Copertina
Autore Luigi Cavallaro
Titolo Il modello mafioso e la società globale
Edizionemanifestolibri, Roma, 2004, Transizioni , pag. 144, cop.fle., dim. 144x210x10 mm , Isbn 978-88-7285-368-9
LettoreLuca Vita, 2004
Classe sociologia , economia politica , globalizzazione , politica , regioni: Sicilia
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Indice


Introibo                                     7

Un'industria della protezione privata       11

Dal villaggio mafioso al villaggio globale  29

Un «nuovo ordine imperiale»?                49

Imperialismo mafioso                        73

Conclusioni.
Il disordine prossimo venturo               99

Poscritto                                  115

Bibliografia                               130


 

 

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Pagina 7

INTROIBO



La tesi centrale di questo libro, in cui ho rielaborato in forma organica diversi interventi apparsi su alcune riviste e quotidiani tra il 2001 e il 2003, è che la «società globale» nella quale secondo molti osservatori oggi viviamo si avvia a essere simile in certi aspetti non secondari alle società in cui la protezione delle transazioni e degli interessi individuali è «assicurata», per così dire, dalla mafia; detto altrimenti, che la divisione internazionale del lavoro sociale che si va delineando fra le imprese che producono ricchezza e gli Stati-nazione che le proteggono rischia di generare un ambiente politico ed economico che ricalca dappresso i tratti di quello dell'Italia meridionale (e della Sicilia in particolare).

L'antitesi è presto detta: di fronte all'insistenza con cui da sponde politiche opposte si teorizza l'epifania di un nuovo ordine mondiale, che nel linguaggio politico ormai corrente viene denominato «Impero», suggerire qualche irriverente analogia fra il «villaggio globale» e quel villaggio siciliano descritto da Anton Blok in un fortunato libro di alcuni anni fa vorrebbe essere solo un modo di indicare quanto disordine c'è in giro e quanto illusorio sia ritenere il contrario.

Naturalmente, una simile operazione non solo presuppone una certa definizione della mafia e una certa ricostruzione dei suoi rapporti con l'economia e la società, ma richiede anche una descrizione della forma oggi assunta dai processi di produzione e circolazione della ricchezza sociale: tutti compiti largamente superiori alle capacità di chi scrive. Mi limiterò, quindi, a esporre e ad accostare taluni fatti stilizzati, soprattutto per sollecitare altrui considerazioni al riguardo, non senza ricordare che un «fatto stilizzato» serve a comunicare rapidamente alcune cose che si ritengono vere (o comunque abbastanza prossime al vero), evitando di perdersi in una pletora di dettagli, e sbaglierebbe, perciò, chi cercasse nelle considerazioni che seguono «tutta» la verità: ambirei semplicemente ad aver detto «nient'altro» che la verità.

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Pagina 11

UN'INDUSTRIA DELLA PROTEZIONE PRIVATA



        La Sicilia è una terra dove, purtroppo, la struttura
        statale è deficitaria. La mafia ha saputo riempire il
        vuoto a suo modo e a suo vantaggio, ma tutto sommato ha
        contribuito a evitare per lungo tempo che la società
        siciliana sprofondasse nel caos totale.
                         GIOVANNI FALCONE, Cose di Cosa Nostra.



LA MAFIA SICILIANA

Una decina d'anni fa, in un libro che suscitò molte discussioni e polemiche, il sociologo torinese Diego Gambetta sostenne che la mafia è un'industria che, in concorso con altre istituzioni sociali (tra cui lo Stato), produce, promuove e vende «protezione» in un determinato territorio, garantendo i soggetti, le transazioni e i mercati protetti con l'uso della violenza.

«Industria» non deve far pensare a un'entità centralizzata: Gambetta usava il termine in senso marshalliano, mettendo in luce che il bene «protezione» è fornito da numerose «imprese» (le famiglie mafiose) tra loro in concorrenza, anche se legate da un «cartello», e che quindi è fuori luogo attendersi da esse il rispetto di criteri di universalità nella fornitura delle prestazioni o di eguaglianza di trattamento; la mafia, proseguiva Gambetta, non è uno «Stato minimo» à la Nozick (1974), capace di assicurare il controllo totale dell'uso della forza su un certo territorio e di proteggere chiunque viva su quel territorio: essa vende protezione su basi private, sicché prezzo, quantità e qualità del servizio possono differenziarsi a seconda del rapporto che si instaura tra fornitore e acquirente.

