Autore Luciana Castellina
Titolo Amori comunisti
Edizionenottetempo, Milano, 2018, cronache , pag. 268, cop.fle., dim. 14x20x2 cm , Isbn 978-88-7452-705-2
LettoreCristina Lupo, 2018
Classe narrativa italiana , biografie , paesi: Turchia , paesi: Grecia , paesi: USA












 

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Indice


Prologo                                   7


Turchia: Münevver e Nâzım                 9

    Prima parte                          11
    Seconda parte                        93
    Terza parte                         111
    Quarta parte                        131
    Postfazione                         149


Creta: Arghirò e Nikos                  155


Stati Uniti: Sylvia e Robert            223


Ringraziamenti                          266


 

 

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Pagina 7

Prologo


Questo libro non fa pettegolezzi, e nemmeno è autobiografico. Ma quelle che seguono sono tre storie vere, realmente accadute a persone che ho conosciuto e che me le hanno raccontate. Sono cronache di amori che si sono mescolati, ciascuno di loro, alle pagine piú dure della storia dei loro rispettivi paesi: la Turchia, la Grecia, gli Stati Uniti.

Li ho chiamati "amori comunisti" non solo perché questa era la fede dei loro protagonisti, ma perché, per chi si fa coinvolgere dalla Storia fino in fondo, la vita privata e quella pubblica sono cosí strettamente intrecciate che a volte si scambiano e si confondono.

Sono storie che mi hanno meravigliato, appassionato, sconvolto, stretto il cuore, fatto patire, Per questo non le ho mai dimenticate, e alla fine mi è venuta voglia di condividerle.

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Pagina 9

Turchia: Münevver e Nâzım





1


Cinquantaquattro navi da guerra si infilano nel Bosforo e gettano l'ancora nella rada del Corno d'oro: inglesi, francesi, italiane, russe, in testa la corazzata greca Averoff. È il 13 novembre 1918 e le grandi potenze europee che hanno vinto l'alleato imprudentemente scelto dalla Sublime Porta - l'Impero austroungarico e quello tedesco - celebrano la loro vittoria.

Per il regime ottomano era stata un'alleanza obbligata, non proprio desiderata: il sultano non poteva schierarsi al fianco del suo nemico storico, lo zar, che da sempre ambiva al controllo dello stretto dei Dardanelli.

Le cinquantaquattro imbarcazioni sono l'avanguardia dei vincitori che si apprestano a occupare il paese sconfitto. E però ricevono un'accoglienza festosa, anzi esaltata, da un pezzo di città, quello che abita nel vallone dell'Arsenale, verso Kasımpaşa, ma anche nei quartieri a ridosso della Torre di Galata: sono i greci, mischiati agli ebrei, ai levantini di ogni specie, i non musulmani, piú di metà di Istanbul. Che non è una città turca, è la capitale cosmopolita dell'Impero ottomano. Le flotte che arrivano non sono i nemici, sono l'agognato Occidente. Al Pera Palace, luogo simbolico della voglia d'Europa, la Società letteraria greca di Istanbul organizza una festa in onore del generale che comanda le truppe greche che hanno appena occupato il paese.

L'estesa comunità greca, insediata sulle coste turche da secoli, ha patito, e gioito, durante le guerre balcaniche, anteprima della "Grande" Guerra scoppiata nel '14. Da quel conflitto sono nate nuove nazioni dove prima c'erano califfati e i greci si sono ritrovati spaesati; gli armeni, accusati di non essere più cittadini fedeli, sono stati trucidati; le altre comunità si sentono improvvisamente minoranze in un paese che finora non si era ancora mai pensato nazione turca.

Quando l'Averoff attracca sul molo di Galata, i greci sono in tripudio, canti, cortei, bandiere bianche e blu alle finestre, una marea di popolo che si precipita euforica verso il porto. Sul ponte sta arrivando la parata militare, i reparti scelti degli eserciti vincitori, tutti in alta uniforme: davanti uno squadrone della cavalleria inglese, subito dopo, a cavallo di un destriero bianco, il generale francese Franchet d'Espèrey. E poi una folla di colori, le varianti dei rispettivi eserciti: indiani sikh col turbante, spahis d'Africa col fez rosso e il bournos bianco, bersaglieri italiani con il cappello piumato, scozzesi in sottana, euzoni greci, ufficiali russi coperti di decorazioni e con la divisa a brandelli. La storia sta andando in scena, uno spettacolo teatrale nel giorno della sconfitta, la vigilia della caduta di un impero che è durato piú di sette secoli.

