|
|
| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONI 5 Quando il fucile è in spalla alle donne 7 Brigantesse: tutta un'altra storia 27 PARTE PRIMA 39 Le brigantesse 41 Michelina Di Cesare 41 Filomena Pennacchio 51 Maria Oliverio detta Ciccilla 56 Giuseppina Vitale 63 Maddalena De Lellis, detta Padovella 69 PARTE SECONDA 89 Le partigiane 91 La resistenza delle donne 91 Partigiane vs ausiliarie 106 I numeri delle partigiane 118 Non dimenticare il male 123 Ondina Peteani, la prima staffetta d'Italia 125 Un quaderno a righe 142 Donne bresciane raccontano 151 Una storia di uomini e donne 170 L'altra guerra — Ricordi di donne del sud 175 Sebben che siamo donne 183 Gerarchie 191 Bibliografia essenziale 201 Ringraziamenti 205 Indice dei nomi 207 |
| << | < | > | >> |Pagina 2L'autore e l'editore inoltre riconoscono il principio della gratuità del prestito bibliotecario e sono contrari a norme o direttive che, monetizzando tale servizio, limitino l'accesso alla cultura. Dunque l'autore e l'editore rinunciano a riscuotere eventuali introiti derivanti dal prestito bibliotecario di quest'opera. Per maggiori informazioni, si consulti il sito «Non Pago di Leggere», campagna europea contro il prestito a pagamento in biblioteca «http://www.nopago.org/». | << | < | > | >> |Pagina 7QUANDO IL FUCILE È IN SPALLA ALLE DONNELasciando a Valentino Romano – esperto del fenomeno del brigantaggio femminile – il compito di parlarne di seguito, questa analisi si concentra sulle donne che parteciparono alla Resistenza che, senza di esse, sarebbe stata monca. Sulle Brigantesse riporto solo due passaggi del capitolo XII del libro Il Sangue del Sud di Giordano Bruno Guerci. Scrive il professor Guerri a pag. 165: «Per qualificarle, alcuni giornalisti sabaudi recuperano l'antico "druda", dal gaelico, che indica l'amante disonesta, la femmina di malaffare; altri, attingendo dal vocabolario germanico, preferiscono chiamarle "ganze". Cambia il nome, non il concetto». E più avanti, a pag. 169: «Se talora il brigante può rifarsi una vita e ricominciare da capo, alla donna non è concesso: bandita dalla società, vive emarginata, privata di affetti e amicizie, non può più nemmeno guadagnarsi da vivere. Alla donna che sceglie l'illegalità non si attribuiscono giustificazioni sociali, bensì tare culturali; non drammatici moventi individuali, ma turbe di una psicologia malata». «Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza», aveva dichiarato Arrigo Boldrini, parlamentare del Pci che aveva partecipato alla lotta partigiana col nome di battaglia "Bulow" 1. Eppure, la storiografia resistenziale è di fatto maschista, riconoscendo alle donne "il contributo prezioso" da esse dato, riservando all'uomo non la partecipazione alla Resistenza, ma l'identificazione stessa con essa. Le donne svolsero dunque un ruolo determinate durante la Resistenza, nella lotta per la liberazione dall'occupazione nazista. I ruoli ricoperti furono molteplici. Oltre a creare squadre di primo soccorso per aiutare i feriti e gli ammalati, si occuparono dell'identificazione dei cadaveri, dell'assistenza ai familiari dei deceduti, raccogliere medicinali e indumenti e cibo. Ma oltre alle mansioni più manuali come cucinare, lavare, cucire e assistere, le donne furono indispensabili nelle attività della collettività partigiana. Partecipavano infatti alle riunioni, apportando il loro contributo politico e organizzativo, non disprezzando all'occorrenza di cimentarsi nell'utilizzo delle armi. Particolarmente importante era il loro compito di comunicazione. Riuscivano a passare spesso indenni e senza problemi nei posti di blocco, e prendevano contatti con i militari, comunicando informazioni e strategie future. Nei posti di blocco spesso dichiaravano di doversi occupare dei malati o dei feriti, eludendo così il controllo dei tedeschi, che le lasciavano passare anche se addosso avevano «anche bombe a mano nascoste sotto il sedile» o «messaggi cuciti nel risvolto della gonna». Ma non sempre andava tutto bene e quando venivano scoperte erano sottoposte alle stesse angherie e torture riservate ai maschi, con l'aggiunta, spesso, delle violenze sessuali. Durante la Seconda Guerra Mondiale il compito delle donne si rivelò prezioso e insostituibile anche nelle attività produttive ed economiche. La chiamata alle armi tolse infatti molte braccia maschili all'agricoltura e all'industria, sostituendole con quelle femminili. I settori ricoperti dalle donne furono soprattutto quelli della manifattura tessile e del settore alimentare; oltre a questi però le donne parteciparono attivamente anche nei pubblici impieghi, nei campi agricoli e nelle catene di montaggio, affrontando lavori che per la fatica e la forza fisica richiesta erano riservati esclusivamente agli uomini. La loro presenza all'interno di questi settori però, oltre ad apportare un intenso beneficio all'economia dell'intero Paese, si contraddistinse per lo spirito battagliero e di protesta sindacale a cui le donne diedero luogo all'interno delle fabbriche e nei campi agricoli. A quegli anni risalgono infatti slogan come «vogliamo