una voce femminile, robotizzata e professionale. Ma, stranamente, non si vedeva nessuna guida! E, cosa ancor più strana: i fanciulli ascoltavano le spiegazioni con una inattesa gravità. Mi sono avvicinato a loro. All'inizio ho creduto che parlasse proprio uno dei ragazzi, anche se la voce era di una donna adulta. Alla fine però l'ho vista e sono rimasto di sasso.

Come descriverla? Non ho mai incontrato un essere siffatto, né in sogno, né in pittura, né al cinema. Stava in mezzo ai ragazzi, più bassa di tanti di loro, un corpo da bambina, senza traccia di seni, sollevata in un modo strano, quasi volesse prendere il volo. Mani sottili, esitanti. Qualcosa del tutto impossibile nell'intera costruzione di quel corpo. E il volto... sicuramente non umano. Vagamente femminile, ma attratto come un fungo dalla gravitazione lunare. Come posso descrivere quelle occhiaie diffuse, quegli occhi pesanti e senza scintillio, quell'espressione né di tristezza, né di disperazione, né di dolore, qualcosa mai comparsa su un volto umano... O quella pelle cenerina simile a caucciù... La nana non guardava nessuno. Per tutto il tempo che sono rimasto dietro ai fanciulli, stralunato e affascinato, non ha guardato mai nessuno negli occhi. Né guardava qualcos'altro. Parlava soltanto. Un italiano freddo, da nastro registrato. Qualche minuto dopo ha taciuto bruscamente ed è uscita dalle file dei ragazzi. L'ho guardata levitare, sola, nel corridoio fino al successivo reperto esposto. Nemmeno il suo incedere era uguale a quello della nostra specie. Zoppicava da una gamba, mentre con l'altra si sospingeva sull'impiantito per ergersi in volo. Non guardava nulla, camminava come guidata da un senso misterioso. Si è fermata all'improvviso davanti a una vetrina e, facendo dei movimenti delicati e incomprensibili col mento e le dita, ha atteso che i ragazzi si avvicinassero nuovamente. Quelli che non si spintonavano, non ridevano, non guardavano i muri, come fanno di solito i piccoletti portati controvoglia nei musei, si trascinavano affascinati, come dei prigionieri, sulle orme della guida e la circondavano in silenzio.

[...]

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ZARAZA



Durante il 1944, sotto i più accaniti bombardamenti americani, Bucarest se la spassava proprio come negli anni folli di due decenni prima. Il cibo era a buon mercato, gli alberghi accoglienti e i ristoranti all'aperto, Rasca, Otetelesanu e Carabus, nonché il Bordei, già all'epoca situato lungo la sponda del lago Herastrau, diffondevano fin nei sobborghi limitrofi il profumo di salsicce alla brace e il suono dei complessi jazz o dei taraf locali. Su Calea Victoriei entravano e uscivano dall'ombra enorme del Palazzo dei Telefoni sia le limousine nere con i finestrini di cristallo, che ricordavano i tempi del proibizionismo e di Eliot Ness, sia le carrozze a cavalli, i cosiddetti coupé di Hereasca, che non bastavano più a portare a spasso la gente ricca della città sul grande viale della Sosea. Gli svaghi erano ovunque a portata di mano. All' Opereta cantava ancora Leonard, il Circo Sidoli (senza il vecchio Giovanni Sidoli, morto un decennio prima, ma con le sue due figlie, stabilitesi qui e maritate a due grossi finanzieri ebrei) si gloriava, dopo avere preso fuoco per ben quattro volte, di un nuovo tendone, azzurrino a strisce bianche, e di ventiquattro cavalli bardati come mai si era visto fino ad allora, mentre i café-chantant attiravano una clientela festosamente gioiosa, nella quale si scorgevano non di rado ufficiali tedeschi accompagnati da donne di lusso, donne senza ossa, come le aveva definite qualcuno, per lo più mantenute da questo o da quello, ma anche parecchie di quelle che non si vergognavano di affiggere la propria tariffa sulla porta della stanza d'albergo in cui ricevevano i clienti. Una di queste era Zaraza, e la sua storia mi ha emozionato da sempre non tanto per la sua inaudita singolarità, quanto per il fatto di essere vera. Zaraza, più precisamente Zarada, è un nome zingaro tradizionale. Significa Meravigliosa. La donna molto giovane che aveva fatto il suo ingresso, la sera fatale in cui tutto ebbe inizio, nel locale La Volpe Rossa, dalle parti di via Selari, al braccio di un tizio qualunque in un'allegra compagnia, era davvero una zingara, aveva il viso tagliente, le labbra da maschio sensuale e i capelli talmente neri e lucenti da essere stati di sicuro cosparsi a dovizia con olio di noci. Indossava un vistoso abito verde porro, barocchi orecchini di strass e scarpe anch'esse luccicanti di strass alle fibbie.

