Copertina
Autore Orly Castel-Bloom
Titolo Dolly City
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2008, Eretica , pag. 168, cop.fle., dim. 12x17x1,2 cm , Isbn 978-88-6222-028-6
PrefazioneElena Loewenthal
TraduttoreElena Loewenthal
LettoreElisabetta Cavalli, 2008
Classe narrativa israeliana
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Pagina 12

Prima di morire, i pesci ornamentali nuotano sul fianco per qualche ora, si capovolgono, affondano nell'acqua bassa per poi tornare a galla. Avevo un pesciolino rosso che ha agonizzato così per un giorno intero, finché verso il tramonto si è inabissato, gli occhi sbarrati e il corpo contorto a punto interrogativo. Con un bicchiere di plastica ho pescato il cadavere. Con il bicchiere sono andata fino in cucina e ho versato cautamente l'acqua nel lavabo. Ho deposto il pesce sul marmo nero, e con un pugnale ho cominciato a tranciarlo. Il bastardo mi scivolava continuamente sul marmo, ero costretta ad agguantarlo per la coda per rimetterlo sul luogo del delitto. Più o meno due ore e mezza ho armeggiato su quel pesce, finché il suo corpo si è ridotto a piccole strisce spesse pochi millimetri.

Allora ho guardato quei brandelli. In tempi molto antichi, in terra di Canaan, i pii avi sacrificavano a Dio bestie ben più grandi di questa. Quando tranciavano il corpo dell'agnello, gliene restavano fra le mani pezzi grandi, consistenti, grondanti del sangue di un patto di sangue.

Ho aromatizzato i filetti del pesce rosso, me ne sono messo uno sul dito, ho acceso un fiammifero e ho accostato la fiamma alla carne tanto da scottarla un pochino, anche il mio dito cominciava a odorare di bistecca. Poi ho piegato la testa all'indietro, ho spalancato la bocca e ho lasciato cascare dritta nel mio sistema digerente la prima fettina di pesce.

E così ho fatto con tutti gli altri pezzetti del pesce; una volta finito mi sono seduta a guardare la mia cagna moribonda, una cockerina di quattordici anni colta da insufficienza cardiaca. Per quindici giorni sono rimasta in poltrona a guardarla, la lingua secca penzoloni, il respiro affannoso, gli occhi sempre più spenti.

Per quei quindici giorni le ho dato da mangiare e da bere, e ovviamente anche delle medicine. Non ha quasi mangiato né bevuto, le medicine le ha vomitate. Le ho attaccato una fleboclisi in cui avevo iniettato le medicine, la cosa è servita.

Mi è dispiaciuto di non aver fatto una fleboclisi anche al pesce, ma non più di tanto, perché in effetti credo sia impossibile trovare la vena in un pesce ornamentale così piccolo. A dire il vero, credo sia impossibile trovare la vena in qualunque pesce, persino nella carpa.

Alla fine dei quindici giorni di agonia della mia cagna, quando ormai non mangiava più niente, non beveva, e i farmaci non avevano più alcun effetto – mi sono rassegnata ad aprire l'armadietto delle medicine e le ho preparato l'iniezione di anestetico da cui non si sarebbe più svegliata.

Le sono andata vicino, l'ho accarezzata. Mi ha leccato le dita con la sua lingua lacera, piagata. Mi ha leccato il viso, le sue ferite mi raschiavano la pelle, ma non ci ho badato troppo. L'ho deposta sul mio tavolo da lavoro, mormorando al suo indirizzo dolci paroline, accarezzandole la testa rossiccia con una mano, con l'altra tenendo la siringa.

Ancor prima che finissi l'iniezione – la mia cagna ha chiuso gli occhi ed è sprofondata nel sonno. L'ho accarezzata, le ho tolto il collare, con tutte le medagliette metalliche dei vaccini, che portava inciso il mio indirizzo e 'Lauta ricompensa a chi la riporta'. Seduta sul mio sgabello tondo, ho guardato la mia grassa cagna, chiedendomi quanto tempo dopo l'iniezione la morte avrebbe rimpiazzato il sonno, e come avveniva questo cambio della guardia.