vivere in pace», oppure «vogliamo pane, basta con gli speculatori» con cui manifestazioni organizzate delle donne infiammavano le piazze e le strade delle città italiane. Nelle campagne, invece, spesso mettevano a disposizione le loro case per la cura degli ammalati e dei feriti, e nascondere le persone che stavano fuggendo, mettendo spesso la propria vita a repentaglio. Importantissimi inoltre furono i compiti ricoperti dalle donne nella raccolta di fondi necessari alla cura delle persone e di chi maggiormente aveva bisogno, oltre all'attività da loro svolta di vera e propria propaganda politica. Oltre ad azioni di sola informazione, però, molte donne furono coinvolte anche in veri e propri sabotaggi delle forze militari tedesche e di occupazione di depositi alimentari. Altri furono i compiti delle donne all'interno delle organizzazioni partigiane. Oltre alle combattenti, che imbracciarono le armi a fianco dei loro colleghi uomini, e le donne che occuparono degli incarichi di rappresentanza istituzionale nelle piccole realtà geopolitiche in formazione nel corso della guerra di liberazione, uno dei compiti che le donne avevano era quello della staffetta. Si trattava di ragazze dai 16 ai 18 anni che, armate soltanto di una bicicletta e di molto coraggio, facevano la spola tra una brigata e un'altra, ma anche tra una brigata e le loro famiglie, tenendo i collegamenti, portando notizie, talvolta accompagnando i resistenti o facendo da infermiere. Si trattava di un compito fondamentale senza il quale tutto sarebbe stato in una fase di stallo e le comunicazioni si sarebbero bloccate. La figura della donna appare dunque in quegli anni di fondamentale importanza, sia nelle attività produttive del Paese che all'interno del movimento partigiano che in una quotidianità segnata da disagi anche alimentari cui deve far fronte per prima proprio la donna, cercando di arrabattarsi con quel che offre il convento della tessera, con la quale si ha diritto mensilmente a un chilo di patate, un chilo di riso e di pasta, 100 grammi di fagioli, 200 di burro, 100 di grassi di maiale, 300 di sale, un decilitro d'olio. La razione del pane è di 150 grammi al giorno, quella di carne – indipendentemente dalla possibilità di acquistarla, molto remota per tante famiglie – 100 grammi. Il burro costa 28 lire al chilo, ma è praticamente introvabile e bisogna comprarlo al mercato nero e allora costa 150. Lo zucchero della tessera è a 11,20 lire, quello libero a 100. Una saponetta da bagno da 100 grammi deve durare due mesi. Un paio di scarpe di cuoio rigenerate, alla borsa nera, tocca le 2000 lire. Il caffè è sparito, sostituito dalla cicoria e dall'astragalo. A tavola si tiene spesso il paltò perché bisogna risparmiare sul riscaldamento. Si bevono grandi bicchieri d'acqua colorati di vino e anche nelle famiglie poco avvezze a praticare chiese ci si fa il segno della croce sperando in un domani migliore. La guerra è anche questo. Miserie con le quali sono soprattutto le donne a doversi confrontare. Ma il secondo conflitto mondiale è anche un laboratorio di sentimenti e comportamenti contrastanti. Forse è particolarmente vero per l'Italia, dove il rovesciamento delle alleanze e la guerra civile investono tradizioni culturali, convinzioni politiche, fedi religiose, disegnando uno scenario che cambia radicalmente nel tempo e nello spazio. Il discorso riguarda gli uomini, che fra il '43 e il '45 danno vita a due eserciti, uno interamente, l'altro in parte volontario, e nello stesso tempo ai più grandi fenomeni di sbandamento e diserzione della storia italiana. Nel '40, nessuna organizzazione femminile, cattolica o laica, prende posizione contro la guerra. L'8 settembre '43, quando l'esercito si disfa e decine di migliaia di soldati si sbandano nel Paese occupato dai tedeschi, a soccorrerli, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e indirizzandoli sulla via del ritorno a casa, sono soprattutto donne: per lo più donne cosiddette "comuni", che agiscono senza il sostegno di ideologie politiche in senso stretto, disarmate. Ci si aspetterebbe di vederle assistere in dolorosa rassegnazione alla cattura degli sbandati. Invece li contendono a un esercito strapotente, e non di rado con successo. | << | < | > | >> |Pagina 20[...] La partigiana ideale è la protagonista dell' Agnese va a morire, il romanzo modello sulla resistenza femminile: informe, materna, in età non sospetta. Le altre, come è risaputo, inquietano. Giovani, uscite non episodicamente dal privato e mischiate ai maschi nelle formazioni, sfidano troppe costruzioni ideologiche, a partire da quella per cui donne e uomini devono avere spazi separati; e fanno a tal punto da catalizzatore del biasimo antipartigiano che, in ossequio alla mentalità diffusa, vengono non di rado messe ai margini a emergenza finita. Che il "racconto" della Resistenza come nuova epopea nazionale nasca su questa rimozione del femminile non ha mai occupato i pensieri degli storici.Eppure affrontare quel vuoto aiuterebbe a capire da dove veniamo, in particolare per quanto riguarda modelli e politiche di genere, su