Copertina
Autore Angela Carter
Titolo Le infernali macchine del desiderio del dottor Hoffman
EdizioneFanucci, Roma, 2004, Immaginario , pag. 308, cop.fle., dim. 140x218x23 mm , Isbn 978-88-347-0993-1
OriginaleThe Infernal Desire Machines of Doctor Hoffman [1972]
PrefazioneCarlo Pagetti
TraduttoreAnnalisa Di Liddo
LettoreElisabetta Cavalli, 2004
Classe narrativa inglese , fantasy
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11 [ inizio libro ]

Introduzione



Ricordo tutto.

Sí.

Ricordo tutto perfettamente.

Durante la guerra, la città era piena di miraggi e io ero giovane. Ma ora regna la pace assoluta. Le ombre vengono proiettate sul terreno solamente quando e come ci si aspetta che succeda. Poiché sono tanto vecchio e famoso, mi hanno detto che devo scrivere tutti i miei ricordi della Grande Guerra perché, in fondo, mi ricordo ogni cosa. Dunque devo radunare tutte le mie esperienze affastellate e metterle in ordine, proprio cosí come sono accadute, cominciando dal principio. Devo dipanare la mia vita come se fosse un lavoro a maglia, e in quel viluppo devo ritrovare il filo del mio io di una volta, l'io di un giovane che per caso divenne un eroe e poi un vecchio. Per prima cosa, lasciate che mi presenti.

Mi chiamo Desiderio.

Vivevo in città quando il nostro avversario, il diabolico dottor Hoffman, la riempí di miraggi per farci impazzire tutti. Non c'era piú nulla in città che fosse ciò che sembrava essere, assolutamente nulla! Vedete, il dottor Hoffman aveva scatenato una massiccia campagna contro la stessa ragione umana. Niente di meno. Oh, in quella guerra la posta in gioco era alta, piú alta di quanto potessi mai immaginare, perché ero giovane e cinico, e in ogni modo non ero un grande amante della nozione di umanità, anche se piu avanti, quando divenni un eroe, mi dissero che avevo salvato l'intera specie umana.

Ma da giovane non desideravo diventare un eroe. E quando vivevo in quella città stupefacente, nei primi giorni della guerra, la vita stessa era diventata nient'altro che un labirinto incomprensibile: qualsiasi cosa potesse esistere, esisteva. E tutta quella complessità, una complessità cosí ricca da non essere quasi spiegabile a parole, tutta quella complessità... mi annoiava.

Per quanto mi riguardava, in quei tempi tumultuosi e frenetici, i tempi del desiderio materializzato, avevo un solo desiderio. Ed era che tutto finisse.

Divenni un eroe solo perché ero sopravvissuto. Ed ero sopravvissuto perché non riuscivo ad arrendermi al flusso dei miraggi. Non riuscivo a fondermi e ad amalgamarmi con essi; non riuscivo a rinnegare la mia realtà e a perdermi per sempre come facevano altri, dissolti nel nulla dalla feroce artiglieria dell'irrazionalità. Ero troppo sprezzante. Ero troppo disilluso.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 55

Era davvero la copia a colori della tenda di tela che avevo visto, in bianco e nero, nella documentazione fornitami dal ministero - a colori ma sbiadita, abbandonata troppo a lungo sotto anni di pioggia, un cubo floscio di tela a strisce rosa con il risvolto anteriore sollevato e tenuto aperto da una fune consunta. Una locandina ingiallita, stampata a caratteri fuori moda, annunciava che LE SETTE MERAVIGLIE DEL MONDO IN TRE DIMENSIONI A GRANDEZZA NATURALE attendevano lo spettatore all'interno. Mi abbassai ed entrai nell'antro caldo e buio. Era illuminata esclusivamente dai raggi del sole pomeridiano, che filtravano attraverso le molte aperture della struttura. Al mio ingresso, un gabbiano spaventato spiccò il volo da un trespolo fissato a una ruota di ferro e, con un frullo d'ali selvaggio, prese a volare in cerchio all'interno della tenda finché non trovò l'uscita. A quel rumore, un vecchio, la cui sagoma dormiente era stata fino ad allora nascosta nell'ombra scura e fitta, si svegliò, gridando e bestemmiando. Udii il tintinnio di una bottiglia che rotolava dopo essere stata colpita e capovolta, e l'aria si riempi dei vapori di alcol puro.

