Copertina
Autore Pino Caruso
Titolo L'uomo comune
EdizioneMarsilio, Venezia, 2005, Le maschere , pag. 144, cop.fle., dim. 135x205x12 mm , Isbn 978-88-317-8693-5
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe narrativa italiana , umorismo
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Indice

    L'UOMO COMUNE
  7 Introduzione
    Di nulla e di nessuno
 11 Premessa alla 'Parvenza'
 13 La parvenza
 17 La parvenza ritorna
 21 L'uomo che non somigliava a nessuno
 25 L'uomo multiplo
 29 L'uomo d'aria
 33 L'uomo comune
 37 L'uomo fuori di sé
 41 L'uomo che si finse un altro
 45 Sogni pericolosi
 49 Psicanalisi
 53 New York
 61 Il fatto
 69 Il peccato originale
 73 Nascere
 77 Dell'ignoranza
 81 Il linguaggio
 85 Il nome del mare
 89 Il silenzio
 93 Natale sulla luna
 97 Le città viaggiano
101 Città
105 La città rubata
109 Trambusto
117 Intemperie
125 L'albero delle uova
135 Il fiume dei suicidi

 

 

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Pagina 7

Introduzione
DI NULLA E DI NESSUNO



L'ideale sarebbe non scrivere nulla. Ma se proprio non se ne può fare a meno, il ripiego migliore è scrivere di nulla. Anche se non è facile come non scrivere nulla.

Le persone che non scrivono nulla sono milioni, mentre quelle capaci di scrivere di nulla non esistono: per quanto si sforzino, finiscono sempre con lo scrivere di qualcosa.

Per scrivere di nulla è necessario, intanto, cominciare col descrivere tutto, persino quello che potrebbe esserci e non c'è; poi toglierlo e... quello che resta è nulla.


Ma non è tutto, bisogna anche fare attenzione a non scrivere di qualcuno. Ma chi veramente può essere indicato come nessuno? Scartiamo, per ovvi motivi, le persone esistenti e consideriamo, a tal fine, improponibili anche le persone immaginarie: don Abbondio non si può dire che sia nessuno; magari non sarà una persona fisica, ma qualcuno è - a meno di non sostenere che Manzoni non sia mai esistito. Chi resta, allora? Non resta nessuno. È questo il punto.

Per descrivere una persona che non è - che è, cioè, nessuno -, per darne idea precisa, occorre, come per descrivere il nulla, elencare tutte le cose che non è. E, forse, nemmeno basta, poiché ogni persona è tutto quello che non è, meno lui. Quindi, uno che non è nessuno, non dovrebbe essere nemmeno se stesso. E, comunque, arrivare all'idea di nessuno è impossibile senza parlare di tutti. Che in un posto non ci sia nessuno, è pensabile soltanto se potrebbe esserci qualcuno. Se al mondo non ci fosse qualcuno, sarebbe inconcepibile il concetto stesso di nessuno. Nulla e Nessuno sono concepibili in quanto contrari di Tutto e Qualcuno.

Almeno, io ragiono così; anche se scrivere di nulla e di nessuno non mi è ancora riuscito. E se ora ne parlo è perché sono convinto che, se non si trova presto un sistema, non ci si riuscirà mai. Certe cose o le trovi subito o non le trovi più. Il tempo è contro di noi: fa sparire oggetti e persone in modo irreversibile. Figuriamoci se non è capace di fare sparire il nulla!


Detto questo, rimane da sapere se questo benedetto nulla esiste o non esiste (anzi, adesso che ci penso, è la prima cosa da stabilire).

Razionalmente, saremmo portati a pensare che esista, che da qualche parte debba pur esserci: non è possibile che tutto sia qualcosa e che non ci sia niente che non è nulla. Ma, in quanto a prove, non ne abbiamo. Al momento, il nulla, non si sa né che cosa sia né se c'è: sono anni che scienziati di tutto il mondo cercano e non trovano nulla.

Certo è che, se non esiste, è segno che c'è un impedimento permanente che gl'impedisce di esistere.