cui forse non esiste un rivelatore potente quanto il tempo della guerra. Basta pensare, per esempio, all'impegno di tanti dirigenti politici e militari italiani nell'evitare un'immagine promiscua della Resistenza. Per lo più, lo si è letto come un adeguamento all'arretratezza sociale e culturale del Paese e un residuo interno all'orizzonte nord-occidentale, come se l'Italia non fosse invece fortemente legata alla tradizione del bacino mediterraneo. Senza dimenticare lo scarto temporale e le differenze che ci separano dai Paesi della riva sud, sarebbe utile una riflessione centrata sia sulla pretesa delle religioni a regolamentare direttamente o indirettamente la vita delle donne e la morale privata, sia sul riconoscimento che le forze politiche sono costrette, avvezze, spesso interessate, a dare a quella intromissione. La riluttanza a far sfilare le partigiane nei cortei della liberazione come versione evoluta del velo? Sarebbe un'ironia, se si pensa che nella guerra appena conclusa a garantire la vita sono state donne visibili a livello di massa nella sfera pubblica come mai prima; ma darebbe un elemento in più per comprendere alcuni aspetti: innanzitutto l'enorme legittimazione accordata al materno in quei momenti e la sua poca resa in termini di libertà e visibilità femminili a emergenza finita. Questi orientamenti hanno modellato per decenni i modi e i tempi della ricerca, che, come in tutta Europa, ha quasi ignorato la Resistenza delle donne e le lotte non armate. Per quanto riguarda la prima, la sua marginalizzazione era evidentissima nel disinteresse per il nodo donne/politica. Un problema lungamente dibattuto a proposito degli scioperi del marzo 1943 — il rapporto fra organizzazione politica e concertazione informale — è stato del tutto trascurato per le donne. Le stesse divergenze fra partigiane, fra organizzazioni femminili e al loro interno, venivano eluse a favore di un'immagine di quieto unanimismo. Già a partire dagli anni Settanta alcune studiose denunciavano queste cecità; ma in quella fase, e per vario tempo ancora, nella comunità delle storiche dominava la diffidenza verso i binomi che accostano le donne agli eventi della cosiddetta grande storia (gli intrecci donne/guerra, donne/resistenza e così via), quasi fossero un cedimento alle sue gerarchie di rilevanze. Anche per questo la storiografia resistenziale poteva continuare indisturbata a "spiegare" l'opera delle donne in termini di rapida politicizzazione (senza però verificarla), o di naturale oblatività femminile e di umanitarismo (seducenti parole tuttofare che andrebbero a loro volta spiegate, perché quei sentimenti non scattano sempre, né per chiunque). | << | < | > | >> |Pagina 27BRIGANTESSE: TUTTA UN'ALTRA STORIANel febbraio del 1861, con la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due Sicilie cessa, di fatto, di esistere. Francesco II, ultimo Re di Napoli, ripara a Roma, ospite dello Stato Pontificio. La precarietà dell'esilio, la solidarietà di numerose dinastie europee e le notizie — spesso ingigantite — delle difficoltà che il nuovo Stato italiano incontra per radicarsi nel territorio, lo spingono a coltivare la speranza di un sollecito ritorno sul trono. Dovunque, nei territori dell'ex regno — a Napoli, come nei centri minori — sorgono comitati segreti filoborbonici, con lo scopo dichiarato di sollevare le popolazioni contro i piemontesi. In tutto il Mezzogiorno si riaccendono improvvisamente i fuochi della ribellione contadina: fuochi che — a ben dire — hanno sempre infiammato il Meridione d'Italia; fuochi ora alimentati da uno sconquasso politico e sociale insostenibile. Il possesso e l'uso della terra hanno da sempre costituito un fattore scatenante di rivolte. Ma né le leggi eversive, né l'esproprio dei beni ecclesiastici hanno fatto conseguire la più antica aspirazione delle classi rurali: la proprietà della terra. Ed è terra ostile quella che i contadini lavorano per conto di altri, aristocratici e latifondisti. Spesso sottratta — zolla dopo zolla — ai boschi, alle macchie ed alle pietraie montane. In cambio i contadini ricevono un salario che consente appena di sopravvivere. Il mutamento di governo ha ingenerato speranze che ben presto si rivelano infondate. La terra cambia proprietario, ma i contadini ne sono sempre fuori, messi nell'impossibilità pratica di acquistarla o riscattarla con i sofismi di una legge fatta da un parlamento di "galantuomini" per i "galantuomini". Il destino dei contadini appare segnato: rassegnarsi o ribellarsi. L'esercito borbonico, che per molti giovani rappresentava l'unico sbocco occupazionale, è stato disciolto. Funzionari ex borbonici senza scrupoli, passati nella burocrazia del Regno d'Italia, hanno scientemente occultato il richiamo alle armi nel nuovo esercito italiano per favorire il disordine, così che una moltitudine di giovani si è ritrovata bollata con il marchio della diserzione, senza nemmeno venirne a conoscenza. Contadini senza terra e soldati senza esercito null'altro possono fare che darsi alla macchia. Nascono e proliferano, ingrossate anche da gruppi di evasi