Copertina
Autore Marco Cassardo
Titolo Va a finire che nevica
EdizioneCairo, Milano, 2007, Scrittori italiani , pag. 240, cop.fle.sov., dim. 15x21x1,6 cm , Isbn 978-88-6052-086-9
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

La pioggia fine, ma è pioggia? Negli aghi d'acqua si vede poco, soltanto le luci blu, la sagoma rossa del camion dei pompieri.

Il suo cellulare suonava a vuoto. Eravamo sul piazzale del ristorante, faceva freddo là fuori vestiti da capodanno. Lo stavamo aspettando. Me l'aveva detto, pochi minuti e sono lì. Poi sono arrivate le dieci e mezza. Gli telefoniamo da un quarto d'ora. Suona libero ma non risponde. Tina mi dice «Romeo vai a vedere». E io obbedisco.

Guido lento, non penso a nulla. Poi ho visto le macchine in coda, ho frenato, ho visto le luci blu. Mi è presa dentro una cosa strana, una specie di vertigine. Sì, una roba così, la vertigine. E allora sono sceso, ho risalito la fila a piedi, all'inizio camminavo, poi mi sono messo a correre con il cuore che mi picchiava nella testa, non respiravo, guardavo le luci blu. A pochi metri dalla sua macchina, non so perché, l'ho di nuovo chiamato al telefono. Era schiacciato contro il volante, la testa reclinata di lato. Uomini con giubbotti arancioni e strani elmetti gli stavano attorno e gridavano e si davano ordini. E questo chi lo tira fuori, dicevano. Un cellulare suonava. Sul display la scritta papà.

Sulla panca in prima fila c'è il vecchio inginocchiato, la sua faccia è un teschio con appiccicata una patina di carne grigia. Gli viene da voltarsi, con gli occhi segue il ragazzo lungo la navata centrale fino a pochi metri dall'altare. Le navate laterali, le panche, la chiesa è piena, tutti fermi a tirare su con il naso, a sollevarsi il bavero, a cercare la posizione per le mani. Sono un impiccio le mani quando c'è di mezzo il dolore.

Don Domenico racconta della consolazione. Si prega, e le parole sono un refolo tiepido. Il prete racconta della morte e della vita. Gesticola, muove le labbra. Con la sua sottana bianca e viola dice che la fine del corpo è intollerabile. Ma c'è una sola verità: Gesù è risorto. Ed è a questa che si devono aggrappare coloro che rimangono.

Intanto lui è dentro il frassino chiaro. E il padre lo guarda con quel teschio che sembra ridere.

«Non aveva un segno, nessun segno né sulle mani né sulla faccia. È rimasto schiacciato contro il volante. È morto sul colpo.»

I mocassini lucidi, i pantaloni grigi con la piega, la cravatta scura che fa capolino dal cappotto blu: cos'è un padre che si sveglia al mattino e poggia i piedi a terra e va in bagno e si rade per andare al funerale di suo figlio?

Il vecchio non piange, non guarda nessuno, neanche il prete, soltanto la bara, ogni tanto, così, perché è l'unico posto in cui lo portano gli occhi.

Sul suo cappotto blu c'è la forfora, il primo segnale del degrado. La caduta inizia da lì, o dalla bava raggrumata agli angoli della bocca, o dall'odore pesante degli abiti.

«Nessun segno in faccia. Ha preso la curva troppo veloce, è uscito male, è andato a sbattere contro un palo. Poi tre o quattro testacoda. Si è infilato sotto un cartellone pubblicitario. Sono sicuro che e stato il secondo impatto quello mortale. Ed è questo che non sopporto, pensare che si è reso conto di tutto durante il testacoda, ha sentito arrivare la botta. E ora è lì. Dentro una bara.»

Sulla panca in prima fila c'è il vecchio inginocchiato.

L'altro suo figlio lo sta aiutando a rialzarsi, lo tiene per un braccio, gli dà un bacio sulla guancia, leggero. Poi si avvicina all'orecchio per dirgli qualcosa, ma non dice nulla. Rimane lì, in bilico, tra due dolori, il dolore del padre e il suo. Cammina sul filo di tutta la nostalgia che li ha uniti nella vita. Difficile non precipitare.

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Pagina 57

Il padre di Roberto aveva la faccia quadrata, gli occhi torvi e la pelle gialla.

