Copertina
Autore Carlo Castelli
Titolo Nervi d'acciaio
SottotitoloToccata e fuga dal disturbo bipolare
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2010, eretica , pag. 104, cop.fle., dim. 12x16,6x0,7 cm , Isbn 978-88-6222-134-4
LettoreElisabetta Cavalli, 2011
Classe psichiatria
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Indice


Una fonte sicura di Giuseppe Soavi           3


Fra due mondi                                7

La settimana bianca                         10

La medaglia                                 18

I ricoveri                                  25

La casa in campagna                         34

Arriva la compagnia                         43

Le piscine                                  58

Le tre fate                                 72

Un'amica sincera                            82

Oggi                                        99


Ringraziamenti                             101


 

 

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Pagina 7

FRA DUE MONDI



La mia condizione mi ha portato molte volte a stare in equilibrio fra due mondi. La risposta psichiatrica o psicologica è stata l'unica che ho avuto, ma non l'ho mai fatta mia completamente. Ho sempre creduto che in quello che mi succedeva ci fosse qualcosa che andava al di là del vortice del mio pensiero, delle particolari percezioni sensoriali, di tutte le modificazioni corporee e comportamentali. Ho pensato che le realtà che sperimentavo non erano sempre dipendenti da me e non vivevano soltanto perché ero così in quel momento, ma avevano vita propria. Erano autonome. Quasi come un pesce che guizza fuori dall'acqua e per un istante vede l'ambiente terrestre, il cielo e le nuvole, dove forse non potrà mai vivere. Ho sentito molto intensamente che c'era qualcosa di diverso in quello che mi accadeva rispetto a tutto ciò che mi avevano insegnato, ma non per questo era privo di importanza. Qualcosa che mi dava speranza, qualcosa che era in relazione con una mia parte profonda, quella che si interroga su ciò cui andrò incontro nella vita e dopo la morte: non il paradiso o l'inferno, ma qualcosa di più vicino a me, quasi alla portata dei miei sensi, solo su un piano leggermente diverso, appena sfalsato. Questo stato mentale è ben descritto da Castaneda, che racconta come, nella filosofia dei guerrieri messicani, la realtà è costituita da più strati, uno dentro l'altro, come in una matrioska. Il passaggio attraverso questi livelli avviene per una modificazione profonda del nostro pensiero e delle nostre convinzioni: lo spostamento del "punto di unione". A tutte le persone che hanno avuto esperienze simili alla mia, dico di non aver paura di ciò che vi sta accadendo. L'angoscia di non essere sempre capiti, il timore per le cose strane che vi capitano, è normale. Dico anche di non essere incoscienti. "Spostarsi" tra i livelli della propria coscienza e tra i livelli della realtà può essere molto affascinante, ma anche molto pericoloso. Nel 99% dei casi si dovrà poi pagare lo scotto con una depressione intensa e rischiosa. Esistono buoni farmaci che alleviano il disagio e allungano l'intervallo degli episodi. Un buon medico, esperto, che vi sia simpatico, con cui vi troviate a vostro agio, inizialmente vi potrà aiutare. Non prendete per buono tutto quello che dice lui, ma non credete neanche che sia tutto giusto quello che pensate voi.

Forse un giorno si formerà una cultura che permetterà di incontrare queste realtà senza avere scompensi, realtà di cui alcune persone sentono il bisogno e che cercano, forse perché il mondo in cui viviamo le ha dimenticate.

A volte una variazione percettiva può metterci in contatto con qualcosa di profondo che si è mosso al nostro interno e con cui dobbiamo scendere a patti, non ignorarlo. Alcuni aspetti della nostra personalità, che emergono amplificati nella fase di modificazione, ci appartengono intimamente e potranno essere compresi e coltivati, quando la burrasca si sarà placata.