dai bagni penali borbonici, le bande dei briganti che sfruttano la conoscenza dei luoghi, l'ardimento e la sete di rivendicazione sociale per dare scacco all'esercito piemontese, un esercito straniero, che parla una lingua straniera, che applica leggi straniere, che obbedisce ad un re straniero e che dunque è un esercito di occupazione. La violenza esplode allora in tutta la sua virulenza: l'occasione è propizia anche per soddisfare la sete di vendetta troppo a lungo repressa nei confronti dei possidenti, dei "galantuomini" e del clero. Nelle Calabrie, nelle Puglie e, soprattutto, in Basilicata sono messi a fuoco e depredati interi paesi, massacrate le personalità più in vista e più odiate, sbaragliate le truppe piemontesi. L'esercito è impotente, percorre a casaccio le contrade più impervie, cade in imboscate, vede i suoi uomini falciati da un nemico invisibile, reagisce con violenza alla violenza in una spirale infinita di sangue. Il fenomeno del brigantaggio approda nel Parlamento che, lungi dal preoccuparsi di tentare — con una saggia politica di riforme sociali — di rimuoverne le cause, sceglie la via della repressione, adottando una legislazione speciale, la legge Pica, che instaura il terrore nei territori occupati, la fucilazione sul campo, lo stupro delle donne dei ribelli. In questo contesto matura il dramma delle "brigantesse", che è dramma della rottura dell'equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che, ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano capaci di affiancare con coraggio i propri uomini e partecipare attivamente alla rivolta contadina. È difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816). Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da un'incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l'avevano colpita negli affetti più cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze. Avvenente d'aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò — forte della sua posizione sociale — di sedurla. Respinto dalla fiera Francesca, il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l'esercito francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Alle suppliche di Francesca, l'ufficiale fu irremovibile: i giovani subirono un processo sommario e furono fucilati. Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di briganti che operava nella zona, dismise gli abiti femminili ed indossò quelli dei briganti. In breve, fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando un loro drappello cadde in un'imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l'ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante. Nell'orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli affetti feriti, l'irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati. Crollato il mondo familiare intorno al quale si è costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta femminile si dimostra ancor più feroce di quella maschile. Si tratta di fenomeni tuttavia limitati che fanno da contraltare a tanti episodi di rassegnazione e di pianto: costituiscono un'eccezione, insomma, non già la regola. Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire autonomia assoluta al brigantaggio femminile preunitario. Forse sarebbe più corretto parlare di una "questione dentro la questione". E questo non sminuisce il ruolo delle donne nella rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la comprensione dell'intera questione delle classi subalterne meridionali. È comprovata invece, nelle vicende rivoluzionarie della seconda metà dell'Ottocento, la presenza di un considerevole numero di donne nell'organizzazione brigantesca. Chi può, infatti, legittimamente sostenere che in una banda di briganti, numerosa e perfettamente organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno della presenza delle donne per motivi logistici, di collegamento, di approvvigionamento e, perché no, anche per motivi affettivi? Occorre qui introdurre e operare — semmai — un'altra distinzione che dall'Ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra "la donna del brigante" e "la brigantessa". Numerosi sono gli esempi di "donne del brigante", più rari — ma non meno significativi — quelli di "brigantesse". Gli uni e gli altri concorrono però in eguale misura a definire il ruolo della donna nelle classi rurali della seconda metà dell'Ottocento meridionale italiano e contribuiscono certamente all'affermazione del posto che la donna occupa nell'odierna società italiana. | << | < | > | >> |Pagina 91LE PARTIGIANENon abbiamo fatto la guerra noi. Noi abbiamo fatto le donne. Abbiamo fatto solo le donne. Carla Leali, donna della Valsabbia LA RESISTENZA DELLE DONNE Trentacinquemila le partigiane, inquadrate nelle formazioni combattenti; 20.000 le patriote, con funzioni di supporto; 70.000 in tutto le donne organizzate nei Gruppi di difesa; 16 le medaglie d'oro, 17 quelle d'argento; 512 le commissarie di guerra; 683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1750 le donne ferite; 4633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 1890 le deportate in Germania.