Una sigaretta senza filtro gli pendeva perennemente dalle labbra. Fumava e fumava. Poi, arrivato al mozzicone, lo prendeva tra il pollice e l'indice, lo guardava, un'ultima boccata avida e lo scagliava a terra.

Il padre di Roberto non parlava, urlava o bestemmiava. Ce l'aveva con la madonna perché non gli riusciva un lavoro, perché era in ritardo con una consegna, perché i clienti non pagavano, perché i ragazzi in piazza facevano casino ed era sicuro che la colpa fosse di suo figlio.

La sua bottega era all'inizio della salita che porta a Monterano. Ogni tanto, quando proprio non sopportava più quel baccano, usciva dal laboratorio e a grandi passi andava in piazza. Quando avvistava il figlio si fermava, scagliava lontano la sigaretta, faceva il gesto di sfilarsi la cintura dai pantaloni e con tutto il furore si metteva a urlare «Roberto, dio della madonna, stasera ti liscio il pelo».

Il figlio alzava le mani in segno di resa, faceva altri gesti per dirgli che non era il solo a fare casino. Ma il padre stava già tornando in bottega, non gli interessavano le risposte, non gli interessavano le giustificazioni.

Era l'unico falegname del paese. La sua bottega piaceva alla gente perché mandava un buon odore di legno lavorato. Lui era un uomo all'antica. A mano venivano segate le assi, inchiodate, incollate, a mano si faceva tutto. Quando si trattava di portoni e armadi, il padre di Roberto doveva infilare nel legno viti grosse come tubi. Con l'abete era facile, ma con il castagno e il noce bisognava mettercela tutta. E allora di sudore ne colava parecchio. E le bestemmie nascevano a frotte attorno al suo banco di lavoro.

Una domenica mattina, era primavera, avvenne un fatto strano. Roberto arrivò di corsa in piazza e con la voce rotta disse che suo padre li aspettava in bottega.

Tutti erano perplessi. Da anni quell'uomo con la pelle gialla non faceva che guardarli in cagnesco. Gualtiero e Antonello fecero un risolino di scherno, chiesero a Roberto «Cosa vuole tuo padre? Metterti a chiappe in su e farci vedere come fa a frustarti?».

Filippo rise a bocca aperta, Ercole alzò le spalle, Dario spalancò gli occhi. Poi, senza dirsi nulla, s'incamminarono compatti verso la salita di Monterano, la faccia mite e il passo meno insolente del solito.

Roberto guidava il gruppo, procedeva un paio di metri avanti. Ogni tanto si voltava per controllare che tutti lo seguissero. Era felice.

Suo padre li aspettava sulla soglia. Canottiera sporca, sigaretta, una specie di sorriso storto che scopriva uno scorcio di denti grigi.

«Avanti» disse quando li vide.

I ragazzi entrarono e subito furono invasi dalla polvere del legno. Gli occhi bruciavano, la gola raschiava. La bottega era ingombra in ogni angolo. Come faceva in quel disordine? C'erano due banchi lunghi, larghi, pesanti, con ai fianchi le morse per stringere e tenere fermo il legno da lavorare. Il pavimento era ricoperto di segatura e trucioli di diversa grandezza. Alle pareti erano appoggiate travi e travicelli. E poi colla, seghe, trapani, morsetti. E una grossa radio, un calendario con le donne nude, il poster della nazionale, pile di giornali, latte di petrolio, vernice, pennelli.

Quando i ragazzi gli furono attorno, disse che nella vita bisogna darsi da fare, che la sua bottega era aperta a coloro che avevano voglia di imparare un mestiere, non come quello smidollato di suo figlio, che se continuava così lo prendeva a calci in culo fino a Fossano.

Tutti risero, Roberto guardò per terra, suo padre se ne accorse e gli disse «Te la faccio venire io la voglia di lavorare, dio di una madonna». E allora risero ancora di più, si fecero vicini al banco, lasciarono che la paura che li aveva accompagnati fino a lì si dissolvesse e andasse a mescolarsi con la polvere del legno.

Raccontò dell'abete e del larice, del frassino e dell'acero. Disse che il faggio e la quercia sono i più duri, che il noce e il ciliegio sono i più pregiati ma in questa valle di morti di fame non glieli chiede mai nessuno. Lui si era fatto da solo, e se ci era riuscito doveva dire grazie a suo padre che lo aveva preso a cinghiate da quando era nato.