Di imperi in quegli stessi giorni ne sono già morti parecchi: il 9 novembre ha abdicato il Kaiser Guglielmo di Prussia, il 12 l'imperatore Carlo d'Austria e d'Ungheria, al loro posto sono state già proclamate nuove repubbliche. Un anno prima è morto, travolto dalla Rivoluzione bolscevica, l'Impero russo.

Quello ottomano si sta, a sua volta, disfacendo come una vecchia maglia.

E però la Turchia non è ancora nata. È, anzi, tuttora difficile da definire. Ha una capitale antichissima completamente diversa dal resto del paese e persino collocata in un altro continente. È stata pensata come centro del secondo piú esteso impero della storia, le sue frontiere sono a nord, oltre i Balcani, fino al confine austroungarico, a ovest fino alle coste atlantiche del Marocco, lungo tutto il Mashreq e il Maghreb, a est fino e oltre il Caspio. Il suo stesso nome è doppio e ciascuna denominazione significa un'altra cosa: Costantinopoli è cristiana, Istanbul islamica.

Non ci sono, in Turchia, né palme né cammelli; e anzi, è sempre possibile rimanere travolti da una bufera di neve che nei freddi inverni arriva diretta dalle steppe russe. Che in realtà sono molto vicine. E però la città resta Oriente, l'Oriente esotico e mediterraneo cantato da Montesquieu , Pierre Loti e decine di altri intellettuali europei che qui sono venuti pellegrini a cercare il diverso.

Quintessenza delle religioni che hanno animato la sua storia, qui, a lungo, hanno coabitato califfi, sultani, patriarchi greci ortodossi, rabbini, vescovi cattolici armeni. In questa città, che già nel XVII secolo contava quasi un milione di abitanti, solo la metà della popolazione era musulmana fino alla Prima Guerra Mondiale. Alla sua testa, un sultano i cui avi erano stati piccoli emiri turcomanni, oggi ancora al centro di una corte sfarzosa, circondato da spose, schiave circasse, eunuchi sudanesi, ma anche da un bizzarro pezzo d'Occidente: una schiera di dignitari diventati tali sebbene arrivati dall'Europa come ragazzi in cerca di avventura, rampolli di decadute famiglie nobiliari europee, o esuli da fallite rivoluzioni nazionali, tutti indotti ad abbracciare l'Islam dal sultano ansioso di farne fedeli giannizzeri, un'élite da contrapporre ai rozzi contadini dell'Anatolia, i soli davvero turchi, ma lontanissimi dalla raffinata corte ottomana.

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Pagina 17

2


Nâzım Hikmet, figlio e nipote di pascià da parte di padre e di madre, nasce in questo universo multietnico ed elitario aggrumato attorno al sultano. Un bisnonno, Mehmet Ali, era nato nel Brandeburgo col nome di Karl Detroit: arrivato sul Bosforo a bordo di una nave in cui era giovane addetto di cabina, si era buttato in acqua e, a nuoto, aveva raggiunto i giardini imperiali. Il sovrano Abdülmecid l'aveva accolto e quasi adottato, e lui era salito cosí in alto nella gerarchia della Sublime Porta da rappresentarla alla Conferenza di Berlino del 1878. L'altro bisnonno si chiamava Constantine Borzenski: nordico anche lui, un aristocratico polacco fuggito da Varsavia dopo i moti del 1848, approdato a Istanbul e, col nuovo nome di Mustafa Celalettin Pascià, divenuto alto dignitario dell'Impero.

[...]

Crescendo, il suo carattere si è portato dietro, quasi con esagerazione, i tratti di ambedue le sue discendenze: ostinato e orgoglioso come un turco, perdutamente romantico come un nordico. Come Istanbul: un'intersezione della Drang nach Osten tedesca e degli allori delle conquiste ottomane, costruita nel punto in cui la via marittima dello stretto dei Dardanelli tagliava all'epoca la strada ferrata della mitica linea Berlino-Baghdad, una delle tante varianti dell'Orient Express.