Sono questi i numeri della Resistenza al femminile, una realtà poco
conosciuta e studiata.
Durante la guerra, le donne non solo si erano fatte carico delle responsabilità sociali tradizionalmente maschili, sostituendo l'uomo nel lavoro e nel mantenimento della famiglia, ma avevano anche scelto di schierarsi e combattere, nelle diverse forme possibili, la lotta resistenziale, ribaltando la consueta divisione dei ruoli maschile e femminile. Nei libri di storia si accenna appena alla partecipazione delle donne alla Resistenza, sebbene il loro apporto si fosse rivelato determinante ai fini di una maggior efficacia dell'organizzazione delle formazioni partigiane, entrando a far parte di diritto nella storia della Liberazione nazionale: le donne si occupavano della stampa e propaganda del pensiero d'opposizione al nazifascismo, attaccando manifesti o facendo volantinaggio, curando collegamenti, informazioni, trasportando e raccogliendo documenti, armi, munizioni, esplosivi, viveri, scarpe o attivando assistenza in ospedale, preparando documenti falsi, rifugi e sistemazioni per i partigiani. Risulta evidente che un aiuto di questo tipo, considerato dalle stesse protagoniste come "naturale", trova difficoltà ad essere formulato storicamente in modo ufficiale. Infatti i dati numerici sopra riportati non sono completamente attendibili, poiché la maggior parte di essi si ricava da riconoscimenti ufficiali e "premiazioni" assegnate a guerra conclusa sulla base di criteri militari, in cui la maggioranza non rientrava o non si riconosceva. Di fatto veniva riconosciuto partigiano chi aveva portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata regolarmente riconosciuta dal Comando Volontari della Libertà ed aveva compiuto almeno tre azioni di sabotaggio o di guerra. Ma l'azione femminile, oltre alla direzione dettata dalla necessità di dare assistenza ai partigiani, attraverso molteplici attività materiali, si orientava anche politicamente: numerosissime donne, di ogni estrazione sociale, operaie, studentesse, casalinghe, insegnanti, in città, così come in campagna, organizzarono veri e propri corsi di preparazione politica e tecnica, di specializzazione per l'assistenza sanitaria, per la stampa dei giornali e dei fogli del Comitato di Liberazione Nazionale. La Seconda Guerra Mondiale ha permesso alle donne, in un certo senso, di emergere dall'anonimato e le ha trasformate in soggetti storici finalmente riconoscibili, nell'esperienza non solo di sostegno e solidarietà offerta all'azione partigiana; ma di azione vera e propria, con tanto d'armi in pugno. L'antifascismo fu, per le donne, una scelta difficile, ma libera da costrizioni esterne: non fu dettata dal timore di rastrellamenti messi in atto in seguito ai bandi, o dallo stato di evasione che fece confluire nelle bande partigiane migliaia di giovani. In più quelle che partecipavano attivamente non erano né fanatiche, né guerrafondaie, ma donne normali. La Resistenza per queste donne significò anche impugnare un moschetto, ma soprattutto conquistare la cittadinanza politica. Il desiderio di liberarsi dai tedeschi si intrecciava con quello di conquistare la parità con l'uomo: ciò esprime il fatto che allora la donna acquistò la consapevolezza del proprio valore e delle proprie capacità, derivante dalla rottura del sistema di controllo sociale causata dalla guerra. Si trattò di una guerra nella guerra, della battaglia per la loro emancipazione dopo una millenaria subordinazione. La motivazione politica portò ad un risultato importantissimo: la richiesta di un riconoscimento di un ruolo pubblico nel nuovo sistema democratico, fino ad allora negato alla donna da una società prevalentemente maschilista. L'attività delle partigiane è stata sottoposta in sede storica a varie letture: Anna Bravo ha evidenziato come il contenuto dell'appello che la società lancia alle donne nei momenti di sconvolgimenti profondi, come le guerre, facendo leva sul sacrificio di sé per la salvezza collettiva in nome della maternità come valore sociale, riconduce l'azione femminile all'interno del naturale orizzonte di valori istintuali che non può tradursi nel riconoscimento di una pratica politica. La scelta resistenziale delle dorme ha rappresentato, in contrapposizione ai modelli femminili proposti dal regime fascista, la ricerca di libertà personali sollecitata dalla società di massa e, in parte, soddisfatta dalla difesa armata e paritaria della patria, simbolo nella tradizione politica occidentale dell'accesso alla cittadinanza. La Resistenza, comunque, ha rappresentato una nuova importante tappa del percorso emancipativo delle donne, determinando per esse un universo simbolico di riferimento nuovo, sancito formalmente dal decreto sull'estensione del diritto di voto del 1° febbraio 1945. Le hanno