I ragazzi ascoltavano in silenzio. A nessuno saltò in mente di interromperlo.

Poi cambiò tono, all'improvviso. Alzò la voce e disse: «Ho un lavoro per voi. Venite con me».

Li guidò al fondo del laboratorio e aprì una porticina che dava su un cortile. Era un piccolo spiazzo, poi un muro e la strada. In quel fazzoletto di ghiaia e terra c'erano una decina di gattini accalcati sulla loro madre, cercavano il latte, si davano da fare con le mammelle, giocavano e le saltavano sulla schiena.

I ragazzi risero, alcuni fecero per avvicinarsi ai cuccioli ma lui li fermò con un cenno prepotente della mano.

«Il paese è pieno di gatti randagi.»

Tutti rumoreggiarono. Gualtiero disse «È vero, anche mio padre si lamenta, dice che sembra di essere in un paese del terzo mondo con gli animali selvatici che girano per strada, dice che non c'è più decoro».

«Dice giusto» riprese il padre di Roberto. «È una vergogna. Questi che vedete sono soltanto gli ultimi arrivati e si aggiungono a tutti gli altri. Ma il problema è molto più grave di quello che immaginate. C'è una cosa che non sapete...»

I ragazzi zittirono di colpo, si fecero seri, si spinsero verso di lui come per arpionargli la verità dalla bocca.

«Sono gatti malati e contagiosi. La loro saliva attacca malattie agli uomini» disse dopo essersi schiarito la voce.

Dal gruppo si sollevò un brusio di sorpresa. Tutti fecero un passo indietro.

«Me lo ha detto un mio amico che si intende di bestie. Non c'è niente da fare. Sono malati di leucosi e sono destinati a morire. L'ho saputo una settimana fa, quando sono arrivato presto, sono andato in cortile per prendere degli attrezzi e mi sono ritrovato davanti questo disastro. Allora ho chiamato il mio amico e gli ho detto di venire a vedere. Lui ha dato uno sguardo veloce ai gatti e mi ha detto che sono malati, che il virus si trasmette dalla madre, che sono molto infettivi e altre cose che non ho capito. Quello che ho capito è che non possono guarire e noi dobbiamo ammazzarli.»

Gualtiero e Antonello, che erano in prima fila e sorridevano strafottenti da quando erano entrati nel cortile, non cambiarono espressione. Silvia e Carla fecero per uscire e si misero le mani sulla bocca. Filippo disse «Ho mal di pancia, torno subito» e uscì di corsa. Ercole rimase immobile, soltanto un lieve pallore; come Fabio, Moretti e Luciano, si limitò a indietreggiare. Dario, invece, gli occhi più appuntiti del solito, fece un passo avanti.

«Ragazzi, ogni gatto che ammazzate vi do mille lire. Alzi la mano chi se la sente.»

Gualtiero e Antonello si voltarono e videro facce peste e volti bianchi. Gualtiero fece un cenno del mento verso Ercole come per chiedergli e tu? Ercole abbassò gli occhi. Gualtiero scosse la testa, fissò Antonello per un attimo e insieme con la stessa lentezza, sollevarono la mano.

Il padre di Roberto fece una veloce panoramica del gruppo. Cercava volontari, ma cercava anche suo figlio. Lo vide in fondo al cortile, appoggiato al muro, a giocherellare con un filo d'erba.

«E tu? Tu non ti fai avanti rincoglionito?»

Roberto non si mosse, non rispose. Il padre aspirò una boccata profonda di fumo, scagliò la cicca oltre il muro, gli disse che a lui nonno Sauro avrebbe spezzato la schiena se avesse osato non rispondergli. Poi tornò a guardare il gruppo, occhiate a semicerchio che andavano e venivano dalle due estremità del cortile.

«Allora? Nessun altro?»

Fu in quel momento che si accorse che le mani sollevate erano tre, non due. A fianco di Gualtiero e Antonello, mezzo metro più in basso, c'erano Dario e la sua piccola mano, il viso rivolto verso l'alto come un buon soldato.

Il padre di Roberto fece un ghigno di soddisfazione, «Bravo ragazzo, sei il più piccolo ma hai i coglioni».

Tutti si voltarono verso Ercole, attendevano una sua reazione, si aspettavano che si opponesse alla decisione del fratellino. Ma lui non si mosse. Sollevò le spalle, fece una smorfia come per dire che non gli fregava nulla di quanto faceva Dario, la vita era sua.