I respiri del mio animale da compagnia diventavano sempre più grevi, profondi, pregnanti. Ogni respiro sosteneva di essere l'ultimo, ma ogni volta ne arrivava un altro dopo, a rubare il titolo. Finché... ecco fatto. La cagna ha concluso la sua carriera. Ho telefonato a un veterinario. Era mezzanotte e l'ho svegliato. Alcuni giorni prima, quando ero andata a chiedergli consiglio, mi aveva bofonchiato qualcosa a proposito di qualcuno che seppelliva animali da compagnia per settanta shekel. Ora gli chiedevo il numero di telefono. Ha detto: "Non potrebbe aspettare domani mattina?", e subito dopo mi ha dato il numero. Mi sono accordata con il becchino, stavo già per chiudere la telefonata, quando lui mi sbraita:

"Spero, signora, che lei non abbia in mente di venire con me".

"Mi scusi?", ero stupefatta, "perché no? In fondo sta per seppellire la mia cagnolina. Ho il pieno diritto di essere presente all'evento. Cosa c'è da nascondere?".

"Ascoltami, bellezza", ha ringhiato quello con impazienza, "i tuoi settanta shekel non mi fanno né caldo né freddo. Di cani ne muoiono tutti i momenti. Li seppellisco nelle dune, vicino al mare. Lo faccio di notte, in silenzio, da solo. Deciditi. Prendere o arrivederci".

La finestra era spalancata, e al di là di essa appariva il firmamento scuro, speziato di stelle. Hanno suonato alla porta. Ero immersa nelle mie faccende, e mi sono tagliata. Sanguinavo da tre dita. Le ho avvolte in una salvietta e sono corsa ad aprire. Mi sono trovata davanti un ometto con una grande faccia e una pancia cascante. Si è presentato con un nome e un cognome che mi sono subito sfuggiti di mente, e ha notato la salvietta impregnata del mio sangue.

"Mi permetta", ha detto venendomi vicino.

"No, non è il caso", ho detto, "davvero".

Ma l'ospite si è accorto che sono sbiancata in viso e che le ginocchia cominciavano a tremarmi, mi ha condotto al divano di velluto verde e mi ha messo sdraiata. Poi si è affrettato in bagno e ha tirato fuori dall'armadietto l'occorrente del Pronto Soccorso; mentre disinfettava le ferite con la delicatezza di un tirocinante, ha scherzato con me e mi ha detto che se fosse arrivato in ritardo avrei dovuto pagare tariffa doppia, per il cocker e per me stessa.

Mi ha messo delle bende intorno alle dita, è andato nell'altra camera, ha chiuso il cocker in un sacco nero della spazzatura, se l'è caricato sulla schiena e mi ha chiesto i soldi in contanti. Ho tirato fuori dalla tasca le banconote. Mi è venuta voglia di farne un rotolino duro e ficcarlo per traverso fra il labbro superiore e il naso del becchino, come dei baffi, ma ovviamente gliele ho porte salutandolo, con la sensazione che non l'avrei mai più rivisto.

Però non passa un minuto che lo rivedo di lontano, dalle altitudini del mio appartamento, trentasettesimo piano: stava buttando il sacco con la cagna nel baule, poi si è seduto e ha fatto per accendere il motore. Non riusciva a mettere in moto, dentro di me ho pensato, è arrivato il tuo momento, Dolly, e sono corsa fuori, sono entrata nell'ascensore cilindrico di vetro che scende e sale a inutile spirale per una questione di risparmio energetico, e sono riuscita ad arrivare in tempo. Avanzando di corsa, curva sull'asfalto, ho aperto piano il portello posteriore, e sono sgusciata dentro. Il piccolo impostore non era ancora riuscito a mettere in moto e sbottava con un mare di imprecazioni. Solo dopo dieci minuti si è sentito l'assolo sgarbato del motore, e siamo partiti. Ho guardato l'orologio, le due e otto minuti, mentre la mia bussola indicava occidente: proprio come immaginavo.