Da quanto ho capito, il nulla esiste e non esiste. Oscilla. Oscilla, cioè, tra l'essere e il non essere. Ma come può essere?, direte voi, una cosa è o non è. C'è o non c'è. Una "cosa"! Non il nulla, che è elemento vago. Vaghissimo.

Mi spiego: a un uomo basta se stesso per esistere; anche se è solo, su un'isola deserta, sa di esistere. Ma il nulla che ne sa? Da solo (e per se stesso) non può esistere (soprattutto se esiste). Ci vuole quindi qualcuno che, trovandolo, lo identifichi e lo faccia esistere. Ma chi? È questo l'impedimento permanente.

Il nulla, se non è infinito, non è un vero nulla; bensì, "qualcosa" che collega a "qualcos'altro"; o lo separa. Occorre, di conseguenza, cercare un nulla, oltre il quale non ci sia più nulla. Ma chi può trovare un nulla simile? Chi può andare "eternamente oltre" a controllare che non ci sia più nulla? Nessuno! E un motivo c'è: il nulla, essendo infinito, richiede anche un tempo infinito. Il che presuppone l'esistenza di qualcuno che non abbia nulla da fare. F magari uno così lo si trova. Ma se non ha nulla da fare, è segno che non vuol fare nulla e sarà dunque impossibile indurlo a fare qualcosa.

Inoltre, l'inafferrabilità del nulla vanifica in partenza ogni tentativo. Trovarlo, significherebbe, in pratica, non trovare nulla. E non sapremmo mai se l'abbiamo trovato o no.


Tuttavia non bisogna disperare. Il nulla è rintracciabile. Basterà cercare altrove; per esempio, non fuori, ma dentro la propria testa. E si sospetta che qualcuno lo abbia già trovato. Purtroppo – proprio per questo – non può dirci nulla.

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Pagina 11

PREMESSA ALLA 'PARVENZA'



È sul marciapiede di una stazione ferroviaria che ho rinvenuto lo scritto che segue: uno scritto a penna, vergato su più fogli di un quaderno a righe. Vi si narra, in prima persona, un'esperienza che, almeno nella sua conclusione e mentre lo scrivente ne parla, deve ancora avvenire. Come se il soggetto narrante sapesse il proprio futuro e, però, lo raccontasse al passato. Dichiara, infatti, di essere scomparso, scrive: «Scomparvi». Ed è evidente che o non è più riapparso o non è riapparso prima di avere smarrito i suoi foglietti.

Ora, soltanto una terza persona, un testimone può parlare di uno scomparso, e non lo scomparso stesso. Una strana faccenda, che diventa ancora più strana quando lo "scomparso" pretende di spiegarla.

Io me ne tiro fuori e mi ritengo, semmai, responsabile della pena che, forse, vi do rendendovene partecipi.

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Pagina 13

LA PARVENZA



Non ero mai salito su quel treno. Eppure stavo lì, seduto nello scompartimento, con una borsa sulle gambe, un cappotto avvoltolato sulla borsa, una sigaretta tra le dita, un biglietto di viaggio, una prenotazione senza nome. Ero certo di possedere anche un portafoglio. Lo possedevo. Dentro vi era del denaro, un calendarietto di plastica, un miniorario ferroviario (forse viaggiavo spesso; o quella era la prima volta?) e un documento di identità. Lo apersi: il riquadro per la foto era vuoto, il rigo per il nome bianco. Un contenitore per tutte le identità possibili. Avrei dovuto comprendere subito il segno che ne veniva. Non lo compresi. Pensare che io non fossi nessuno, che non esistessi, no, non era pensabile. Chi non esiste non lo sa. E io, invece, sapevo di essere io, un "io" fresco, emerso da chissà dove, ma pur sempre un "io". Che avessi perduto la memoria era da escludere. Le vicende della memoria sono spesso intricate, ma non al punto di rendere uno smemorato dimentico della propria smemorataggine. Chi non ricorda sa di non ricordare e patisce. Io non pativo, me ne mancava la ragione: non avevo nulla da ricordare. E non me ne stupivo. Come non mi stupivo di ciò che mi stava intorno. Quello che vedevo era misteriosamente acquisito dentro di me. Mi mancava d'acquisire me stesso. Ero l'unica cosa che m'incuriosiva.