E proprio il nome di questo mitico treno finisce per dire al resto del mondo che cosa è diventata ormai, con la guerra, Istanbul-Costantinopoli. Il celebre treno dà infatti il titolo al libro-reportage scritto nel 1921 da John Dos Passos , quando la città è stata appena rioccupata dalle potenze (e semipotenze) alleate: finalmente non piú l'immagine dettata dalla romantica fantasia orientalista dei letterati europei, ma quella raccontata dalla sana, concreta cronaca di un giornalista americano. Sempre un arabesco intricato impossibile da decifrare, ma adesso popolato da reali e modernissime figure: gli occupanti, spaesati carabinieri con un ridicolo tricorno; flics francesi coi baffi che sembrano usciti da una vignetta; militari inglesi dal collo rosso scottato dal sole inabituale. E poi, arroganti signore greche che credono di essere ancora padrone della città, insieme ai loro simili, con cui parlano esclusivamente in francese, la bocca piegata in una smorfia di disprezzo alla vista di un selvaggio d'Anatolia; e ancora, una folla di esuli russi che agli angoli delle strade vendono i loro ultimi averi. Perché nella superba antica capitale ottomana soffia ormai il vento fortissimo della Rivoluzione sovietica, subito al di là del confine, con il carico di profughi, epidemie e miseria rovesciato su tutte le terre che si affacciano sul Mar Nero dalla guerra civile scatenata dalle potenze occidentali per "strozzare nella culla la rivoluzione". Piú che un vento, un ciclone, entro cui si innestano le paure e i furori dell'utopia, cosí come i sogni della speranza.

È nella Istanbul che vive questa traumatica transizione che arriva Nâzım già adolescente, quando i Balcani sono stati quasi interamente persi, la sua città natale, Salonicco, è ormai greca, l'Italia, l'Inghilterra e la Francia hanno mangiato l'uno dopo l'altro i territori africani occidentali. La capitale, anziché trovarsi al centro dell'Impero, è ormai al suo margine estremo.

Gli occhi di adolescente li apre su una città occupata dalle truppe straniere. Gli anni della guerra li ha trascorsi da studente alla Scuola navale dislocata in un'isola del Mar di Marmara, già abbastanza grande però per seguire gli eventi e aver avvertito l'eco del massacro di Sarıkamiş, nell'Anatolia orientale, dove i turchi hanno perso, per mano dei russi, ben 900.000 soldati. E della carneficina di Gallipoli, dove, nel '15, in otto mesi di scontro durissimo con le truppe alleate, ne hanno perduti altri 250.000. Una quantità di morti che saranno però considerati una vittoria perché il generale comandante dell'esercito turco, Mustafa Kemal, è riuscito ad ammazzare quasi altrettanti soldati tra le file dell'esercito britannico, che infatti ha dovuto ritirarsi. Gli inglesi avevano pensato fosse più facile attaccare via terra, anziché prendere Istanbul dal mare, inoltrandosi nei pericolosi Dardanelli. Ma non avevano ancora capito che il paese stava cambiando grazie a un gruppo di giovani ufficiali nazionalisti e che, mentre a Istanbul il governo imperiale si disponeva ad accettare il durissimo armistizio, i militari ribelli erano decisi a fare sul serio.

Lo capiscono in ritardo, e, nel '21, nel tentativo di frenare la rivolta, rioccupano la capitale, arrestando 150 leader nazionalisti, deportati poi a Malta. Aprendo cosí le porte all'alternativa di Mustafa Kemal.

Il sultano Maometto VI, che complotta col nemico ufficiale, la Gran Bretagna, per cambiare fronte e approfittarne per abolire di nuovo la Costituzione reintrodotta nel 1908 dal primo intervento dei "Giovani turchi", finirà per dover abbandonare Istanbul e rifugiarsi, esule e deposto, a Sanremo. Anche se al vittorioso generale Kemal ci vorranno ancora degli anni per proclamare la Repubblica, che vedrà la luce solo nel 1923. Da allora sarà ufficialmente chiamato Atatürk, "padre della patria". Patria dei soli turchi puri, non piú dei tanti popoli che abitano il territorio, a cominciare da quello curdo, da Atatürk ridotto a "popolo turco della montagna".

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Pagina 43

Questi pochi anni passati fra un arresto e l'altro, prima di quello che lo terrà detenuto per ben tredici anni, sono un periodo assai fertile per Nâzım. Non solo come poeta: lavora sempre piú spesso per il teatro e per il cinema, per i nuovi studi cinematografici di Istanbul. Prigione e arte si confondono: "Detesto non solo le celle della prigione," scrive, "ma anche quelle dell'arte, dove si sta in pochi e da soli".