Il padre di Roberto disse «Va bene, potete iniziare quando volete. Ora vi faccio vedere».

E con la sigaretta sempre stretta fra le labbra si avviò verso il nugolo di gatti, diede un calcio alla madre, prese un cucciolo per la coda, si avvicinò al muro e ve lo scagliò contro con forza. Una volta, due, tre. Poi lo lasciò cadere. Prese una vanga, scavò velocemente una piccola buca, lo gettò dentro e lo ricoprì con tre palate di terra.

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Pagina 106

Ercole fa per replicare, ma suona il citofono. È Cruna, ha l'automobile dal meccanico ed è venuto in taxi. Poi, alla spicciolata, arrivano tutti gli altri. Prima i coniugi Gasparutta, poi Frigerio con la fidanzata. Saluti cortesi, gesti moderati.

Infine, direttamente dal paese, Gualtiero e Margherita. Ercole gli va incontro, li bacia con trasporto, prende per il collo Gualtiero, finge un placcaggio.

Dario sta qualche passo dietro, attende che si sciolgano dall'abbraccio, poi si avvicina a Gualtiero. I due si stringono la mano, si scambiano qualche pacca sulla pancia, si sorridono. Un lampo di antica tenerezza attraversa i loro occhi.

Si siedono tutti a tavola, tante disposizioni d'animo quanto sono le coppie presenti.

C'è l'umore consolidato dei coniugi Gasparutta. Lui ha qualche anno più di Dario e il padre banchiere. Come avvocato vale poco, ma sin dai tempi dell'università era entrato nel mirino del giovane Dernieri per la potenza della sua famiglia. Alterna frasi da uomo vissuto a pillole di scetticismo; parla come chi già da tempo sa della caducità della vita e delle cose. Non importa se ha vissuto in casa dei genitori fino al giorno del matrimonio con Loredana, ciò che conta è lo sguardo lontano a far credere un pensiero profondo. Sua moglie se ne sta accucciata all'ombra dei suoi gesti, un luogo freddo ma rassicurante costruito in anni di ossequioso silenzio.

C'è l'umore spaesato di Gualtiero e Margherita, il contegno intimidito e sorpreso che assumono quando si allontanano dal paese, un insieme di movenze e sguardi che compiono all'unisono. Gualtiero, il pescecane buono, ha la testa sul piatto e annuisce senza riserve a chiunque inauguri un discorso o concluda l'esposizione di una tesi. Che si parli di automobili o ristoranti o tasse, fa sì abbassando e rialzando la fronte e limitandosi a qualche frase di completamento. Margherita è parata a festa, il volto rotondo, il trucco eccessivo di chi non è abituato a ritoccare la propria immagine, un abito fastoso inadatto al contesto. Sono seduti di fianco, comunicano con impercettibili movimenti che sono al contempo un modo di rimproverarsi e di sentirsi più uniti. Lei gli chiede con veloci occhiate di essere meno ingordo. Lui attende che nessuno li guardi per invitarla con scatti della testa a partecipare alla conversazione.

C'è l'umore sconnesso di Frigerio e della sua fidanzata aspirante magistrato. Lui, come sempre, è impeccabile; l'abito carta da zucchero in mohair misto lino, la cravatta di seta sgargiante con delicate fantasie floreali azzurre, i modi giusti al momento giusto. Sta facendo da sfondo a Virginia e alla sua ambizione. Qualche increspatura agli angoli della bocca e la sudorazione della fronte svelano che preferirebbe essere lui sul palco, ma le buone maniere lo obbligano a lasciare la scena alla fidanzata.

Virginia ha un caschetto di capelli neri, gli occhi scuri allungati verso l'alto, il busto eretto da madre superiora. È una bellezza da film muto. Parla in fretta, dice che in questi ultimi anni la magistratura ha perso il suo ruolo baricentrico, che ciascuno deve tornare al proprio posto senza invadere l'altrui sfera d'interesse.

«È ora che si recuperino i valori del passato. Abbiamo dimenticato Montesquieu. Senza indipendenza della magistratura, finiamo tutti insieme nel buco nero del caos.»

Frigerio sogghigna, rivolgendosi all'uditorio dice: «La ragazza ha solide basi eh?».

