Copertina
Autore Roberto Casati
Titolo Contro il colonialismo digitale
SottotitoloIstruzioni per continuare a leggere
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2013, i Robinson , pag. 134, cop.fle., dim. 14x21x1,5 cm , Isbn 978-88-581-0731-7
LettoreRenato di Stefano, 2013
Classe libri , scrittura-lettura , scuola , informatica: sociologia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


La montagna incantata                                     3

Che cosa è cambiato veramente?                            9

Come si passa da un ecosistema all'altro?
Per esempio, chi è oggi un fotografo?                    14

Produrre o consumare?                                    18

Ovvero, quanto costa la tua attenzione?                  21

Ricettari, manuali, enciclopedie. E i saggi?             24

In che senso il saggio su carta stampata è perfetto?     29

Perché il libro, il museo lineare e il tasto «indietro»
funzionano così bene?                                    33

Si legge meglio su carta o su tablet?                    38

Si naviga meglio in un testo facendo finta di
sorvolarlo?                                              40

Chi può salvare i lettori (e la lettura)?                43

Il cuore del problema:
sapremo progettare l'apprendimento?                      46

Il design del tempo: meglio tutori on demand
o l'orario di ricevimento?                               48

Il design del tempo: chi ha paura di un mese
passato a leggere?                                       51

Come estendere questi percorsi di lettura protetta,
per esempio anche ai genitori?                           55

Il design dello spazio: chi ha paura di un tavolo
privato in una biblioteca pubblica?                      56

È veramente in corso la grande mutazione
antropologica? Esistono i «nativi digitali»?             58

La tecnologia aiuta veramente l'apprendimento?           66

Fatti non foste a vivere dispersi?                       69

In che modo la scuola può resistere
alla normatività automatica?                             73

Emerge prepotentemente il ruolo del design:
quanto costa la sciatteria progettuale?                  75

Imparare da un video o da una persona?                   79

Il mash-up è un destino?
È in arrivo il manuale scolastico autoprodotto?          81

Come riprogettare l'apprendimento
intorno alle nuove tecnologie?                           86

Come liberarsi dal Maestro Elettrico?                    89

La scuola deve veramente venire riformata
in profondità per adattarsi alle nuove tecnologie?       90

Le tecnologie di transizione verso il libro digitale:
ma come facciamo con tutti quegli errori?                98

Ha senso fare la guerra a Wikipedia?                    102

Perché non correggete anche voi Wikipedia?              105

Come risolvere i litigi su Wikipedia?                   109

Serve veramente tenere traccia di tutto?                112

Le assai gradite e apparentemente azzeccate
raccomandazioni di Google ci aiutano veramente?         115

Non potremmo usare il caso per proteggerci
dalla bolla informazionale?                             123

Come difenderci dalla sindrome da intrappolamento?      125

Conclusioni                                             128

Epilogo                                                 131

Ringraziamenti                                          133


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 3

La montagna incantata



Avevo sedici o diciassette anni. Con due amici eravamo saliti all'Alpe Devero, sopra Domodossola, un sabato pomeriggio, con l'idea di pernottare e spingerci l'indomani fino all'Alpe Veglia – una traversata classica delle Alpi Occidentali. Il rifugio era completo; il gestore ci diede le chiavi della baita di un suo conoscente, una delle tante che vedevamo disseminate sull'altopiano. Ci andammo dopo cena con un senso di mistero e di avventura. La sera scendeva velocemente, dovevamo fare attenzione attraversando al buio prati e torrenti. Entrati nella casetta, chinando la testa per passare dalla porta troppo bassa, accendemmo una lampadina improbabile e fioca.

Sorpresa!

Non era la solita ambientazione montanara. La baita era tappezzata di libri, dal pavimento alle travi del soffitto; dappertutto mensole piene, e c'erano libri sulle sedie, sul tavolo, sui letti che dovemmo cautamente liberare per fare spazio ai sacchi a pelo. Edizioni economiche, perlopiù; molte vecchie BUR. Sfogliate, annotate, stropicciate; un lettore accanito abitava in quel luogo.

Che cosa potevamo fare? Passammo la notte a leggere, in parte intimiditi, in parte esaltati dalla scoperta del tesoro; era impossibile sottrarsi all'imperativo di quella baita; era come se non avessimo altra scelta. Probabilmente fu in quell'occasione che feci mia la risposta di Böll alla domanda «Che cosa faremo di questo ragazzo?». Ovvero:

«Qualcosa che abbia a che fare con i libri».