chiamate donne della "resistenza taciuta", come s'intitola uno storico saggio su dodici vite partigiane. In effetti pochi le conoscono per ciò che erano: autentiche leader, politiche e morali. Combattevano, venivano arrestate, a volte picchiate o violentate senza parlare o tradire. Facevano politica senza separarla dalla vita (molto tempo prima dello slogan "il privato è pubblico"). I valori e i caratteri del mondo femminile, sviluppatisi durante la millenaria soggezione e in risposta a questa, diedero, anche alla nostra Resistenza, una ricchezza che non avrebbe raggiunto altrimenti. Fra questi caratteri, risaltano la spontaneità, il rifiuto del calcolo, il senso di giustizia, la capacità appassionata di amare e di soffrire, il rispetto della verità dei fatti e dei sentimenti («avevamo paura», hanno ammesso alcune, candidamente), la generosità comunicativa, la modestia, la pietà. Davvero una Resistenza sofferta e taciuta. Sono decine di migliaia le dorme che hanno combattuto il nazifascismo affrontando arresti, violenze e deportazioni. Che sono uscite di casa per entrare nella Resistenza. Che vi hanno fatto ritorno, spesso dimenticate, a guerra finita. Esse non si affiancarono ai loro compagni soltanto con il ruolo di cura attribuito loro dalla memorialistica e dalla storiografia ufficiale, né si può più dire che esse stavano ai margini della lotta di liberazione, perché esse ne furono protagoniste. L'importanza delle dorme nella vita quotidiana e sociale nel borgo aumentò durante la guerra: non solo fecero fronte ad un aggravamento delle già misere condizioni di vita, ma si assunsero l'incarico di manifestare con modi "estroversi", come le proteste di piazza, il dissenso contro il regime. Simbolo del nuovo protagonismo femminile è il famosissimo "sciopero del pane" del 16 ottobre del 1941. | << | < | > | >> |Pagina 101La lotta partigiana vide le donne nei Gap (Gruppi d'azione partigiana), nelle Sap (Squadre d'azione partigiana) e in montagna, nell'organizzazione di scioperi e agitazioni esclusivamente femminili (si pensi alle grandi manifestazioni seguite a Torino alla morte delle sorelle Arduino) nelle carceri, sotto la tortura (e seppero non parlare!), nella diffusione della stampa clandestina (le messaggere erano quelle che, mimetizzandosi e mettendo a repentaglio le loro vite, hanno superato le linee tedesche per stabilire un contatto con i compagni d'arme. Simbolo della loro opera è una comune borsa della spesa, nella quale nascondevano, sotto pomodori e peperoni, le informazioni cifrate dei partigiani), nelle pericolosissime missioni di collegamento. Non solo come "mamme" dei partigiani, o vivandiere, o infermiere di ribelli affamati o feriti (le infermiere erano distinguibili per una piccola fascia bianca bordata di rosso sul braccio. Le loro mani erano arrossate dal sangue dei fratelli di battaglia, che poi avevano accolto e curato nei fienili e nelle cantine), anche se furono pure questo, e quando tutto ciò poteva significare l'arresto, l'incendio della casa, la fucilazione. Le donne furono le saldissime maglie della rete, rischiando spesso più degli uomini perché, se catturate, il nemico riservava loro violenze carnali, che, in genere, ai maschi non toccavano.Nel ridimensionamento, anzi nella polverizzazione che "il vento del Sud" portò ai valori sociali della Resistenza in nome della continuità dello Stato, le donne partigiane furono doppiamente tradite: dalle forze politiche tradizionali e, in molti casi, più dolorosamente, dagli stessi compagni di lotta. In fondo anche per molti uomini di sinistra le partigiane combattenti avevano trasgredito la vocazione domestica. Quindi essi preferivano pensare che le donne avessero agito più per amor loro che per autonoma scelta politica. Alla fine della lotta armata, la stragrande maggioranza delle donne non si fece avanti per ritirare medaglie e riconoscimenti. Molte, vedendo come avvenivano le assegnazioni, si astennero deliberatamente dal chiederle per non confondersi con i partigiani del 26 aprile. Anche per questo, le statistiche che indicano la partecipazione femminile alla Resistenza sono così poco attendibili. Però, quando sfilavano i drappelli delle donne partigiane, esse avanzavano orgogliose e impavide e si poteva scorgere sul loro volto, reso quasi duro dalla severa vita di montagna, la bellezza animata dal sorriso della vittoria. Quelle che sul corpo portavano le tracce della battaglia, suscitavano emozione e silenzio tra le due ali di folla: dall'inferno del piombo fascista erano uscite indenni e sembrava che le loro narici odorassero ancora della polvere da sparo. Esse sentivano, come tutti gli oppressi, che non combattevano solo contro il fascismo, ma anche, e soprattutto, contro la disuguaglianza e l'ingiustizia. Ogni azione gappista risultava