Dario ha un guizzo nervoso: «Certo, l'indipendenza della magistratura è fondamentale, ma ci vuole soprattutto ordine. Senza ordine non si va da nessuna parte. Senza ordine è l'abisso».

Cruna è d'accordo. Da quando si è seduto a tavola ha fissato il domicilio dei suoi occhi sui seni di Laura. Non è preoccupato per il futuro della giustizia, ma la faccenda sta a cuore a Dario, e allora posa la forchetta, smette di masticare, dice: «Come sempre l'avvocato Dernieri ha colto nel segno».

Dario si divide tra assenza e tensione, se ne sono accorti tutti, gli occhi più cupi del solito. Sia Gasparutta sia Frigerio gli hanno domandato che cosa non va, lui ha risposto con un gesto della mano come per scacciare un tafano. Gualtiero, seduto alla sua sinistra, ha atteso che l'attenzione si allontanasse da lui per chiedergli all'orecchio se ci fosse qualche problema con Laura. Dario lo ha rassicurato poggiandogli la mano sul bicipite e cambiando discorso, «Come va il campionato?».

«La squadra gira che è un piacere, ma io sono fermo: stiramento al polpaccio. Tra poco riprendo gli allenamenti, conto di esserci per il finale di stagione. Ci giochiamo tutto nelle ultime partite. Per ora, nonostante infortuni e squalifiche, siamo a cinque punti dai primi.»

Dario dice «Ottimo, l'importante è rimanere sulla scia per poi sferrare l'attacco decisivo» ma mentre parla sente la sua voce amplificata come in un microfono.

Vorrebbe che se ne andassero tutti, suo fratello e Clara e i soci e Laura, anche Gualtiero. Vorrebbe rimanere solo, dormire, lasciarsi alle spalle questa serata di occhi e pantofole perdute. Ma sono appena le dieci. Un lampo gli accende la mente: il ripostiglio, l'ultima speranza. In fin dei conti è quello il posto in cui si sistemano le cose che non hanno una loro collocazione naturale.

«Chiedo scusa.» Dario si alza e si incammina verso il corridoio.

Tutti si guardano perplessi, non dicono nulla.

Apre con calma preme l'interruttore l'applique illumina un vano quadrato. Ai tre lati, mensole di legno grezzo con impilati in perfetto ordine tovaglie, accappatoi, magliette estive, pigiami. E poi borse da viaggio, tute. Negli spazi sottostanti gli stracci di Emilia, detersivi, confezioni di dentifricio, sapone, bagnoschiuma, la cassetta degli attrezzi, un plico di vecchie riviste giuridiche. A terra un paio di scarpe che deve far risuolare e gli scarponcini invernali con la para in gomma.

Cruna chiede l'olio piccante, Clara si offre di andarlo a prendere: sente aria di dolore. Si alza, attraversa il corridoio diretta in cucina, un'occhiata al ripostiglio. Dario è di schiena, appoggiato allo stipite della porta, la fronte sull'avambraccio, scuote la testa. Clara fa per fermarsi, andare da lui, invece torna a tavola.

Gli spaghetti ai frutti di mare hanno riscosso i complimenti di tutti. Laura è seduta sul bordo della sedia pronta ad alzarsi per soddisfare le richieste degli invitati. Sono piovuti superlativi sul suo talento culinario, sul suo stile. Lei ha ringraziato con un sorriso d'imbarazzo, si è stretta nelle spalle, poi ha respirato profondo e i seni si sono fatti avanti, generosi e duri, assai più sfrontati dei suoi gesti timidi. Cruna, che non ha un gran talento per il diritto ma riesce a scorgere il contrasto tra compostezza dei modi e linguaggio del corpo, li ha visti quei seni prepotenti ingabbiati nel tubino aderente. Ha pensato che stessero cercando di evadere. Li ha visti e si è toccato i capelli scolpiti nel gel, ha affilato gli occhi, ha cercato di incrociare íl suo sguardo. Laura si è fatta trovare.

Dario è tornato a tavola, è pallido, non si accorge di nulla, né di Cruna né di Laura né degli occhi di lui posati sui seni di lei.

Indietreggia sulla sedia, «Ci siamo con questo branzino?».

Gli ospiti si scambiano occhiate basse. Clara tormenta la mollica, si avvicina all'orecchio di Ercole. Gli sussurra: «Quel ragazzo ha qualcosa che non va».

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