Leggevo molto anche da prima, certo: con due zie insegnanti di latino e greco la casa dei nonni – una villa arcigna in stile umbertino che stava quasi al limite della città, vicino al Canale Villoresi, che segnava allora l'inizio della campagna – aveva scaffali di legno bianco straboccanti; uno studio, quello della zia Maria Casati, sapeva di biblioteca comunale, un odore di carta che va in polvere addolcito dalla fragranza di un vecchio cuoio, una sella di cammello riportata da un viaggio levantino, il fumo leggero di una Lucky Strike. Ero sempre ben accetto in quella grande stanza piena di luce al piano terreno, anche se c'erano continue visite di studenti che venivano a ripetizione e cantilenavano declinazioni. Mi accucciavo in poltrona e leggevo. Sul tavolinetto c'era un tagliacarte con cui capitava di dover ancora aprire le pagine di qualche vecchia edizione – si intravedevano delle parole che sembravano stampate per il solo piacere di essere stampate; andava benissimo anche se nessuno le avesse mai lette, pareva. Parole assolute, eterne, che forse era meglio lasciare ad altri di scoprire, tra cento, mille anni. Il fruscio ritmato della pagina tagliata a poco a poco accompagnava la scoperta di un piccolo mondo.


Pausa.

Giunti a questo punto state pensando di avere tra le mani il solito inno al buon vecchio libro. Carta frusciante, addirittura un tagliacarte. Non stiamo esagerando? Lasciatemi continuare ancora un po' su questa strada. Poi passeremo ad argomenti diversi, che ci porteranno a vedere un problema più ampio, che non riguarda solo i libri. Ma per il momento andiamo avanti così.


E poi c'erano i traslochi di famiglia, che ruotavano intorno ad elaborate e rituali preparazioni di casse di volumi: confeziona riempi etichetta trasporta svuota rimetti in ordine. Il mio primo acquisto nella prima stanza in cui ho abitato da solo fu una libreria a cinque ripiani. L'ultimo acquisto, ieri pomeriggio, un libro. Se uno legge molto, o legge poco, dipende molto dal caso, dall'aver avuto lettori intorno a sé quando era bambino, dall'aver avuto maestri e insegnanti che sanno far vivere un testo, dalle proprie curiosità, da incidenti di percorso. O dal vivere in un mondo in cui molti leggono.

Thomas Geoghegan, nel suo divertentissimo e profondo Were you born in the wrong continent?, racconta l'eccitazione e la frustrazione di un giuslavorista americano in viaggio nello stato sociale tedesco. A casa propria l'avvocato difende i colletti blu che si autoriducono assurdamente diritti e tutele votando per chi li spoglierà. Geoghegan dispiega molte cause dell'apatia, se non della docilità, della classe operaia del suo paese regalandoci un'immagine potentissima, quella di un treno pendolari in cui nessuno legge e tutti guardano assenti nel vuoto. Leggi poco, ti informi poco, non partecipi, non voti, ti lasci schiacciare. In opposta direzione spirituale viaggiano i treni tedeschi che Geoghegan prende, dove tutti leggono qualcosa, un libro, un giornale, un volantino; una ecologia della lettura che porterebbe direttamente al modello della cogestione, con i lavoratori nei consigli di amministrazione delle imprese.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Che cosa è cambiato veramente?



Facciamo un piccolo salto indietro nel tempo. All'inizio del nuovo millennio avevo fatto un'ipotesi sull'avvenire dell'ebook. Avevo sostenuto che l'ebook non si sarebbe imposto, o non avrebbe sostituito il libro, per ragioni un po' differenti da quelle tipicamente invocate dai conservatori e contro gli argomenti addotti dai futuristi. Oggi si legge sempre di più su Kindle, Nook o iPad, anche se in misura inferiore alle aspettative. Voglio ritornare brevemente su quell'argomento per capire se e in che modo l'ipotesi sia stata veramente smentita. Questo ci permetterà di capire alcune cose importanti.

Le obiezioni di solito sollevate contro la possibilità di trasferire all'ebook la produzione a stampa riguardavano vari fatti:

— Si può strappare una pagina del libro di carta e spedirla a un amico.

— Se il libro cade non si guasta.

— Il libro non rischia di essere scarico a metà del capitolo quattro.

— Il funzionamento del libro dipende soltanto dal lettore e non c'è manutenzione.

— Il libro è ergonomicamente perfetto, fatto per la mano e per l'occhio, è un tipo di oggetto che non invecchia e infatti non ci sono da quattrocento anni a questa parte grandi innovazioni.