Nel giro di venti minuti la macchina metteva la freccia a destra e imboccava un sentiero sterrato, tutto buche e dossi, prostitute sgargianti da entrambi i lati. L'autista, che a quanto pareva era in erezione, ha borbottato qualcosa fra sé e sé, ha accostato la macchina per spaventarne una, con una risata convulsa cessata solo dopo un bel po', quando ormai era fuori dal loro campo visivo.

La macchina ha frenato bruscamente, lui si è catapultato fuori con la vanga in mano. Anch'io sono sgusciata fuori al vento umido e salato del lungomare, mi sono nascosta dietro un monticello disseminato di primule gialle che non mi ricordavano nulla, e mi sono tutta dedicata all'osservazione.

Scavata la fossa rotonda, a questo furfante non restava altro che buttare la cagna nel buco e coprire. Ma, invece di concludere la faccenda, il buon uomo ne ha aperta un'altra. Ha tirato fuori il cocker dal sacco, ha preso dal baule un forcone e ha cominciato a tormentare la carogna, infilzandola, decapitandola, smembrandola; poi l'ha spinta nella fossa e ha tumulato rapidamente.

Tremavo tutta, ribollivo di rabbia. Mi sono alzata con un grido di battaglia. L'uomo si è voltato sorpreso verso di me e io, in preda al cordoglio, gli ho strappato il forcone di mano e invece di piantarlo in terra, come avrebbe fatto chiunque, l'ho ficcato nella pancia del becchino, con tutta la forza accumulata in anni di lavoro nero.

Si contorceva dal dolore ma io ho continuato a infierire. Nel giro di due o tre minuti ho fatto fuori il brav'uomo.

Ansimavo, mi sono fermata un momento, ho ripreso fiato, ho radunato le parti del mio cane, le ho sepolte nella fossa al chiaro di luna, asciugandomi la fronte umida, mi prudeva.

Ho messo in moto la macchina, con una piacevole sensazione di narcotica serenità, come non provavo da molti giorni. Con quella calma ho riportato la scatola ambulante sulla strada asfaltata.

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Quando ho comprato questa casa, l'inquilino precedente mi ha detto che il progetto l'aveva fatto un architetto di origine beduina, che ci aveva abitato anni prima e che aveva un grande senso degli spazi. Perciò io non so esattamente quale sia la sua metratura precisa, potrebbe essere un chilometro quadrato, o almeno trecento metri quadri.

Ogni tanto da uno dei balconi del grattacielo svolazza fuori un mobile, ogni tanto attraversano la linea del mio meridiano dei suicidi le cui urla si assorbono nel frastuono dei treni, delle macchine e degli aeroplani.

Mi sono seduta in balcone a guardare fuori. Delle mosche tormentavano il mio bambino. Ho sorseggiato lentamente un caffè decaffeinato con zucchero dezuccherato e ho acceso la ventola per scacciare le mosche. Dagli abissi della mia disperazione sono risaliti pensieri terribili, che mi hanno avvolto come un pitone. Ho cercato di combatterli lasciandoli esprimersi, li ho spinti fino all'estremo limite: ebbene sì, misurandomi con l'immensità della tragedia, mi sono calmata.

Dal momento in cui la compagnia Air Bi è rientrata nella mia vita – mi sono sentita un po' sollevata, anche il bambino – se posso azzardare un'ipotesi – stava un po' meglio, perché invece di molestare lui e la mia serenità – ho cominciato a molestare i piloti della compagnia. Temevo che un bel giorno ne arrivasse uno e mi rubasse il mio piccolo progetto, sostenendo di esserne il nonno. Non tolleravo l'idea che un altro impiegato della Air Bi toccasse mio figlio, e che potesse rivendicare su di lui potestà nonnesca.

Ho fatto sentire al bambino della musica di un carillon, circa duecento e cinquanta volte la stessa melodia, finché si è vomitato tutto il latte caprino di cui prima si era abboffato, poi ho cominciato a tormentare i piloti, andando per gradi, come si misurano le ustioni. Ho iniziato dal primo grado. Ho fatto mandare a casa loro formaggi olandesi e pizze con anelli di cipolla. Ho aspettato i loro bambini all'uscita della scuola e ho riempito di merda i loro mandolini, ho sommerso i piloti di telegrammi di condoglianze per la morte del tale o tal'altro parente, ho mandato loro un'infinità di ritagli di giornale su aerei precipitati o scomparsi nel triangolo delle Bermude.