Il gruppo si avventò su un tavolo riservato, venne ordinato dello champagne, si raccontarono barzellette, risero più forte di quanto l'etichetta richiedesse. Sul piccolo palcoscenico del cabaret danzava una donna opulenta ornata di un serpente in letargo. Seguì un numero con delle colombe ammaestrate. Infine, a malapena visibile tra ondate di fumo dall'aroma di sigari Habana, comparve Cristian Vasile. Un delirio di applausi lo accompagnò.

Probabilmente questo nome, uno tra i più famosi ai suoi tempi, non dice più granché al giorno d'oggi. Qualcuno si ricorda ancora delle sue canzoni, ma piuttosto per sorridere della voce che usciva nasale dai fonografi a causa delle pessime registrazioni. A quel tempo, per incidere una canzone, lo chansonnier doveva ficcare la testa in una specie di cornetta d'ottone, che ne alterava completamente la voce. A loro volta, i dischi Pathé, anche quelli di buona qualità, etichettati sotto la sigla His Master's Voice, erano di ebanite e, col passare del tempo, si fessuravano, invecchiavano, mentre la puntina di ferro mal rifinita li graffiava irrimediabilmente. Ciò nonostante, i tanghi di Cristian Vasile sono così anomali, hanno una linea sonora così originale ed emozionante e parole di un kitsch così commovente, che perlomeno io li ho amati d'acchito, al primo ascolto. Pochi ormai sanno che l'autore di Zaraza, di Ramona e dell'indimenticabile, ancorché dimenticata, Accendi una sigaretta è stato il nostro Gardel, sia per la sua musica, sia per la vita romanzesca che ha condotto.

Tutti andavano a La Volpe Rossa per sentire Cristian Vasile, così come Zavaidoc, altra gloria del momento, faceva prosperare L'Angioletto, il famoso locale di Viorica Athanasiu. I due grandi non si sopportavano. Zavaidoc stava con le cosche della dogana di Obor, capeggiate a quel tempo da Borila. Pagava perché lo proteggessero. Cristian Vasile dava il suo obolo a quelli di Tei, dalle parti di Maica Domnului, i fratelli Grigore. Più volte i solisti si erano incontrati, accompagnati dai loro gorilla ed erano comparsi i coltelli. Il mio racconto comincia tuttavia in un momento di tregua.

Quella sera l'uomo in smoking bianco, fin troppo elegante per il suo aspetto da scaricatore di porto impomatato, cominciò con una canzone che aveva appena composto. Il pubblico non la conosceva, così ne assaporò in silenzio le parole. No, la sua voce non era metallica. Era da vero maschio, si poteva immaginare che a cantare fosse Humphrey Bogart. Solo il testo era appena sdolcinato, e per questo contrastava suggestivamente con la voce troppo ruvida, grave e controllata:

Ancora ti ricordi
Quali parole dolci
Ci scrivevamo noi
Nelle lettere d'amore?
A memoria, un tempo,
Ce le ricordavamo.
Umide di lacrime
Noi le leggevamo
E poi le baciavamo.
Il sogno ora finisce così
E in quest'ultima lettera
Più non so cosa scriverti...

[...]

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IL GRANDE SINCU



Verso la fine degli anni Settanta mi sono iscritto anch'io, come ogni studente snob e con un'esasperata considerazione di sé, al corso speciale di semiotica tenuto dal famoso professore Alexandru Sincu. Era senza dubbio il corso della facoltà di Lettere più in voga in quegli anni in cui lo strutturalismo, come il postmodernismo negli anni Ottanta, era su tutte le bocche, una religione in piena regola, con il suo profeta (Ferdinand de Saussure), i suoi evangelisti (Piaget, Althusser, Lévy-Strauss e Barthes), i suoi apostoli (quella dozzina – per simmetria – di esponenti del Nouveau Roman francese), persino con la sua croce: l'asse, sintagmatico/paradigmatico... Chi non sapesse allora la differenza fra signifié e signifiant, chi non avesse letto Poetica matematica di Solomon Marcus ovvero Opera aperta di Eco, chi non fosse in grado di disegnare le arborescenze riccamente ramificate di chissà quale grammatica generativa era perduto: annegava in un oceano di disprezzo. Svegliato nel sonno, dovevi poter elencare i nomi dei rappresentanti della scuola formalista russa ("Sklovskji, sì, lo so!" rispondevi con un'espressione infastidita, ed era sufficiente per essere ammessi al club) ed essere capace di spiegare perché un libro di Barthes recasse l'enigmatico titolo S/Z. Gli studenti universitari più pavidi facevano sforzi disperati per entrare nel gruppo degli iniziati. Una belloccia dai capelli rossi comprese a fatica perché un'intera aula ad anfiteatro fosse scoppiata a ridere quando lei aveva iniziato la sua presentazione con la frase: "Guardavo ieri sera il Cours di Saussure..." Esisteva, ovviamente, anche un'opposizione al concetto (piccolo-borghese) di strutturalismo, soprattutto da parte di coloro che guidavano i destini della facoltà. Il preside di allora, ad esempio, si era alzato alla fine di un convegno e aveva affermato con foga proletaria: "Ho ascoltato vari interventi in cui taluni colleghi hanno cercato di accreditare l'idea errata che lo strutturalismo sia revoluto. In realtà, non lo strutturalismo, ma il marxismo è revoluto, compagni!" Quella volta non si rise più a scrosci, ma solo a pugni. D'altronde, il povero professore, personaggio centrale di un immenso folklore studentesco (era lui che pronunciava ogni anno durante il corso la celebre frase «il poeta romantico Bolintineanu debuttò con una giovane fanciulla sul letto di morte"), fu presto soppiantato alla presidenza da un teorico della letteratura, dimostrazione dell'onnipotenza delle mode culturali.