«Non si può essere lasciati in pace?» domandò il vecchio, alzandosi come una foca da un mucchio di paglia frusciante e subito ricadendo indietro con un grugnito. Era il primo essere vivente che vedevo da quando ero giunto in paese, e non era altro che un lurido relitto umano, ricoperto da una zazzera di capelli bianchi e troppo lunghi. Non gli era rimasto un solo dente in bocca e una barba macchiata e incrostata cresceva disordinata sulla parte inferiore del viso, mentre la parte superiore era nascosta da un paio di occhiali con la montatura di metallo e le lenti verdi, una delle quali era attraversata per intero da una crepa. Indossava quel che rimaneva di un paio di pantaloni rigati e di una giacca elegante, i resti, forse, di un tempo in cui aveva visto giorni migliori, ed era privo di camicia - aveva solamente un gilè sudicio e strappato. I piedi erano nudi, e le unghie annerite dallo sporco erano cresciute fino a sembrare veri e propri artigli. Tastò ciò che lo circondava per qualche istante, fino a trovare un appiglio in una delle bizzarre macchine che occupavano la tenda e, aggrappato a quella, ritrovò equilibrio sufficiente per alzarsi di nuovo. Volse lo sguardo nella mia direzione, ma non mi vide; passò in rassegna l'intera tenda, come cercando di localizzarmi, infine scosse la testa ispida con aria stanca.

«Questa non è affatto Gaza, ma io non ho occhi» disse, e allora compresi che era cieco.

«Se siete un cliente» proseguí «vi prego di mettere venticinque centesimi nel contenitore posto a questo scopo sul tavolino accanto all'ingresso, e di godervi le meraviglie del mondo. Ma se non lo siete» aggiunse, mentre la sua voce cominciava ad affievolirsi, «allora no... In ogni modo, qualsiasi cosa voi siate, vi prego di restituirmi la bottiglia.»

Rotolando sul pavimento, la bottiglia si era svuotata di tutto il suo contenuto.

«Non ce n'è piú neanche una goccia» lo avvertii mentre gliela porgevo. Il vecchio la scosse per sentire se vi fosse rimasto qualcosa, ne annusò voluttuosamente il collo e poi, curvandosi all'indietro, apri la parete di tela e la lasciò cadere nel mare sottostante, dove essa gorgogliò e andò a fondo.

«Ho comunque bevuto a sufficienza dal calice dell'umiliazione» disse. «Vi prego di fare quel che dovete e di andarvene.»

Ricadde sul pagliericcio, e poi non udii altri suoni all'infuori del ruggito mormorante del suo respiro. Il piattino conteneva due bottoni di pantaloni, una conchiglia e una moneta giapponese che riconobbi come un pezzo da un sen fuori corso da tempo, ma misi comunque una moneta da un quarto nel recipiente. Le macchine erano di ferro fuso, ed erano vecchie e arrugginite, decorate con bassorilievi che rappresentavano cupidi, aquile e nastri. Ciascuna era delle dimensioni di un vecchio forno; dalla parte anteriore sporgevano un paio di lenti poste su lunghi steli concavi. Esaminai tutte le attrazioni, una per una. All'interno di ciascuna, sotto l'oggetto rappresentato, c'era un cartello scritto a mano in una grafia alquanto goffa, che recitava il titolo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 95