Volevo solo ridimensionare un pizzico la loro sicumera, scuotere il tappeto persiano che calpestano. Volevo dimostrargli che si può affogare nel fuoco, ustionarsi nell'acqua, e non solo in via teorica.


Una notte mi sono svegliata alle tre del mattino con l'irrefrenabile impulso di operare. Prima, in una situazione del genere, mi sarei trovata in laboratorio ad aprire-chiudere, ma ora, dopo che le mie ricerche erano state abbandonate ed erano divenute tabù, non avevo nulla da fare, e comunque non avevo più nessuno da operare, visto che le operazioni sui cadaveri mi avevano stufato.

Dentro di me sapevo che mi era proibito, proibito entrare nella stanza del bambino. Dormiva di un sonno beato. Sono andata da lui vestita con il camice verde, l'ho spogliato e l'ho messo supino sul freddo tavolo di metallo. Tremava dal freddo. Gli ho contato le vertebre. Mi è parso che gliene mancasse una. Le ho contate più volte, e quando sono stata sicura al cento per cento, e duecento per cento, e così via per serie matematica fino al milione per cento – ho inserito nel calcolatore diversi dati sul mio bambino, finché la macchina ha incominciato ad ansimare come una donna in sala parto.

Il bambino era ancora disteso sulla pancia. L'ho anestetizzato, benché ancora non sapessi dove l'avrei tagliato. Ho tentato disperatamente di placare questo mio impulso a trafficare col bambino, ho tentato di fargliela cavare con un semplice clistere — ma niente, non ha funzionato.

Ho preso un coltello e ho cominciato a tagliare qua e là. Gli ho tratteggiato sulla schiena la cartina d'Israele in epoca biblica così come me la ricordavo, ho segnato tutte quelle città dei filistei, come Gat e Ashkelon, e ho tratteggiato con la lama il lago di Tiberiade e il Giordano che sfocia nel Mar Morto che evapora non stop.

Minuscole gocce di sangue hanno cominciato a convogliarsi nei bacini dei torrenti scavati lungo il paese. L'immagine della carta d'Israele maldestramente schizzata sulla schiena del mio bambino, mi ha provocato un brivido di delizia. Finalmente ho sentito che stavo tagliando sul vivo. Il mio bambino piangeva di dolore — ma io andavo per la mia strada. Quando ho finito di segnare su di lui tutti i punti che la mia malconcia cultura aveva faticosamente estratto dai cassetti arrugginiti del cervello, sono tornata me stessa — cioè un medico — e ho sterilizzato e fasciato, all'occorrenza cucito.

Ho guardato la schiena sezionata: era una carta d'Israele, senza alcuna possibilità di equivoco.

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Pagina 94

Qualche mese prima che mio padre ci lasciasse le penne, qualche mese prima che i medici decretassero che era spacciato, uno dei luminari che lo curavano, uno con una faccia lunga del reparto pneumologia del day hospital dell'Ichilow, ha avuto un'illuminazione, e l'ha spedito alla clinica del dolore di via Henrietta Szold, una parallela dell'Ichilow, in direzione della superstrada Haifa-Tel Aviv.

"Lei non ha niente. A parte un terribile dolore al fianco sinistro del polmone. Non è niente, sono i nervi, i nervi", gli ha detto quel genio.

Per tre mesi, ogni martedì o mercoledì, il defunto si presentava alla clinica del dolore, e settimana dopo settimana, un dottorucolo della clinica sfoderava una enorme siringa e gliela ficcava nella schiena, per neutralizzargli un nervo o l'altro. Il passatempo di quel dottorucolo era la distruzione dei nervi nei corpi incancreniti. Il passatempo del suo collega, il dottorucolo numero due, era quello di convincere i pazienti a sottoporsi alla distruzione del nervo.