sofferta non solo fisicamente, ma anche psicologicamente, perché accompagnata dalla considerazione, da un lato, della ineluttabilità di quello che si era fatto e, nel contempo, dall'orrore che si provava per essere stata causa della morte di esseri umani, sia pur nemici. A ciò si aggiungeva il dilemma di fondo che, probabilmente, ha attanagliato tutte le donne partigiane: ossia il conflitto tra la necessità di sopprimere vite umane da parte di chi, per natura, la vita la crea e il tentativo di giustificare, a sé stessa prima che agli altri, questo gesto contro natura. Il che è un dilemma, appunto, tutto femminile, che rappresenta probabilmente l'aspetto più travagliato e sublime di come le donne hanno saputo motivarsi in questo periodo drammatico ed esaltante che fu la Resistenza e, per certi aspetti, dà alla loro partecipazione alla Lotta di Liberazione una valenza più intimamente sofferta rispetto alla partecipazione maschile. Beppe Fenoglio, ne Il partigiano Johnny, descrive così il suo incontro con le partigiane: «Praticavano il libero amore, ma erano giovani donne, nella loro esatta stagione d'amore coincidente con una stagione di morte, amavano uomini e l'amore fu molto spesso il penultimo gesto della loro destinata esistenza. Si resero utili, combatterono, fuggirono per la loro vita, conobbero strazi e orrori e terrori sopportando quanto gli uomini». L'esperienza resistenziale accomunò, in nome della Liberazione della propria Patria dagli occupanti nazifascisti, donne di varia matrice politica, che per semplificazione d'indagine, raggrupperemo in donne di sinistra, comprendendo militanti del Pci, del Psi, del Pri e della sinistra cristiana, e donne cattoliche. | << | < | > | >> |Pagina 183SEBBEN CHE SIAMO DONNESebben che siamo donne/paura non abbiamo/abbiam delle belle buone lingue/e ben ci difendiamo... cantavano le mondine nelle risaie ai primi del Novecento, esercitando il diritto del canto libero/ liberatorio. Almeno quello: "libero" perché non-dipendente, "liberatorio" perché alienante la condizione di sudditanza. Sudditanza dal maschio (padre, marito: prima; padrone: poi). Quasi una canzone-manifesto ripresa nei decenni successivi da donne impegnate su fronti diversi. Quasi una colonna sonora per accompagnare la lunga marcia del riscatto femminile/ femminista in una società maschile/ maschilista che ha sempre avuto nella diversità cromosomica il sinonimo del fare, del comando, del potere: col beneplacito delle stesse donne (mamme: prima; mogli: poi) blindate in una condizione storicamente loro assegnata – e da loro assunta come "naturale". "Naturale" come un "diritto naturale". "Naturale" come un "dovere naturale". Per questo – nella lunga marcia – è stato (è) necessario il camuffamento della propria essenza. Fino alla sua alienazione. In questa lunga marcia, le donne hanno dovuto spesso assumere ruoli "maschi" (controvoglia perché implicante l'abiura della femminilità) per bisogno: nelle fabbriche come nelle campagne. Ma anche nello scontro duro, quello in armi. Ed è il bisogno a fare di Maddalena de Santis una brigantessa. Il bisogno a fare di Clementina Rovati una partigiana. Il bisogno a fare di Margherita Cagol una brigatista. Bisogni che possiamo quasi esteticamente catalogare esternamente nelle loro diversità, ma che nelle loro intimità rispondono a precise (e storicamente peculiari) esigenze. Il bisogno delle brigantesse matura dalla rottura dell'equilibrio familiare: è dal dramma di madri senza più figli, di spose senza più mariti, di figlie senza più genitori che quelle donne del Sud imbracciano lo schioppo. Che muovono parimenti il mestolo e il fucile. Donne tutte meridionali, ovviamente, come tutto meridionale fu il fenomeno iniziato all'indomani dell'unificazione del Regno d'Italia e del conseguente esilio di Franceschiello: re Francesco II di Borbone. Donne disperate perché ai loro padri, mariti, morosi, fratelli hanno fatto indossare una divisa sconosciuta, strappandoli dalle campagne, cioè dalla produzione: dal "fare" il pane. Donne senza più futuro che finiscono così – quasi incoscientemente, nel senso di senza-averne-coscienza – col ribaltare il loro ruolo sclerotizzato in una rassegnata sudditanza, portandolo verso la palingenesi di un riscatto sociale di cui – quasi sempre incoscientemente – sente il bisogno ancor prima che quello economico. È così che nasce la brigantessa. Non la donna del brigante, la druda del brigante (neologismo ottocentesco coniato sulla parola francese brigant = delinquente), ma brigantessa essa stessa. Capobanda capace di organizzare, comandare, uccidere. Un ruolo quindi "maschile", seppur primitivamente generato sempre da un bisogno: quello di vendicare l'arresto o l'uccisione del proprio uomo. O quello di prenderne le veci perché percepite dagli altri briganti