Cenai al vagone ristorante. Parlai. Mi parlarono. Conoscevo gli eventi di cui parlammo e non avevo letto i giornali. Ero un signore, come se ne incontrano tanti sui treni, né poco né molto colto, né poco né molto informato, un giusto mezzo – anonimo. Non me ne dispiacqui: sembrava che fossi abituato a essere così.

Posso solo dire questo: la mia intelligenza (o la mia coscienza?) aveva sede fuori della mia testa, fuori del mio corpo; sentivo che stava, come un occhio invisibile e con un legame invisibile e indivisibile, a venti centimetri dai miei capelli; quasi a prescindere da me. Sicché ragiono e ne discuto, e "mi vedo", anzi "mi vedevo". Ed ero di carne, ossa, cartilagini e tutto il resto.

Bevvi un caffè e un amaro. Pagai il conto: lo trovai eccessivo. E protestai. Perché non saprei dirlo. Il denaro che avevo non mi costava né fatica né altro, non mi costava nulla e sapevo di possederne quanto me ne serviva. Evidentemente, ero fatto in modo da non dare scandalo a me stesso.

Tornai al mio posto. Il treno correva per Roma, veniva da Milano. Io non venivo da nessuna parte e non andavo in nessun luogo; non avevo lasciato nessuno e nessuno mi attendeva. E nessuno, lì sul treno, badava a me più di quanto ognuno, di solito, non badi agli altri.

Le pensai tutte. Serve poco darvene l'elenco. Per quante ipotesi possiate fare, alla fine giungereste (come, dopo lungo riflettere, sono giunto io) a questa incredibile ma inevitabile conclusione: ero una parvenza, tanto più riuscita in quanto del tutto simile a una realta. Una parvenza che aveva coscienza di sé, come tutte le parvenze d'altronde (posso ben dirlo io); il mondo ne è pieno, servono a creare l'ambiente. Vi aspettano alle stazioni delle vostre partenze, vi accompagnano sui treni (o sugli aerei o sulle navi) e vi lasciano alle stazioni d'arrivo. Durano lo spazio di un viaggio (o di altre circostanze); poi, sembra che si avventurino per la città, invece girano al primo angolo e scompaiono. Sono come quelle figure che, al cinema, sullo sfondo di una sequenza, percorrono lo schermo da un estremo all'altro: non vengono da nessun luogo e in nessun luogo vanno.

Scesi dal treno. M'incamminai con la mia borsa, il mio cappotto. Quando si pensa: "Siamo di passaggio", ecco, era la definizione esatta. Io non so se possa dirsi normale essere così effimeri, ma so che mi sentivo perfettamente a mio agio: ciascuno è naturale a se stesso. Piuttosto, bisognerebbe chiederselo della vita se è una circostanza normale.

Attraversai l'atrio della stazione, mi affacciai sulla piazza, l'abbracciai con lo sguardo, la misurai con i passi, svoltai l'angolo e scomparvi.

E se m'avesse fermato la polizia? Se m'avesse colto in flagrante? Impossibile! Sono di quelli che la polizia non coglie mai sul fatto, poiché il fatto non sussiste.

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Pagina 33

L'UOMO COMUNE



Era un uomo così comune che spesso andava nell'ufficio di un altro e non se ne accorgeva. E anche i colleghi d'ufficio dell'altro non se ne accorgevano. Andarci o non andarci, insomma, era la stessa cosa. Tuttavia, egli ci andava (nel suo o in altro ufficio è irrilevante). Ci andava, quantomeno per scansare il rischio che il suo stipendio fosse versato a un altro. Oltretutto, nessuno lo avrebbe notato. Capitò infatti che, costretto a casa per malattia, il controllo medico venisse effettuato su un degente che non c'entrava nulla; ed essendo costui del tutto sano, il nostro uomo fu dichiarato guarito, e tornò in ufficio che era quasi moribondo. La circostanza, è ovvio, passò del tutto inosservata. Allora se ne stette a casa, dove la sua presenza fu registrata soltanto a causa del fatto che era il solo individuo di sesso maschile adulto ad abitarvi.