E invece:

— L'ebook non può venir scomposto senza danneggiarne significativamente la funzionalità.

— Essendo hi-tech, è soggetto a svariati rischi di rottura o di cattivo funzionamento.

— Non c'è ancora un accordo su un ebook standard.

— L'hardware degli ebook e il formato dei testi possono cambiare molto velocemente (si pensi a come sono cambiati negli ultimi dieci anni i computer e í documenti .doc).


Questi dettagli mi sembravano interessanti, ma mi parevano anche gettare fumo negli occhi, nascondendo problemi ben più seri cui non mi sembrava si fosse prestata sufficiente attenzione. Pensavo si dovesse spostare la discussione sul ruolo che l'ebook occupa nella catena delle relazioni sociali, per esempio sul modo di proteggere l'autore (e il suo editore) dalle violazioni del copyright. Ma immaginavo anche che potessimo spingerci ben oltre e pensare a una ridefinizione dei legami sociali creati dalla circolazione e dalla vendita elettronica dei contenuti culturali. Vediamo un altro gruppo di contrasti:

Posso regalare un libro. Nessuno regala il capitolo introduttivo di un libro per invogliare un amico a leggere il libro.

Viceversa: io troverei molto maleducato un amico che mi spedisse per email il primo capitolo di un testo di Stephen King o di chiunque altro con annesso pulsante di acquisto.

Allargata in questo modo, la discussione sulla natura dell'e-text e dell'ebook ci obbliga a ridefinire le sue prospettive d'uso. Nel 2000 il settore era stato elettrizzato dalle vendite di alcuni bestseller, ma era ancora in cerca di una collocazione precisa nel mondo della trasmissione dei contenuti. Nonostante il grande impatto mediatico, il contenuto elettronico a pagamento faticava a trovare la sua strada. Forse c'era un problema di costi, un divario troppo piccolo tra versione a stampa e versione elettronica. Si riteneva anche che la difficoltà del contenuto elettronico dipendesse dalla mancanza di gadget appropriati su cui leggerlo (e in effetti gli ebook allora in commercio erano un po' primitivi), ma questo non mi sembrava il punto principale. Nel 2000 una famiglia americana su tre aveva accesso a internet e poteva scaricare un libro sul computer di casa senza dover acquistare nuovi dispositivi. La mia osservazione fu semplicemente che non c'era un problema di cui l'ebook fosse una soluzione: il telefono cellulare risolve un problema, dato che libera l'emissione e la ricezione dai vincoli spaziali e temporali imposti dai fili, ma quale sarebbe la difficoltà che l'ebook risolverebbe? Partire per le vacanze con un solo chilo di libri nello zaino invece di dieci o cento? Avere a propria disposizione le ultime uscite in tempo reale?


Intorno al libro si sono cristallizzate, nei secoli, norme e regole sociali collaudate che lo definiscono e lo proteggono. Non è un discorso nostalgico, ma un fatto legato alla funzione del libro: far circolare idee a bassissimo costo e in un formato che ha una serie di vantaggi, non solo la manipolabilità ma anche la trasmissibilità, la riconsultabilità, la regalabilità: il libro cartaceo è un oggetto di scambio, di comunicazione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 27

Ecco però il punto. Da questa prospettiva il libro cartaceo ha un formato cognitivo perfetto. Assolve al suo compito in modo egregio perché contiene solo se stesso. Certo non può di per sé tenere lontana la televisione o internet, ma segnala, con la sua compiutezza, la promessa di un incontro esclusivo tra autore e lettore. Ogni libro di carta è un piccolo ecosistema, una nicchia ecologica in cui convivono simbioticamente un autore e un lettore.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 29

In che senso il saggio su carta stampata è perfetto?



La perfezione del design del libro cartaceo è a questo punto semplice da descrivere: consiste nel fatto che i libri occupano in maniera gelosa il nostro tempo ed escludono distrazioni. Potremmo chiudere praticamente qui il discorso. Vale però la pena di discutere di altre ragioni cognitive per cui non è chiaro se sia un bene perdere i libri come li conosciamo oggi. I libri occupano spazio, e lo spazio è un buon modo di gestire la memoria. Una buona scaffalatura è come un diagramma, permette di pensare perché rinvia visivamente, in un colpo d'occhio, alla moltitudine di cose lette, allevia il pensiero dalla necessità di tenere tutto a mente. È vero che non c'è più un angolo libero in casa, ma non è neanche male avere una mente grande come un appartamento sempre davanti agli occhi.

[...]