Tuttavia osservava Gambetta affinché un'economia di mercato funzioni correttamente occorre che deterninati servizi non siano «privatizzati». Legislazione, amministrazione e giurisdizione debbono essere organizzate su basi universalistiche, il che significa che le elezioni politiche, l'assegnazione delle pubbliche cariche e dei pubblici incarichi, l'amministrazione della giustizia e la protezione dei diritti individuali non debbono potersi vendere o comprare sul mercato. Di contro, se in un determinato territorio la protezione è affare privato, anche questi beni vengono privatizzati. Ne discendono relazioni sociali di «indole personale», caratterizzate, come scrisse nel 1876 Leopoldo Franchetti nella sua celebre inchiesta sulla Sicilia, da un lato da fedeltà, amicizia e devozione senza remore, dall'altro dalla formazione di clientele, che avranno al loro centro uno o più individui potenti ai quali si rivolgerà ogni persona che abbia bisogno di aiuto per far rispettare un suo diritto o per commettere un abuso. «Così nasce un'infinità di associazioni che non possiamo chiamare che clientele, giacché non hanno della associazione né la determinazione dei requisiti per farne parte, poiché ogni giorno vi sono membri che escono o entrano, né la stabilità delle regole e statuti, poiché le relazioni tra i loro membri sono varie quanto possono esserlo quelle fra due privati qualunque»: queste le conclusioni di Franchetti, che - come si vede - anticipava molte polemiche successive sulla configurabilità del «concorso esterno» in un'associazione di stampo mafioso.

Ora, un sistema economico in cui non c'è universalità del precetto né della sanzione, e il cui «capitale sociale» è interamente fondato sulle relazioni amicali e parentali, è caratterizzato, come ben sanno gli economisti, dalla generale riluttanza alla cooperazione allargata e impersonale e dall'intrinseca instabilità di ogni accordo, il che reca con sé la stagnazione dell'industria e del commercio. «Il capitalismo moderno ha bisogno di un diritto di cui si possa far calcolo e di una amministrazione secondo regole formali, senza dei quali sono bensì possibili un capitalismo d'avventure e speculativo ed ogni sorta di capitalismo politico, ma non un'industria privata, razionale», aveva avvertito Max Weber. «Le zone del Mezzogiorno afflitte dalla mafia - concludeva perciò Gambetta (1992, p. XVII) - sono precipitate pertanto in un tragico circolo vizioso dove gli unici mercati veramente vivaci sono quelli in cui si commerciano i beni sbagliati (in questo senso il Mezzogiorno è una raffinata società di mercato)».

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Pagina 29

DAL VILLAGGIO MAFIOSO AL VILLAGGIO GLOBALE



        Vien qui in evidenza che malgrado l'eccesso della
        ricchezza la società civile non è ricca abbastanza,
        cioè nelle risorse ad essa peculiari non possiede
        abbastanza per ovviare all'eccesso della povertà e
        alla produzione della plebe.
                             GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL,
                       Lineamenti di filosofia del diritto.



«STRUTTURA SENZA SOVRASTRUTTURA»

Se si conviene che quella abbozzata nel capitolo precedente è una descrizione stilizzata ma «vera» del fenomeno mafioso, posso provare a sintetizzare i motivi per cui ritengo che la società meridionale si avvii a diventare una pregnante metafora del «villaggio globale». Ciò che va comunemente sotto il nome di «globalizzazione» è un processo che coinvolge, attualmente, la «base materiale» della nostra esistenza, mentre la «sovrastruttura» politica e giuridica resta ancorata a livelli territorialmente circoscritti dalle dimensioni attuali degli Stati-nazione. In altri termini, mentre la produzione, la circolazione e lo scambio di merci, forza-lavoro e capitali si vanno tendenzialmente mondializzando, ordinamenti e istituzioni non fanno altrettanto. Il risultato rischia di essere una società globale simile ai territori a dominazione mafiosa, giacché - in assenza di un credibile potere centrale e di un ordinamento normativo uniforme e uniformemente applicato - sono attualmente gli Stati-nazione a farsi carico di proteggere le transazioni transnazionali, temperando così l'incertezza relativa ai rapporti di proprietà che, diversamente, potrebbe comportare la paralisi della produzione e della circolazione della ricchezza. E poiché rispetto al mercato mondiale essi, in quanto Stati, sono inevitabilmente particolari e non possono essere, ad un tempo, «particolari» quanto a ordinamento e «universali» quanto a capacità di tutela, la loro protezione - così come quella mafiosa - non può che essere una «protezione privata»: nel duplice senso che viene accordata o negata secondo criteri legati alle preferenze di fornitori che, per dirla con Hegel, «hanno il loro proprio interesse come proprio fine», e non diventa universale se non mediante la generalizzazione di questo scambio fra privati fornitori e privati acquirenti di essa.