Ok, una volta o due a settimana ci ritrovavamo, dunque, all'incirca in dieci, la creme de la creme degli studenti della facoltà, in un'aula piccola e scalcinata al quarto piano, con una lavagna provvista di gessetti e di uno straccio maleodorante d'aceto come cancellino, per incontrare il grande Síncu. Personaggio straordinario! Non so se gli studenti che non hanno fatto in tempo ad approfittarne – visto che "scappò" in tempi brevi verso migliori lidi – hanno perso tantissimo per ciò che riguarda la semiotica e la poetica, ma hanno perduto in ogni caso uno spettacolo. Minuto, incredibilmente più giovane all'apparenza della sua età (tutti lo scambiavano all'inizio per un collega e gli chiedevano nel corridoio: "Ehi, hai una sigaretta..."), con una chioma inanellata e un viso da attore di ruoli secondari a Hollywood, ma con begli occhi, femminili, Sincu era uno spirito socratico, un genio orale. Non ha scritto quasi nulla, anzi ha pure avuto la sfortuna che uno dei suoi pochissimi titoli a stampa uscisse firmato ("c'è un terribile refuso tipografico...") Alexandru Lincu... Ma la sua presenza era ipnotica e le sue parole oracolari. Al peimo corso con lui, dopo che rimase muto immerso nei suoi pensieri, come un novello Wittgenstein, per più di un quarto d'ora, ci produsse da subito un crampo mentale: "Sì, parleremo di comunicazione. Cosa significa comunicare? Quale significato ha la frase: il fiume Olt comunica con il Danubio?» Si lanciò quindi in uno schema disegnato alla lavagna, con tantissime ramificazioni e opposizioni con cui ci siamo presto familiarizzati. Parlava per tutto questo tempo ispirato, come un attore, dosando battute ed effetti con grande efficacia... "Geniale!", sentii Laurentiu sussurrarmi accanto, guardando con trasporto lo schema alla lavagna. Rodica, Liviu, Calin e Ariadna sembravano capirci qualcosa, mentre noi, quelli più portati per la letteratura, Stefan, Bogdan, Elisabeta e io, recepivamo la rivelazione senza indagare. Se il primo corso era stato così astruso e dotto, non avevamo alcun dubbio che dopo un intero anno Eco, Barthes o Todorov ci sarebbero parsi dei semplici dilettanti in fatto di semiotica...

Purtroppo, con la prima seduta d'iniziazione nell'auletta kafkiana si è quasi concluso l'intero corso! Con nostra meraviglia, per la durata di un anno intero dopo quella lezione non abbiamo fatto altro se non rivoltare da ogni parte lo schema iniziale, ora cancellando, ora aggiungendo un'arborescenza, senza alcun progresso in assoluto. Ci davamo pacche sulle spalle con Sincu, eravamo ottimi amici, chiacchieravamo un paio d'ore a settimana di Bachtin e Vinogradov, per renderci alla fine conto che... Sincu non poteva, di fatto, insegnare alcunché. Che, a dispetto della sua mente così bene attrezzata, era il guazzabuglio in persona, l'indecisione incarnata, l'indifferenza assoluta. Che lui non era una fonte di conoscenza, quanto piuttosto (in modo ridicolmente sublime) di distrazione. Non era un autentico maestro, ma raggiungeva il miracoloso nel mimare le qualità del maestro in tal misura che, come avviene con certi innamorati, non c'importava più se venivamo ingannati, purché la menzogna fosse bella.

[...]

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