I libri di casa fanno parte della nostra ecologia quotidiana che assiste la memoria. Se il nostro cervello è metaforicamente distribuito al di fuori del cranio, non dovremmo lesinare sull'acquisto di metri quadri per disporre in bell'ordine libri fisici intorno a noi. Quando lavoro a volte mi basta guardare un certo scaffale, senza nemmeno aprire i libri che contiene, per riattivare interi continenti del mio apprendimento passato.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 36

Per un motivo analogo il libro ha un vantaggio straordinario (oltre a quelli di solito decantati) sui suoi concorrenti moderni. La struttura del libro è completamente lineare. Quando lo si legge si sa (senza che nessuno ce lo debba spiegare) che basta ripercorrere il libro dall'inizio o all'indietro (ancora il tasto «indietro»!) per ritrovare un'informazione letta in precedenza. Il processo può essere scomodo e lungo, naturalmente, ma non è questo il punto. Il punto è che quando leggo il libro non ho bisogno di costruire una mappa del libro, e quindi lo leggo con agio, delegando alla successione delle pagine l'organizzazione delle informazioni. Questa mappa che non devo costruire è il libro stesso, un filo d'Arianna che esiste anche senza che la mente debba porvi caso.

Ci sono altri vantaggi cognitivi marginali, ma interessanti, del libro, legati all'organizzazione lineare. Ricevo informazioni tattili da un libro; il mio corpo, le mie mani sanno quanto mi resta da leggere dal peso del libro e dal modo in cui è bilanciato; le pagine ancora non lette equilibrano quelle già lette. Sapere quanto mi manca da leggere dà una misura concreta del lavoro fatto e mi permette di modulare lo sforzo sul lavoro da farsi. Sull'ebook questa informazione è visiva o astratta (una barra di posizione, un indicatore numerico come «pagina 127 su 336») e quando la si va a cercare, bum! il canale visivo viene saturato, non stiamo già più leggendo. La conoscenza tattile immediata di quanto resta da leggere è talmente efficace da preoccupare alcuni autori; per esempio sapere che mi sto avvicinando alla fine del giallo che sto leggendo può influire sulle mie aspettative. Doug Hofstadter ha persino suggerito di aggiungere ai gialli un certo numero di pagine bianche per lasciare in sospeso il finale. Si tratta di un suggerimento scherzoso che però indica indirettamente quanta forza informativa abbiano le proprietà fisiche, concrete del libro.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 38

Si legge meglio su carta o su tablet?



Non mi risultano ancora dati utilizzabili che comparino l'esperienza di leggere un ebook a quella di leggere un libro di carta. Uno studio non ha trovato differenze significative (e qualche dubbio resta sulla metodologia). Si tratta di un lavoro che misura la velocità di lettura, una variabile che mi sembra assai povera – come se i lettori, riducendo tutto all'osso, fossero impegnati in una gara; come se una volta che si fossero «risolti i problemi ergonomici» (schermo retroilluminato o inchiostro digitale?) non restasse più nulla da dire o da proporre.

In attesa di studi più strutturati, le speculazioni che si possono fare riguardano il design complessivo della situazione di lettura, che ha molte dimensioni. Se leggere significa isolarsi per approfondire, è chiaro che i nuovi gadget elettronici non aiutano, stracarichi come sono di applicazioni fantasticamente distraenti. Se leggere significa saltare da un testo all'altro o preparare un copia-e-incolla per i mash-up, allora il libro di carta non ha speranze.

Quindi allarghiamo il contesto. La lettura – e in particolare la lettura di un saggio – richiede memorizzazione; non solo se si vuol capire quello che si sta leggendo, ma ancor più – per definizione – se se ne vuole imparare qualcosa. Ma come viene gestito il deposito in memoria in un ambiente digitale? Ci sono dati robusti sul fatto che per memorizzare è fondamentale «processare» in profondità l'informazione, per esempio cambiando formato, come quando si prendono appunti a margine, o si ricopia a mano, o si stila un riassunto, o anche soltanto si legge ad alta voce. Vi ricordate più facilmente delle tabelline che finiscono in rima (sei per otto, quarantotto): memorizzate meglio l'informazione che ha avuto un supplemento di trattamento fonetico, perché ha lasciato una traccia supplementare. È di più facile accesso. Senza arrivare al punto di difendere la copiatura a mano sulle schede di lettura (copiare a mano è meglio del copia-e-incolla), che certo aiutava la memorizzazione, dobbiamo osservare che se un software di indicizzazione facilita enormemente la ricerca di cose lette e sepolte, non può sostituire il trattamento cognitivo dell'informazione che richiede un investimento personale. Da questo punto di vista il libro è più esigente, ma promette risultati migliori a lungo termine. Ma, per l'appunto, la lettura non tollera semplificazioni. Leggere non è soltanto questione di chi arriva per primo in fondo alla pagina.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 42