All'origine della sua ispirazione c'è sempre la politica: la sua lotta contro gli artisti che non cercano consonanza col popolo, né con i tempi della storia. Nei suoi scritti di questo periodo si avverte l'arrivo pesante del fascismo in Europa, l'eco della guerra di Spagna, delle aggressioni naziste.

In Lettere a Taranta Babu, titolo che per non attrarre subito gli strali della censura dà allo scritto che originariamente si chiamava Un abissino in Italia, parla dello squallore di Roma sotto Mussolini e della nostalgia struggente del protagonista per il villaggio etiope, devastato dall'aggressione fascista, dove ha lasciato sua moglie.

Taranta Babu rappresenta anche un'innovazione stilistica: brani di giornali sono mischiati con versi e prosa, e come sempre nelle sue opere la denuncia politica è intrecciata ad accenti sensuali, che riecheggiano l'amore. Un dato che gli viene rimproverato dai suoi compagni più ortodossi, quasi fosse una distrazione dall'impegno politico. Una critica cui Nâzım, ironico, risponde con una poesia:

    È l'inevitabile risultato
    delle condizioni sociali ed economiche storiche;
    non me lo dire, lo so.
    Il mio cervello si inchina alle cose che hai citato,
    ma il mio cuore
    non parla la stessa lingua.
    Un marxista non è un uomo meccanico
    un robot, ma un concreto
    socio-storico essere umano
    in carne e sangue, nervi testa e cuore.

Lettere a Taranta Babu è dedicato a Henri Barbusse, il socialista e pacifista francese, e il libro viene pubblicato da Louis Aragon sulla rivista Commune. In Turchia, nonostante il successo al momento della pubblicazione, l'opera viene bandita, né verrà piú citata nelle antologie turche dei decenni successivi.

L'atteggiamento verso il fascismo e il nazismo da parte del regime turco è inizialmente ambiguo: la persecuzione degli ebrei è vista ad Ankara con simpatia perché aiuta a scagionare la Turchia dall'eccidio armeno; e, soprattutto, a giustificare il sistema di partito unico che i kemalisti hanno introdotto. E però, finché Atatürk è in vita, prevale la sua antica preferenza per le democrazie europee. Alla sua morte nell'autunno del '38, dopo una lunga malattia, ha il sopravvento l'ala che sostiene la tradizionale linea di politica estera della Turchia: quella filotedesca, forte fra i militari, molti dei quali - i piú anziani - sono stati educati nelle accademie prussiane.

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11


Quando l'umore è ormai a terra, accade qualcosa di inaspettato che torna a fargli scorrere il sangue nelle vene, a ridare senso alla sua vita. È la lettera inattesa di una sua cugina, figlia del fratello della madre Celile. Si chiama Münevver Andaç, è nata a Sofia dove suo padre era ambasciatore, sua madre è francese e in Francia lei ha compiuto quasi tutti gli studi prima di rientrare in Turchia. Ha quindici anni meno di lui e si è appena sposata. Ha anche avuto una bambina, Renan.

Nâzım l'ha già conosciuta, un breve incontro negli anni trenta, fra un arresto e l'altro. I loro sguardi - Nâzım lo ricorda benissimo - si erano incrociati in modo significativo. Münevver aveva diciotto anni, lui si era appena sposato con Piraye; e tutto era finito lí. Perché si rifaceva viva proprio adesso, dopo tanti anni, appena sposata e appena divenuta madre?

Münevver si era innamorata subito del suo cugino piú anziano, in quel primo, lontano incontro: era bello e ancora molto giovane, già un mito, come poeta e come uomo. Adesso è curiosa di rivederlo e appena ne ha l'occasione, la coglie: una visita, assieme a un altro cugino e a un amico scrittore, nell'ospedale in cui Nâzım è stato ricoverato per un breve periodo.

Nâzım la rivede e vent'anni gli cadono dalle spalle. Si perde subito nei suoi occhi verdi. È bellissima, somiglia a sua madre Celile; ed è giovane.

Lei è come paralizzata, il cuore le batte in gola.