Oltre ai denti dipinti di nero, la madre di Nao-Kurai - che fui presto invitato a chiamare 'Mamma' - utilizzava una grande quantità di trucco sul viso, nonostante l'età avanzata. Il trucco veniva applicato in modo particolarmente stilizzato. Uno strato di bianco opaco copriva il naso, le guance e la fronte, ma lasciava collo e orecchie scuri, come madre Natura li aveva fatti. Su questo strato bianco metteva un cerchio vermiglio al centro di ciascuna guancia, e sulla bocca un cuore scarlatto ben disegnato che ignorava completamente il vero contorno delle labbra, che sembravano solo sporgenze indefinite, come le cimase quando sono coperte di neve. Gli occhi erano circondati da spesse linee nere, dalla cui circonferenza si dipartiva una successione regolare di piccoli raggi. Le sopracciglia erano ricoperte di cerone e ridisegnate qualche centimetro al di sopra della loro posizione naturale, donando cosí alla donna un'espressione di estrema sorpresa. Qualche volta si dipingeva in nero anche una falce di luna, una stella o una farfalla all'angolo della bocca, sulle tempie, o in qualche altra posizione insolita. Notai che anche le giovani che accorrevano a spiarmi erano truccate cosi, anche se in modo meno elaborato. In origine, questo trucco tradizionale, probabilmente, non aveva lo scopo di risultare ripugnante agli abitanti della terraferma, ma, per quanto in modo del tutto casuale, li disgustava non poco, se avevano occasione di vederlo.

Mamma nascondeva i lunghi capelli neri avviluppandoli sotto un fazzoletto colorato, legato mollemente sulla testa e annodato alla nuca. Indossava sempre pantaloni ampi, stretti alle caviglie da uno spago verde o rosso; calze con una fenditura in corrispondenza dell'alluce, che le consentivano di indossare sandali infradito; un'ampia camicia di cotone a quadri o a fiori; e, a ricoprirla, un grembiule inamidato corto e candido, con due aperture per far passare le braccia ma legato sia in vita che dietro il collo, cosi che la parte superiore del corpo ne era completamente coperta. I grembiuli, la biancheria e anche le tendine degli oblò erano tutti guarniti con un pizzo bianco, grezzo, che le donne stesse tessevano la sera, strette a gruppetti di tre o quattro attorno a un'unica candela. Credo che si trattasse di un'arte insegnata loro dalle suore nel diciassettesimo secolo, prima che il popolo del fiume si congedasse definitivamente dal mondo, perché il tipo di disegno era molto antico.

L'abbigliamento di Mamma era comune a tutte le donne. Dava loro un aspetto prosperoso e sbilanciato nella parte superiore come se fosse stato possibile spingerle senza farle cadere, ma facendole semplicemente oscillare avanti e indietro. Poi mi sovvenne che, anche se di tanto in tanto mi era capitato di vedere le chiatte scure scivolare lente sulla superficie del fiume, non avevo mai visto queste peculiari sagome femminili sul ponte, e in seguito scoprii che in prossimità dei centri abitati di qualsiasi dimensione le donne erano obbligate a stare sottocoperta.

Mamma aveva sempre un leggero odore di pesce, ma lo stesso valeva per le lenzuola e le coperte, e l'odore era penetrato fino nel legno delle paratie; il pesce era l'alimento principale di quel popolo. Quando mi portava il cibo, Mamma non mi dava mai le posate per mangiare; mi dava solo una scodella con una sorta di pastosa farinata di mais, con l'aggiunta di pesce condito con una salsa molto aromatica. Scoprii in seguito che tutta la famiglia, abitualmente, mangiava seduta intorno a un tavolo rotondo nella cabina principale, prendendo manciate di mais dalla zuppiera comune, appallottolandolo nel palmo della mano finché non solidificava e poi immergendolo in un'altra scodella per intingerlo nella salsa.

Tutte le volte che mi portava la cena, o mi medicava la ferita, o mi lavava, o rassettava il letto, o mi aiutava a espletare funzioni piú intime senza mostrare disgusto o imbarazzo, Mamma utilizzava un repertorio limitato di gesti rigidi e precisi, come se quegli stessi gesti fossero l'unico accompagnamento possibile alle sue azioni, e anche le uniche possibili manifestazioni fisiche di ospitalità, attenzione o premura materna. Piú avanti, notai che tutte le donne si muovevano in quello stesso modo stereotipato, come automi benigni, e ciò, unito al linguaggio da carillon, rendeva abbastanza facile credere che non fossero del tutto umane e, in un certo senso, capire cosa avesse suscitato i pregiudizi dei gesuiti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 251

Ma eravamo prigionieri dei centauri e non sapevamo se saremmo mai stati liberi, a meno che le pattuglie aeree del padre non ci avvistassero.