Abbiamo fatto una breve passeggiata per esplorare le caratteristiche fisiche, ergonomiche e sociali del libro di carta. Per riassumere queste considerazioni, il libro di carta presenta una serie di vantaggi cognitivi proprio là dove gli si vogliono imputare dei limiti tecnologici che l'ebook supererebbe: la linearità che permette di semplificare la comprensione, l'offrire argomenti nello spazio di una pagina stabile e non scorrevole che permette di tenere sott'occhio molti pensieri alla volta, l'isolamento relativo rispetto ad altri artefatti cognitivi che potrebbero entrare in concorrenza con la lettura, lo stesso peso fisico del libro come fonte di informazioni. Trasferito su un supporto digitale, il libro diventa un'altra cosa, perché la lettura è diversa; anche perché entra in competizione con concorrenti agguerriti e predatorii.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 51

Il design del tempo:
chi ha paura di un mese passato a leggere?



Il micro-tutorato può liberare tempo, può organizzarlo meglio. Ho cominciato da questo esempio perché l'educazione è di fatto il design della situazione di apprendimento. Il suo primo e più prezioso capitale è proprio l'organizzazione del tempo. Ma che cosa fare del tempo in genere? Teniamo scolari e studenti per una dozzina di anni, giorno dopo giorno, per giornate intere in uno spazio fisicamente separato e protetto da quello che avviene in famiglia o nella società. Abbiamo la fortuna e la responsabilità di usare questo tempo in modo utile e creativo. Lo facciamo? Discutiamone. Ci sono orari da rispettare che prevedono un frazionamento nell'apprendimento delle materie trattate (l'ora di matematica, che fa seguito all'ora di inglese, che fa seguito all'ora di italiano). Qualche alternativa è possibile. Per esempio, pensate all'insegnamento della trigonometria: si tratta di un insieme coeso di nozioni che potrebbe venir facilmente insegnato in due settimane di lavoro continuativo, per poi venir «richiamato» con dei controlli (come si richiama una vaccinazione) a intervalli regolari.

Anche qui voglio dare da subito un esempio di come si può riorganizzare il tempo a scuola per incitare alla lettura. Se il contesto conta, alcuni vincoli nel design della situazione di lettura possono dare nuovo respiro al libro. Con alcuni insegnanti e studenti di liceo ho discusso della proposta di un «mese della lettura». Un mese da rubare al programma, un mese in cui gli studenti non fanno altro che leggere libri dal mattino alla sera, inseguono l'obiettivo di un libro al giorno, e consegnano poi a fine giornata una breve presentazione scritta o orale, o registrano un breve video in cui raccontano il contenuto del libro che hanno letto, o qualsiasi cosa che depositi una traccia della lettura. Due aspetti della proposta sono importanti: l'aspetto istituzionale (si usano le ore di scuola) e l'aspetto «massiccio» (l'uso di un tempo lungo, senza interruzioni). Ripeto: gli studenti leggerebbero per un mese intero un libro al giorno, ciascuno un libro diverso, in classe, e non farebbero altro. E gli insegnanti farebbero altrettanto. E, perché no, anche il direttore e gli altri lavoratori della scuola. Se il problema per la lettura è l'erosione digitale dell'attenzione, o l'invasione del social networking, la scuola potrebbe e, anzi, dovrebbe offrire tempi protetti come questo. Insegniamo che leggere un libro è quantomeno possibile. Facciamo fare a scuola agli allievi qualcosa che la società non fa. Proteggiamo lo spazio della lettura: sospendendo le classi e il programma mandiamo un chiaro segnale sulle vere priorità. Usare il tempo della scuola per leggere significa dare un segnale forte sull'importanza della lettura. Infatti:

Se la lettura è veramente importante, perché chiedere agli studenti di leggere a casa, o durante le vacanze?

Se la consideriamo veramente importante, mostriamolo con il dedicarle uno spazio istituzionale. Per citare un rapporto del CENSIS (2003):

non è azzardato affermare che uno degli obiettivi principali che la scuola dovrebbe perseguire coincida con la nascita e lo sviluppo nei giovani dell'amore per la lettura. Senza avere alcuna intenzione polemica, ci permettiamo solo di notare che di piacere e di amore, dopo estenuanti e faticose letture, specie estive, vissute con l'ansia di presentare complesse forme di analisi testuale, nei giovani deve rimanerne veramente ben poco. Quello che ci dicono i nostri dati, piuttosto, è che, passata l'età della scuola, chi continua a leggere lo fa con grande passione e piacere.