Fino a quell'epoca, non avevo mai avuto contatti con quel genere di medici – i dottorucoli, che non sono proprio dei medici e nemmeno proprio dei ciarlatani, ma una via di mezzo. Per quel che sono riuscita a capire, sono tipi in generale sorridenti, hanno una mano gradevole e tiepida al contatto, un colorito bruno grigiastro, parlano un buon ebraico e un inglese soddisfacente. Quei due medicozzi hanno ingannato mio padre moribondo. Tre giorni dopo questo rito dei nervi, durante il quale mio padre si era convinto che il dolore fosse passato – quello è tornato più forte che mai. Per venticinque volte i dottorucoli gli avranno iniettato dritto nel nervo un prodotto per devitalizzarlo una volta per tutte. Avevano tutta una strategia, segnavano sulla schiena di mio padre dei punti neri con varie matite speciali, prendevano dei compassi, glieli piantavano nella schiena, e disegnavano dei cerchi, chissà diavolo perché. E quest'uomo, questo buon uomo, se ne stava immancabilmente zitto, mentre la loro terapia non cambiava di una virgola i suoi dolori infernali, contro i quali io avevo condotto una grande campagna, sostenendo che egli simulava.

Solo dopo tre mesi di sterile terapia – mi ricordo –, si era in piena estate, le tre acacie sul terreno di fronte erano verdi e l'autobus si rimpinzava di escrementi del quartiere nord di Tel Aviv – mio padre era sulla sedia a dondolo, e mi ha detto che sapeva di aver il cancro, che per sport andava alla clinica del dolore, e che quando un medico diceva a qualcuno che non aveva niente, era segno che quel qualcuno stava per morire.


Mi sono seduta sulla panchina con il mio grasso culo che debordava ovunque, con il bambino piantato sulla schiena che non mi permetteva di appoggiarmi, chiedendomi se non valesse la pena mettere su una clinica del dolore tipo quella di via Henrietta Szold, guidata cioè dalla direttiva terapeutica di trattare solo il dolore, e non la sua causa. Più o meno tre anni prima, quando avevo perso la testa e vedevo tumori cancerosi ovunque – anche allora mi ero concentrata sul dolore, solo che era per angoscia, per ossessione, mentre ora si trattava di una mia concezione assolutamente innovativa.

Per cominciare, per ispirarmi, sono andata in via Henrietta Szold a Dolly City. Partivo dal presupposto che se a Tel Aviv esisteva una via Henrietta Szold, allora doveva esistere anche a Dolly City. Ma non ci ho trovato nessuna clinica del dolore. Nel posto in cui avrebbe dovuto esserci la clinica, c'era invece un bordello gestito da alcuni profughi curdi che la facevano da padroni.

Sono andata alla gare Saint Lazare. Partivo dal presupposto che se a Parigi esisteva una stazione così, doveva esistere anche a Dolly City, ma non ho trovato niente che ci andasse nemmeno vicino. C'era un altro bordello, gestito da profughi curdi. Sono tornata sulla via principale, arrovellandomi su come adattare il mio progetto alla realtà esistente. Sono entrata in un bordello, ho chiesto alla tenutaria, che poi era un maschio, di organizzarmi qualcosa, così da avere i soldi per mettere su una bancarella per lenire i dolori. Le ho chiesto di trovarmi qualcosa di pulito e facile. E lei mi ha capito, mi ha scovato qualcuno che in fondo voleva solo strusciarsi. Non ho capito fino in fondo cosa voleva. Mi ci è voluto del tempo perfino per capire che era tutto lì. Mi è solo passato vicino strusciandosi con la gamba e ha continuato fino all'altro capo della stanza, ha tirato fuori qualche bigliettone, ha pagato ed è uscito.

Per un giorno e mezzo ho aspettato la licenza per la bancarella al municipio di Dolly City, finché alla fine mi hanno detto che non era possibile, semplicemente non era possibile. Ho trovato un cartone e ci ho scritto sopra 'una lenitrice vi farà dimenticare il dolore in un istante'. Mi sono detta, guarda Dolly, l'unica cosa che bisogna fare con tutte le idee, è renderle ufficiali. Guardati, solo qualche anno fa vagavi per Dolly City con una siringa e iniettavi sedativi a tutti i passanti, mentre ora fai la stessa cosa – solo che ci guadagni pure.