La crescita delle ineguaglianze associate alla globalizzazione non è allora se non la conseguenza di un processo che, pur svolgendosi all'insegna dell'efficienza, è in realtà intrinsecamente inefficiente: analogamente a quanto accade nel Mezzogiorno, dove la privatizzazione della fornitura di protezione ha dato luogo, per un verso, a una generale riluttanza alla cooperazione impersonale e all'instabilità permanente degli accordi comunque raggiunti e, per l'altro verso, alla predilezione di quella particolare forma di concorrenza che consiste non già nel far meglio dei propri rivali, ma nel farli fuori mediante intese collusive protette dalla mafia, anche nel «villaggio globale», e per i medesimi motivi, miglioramenti «individuali» (cioè di singole zone del pianeta) sono possibili, ma la mobilità sociale complessiva si avvicina a un gioco a somma zero.

Si tratta di un processo ancora agli esordi: basti pensare che, non appena si depurano le statistiche da frequenti errori (come quello di misurare l'ampiezza degli scambi internazionali in termini di valore delle esportazioni e importazioni sul Pil), ci si accorge che il grado di integrazione raggiunto negli scambi commerciali è accostabile a quello esistente già agli inizi dello scorso secolo (Aquino 1999). Ma la crescita delle ineguaglianze tra Nord e Sud del mondo è un dato di attualità innegabile, il che induce a pensare che quel quadro sia già racchiuso in potenza nel presente e che, per disegnarlo compiutamente, sia sufficiente prolungare talune tendenze oggi in atto. Mi limito a indicarne alcune.

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Pagina 99

CONCLUSIONI.
IL DISORDINE PROSSIMO VENTURO



        Dice Montesquieu che «un'opera originale ne fa quasi
        sempre nascere cinque o seicento altre, queste
        servendosi della prima come all'incirca i geometri si
        servono delle loro formule». [...] Comunque, che
        questo mio racconto sia il primo o il seicentesimo, di
        quella formula ho tentato di servirmi. [...] Se non il
        risultato, valga dunque l'intenzione: ho cercato di
        essere veloce, di essere leggero. Ma greve è il nostro
        tempo, assai greve.
                                            LEONARDO SCIASCIA,
                     Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia.



MERCATI A PROTEZIONE MAFIOSA

Quel che si è descritto in questo libro, sulla scorta dell'intuizione di Gambetta (1992), è un processo ancora in corso e non è (ancora) lo status quo. Aggiungo però che, nella sua incompiutezza, questo processo è assai simile a quello che visse la Sicilia nella prima metà dell'Ottocento, perché - per dirla ancora con il vecchio Franchetti - quando la borghesia «non ha preso in un paese una preponderanza di numero e l'influenza tale da assicurare ad una legislazione uguale per tutti il sopravvento sulla potenza privata, l'osservanza delle leggi, la condotta regolare e pacifica non è più un mezzo di conservare le proprie sostanze e il proprio stato».

Quest'affermazione è particolarmente importante, perché consente di dar conto di due circostanze decisive per il consolidamento dello scenario in fieri. In primo luogo, essa spiega la ricorrente difficoltà di tutti gli analisti sociali nel distinguere, nell'ambito del mercato mondiale, fra imprenditori operanti nel rispetto della legalità e imprenditori criminali (evasori fiscali terroristi, trafficanti di droga, di armi, di esseri umani, ecc.). L'impressione condivisa è che si sia creata una gigantesca «area grigia», nella quale non operano né regolamentazioni fiscali né normative antiriciclaggio e di cui profittano, simultaneamente, enterprise syndicates dell'una e dell' altra specie, criminali e non: che si tratti di eludere normative legali a tutela dell'ambiente, della forza-lavoro o dei consumatori, o di evadere (o eludere) il prelievo fiscale e contributivo, o di accaparrarsi fraudolentemente pubbliche forniture, per le imprese «legali» sono numerose le occasioni che spingono alla creazione di un circuito occulto, che va a confluire, unitamente a quello degli enterprise syndicates che operano specificamente nei mercati illeciti, nel calderone della dirty money:

La mancanza di una netta linea di demarcazione tra il mondo legale e quello criminale rende difficile identificare i diversi soggetti che operano nel circuito economico e soprattutto individuare i loro divergenti interessi. In altri termini, ci troviamo di fronte ad un unico e aggrovigliato sistema, il quale viene sfruttato in modo opportunistico da chiunque vi abbia interesse, sia esso lecito, illecito o del tutto criminale (Masciandaro e Pansa 2000, p. 31).