Istituzionalizzare la lettura massiccia a scuola permetterebbe anche di correggere l'involontaria aberrazione prodotta dai programmi antichi, pre-digitali, ma ancora attuali, di lettura frazionata in cui passare un anno a leggere I promessi sposi suggerisce involontariamente ma ineluttabilmente che «un libro è una cosa che ci si mette un anno a leggere».

Ci sono degli esempi di buone pratiche istituzionali che segnalano agli scolari e agli studenti la priorità che la scuola accorda alla lettura. In alcune scuole montessoriane gli scolari possono abbandonare l'attività che stanno compiendo, quale che essa sia, per mettersi a leggere. In Francia, nelle scuole pubbliche i bambini possono usare la ricreazione per leggere, se lo vogliono – non sono obbligati a giocare.

La scuola ha un enorme vantaggio di cui sembra non rendersi conto, e che in molti stanno cercando scientemente di smantellare. È già un ambiente protetto in cui si dovrebbe imparare a elaborare l'informazione e non limitarsi a cercarla o a subirla. E già un ambiente protetto, in cui non puoi fare zapping e i tuoi tempi e i tuoi obiettivi sono misurati. Ancora una volta: questo vantaggio istituzionale è al tempo stesso una responsabilità. La scuola può ridisegnare i propri tempi; il suo design è legge. A casa i vincoli sono in genere minori: c'è la televisione accesa, uno squillo segnala l'arrivo dell'SMS, internet è sempre accessibile, e a volte per tenere buoni i bambini la cosa più semplice è dare loro il telefonino con un videogiochino. Chiedere insistentemente agli scolari di leggere di più a casa significa da un lato dir loro che la lettura è in fondo marginale, e d'altro lato giocare col loro senso del dovere (e con l'ineffabile senso di colpa) per ottenere un risultato che non si riesce ad ottenere a scuola. L'enorme vantaggio della scuola rispetto ad ambienti extrascolastici si rivelerebbe in tutto il suo potenziale con l'istituzionalizzazione della lettura.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 56

Il design dello spazio:
chi ha paura di un tavolo privato
in una biblioteca pubblica?



La grande potenzialità di internet, l'accessibilità senza frontiere dei contenuti, invita anche a ripensare da cima a fondo le biblioteche. Infatti, se l'informazione è letteralmente dovunque, nell'aria intorno a noi, qual è il vantaggio di una biblioteca? Per rispondere in modo lungimirante dobbiamo di nuovo pensare alla protezione dell'attenzione. Non tanto perché le biblioteche oppongono i loro muri all'informazione ubiqua (non possono, e che senso avrebbe farlo?). Si potrebbe invece riprogettarle per offrire agli utenti uno spazio duraturo e personalizzato di lavoro che questi possano investire della loro presenza e ritrovare intatto giorno dopo giorno. Adesso la biblioteca è pensata come un edificio completamente fungibile ed aperto. Non si può mai trasformarla in luogo privato. Ma la lettura è privata. Se le biblioteche vogliono veramente attrarre nuovi lettori, o aiutare gli utilizzatori esistenti a difendere la lettura, non dovrebbero (soltanto) imbottirsi di nuove tecnologie, Wi-Fi, schermi, ma approfittare del vantaggio che hanno rispetto alla casa e al telefonino. Come la scuola, sono anch'esse spazi protetti. Andare in biblioteca potrebbe essere un'esperienza straordinaria e liberatoria per molti studenti, adolescenti, lavoratori, disoccupati, persone che mandano avanti una famiglia, e che non hanno spazio per la lettura a casa (la televisione sempre accesa, SMS in arrivo, ecc.; e chi può permettersi uno studiolo, oggi?). La biblioteca «personalizzata» permetterebbe loro di ritrovare giorno dopo giorno il proprio tavolo di lavoro, con i propri libri, per una settimana o un mese, diciamo, in un contesto in cui anche molte altre persone ritrovano il loro tavolo personale. Li farebbe diventare, per un breve periodo, degli habitués. Quando cercavo una formula che sintetizzasse questa idea, mi è venuto in mente «gli alberghi a ore della lettura». Non so se farà mai presa...