Drogavo la gente. Visto che non sono riuscita a procurarmi dei calmanti, iniettavo gazzosa e Pepsi Cola, senza avere la minima idea dell'effetto che gli facesse. Molte hostess della Air Bi e personale dell'equipaggio di bordo mi arrivavano direttamente dopo i voli perché gli ficcassi qualcosa nel culo. Soffrivano di emicrania per via della tensione. Arrivava anche qualche pilota che pativa soprattutto di dolori al fondoschiena. Arrivavano con le loro uniformi e si comportavano come se tutti dovessero leccargli i piedi. Me ne sono rapidamente sbarazzata, non riuscivo a sopportare l'odore del loro after shave.

Ho preferito tenere le distanze anche perché temevo che uno di loro potesse riconoscere il nipote sulla mia schiena, ma questo comportamento si è poi rivelato superfluo. Dopo tutto quel che aveva passato – il bambino assomigliava solo più a se stesso. Aveva l'aria di uno spettro, i passanti a Dolly City si fermavano a guardarlo come fosse uno scherzo di natura, qualcuno lo prendeva in giro, e io lasciavo fare perché non venisse su troppo viziato, perché si rendesse conto che la vita è un ospedale per malati di mente. Mio figlio notava gli sguardi ostili e ruggiva come una tigre colpita da una freccia, passavano ore prima che cominciasse a piangere, e ore ancora prima che si calmasse.

Ho accumulato centinaia di ore di iniezioni, ma fatto sta che pian piano la gente è morta, o si è abituata a convivere con il dolore, e io non ci guadagnavo più. Le mie tasche erano in una situazione di merda. Per continuare a respirare l'aria salata della città sono stata costretta a passare all'eutanasia – il settore che più detesto in medicina, perché non è né carne né pesce. Non è omicidio, e non è salvataggio, cosa cazzo è? È il momento in cui la medicina ammette il proprio fallimento. Odiavo uccidere vecchietti terminali, cento volte più di quanto un dentista odi togliere un dente a un paziente che gli compare in studio con anni di ritardo.

Mi sono rotta dell'eutanasia. Sono passata alle malattie del sesso. Per mesi ho girato con questa fissa. Ho vagato da un mestiere all'altro, da una specializzazione all'altra, come i figli d'Israele che hanno errato da un posto all'altro durante il loro esilio. Visto che ne avevo le palle piene, mi sono messa a girare con un cartello che diceva che ero ginecologa, e stufatami anche di questo sono diventata otorinolaringoiatra.

Per qualche tempo ho preso una pausa dalla medicina. Le mie fottute diagnosi mi uscivano dalle orecchie, ne avevo le scatole piene. Può darsi che se fossi stata un medico con uno studio e dei biglietti da visita e dei camici bianchi – può darsi che avrei potuto andare avanti così, ma il mio dilettantismo era micidiale. Ho trovato lavoro al cimitero come maschera: avrei dovuto portare i parenti alla tomba e mostrargli la più breve via di uscita. Ma era terribilmente noioso, ho mollato dopo una settimana.

Ormai la sapevo lunga sulla follia. Non c'è dubbio che la pazzia sia un animale predatore. Il suo nutrimento è l'anima. Si appropria dell'anima con la stessa velocità con cui nel '67 il nostro esercito ha conquistato tutta la Giudea e Samaria e la striscia di Gaza. Quando si è impadronita di questi 'territori' dentro la persona, la follia si dà a saccheggiare tutto questo territorio. Ma se uno Stato come lo Stato d'Israele non riesce a dominare gli arabi dei Territori, perché io, individuo, dovrei riuscire a dominare gli occupied territories interiori?

E visto che siamo entrati in politica, voglio porre una domanda – se Dolly City è un posto così orribile e tremendo – perché gli Americani non la fanno saltare per aria, perché? Hanno la bomba atomica! Perché qualche nazione illuminata non si organizza e bombarda la città per cancellarla dalla carta geografica?

Quando l'umanità sarà riuscita a trovare una cura per il cancro, dovrà dedicarsi a cercare una via per uccidere la pazzia senza uccidere il pazzo.

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