Non si dicono una parola. A tenere la conversazione sono solo le persone venute insieme a Münevver. Quando debbono lasciarsi, sono - tutti e due - sopraffatti piú dall'emozione che dalla tristezza della condizione in cui si trovano. È l'amore. E non importa che sia senza speranza: è meglio un amore senza prospettive che nessun amore.

Münevver, tornata a Istanbul, gli scrive subito, la sua lettera si incrocia con quella di Nâzım, nessuno dei due ha voluto attendere; e ciascuno sapeva che l'altro aspettava. A sollecitare Münevver a farsi viva con Nâzım sembra sia stata in realtà proprio Celile, intuendo che suo figlio aveva bisogno di ritrovare interesse alla vita. O forse no, è stato casuale.

Quando avviene l'incontro è l'autunno del 1948, Nâzım è in prigione già da più di dieci anni consecutivi, ma ha solo passato i quarantasei. È autunno e sui monti dell'Anatolia comincia a far freddo, le giornate si accorciano, le foglie cadono. È la stagione in cui la malinconia del carcere si fa sentire anche più forte. Ma non questo ottobre. Al poeta torna anzi l'ispirazione e in poche settimane scrive una gran quantità di poesie-lettere per Münevver, che manda a Müzehher, la moglie del suo vecchio amico Vâ-Nû.

Non ha ancora detto nulla a Piraye di questo suo amore, diverso da quelli provati in occasione delle sue precedenti avventure, perché molto piú travolgente. Anche per questo si sente terribilmente colpevole verso la moglie, perché sa che si tratta di una storia seria, non di una passione transitoria.

È tormentato, e alla fine chiede a un amico di portare a Piraye la lettera in cui le comunica che la loro relazione è finita. Le dice che ormai il loro rapporto erotico si è esaurito, perché dopo tanti anni di astinenza il desiderio non può piú essere resuscitato, ma che le è grato per la felicità che lei gli ha dato in tanti anni, e che è viva tuttora la sua stima e il bisogno della sua amicizia.

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Pagina 76

Ma il 20 febbraio 1950 - è passato un anno dall'ultimo incontro con Münevver - lei, inaspettata, gli fa visita a Bursa. Nâzım è alle stelle. Siede con lei nel parlatorio del carcere e le tiene le mani, dimentico delle sue pene, delle sue rabbie e del suo assurdo comportamento. Le parla come se non si fossero mai allontanati. Münevver è arrivata a un'intesa col marito, il divorzio ora è possibile. È pronta.

Pronta a che cosa? Nâzım ha dinanzi a sé ancora sedici anni da scontare, la promessa di essere sua cosa significa? Poco o niente. Anche se nel corso dell'anno trascorso è finalmente cominciata una campagna per la liberazione di Hikmet: prima nella stessa Turchia, animata da un giornalista conservatore ma liberale che ritiene disdicevole per il paese tenere in galera un poeta come lui; poi in Francia, lanciata da Tristan Tzara, sostenuta dai più importanti intellettuali e artisti del paese: Sartre, de Beauvoir, Picasso, Yves Montand, Aragon... Si promuovono manifestazioni in suo favore un po' ovunque, anche a New York. Si raccolgono firme, si impegna in prima persona perfino la sua anziana madre Celile, ormai quasi cieca, che si mette sul ponte di Galata con un cartello sul quale è scritto: "Liberate mio figlio". Nâzım comincia uno sciopero della fame, assai pericoloso viste le sue precarie condizioni di salute.

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Pagina 153

Gran bella cosa è vivere, miei cari: così Nâzım ha voluto intitolare la sua autobiografia, scritta quasi al termine della sua esistenza. Che valesse la pena di vivere ne è rimasto convinto, nonostante tutto, fino alla fine. Fedifrago e appassionato, per giudicarlo bisogna guardare la sua vita. È questa che ha segnato il suo modo di amare: è stato sempre innamorato, perché non ha mai avuto la possibilità di assuefarsi.

In Taranta Babu, la sua opera del 1935, aveva scritto:

    Vivere. Che strana cosa,
    che strana storia Taranta Babu
    che questa vicenda incredibilmente bella
    indicibilmente gioiosa
    sia oggi talmente difficile
    cosí stretta
    cosí sanguinosa
    cosí disgustosa.

Versi che anticipano tutta la sua esistenza.

Il comunismo è colmo di errori e di orrori, ma anche di dolorosissimi amori.

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