Oltre a tempo e spazio, uno potrebbe anche lavorare sulla quantità. Le biblioteche municipali parigine permettono di prendere in prestito fino a venti libri per tessera individuale. Una famiglia di quattro persone può portarsi a casa ottanta libri con un solo giro in biblioteca. Non devono essere necessariamente tutti dei saggi! (Le mie figlie rientrano a casa con parecchi fumetti.) Ma il semplice fatto di creare una disponibilità crea un'abitudine; chi non ha moltissimo tempo a disposizione non è scoraggiato dal fatto di dover fare molti viaggi per pochi libri. E tanti libri a casa vengono inevitabilmente letti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 58

È veramente in corso la grande mutazione antropologica?
Esistono i «nativi digitali»?



Arriviamo agli aspetti spinosi della faccenda. Mi si potrebbe obiettare: «Ti preoccupi della gestione dell'attenzione, ma non vedi quello che sta succedendo. Il multitasking, il fare tante cose insieme, è ormai perfettamente integrato nei comportamenti. Chi è nato con internet e i videogiochi sa benissimo dividersi tra molti canali. La scuola deve solo adattarsi a questa Grande Mutazione Antropologica in corso. Sei un gutenberghiano, alla meglio un "immigrante" digitale, cerca di adattarti allo stile di pensiero dei Nativi Digitali».


Si odono in effetti svariati riferimenti a una pretesa «mutazione antropologica» legata all'uso massiccio delle nuove tecnologie fin dall'infanzia. Si parla di «nativi digitali», che sarebbero in grado di navigare in modo assolutamente fluido in una costante forma di dispersione. Ora, fermi tutti! Non ci sono affatto dei dati chiari che confermino queste asserzioni. Le persone, è vero, sono sempre più costrette a vivere e a lavorare in questo modo, ma non è detto che lo facciano bene. E la vita dei bambini è sempre più colonizzata da televisione e videogiochi, ma non è detto che la mente possa veramente essere educata alla dispersione (né tanto meno che lo debba essere). In effetti, la mente subisce la dispersione, e non c'è niente di cui rallegrarsi in questo. Se non esiste un dato sulla «mutazione antropologica», il problema che la scuola deve affrontare non è quello di adattarsi a fantomatici nuovi tipi di intelligenza, ma di fare in modo che l'intelligenza e la cultura possano sbocciare e svilupparsi in un contesto in cui la dispersione rende difficile questa missione.

L'etichetta «nativi digitali» è stata resa popolare, anzi popolarissima, da Marc Prensky in un articolo eponimo pubblicato nel 2001. Nel 2010 è stata ripresa da Paolo Ferri, docente all'Università Milano Bicocca, il cui libro dallo stesso titolo ha avuto una certa eco in Italia. Li scelgo come obiettivo tra i molti testi che sono usciti negli ultimi anni perché mi sembrano assai indicativi di un certo modo – nel quale non mi riconosco affatto – di creare dibattiti e tendenze in modo ansiogeno. Anticipo quello che argomento nelle pagine che seguono: la maggior parte delle tesi-chiave di Prensky e di Ferri non hanno un vero e proprio supporto empirico o concettuale. Ovvero, nell'ordine:

– non c'è una popolazione di «nativi» digitali se non in un senso assai blando e poco interessante del termine «nativi»;

– non abbiamo alcuna ragione di pensare che esista un'intelligenza digitale specifica;

– quindi non dobbiamo misurarci con i problemi presunti di una popolazione di persone che avrebbe addirittura un'intelligenza diversa dalla nostra (gli alieni non sono tra noi);

– gli effetti migliorativi dei gadget elettronici sulle prestazioni scolastiche sono assai dubbi;

– quindi non dobbiamo popolare la scuola di gadget elettronici per rincorrere il sogno di inesistenti effetti pedagogici;

– il multitasking non è un nuovo modo di agire e di pensare, ma un'imposizione subita, causata da cattivo design e inerzia e, quindi,

– va combattuto, non dato per scontato.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 62

Non è difficile capire quello che sta succedendo qui: Ferri e prima di lui Prensky (e in parte Gardner) prendono per intelligenza il semplice aver imparato a saper fare certe cose, se non l'essersi abituati a oggetti che le fanno per voi. Sarebbe solo una noiosa questione terminologica se dietro le parole non spuntassero dei fantasmi di teoria usati per giustificare posizioni pesantemente normative.