È come se il nostro corpo ci inviasse un segnale potente. Se a un castello vacillano le fondamenta, bisogna andare a ripararle, vedere cosa è successo. Forse abbiamo appesantito troppo i piani alti, o costruito su un terreno franoso. Scendendo le scalinate che portano nelle segrete, troverete libri e dipinti dimenticati di notevole pregio, stanze sconosciute e stretti passaggi che vi porteranno al fiume magico, dove scorre la vostra vita...

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Pagina 10

LA SETTIMANA BIANCA



La prima volta che mi successe avevo compiuto 18 anni da cinque giorni. La scuola aveva programmato una settimana bianca in Trentino e c'era una grande trepidazione. Circa un mese prima avevo iniziato ad avvicinarmi a temi mistici e filosofici. Discutevo molto spesso con i miei professori e i miei compagni di classe. Ascoltavo musica per ore e ore. A volte sempre la stessa canzone, per tutta la giornata. Di solito "Giovanna d'Arco" di Fabrizio De André. La sera, quando andavo a letto, il mio pensiero, come impazzito, si interrogava sulla vita, sulla morte, sul finito e l'infinito. Ero come risucchiato da un vortice che mi stava tirando sempre più verso il fondo; ero come saltato da un aereo a diecimila metri di quota senza il paracadute e stavo sempre più avvicinandomi al punto in cui mi sarei schiantato, come un bicchiere di cristallo vuoto, su un pavimento di granito. In quei giorni mi appassionavo a tutte le domande che non hanno risposta, come il perché della vita sospesa tra un passato in cui non esistevo e un futuro in cui non ci sarò più o il fatto che da ogni fenomeno, con una serie di domande, è possibile risalire fino a un principio che si è dedotto dall'osservazione.

Ad esempio: "L'elettrone tende a stare sempre nell'orbitale a energia più bassa", oppure "Il calore passa sempre da un corpo più caldo a uno più freddo". Questi principi sono così perché sono stati dimostrati matematicamente o sono stati osservati.

Un altro esempio è quello del perché un corpo cade per terra, quando si lascia. È la forza di gravità che lo fa cadere, d'accordo, ma non si sa perché ci sia questa forza. Si è osservato che c'è.

Stavo cercando l'infinito nel finito, Dio in terra. Io stesso ormai ero diventato una domanda senza risposta, non sapevo più chi ero e che cosa volevo; come travolto da un fiume in piena, trascinato nella corrente, cercavo di aggrapparmi a qualcosa che non poteva sostenere il mio peso. Stavo scendendo lungo il ciclone fino al suo occhio dove lo spazio più tranquillo, la gita scolastica lontano da casa, ha fatto esplodere la bomba che era in me. Ripensandoci, adottai il comportamento di certi gatti che quando stanno per morire o sono feriti si isolano, lontano dal loro habitat quotidiano.


La mattina della gita mi trovai alle sei precise sul piazzale del liceo scientifico. Il pullman arrivò dopo poco. La gita era organizzata per due classi: la quarta A e la quarta B, più tre o quattro professori. Salutai il mio amico Enrico e salii. Mi sedetti nell'ultima fila. Ero in quello stato difficile da descrivere tra il sogno e la realtà, in una specie di limbo dove tutto sembra possibile. Avevo perso più di quindici kg nel mese precedente la gita. Alcune ragazze mi guardavano interessate, ma io avevo altro per la testa. Mi stavo domandando se il calore, almeno una sola volta, fosse passato da un corpo più freddo a uno più caldo. Cantavo le canzoni che nascono spontaneamente nei viaggi scolastici e, stranamente, vedevo che riuscivo a modulare la voce secondo tonalità molto basse e molto alte. Parlavo con tutti e risolvevo in pochi minuti gli indovinelli della professoressa di matematica.