Poiché ero maschio, non mi lasciavano svolgere alcun lavoro e sembravano abbastanza soddisfatti di lasciarmi vagabondare per il villaggio, imparando tutto quel che riuscivo a imparare. Forse pensarono addirittura, quando mi videro meditare sui libri, che un giorno avrebbero potuto impiegarmi nelle cerimonie, come portatore di inchiostro e assistente fustigatore. Non lo so. Ma so con certezza che stavano facendo piani per noi. Quando il Cantore, il Maestro dei Tatuaggi, il Maniscalco e lo Scrivano parlavano fra loro, bisbigliavano sempre sottovoce. Ma ora si incontravano sempre piú spesso, e stavano sempre a parlottare. E di sera lo Scrivano, accompagnato dal canto del coro, stava seduto al tavolo della scuderia e scriveva su un grosso libro nuovo.

Quando andai a vedere il rituale del tatuaggio, trovai che la maestria con cui veniva eseguito fosse notevole quanto il metodo atroce. Come prima cosa, sceglievano un disegno dalle illustrazioni dell'antico volume di cianografie e lo tracciavano sulla pelle con il pennello. Ma poi cominciava il dolore, perché l'artista non usava un ago di dimensioni umane; aveva uno scrigno consacrato in cui teneva punteruoli e sgorbie dalla punta triangolare. Lui stesso pestava e mescolava i pigmenti. Il Maestro e i figli, i suoi apprendisti, andavano nella foresta in cerca degli ingredienti per le misture; i colori, presi da minerali di terra e da piante essiccate e ridotte in polvere, spesso erano tanto tossici da produrre l'effetto di un'ustione, e sempre un prurito tremendo, anche se la pelle delle loro parti umane era molto piú spessa della nostra. Cosi era comune vedere i giovani che la mattina, dopo la visita al Maestro, sfregavano febbrili i dorsi decorati a metà contro il tronco ruvido di un albero. Durante il rito, la stalla del Maestro dei Tatuaggi era a metà tra una sala operatoria e una chiesa. Sua moglie puliva il tavolo e preparava un cuscino di paglia su cui la giovane vittima teneva appoggiata la testa mentre giaceva a faccia in giú; i tre figli del Maestro, nel frattempo, giungevano in fila, salmodiando, il primo portando i punteruoli, il secondo il colore e il terzo una ciotola d'acqua e una spugna. Il Cantore, all'altro capo del tavolo, cominciava a cantare; celebrava la magia solidale del simbolo, cantava come chi portasse il cavallo scolpito nella pelle acquistasse la virtú dei cavalli, mentre il Maestro tuffava il pennello nel colore con la mano sinistra e, prendendo con l'altra un punteruolo o una sgorbia, a seconda dello spessore delle linea desiderata, sfregava lo strumento nel pennello bagnato e faceva penetrare il colorante sotto la pelle. Poi il terzo figlio puliva il sangue con la spugna. Ciascuna delle visite dei giovani durava un'ora. Il Maestro dei Tatuaggi lavorava sempre tutto il giorno. L'esecuzione dei disegni piú complessi, come quelli dei figli delle autorità religiose, poteva durare anche un anno, e le donne, soprattutto, provavano un dolore terribile nella zona intorno ai capezzoli. E per tutto il tempo di quella sofferenza, continuavano a cantare; la religione era il loro unico analgesico.

Il tatuaggio del figlio del baio era quasi finito. Ancora qualche ora di lavoro e sarebbe divenuto un'opera d'arte religiosa improbabile quanto magnifica.

| << |  <  |