La storia del banchiere Michele Sindona è, al riguardo, emblematica. Fintanto che la sua azione non arrecò pregiudizio al sistema bancario e finanziario internazionale, Sindona fu sempre il benvenuto ai tavoli dell'alta finanza, né importava a qualcuno la provenienza del denaro che gestiva la sua banca o le sue collusioni con esponenti di Cosa Nostra: pecunia, notoriamente, non olet e la reazione dell' establishment si scatenò solo quando la sua spregiudicatezza, avendo travalicato ampiamente la norma dell'azzardo morale allora consentito, rischiò di tradursi in instabilità sistemica e di pregiudicare l'intero assetto istituzionale.

Se ciò è vero, deve ritenersi che, quanto più si estende la capacità del sistema delle imprese di condizionare gli indirizzi di politica economica a livello nazionale, tanto più questa capacità si tradurrà, a livello globale, in un incentivo alla deregolamentazione dei flussi economici e finanziari. Per il singolo imprenditore, infatti, il sistema normativo è un vincolo, all'interno del quale egli opera in modo essenzialmente adattivo, allo scopo di massimizzare il profitto atteso. Di conseguenza, a misura che nello spazio economico di riferimento si estende il numero di quelle condotte che, pur «illecite» secondo il quadro vigente, rimangono prive di sanzione (per impossibilità o incapacità degli organi preposti a farle rispettare), tanto più si accrescerà la spinta per ottenere un cambiamento del quadro normativo volto a rendere legale il comportamento socialmente prevalente, dato che l'imprenditore illegale godrà di un vantaggio competitivo pari al costo che la violazione di legge gli permette di evitare e, per gli altri, non resterà che adeguarsi o soccombere. Ed è superfluo, quasi, rimarcare come tutto ciò sia destinato a refluire negativamente sulla struttura del mercato e delle imprese:

In presenza di diritti di proprietà incerti, di leggi scarsamente applicate, di barriere all'entrata e di restrizioni monopolistiche [le imprese] avranno un orizzonte temporale corto e una bassa dotazione di capitale, in sostanza saranno di piccola dimensione. Gli affari che offrono maggiori occasioni di profitto si trovano nel commercio, nelle attività di redistribuzione o nel mercato illegale. Grandi imprese dotate di ingenti capitali fissi esisteranno solo con l'aiuto pubblico, ossia dipendendo da sussidi, protezione tariffaria e vantaggi politici: una miscela che difficilmente porta all'efficienza (North 1990, trad. it., p. 105).


DUE GLOBALIZZAZIONI

Ma un'ulteriore e più importante valenza esplicativa l'affermazione di Franchetti possiede per inquadrare correttamente quello che può definirsi, a buon diritto, il «tentativo rivoluzionario» che ha interessato l'ordinamento giuridico internazionale sul volgere del millennio.

Si può metterla nei seguenti termini. Sulla scorta di un suggerimento di Marcello de Cecco (1999, pp. 176 sgg.), si può dire che il secolo appena concluso ci consegna due modelli di globalizzazione, entrambi gestiti dagli Stati ma con una differenza fondamentale: il primo modello cerca di ridurre al minimo lo sviluppo di mercati finanziari internazionali, che risultano assai difficili da controllare, e tende a costruire lo spazio economico globale in modo che la divisione internazionale del lavoro ubbidisca alle necessità espresse dalle strutture burocratiche degli Stati-nazione (potremmo definirlo modello «keynesiano»); il secondo, che potremmo invece definire modello «mercantilista», mette alla propna base lo sviluppo di un mercato finanziario globale ed è pilotato da quello Stato che riesce a collocarne al proprio interno il «cuore», in modo da trarne il massimo di beneficio via politica monetaria. Entrambi sono frutto di precise scelte politiche, ispirate da un diverso modo di intendere il processo economico e le sue conseguenze sull'organizzazione sociale: il primo modello è di matrice euro-continentale, il secondo di ispirazione anglo-americana.

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