Enrico e Silvia si erano accorti che qualcosa non andava. Ero troppo diverso dal solito. Enrico sentiva che sarebbe successo qualcosa entro breve, e così fu. Arrivammo a Pejo e tutti scesero felici nella neve ghiacciata del parcheggio. Dopo un pranzo veloce, furono assegnate le camere. I maschi erano divisi dalle femmine e per questo mi arrabbiai, ma poi mi sistemai in una matrimoniale con Massimiliano e Martino. Verso sera andammo a messa. Enrico in seguito mi disse di avermi visto così assorto e rapito durante la predica che pensò avessi trovato la mia dimensione di fede, ma chissà quali garbugli avevo per la testa. Rientrammo in albergo e ci avviammo verso le camere. Parlai quasi tutta la notte con i miei compagni di stanza, che un paio d'ore prima dell'alba si assopirono. La partenza per le piste da sci era fissata per le otto. Non chiusi occhio. Rimasi per quattro ore a fissare la parete. Mi sentivo come in una centrifuga al massimo della velocità. La mattina esplosi. Massimiliano e Martino si svegliarono strofinandosi gli occhi: ero già in azione. "Non c'è tempo da perdere", dissi. "Dobbiamo fare alla svelta!".

Martino: "Cosa?".

Massimiliano: "Che roba?".

"Fidatevi di me!".

Aprii l'armadio e guardai gli appendiabiti appesi alla stanga: erano rossi, bianchi e neri... "Ce la possiamo fare", urlai. I miei due amici si guardarono negli occhi... "Ma che diavolo...". In quel momento entrò nella stanza l'atletico professor Bernieri per annunciarci che era ora di andare a fare colazione. Massimiliano gli disse che non si sentiva molto bene e il professore decise di rimanere in albergo con lui. A quel punto fui totalmente convinto che il professore di ginnastica, con il quale andavo molto d'accordo e che stimavo moltissimo, impersonasse l'anticristo o una specie di demonio. Dovevo difendere il mio amico. Mi frapposi tra lui e il demone. Guardando il demone negli occhi dissi: "Tu ti levi dalle palle subito!". "Cosa, Claudietto?" disse il professore. "Ho detto fuori dalle palle!". "Ma Claudio... cosa dici...?". Il prof., con un brutto presentimento, uscì dalla stanza. Feci anch'io lo stesso dicendo: "Venite con me, è la fine del mondo". "La fine del mondo cosa?", chiese allegramente Nicola, ma guardandomi negli occhi capì che non si trattava di una bella ragazza, una nuova tuta da sci o una maglietta sgargiante. Ero convinto veramente che quella mattina del 13 febbraio 1995 sarebbe finito il mondo. Iniziai a camminare per i corridoi ed entrai nella stanza del minuto e sensibilissimo pianista Pinarelli dicendo: "Dammi la tua tuta da sci!". "Ma Claudio, sei alto trenta centimetri più di me". "Non importa, quello che conta è che è blu". Pinarelli capì immediatamente che non era il caso di discutere e mi consegnò, molto riluttante, la sua tuta da sci. Avevo diviso le persone in due tipologie, due fazioni in lotta fra loro: quella del rosso e del nero e quella del blu. Sotto mi ero vestito con indumenti rossi e neri, usandoli a mo' di schermo e protezione, perché erano i colori di quelli contro cui combattevo; sopra di blu. Dissi di fare lo stesso ai miei amici, che andavo letteralmente a prelevare nelle loro stanze.

Il cervello ragionava alla velocità della luce e il pensiero era come la pallina scagliata in un flipper superpotente. Profumi, odori mi attraversavano come sferzate, sensazioni come di onde che crescevano dentro di me o di caduta nel vuoto, si susseguivano velocissime. Alla fine riuscii a radunare i miei protetti: Silvia, Giacomo, Martino, Elena, Massimiliano, Riccardo sarebbero bastati a salvare il mondo? Iniziammo a salire la china che portava alla chiesetta, ma poi decisi di tornare indietro a prendere Marina. Dissi ai miei amici di aspettarmi sulla collina, li avrei raggiunti dopo. Quando arrivai alla porta a vetri dell'albergo vidi che Marina era appena dietro, fra tre o quattro persone. Con un calcio sfondai la porta, che colpì in fronte una signora che stava tentando di impedirmi di entrare. Due ragazze che facevano le pulizie mi si gettarono addosso. Mi liberai. Non riuscii a salvare Marina e tornai verso la collina dai miei amici. Lì iniziò il mio discorso. Le parole mi uscivano dalla bocca fluenti e incantatrici. Più parlavo, più mi condizionavo e in una certa misura influenzai anche i miei compagni, che fecero di tutto per starmi vicino, aiutarmi e capirmi.