A questo punto dobbiamo andare a guardare in che cosa consisterebbe il «saper fare» digitale. Scopriamo che si tratta della

abilità cognitiva di utilizzare l'alternativa «sì/no», «azione/inazione» all'interno del nuovo spazio digitale dello schermo che è diventato la tecnologia caratterizzante della trasmissione del sapere. Per esempio... la possibilità di attivare o non attivare un link ipertestuale all'interno di una pagina web, o la possibilità, più complessa dal punto di vista cognitivo, di tracciare un percorso intenzionale tra i link, cioè di seguire attraverso una decisione specifica questo o quel link in una pagina Internet o un determinato percorso di gioco in una consolle.

Datemi un pizzicotto, per favore. Se questa è l' intelligenza di cui stiamo parlando, è il momento di rivedere al ribasso tutte le nostre ambizioni educative. Se invece questo è un semplice «saper fare» tra í mille su cui basare i percorsi di apprendimento, stiamo facendo molto rumore per nulla. Se, infatti, si trova qui qualcosa di cognitivamente definito, non c'è niente di più che la capacità di prendere decisioni contestuali con l'aiuto della memoria e del linguaggio: come detto prima, niente di specifico, è una capacità generale, più o meno declinabile all'ambiente dello schermo tattile o della tastiera.

Ancora un elemento di contesto. Ferri fa gran caso del fatto che «oggi ogni cittadino del mondo ha accesso, almeno potenzialmente, a centinaia di milioni di gigabyte di informazione attraverso Internet, o meglio a tutta la conoscenza del mondo». Compare un'altra parola da ponderare attentamente, la parola «conoscenza». Si dovrebbero distinguere chiaramente, e non confondere tra di loro, l'accesso all' informazione e l'accesso alla conoscenza. Nessuno nega che si abbia accesso all'informazione. Invece la frase «accesso alla conoscenza» non ha alcun significato, se per «conoscenza» si intende veramente la conoscenza, il conoscere. Avere accesso all'enunciato del teorema di Pitagora non è ancora leggerlo (bisogna per l'appunto leggerlo), e leggere non è ancora capire (bisogna studiare, sperimentare, dimostrare, esercitarsi, padroneggiare).

Il saper fare dei cosiddetti nativi digitali non è intelligenza e non è nemmeno conoscenza se non, appunto, nel senso debole di una competenza — e addirittura una competenza pratica, un saper fare o sinanco un'abitudine; e non è granché neanche come pratica, come abbiamo visto: effettuare scelte binarie cliccando o non cliccando su un link ípertestuale, collazionare link e condividerli con i membri di un social network, ripetutamente decantati da Ferri e da altri coloni digitali come tratti distintivi della pretesa mutazione antropologica.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 96

[...] Quello che mi sento di difendere è che si ha sempre il diritto di resistere alla normatività automatica, che genera gli effetti di rincorsa senza speranze. Non solo per quel che riguarda l'adozione in sede educativa di questa o quella tecnologia perché vissuta come normativa nel contesto sociale. Chi direbbe oggi che «si deve utilizzare la televisione a scuola» (o la radio)? Non solo per questo, dicevo, ma anche per quel che riguarda le grandi opzioni sul ruolo della scuola nella vita. Per esempio, per tesi come «la scuola deve adattarsi allo sviluppo della società». Discutiamone. Magari la scuola deve invece aiutare la società a capire se una certa traiettoria del suo sviluppo sia ineluttabile. Forse la vera forza della scuola, prima che nella capacità di adattarsi (un tipo di rincorsa), sta nel creare delle zone di tranquillità da cui guardare allo sviluppo della società in tutta calma.

La discussione sulle nuove tecnologie mette allora in luce un potente equivoco sulla scuola e sui suoi fini. La scuola non è (più, non principalmente) un luogo in cui acquisire informazioni. Le informazioni sono disponibili in misura assai maggiore al di fuori della scuola, nella Rete: da questo punto di vista la scuola non può competere con la Rete. Il vantaggio cognitivo della scuola è di fornire qualcosa che la Rete non potrà mai dare, ovvero un punto di vista diverso sulle informazioni, dato che i sistemi di raccomandazione che lavorano nella Rete («chi ha comprato x ha comprato anche y») fanno di tutto per inchiodare una persona al suo profilo. O forse, addirittura, la scuola può semplicemente fornire l'idea che un punto di vista sia possibile, dato che le informazioni sono oggi soltanto prevalentemente subìte. In questo senso la scuola ha un valore esemplare; serve come esempio. Per il semplice fatto di esistere, mostra che possono esistere cose che non sono sottoposte alle logiche dominanti in una società, e mantiene quindi aperta la possibilità di una società diversa.

| << |  <  |