Aveva per moglie una donna comune. E l'aveva cambiata più volte, senza divorzi o vedovanze: la prima volta, lei e lui si erano perduti tra la folla e quando si ritrovarono si trattava di altre due persone; ma nella confusione nessuno noto il cambiamento e, meno di tutti, i due interessati.

Si fa fatica a parlare di un uomo così, si corre il rischio di non stargli dietro, di perderlo di vista, di trovarsi a raccontare la storia del suo vicino di casa o, peggio, di un suo lontano parente. Sono tentato di lasciar perdere, tanto è vicenda insulsa, priva di accadimenti particolari; e la Storia, affermano illustri studiosi, anche quella piccola di un uomo, si fa con accadimenti precisi e non intercambiabili. In altre parole: la Storia non si fa con i "se".

Ma se la Storia non si fa con i "se", con i "se" si fa la filosofia. Il che sta a dimostrare che, pur se la Storia non si fa con i "se", con i "se" si può sempre fare la filosofia della Storia. La quale altro non è che la storia delle supposizioni.

Ma questo vale per gli uomini e le vicende della Storia, non per il nostro uomo: "se" egli fosse stato un altro, non sarebbe cambiato nulla.

Aveva figli, casa, amici e pensieri. I figli: bambini dal cuore innocente, dai sentimenti semplici, sapevano senza saperlo (è la sapienza dell'innocenza) dell'incerta personalità del genitore. E sentendogli aprire la porta di casa, si trovavano sulle labbra il bisogno di chiedere: «Papà, sei tu?»

Quante volte la moglie, parlandogli, aveva esclamato (non si sa se per modo di dire o per modo di pensare): «Ma sai che non ti riconosco, non sembri nemmeno tu!» E chissà se era davvero lui, o qualcuno come lui che, non rendendosi conto d'essere un altro, si credeva lui. E poteva benissimo essere un altro che non s'avvedeva di non essere più lui. Come si fa ad esser sicuri di se stessi se si appartiene a una folla di tanti se stessi uguali?!

Pensieri: preferiva quelli confezionati, da utilizzare secondo il caso: al bar alcuni, in famiglia altri. Non una grande varietà, lo stretto necessario, giusto per garantirsi le apparenze; pensieri della domenica e dei giorni di mezzo, quelli da dire ma non da praticare, mai comunque suoi; ne avesse avuto uno soltanto suo, sarebbe morto di paura. Un uomo simile era difficile da individuare: si nascondeva senza nascondersi, si mostrava senza mostrarsi. Come mi sia accaduto di parlarvi di lui, non lo so. Era uno di quegli uomini che non lasciano ricordo, che non lasciano tracce, difficilissimo fotografarlo, le lastre si impressionavano appena.

Era un uomo così comune che, anche con un documento d'identità, sarebbe stato impossibile identificarlo: all'anagrafe considerarono un controsenso avergliene rilasciato uno. Io stesso non posso garantire di stare discorrendo ancora dello stesso individuo. Voglio dire: che, mentre ne parlo, non sia diventato un altro; o meglio: che non sia addirittura un altro quello di cui sto parlando. Il che non muterebbe né il discorso né il ragionamento. Ed è questo il tema tragico: lui o un altro non faceva diversità.

Intendiamoci, così fosse non ci sarebbe contraddizione; almeno nel fatto. E anche nel discorso. Sapere che il suo soggetto (il soggetto del discorso, dico) indipendentemente dalla mia volontà, può diventare o essere un altro (o tanti altri), senza che, perciò, i predicati perdano di credibilità e di coerenza, rimane l'unico curioso elemento di questo superfluo resoconto.

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