"È la fine del mondo, dobbiamo spogliarci e bruciare i nostri vestiti sull'altare della chiesetta".

Cercai di sfondare la porta. Alcuni mi trattenevano, altri si misero a piangere. Martino diede un pugno alla porta e si slogò un polso. Enrico faceva la spola tra l'albergo e la chiesetta per capire cosa stesse succedendo. Il mio corpo, la mia testa, il mio petto erano attraversati da un turbine di sensazioni. Gli argini erano crollati. Dovevo proteggere i miei amici da qualcuno, da qualcosa. Lottavo contro qualcosa di invisibile e invincibile? Lottavo contro me stesso?

La porta della chiesa era robusta e non cedeva. Solo l'amore poteva salvarmi, una prova d'amore, un bacio vero. Silvia fu la sfortunata estratta. La ragazza, rimasta la più lucida di tutto il gruppo, forse perché pensava "Lo bacio e l'incubo finisce", o forse perché aveva veramente voglia di baciarmi, ma sono sicuro che se una parte di lei pensava questo era grande come un granello di sabbia rispetto a tutte le spiagge degli oceani... mi baciò. Protese le labbra a culo di gallina così serrate che non ci sarebbe potuto passare neanche un atomo di ossigeno, chiuse in una morsa di angoscia. No, non era amore quello.

In quel momento la tensione schizzò alle stelle e iniziai a sentire un brusio fortissimo, come avessi un alveare intero all'interno della mia testa. Profumi, odori che percepivo più con la mente che con i sensi, vertigini, trasalimenti e poi quel fortissimo brusio. Arrivò un insegnante e nel momento in cui lo guardai sentii come uno sfarfallio, una musica, uno sfrigolio a livello della fronte che mi dava un forte malessere. Lo allontanai dicendo che era un demonio. Radunai i miei amici in cerchio, c'era ancora una possibilità. "Dobbiamo spogliarci e tornare bambini". Riccardo iniziò a slacciarsi gli scarponi.

Era arrivata l'ambulanza. Mi staccai dal gruppo e anch'io cominciai a svestirmi. La tuta, il maglione, la maglietta, le calze e le mutande. Rimasi nudo sulla neve ghiacciata e, alzando le braccia al cielo, provai la più grande sensazione di pace di tutta la mia vita. Per una ventina di secondi fui come immerso in un fascio tiepido di luce che non era solo intorno a me, ma anche dentro. Avevo gli occhi chiusi, ma vedevo questa sfolgorante luce bianca e mi sembrò di essere sospeso nello spazio e nel tempo. Non sentivo più niente, intorno. I rumori, le voci, l'agitazione erano scomparsi. Non avevo più la percezione del mio corpo, non sentivo più né caldo né freddo. Ero come sublimato al di fuori del fisico. Anche il pensiero si fermò e l'unica cosa, in quel breve attimo di cui fui ancora cosciente, era il fatto di esistere. Poi tornai in me rapidamente. Mi appoggiai alla porta della chiesa e, mentre gridavo qualcosa a Martino, lo psichiatra del Trattamento Sanitario Obbligatorio mi praticò un'iniezione di tranquillante nella coscia.

Ero stremato. La battaglia quel giorno era finita, ma era iniziata una guerra. La mia guerra personale con il mio problema, che in breve tempo fu classificato tra i disturbi bipolari dell'umore. I colloqui, le terapie, gli scompensi, ma anche i periodi sereni e di tranquillità dove scrivevo appunti e diari che, con il tempo, si sono trasformati nel libro che state leggendo. Spero che queste pagine siano di aiuto a chi, come me, ha intrapreso questo viaggio ricco di difficoltà ma anche di grandi soddisfazioni e speranze.

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