come "naturale" continuità nel comando. Brigantesse che assumono quindi la leadership di bande armate già esistenti e formate dal proprio uomo (che non c'è più), e che dimostrano vieppiù di muoversi con la stessa disinvoltura, la medesima tecnica, superando in alcuni casi il maschio in ferocia. Donne diverse, le cui esistenze/vicende percepiamo tuttora come eccentriche, perché la nostra resta una società centralizzata attorno a un assetto – se non maschilista, maschile. E che alla donna assegna altri ruoli: più "rosei" rispetto alla brutalità di un moschetto. Alcuni hanno sostenuto che una donna è ancora più determinata quando sceglie di dare la morte, perché rinnega la sua natura: quella di darla la vita, non di toglierla. Può essere vero: delle tante storie nelle quali mi sono imbattuto, posso solo dire che non ho trovato sostanziali differenze fra percorsi maschili e femminili, se non in quelle che marcherebbero diversità anche in altri ambiti. Certo, rimane il fatto che una donna che spara, che uccide, impressiona di più, ma solo perché non siamo culturalmente attrezzati per accettare l'idea che una donna possa, nel bene e nel male, fare tutto ciò che, nel bene e nel male, fa un uomo. Anche andare in montagna quindi e, fra stenti, freddo, fame, pidocchi, imbracciare un fucile e sparare. Come fecero le donne che salirono sui monti del Nord per combattere i nazifascisti della Repubblica di Salò: non solo staffette, cioè latrici di messaggi (seppure in molte hanno perso la vita per questo servizio postale clandestino), ma vere e proprie soldatesse, con tanto di fucile in spalla. Donne mosse dal bisogno di ricomporre realtà sconvolte da una violenza che stava ammazzando la storia. E allora, così come erano passate dai campi alle fabbriche, erano parimenti passate dal focolare (domestico) ai focolai (della guerriglia). Prevalentemente al Nord – se si esclude l'eccentricità romana e quella ancor più particolare delle nappiste napoletane – si sviluppa il fenomeno del terrorismo di stampo femminile nei tragici anni di piombo sulla base di altri bisogni: primo fra tutti, quello (seppur delirante nella sua escatologica ricerca della città del sole), del comunismo. Anche in questo caso, i ruoli maschili sono assunti dalla donna per vestire un abito inedito nella sua storia: più che un abito, una divisa per combattere una battaglia in cui i ruoli sono mescolati in una finalmente avvenuta parificazione dei sessi. Brigantesse, partigiane, terroriste: una rasoiata a quel ruolo che storicamente aveva blindato le donne in una domesticità rassicurante, perché rispondente ad altri bisogni. Rassicuranti erano perfino le botte ("naturali") inflitte prima dai padri e dai fratelli, poi dai mariti. (In una puntata di Mario Soldati nel suo strepitoso "Viaggio in Italia" della fine degli anni Sessanta, alla richiesta di Soldati su come immagina il suo futuro, la sventurata risponde: «Voglio sposarmi, avere figli, e un marito che quando me lo merito mi dà due schiaffi»). Rassicuranti erano state tutte le società preindustrali che contemplavano come "naturale" lo stupro. Stupri consumati in regge e fienili, sotto baldacchini dorati e sopra pagliericci impidocchiati. Stupri "contenuti" in luoghi perimetrati a livello sociale ed economico. E tutti sapevano, ma nessuno diceva. Perché nulla c'era da dire; perché la "normalità" non fa chiacchiera. Una violenza che tuttavia non prevedeva la morte. L'annientamento dell'oggetto dello stupro (il corpo della donna) debutta nel momento in cui il perimetro s'estende. Un'estensione che coincide con lo sviluppo della società industriale, quando gli uomini e le donne si spostano in massa (e non si conoscono) dalla campagna alla città. Per questo, lo stupro "diventa" qualcosa di nuovo, assumendo le forme di un meticciato stupro/violenza inedito fino a quel momento. Alla violenza dello stupro si aggiunge la violenza di una persona che può arrivare a uccidere un'altra persona, perché non la conosce: non è né sua moglie, né sua figlia, né sua nipote (né suo nipote o suo figlio). Il mondo contadino ha sempre contemplato all'interno del suo sistema parentale/paraparentale/amicale "la normalità dello stupro". Laddove per normalità s'intende il rapporto perverso ma consueto e accettato dalla comunità fra chi esercita un potere sessuale (il padre, il fratello, il padrone) e chi quel potere lo subisce. In "Novecento" di Bertolucci, c'è una scena emblematica in questo senso: il vecchio patriarca ottuagenario si fa masturbare nella stalla da una giovanissima contadina. È "normale". Nello stesso film, Attila, il nefando fascista, uccide un ragazzino dopo averlo stuprato.
Per secoli, anzi, per millenni la Storia s'è scritta con le storie di uomini
che «hanno fatto», e quelle di donne che quei fatti li «hanno subiti».
|