Copertina
Autore Sebastiano Cecere
Titolo Elvis in concert 1945-1977
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2012, Grande Sconcerto , pag. 800, ill., cop.fle., dim. 21x29,5x4,5 cm , Isbn 978-88-6222-267-9
PrefazioneBruno Ruffilli
LettoreDavide Allodi, 2012
Classe musica , paesi: USA
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Indice


Ringraziamenti                                2

Prefazione                                    3

Introduzione                                  7


1954                                         17
1955                                         53
1956                                        139
1957                                        199
1961                                        225

In tournée con Elvis: 1954/1961             233

1969                                        249
1970                                        275
1971                                        331
1972                                        367
1973                                        431
1974                                        501
1975                                        569
1976                                        625
1977                                        705

In tournée con Elvis: 1969/1977             753


Discografia selezionata                     769

Considerazioni statistiche                  782

Credits                                     789

Nota sulle fonti                            797


 

 

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Pagina 3

Prefazione



Su uno sfondo d'argento. In rosso e nero. In colori fluorescenti. Ripetuto, due, tre, dieci volte. Non c'è un solo Elvis, ma tanti, come aveva capito già Andy Warhol. C'è l'idolo delle ragazzine, il modello dei ragazzi, il tranquillizzante giovanotto di provincia di mille film hollywoodiani pieni di collane di fiori, giovani donne e canzoni sdolcinate. C'è il divo che torna sulle scene americane nel 1968 con lo show televisivo più seguito dell'anno, c'è il quarantaduenne sovrappeso svenuto nel bagno nella sua casa di Memphis tra rubinetti dorati e specchi. E ce ne sono infiniti altri, costruiti dall'industria musicale, inventati dai fan, evocati da biografi e professionisti del gossip.

L'invenzione dei giovani

Elvis non compone una sola canzone, non inventa un modo di ballare, perfino il suo abuso di Royal Crown Pomade per i capelli non è originale, come sottolineano i detrattori. Quelli che verranno dopo, da Bob Dylan agli U2, da Michael Jackson ad Amy Winehouse, saranno ricordati per i brani che hanno scritto. Elvis no. E' un interprete: le parole che canta non sono sue, la musica nemmeno. D'altra parte, anche Bill Haley non è l'autore di Rock Around The Clock, la canzone che nel 1955 battezza ufficialmente la musica dei giovani arrivando nelle classifiche di mezzo mondo. Vende 25 milioni di copie, ma ha trent'anni, un ciuffo più da comico che da cantante, indossa giacche dalle assurde fantasie scozzesi. Presley di anni ne ha venti, sfoggia un fisico prestante, un viso di ambigua bellezza e abiti dai colori impossibili; è timido ma sul palco gli basta un colpo di bacino per far impazzire le donne.

"Il rock'n'roll — dirà poi John Lennon - non esisteva prima di Elvis": è lui a farne uno stile di vita, un modo di esprimersi e di essere. Non parla in nome di una classe di età o di un gruppo sociale, e però riesce a dar voce a una generazione di giovani ribelli, meno disperati di James Dean (che muore proprio nel 1955), meno problematici di Marlon Brando. La sua voglia di divertimento riscatta milioni di ragazzi nati quando l'America era in guerra, la sua musica è nuova e trasversale, tanto che i primi dischi con la Sun Records alternano sulle due facciate un brano country o bluegrass, per i bianchi, e uno blues, per i neri: una rivoluzione, in una nazione dove il razzismo è la regola. E anche una grande opportunità economica per l'industria del disco: il rock'n'roll è la musica di tutti i teenager, indipendentemente dal colore della pelle.


La fine dell'innocenza

Per Lennon, Elvis muore col servizio militare, quando si fa tagliare i capelli prima di partire per la Germania, in una sorta di evirazione simbolica. Il processo di normalizzazione dura due anni, in cui scompare completamente dai palcoscenici e fa i conti con la perdita della madre. Al ritorno, ospite in televisione di quel Frank Sinatra che lo aveva pesantemente denigrato, è cambiato: non si propone più soltanto come modello di una generazione di giovani, ma come un'icona globale, un fenomeno pop a tutto tondo.

[...]

Bruno Ruffilli

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Pagina 7

Introduzione

Quando mi è venuto in mente di scrivere un libro sui concerti di Elvis, ho pensato che sarebbe stato un "viaggio" relativamente semplice e breve. Il materiale che avevo a disposizione mi sembrava sufficiente per fare una buona analisi e cronaca. Per percorrere, insomma, quella che sul momento sembrava effettivamente essere una lunga autostrada, ma con poche, minime, curve e distrazioni. Ma man mano che mi sono addentrato nei meandri dell'argomento, ancora una volta, come altre migliaia di volte (e mi piace sottolineare il termine migliaia), mi sono scontrato con Elvis e con tutta la sua grandezza umana e artistica. Per l'ennesima volta in tanti anni di studio ero convinto di conoscere molto da vicino una parte importante della sua vita e carriera e invece — a questo punto senza eccessiva sorpresa — ho dovuto rimettere in discussione tante mie convinzioni.

L'attività concertistica di Elvis ha conosciuto essenzialmente due grandi stagioni, riassumibili in due precisi momenti storici. Quella degli anni Cinquanta che vide l'esplosione e l'ascesa del suo astro e quella degli armi Settanta, che consacrò definitivamente in tutta la sua potenza espressiva una delle figure più carismatiche che abbiano calcato un palcoscenico.

Non è questa l'affermazione di un ammiratore che arriva a scrivere un libro sul proprio idolo. È la storia della musica pop del secolo scorso, quella che ha realmente segnato un'epoca e che purtroppo oggi ha poca influenza sulla scena musicale corrente. Moltissimi tra i più grandi artisti della musica popolare della seconda metà del Novecento (quelli che ancora oggi sono fonte di ispirazioni per le giovani leve musicali) si sono ispirati alla musica e alla figura di Elvis. Alvin Lee chiamò Ten Years After la sua band proprio perché fu fondata dieci anni dopo l'avvento di Elvis; John Lennon ebbe più volte a riconoscere la sua grande influenza; David Bowie creò il suo personaggio Ziggy Stardust proprio dopo avere assistito agli show del Madison Square Garden nel 1972. Arrivando a oggi, Liam Gallagher degli Oasis si è fatto tatuare il logo TCB con tanto di fulmine (era il motto di Elvis che stava per "Taking Care of Business in a flash" — sbrigare gli affari veloci come un fulmine) sulle spalle, commentando amabilmente con la stampa che non è ancora sicuro se "sono più grande io o Elvis" e anche Robbie Williams (l'ex leader dei Take That) ha più volte manifestato la sua fortissima ammirazione per il Re!

Mai come per Elvis il momento "live" è stato l'aspetto focale di un'attività artistica, tanto all'inizio della carriera quanto nella sua parte finale. E come nessun altro è stato capace di creare all'interno delle sue esibizioni una sintesi di spettacolo, di intrattenimento per famiglie e soprattutto di grandissima musica.


Elvis sta arrivando! Elvis è arrivato! Elvis è andato via!


Nello scrivere questo libro, più volte mi sono sorpreso nello scoprire l'estrema eccitazione che creava la sola notizia che Elvis sarebbe arrivato in una città con il suo spettacolo. E la cosa era ricambiata: per Elvis il contatto fisico con il pubblico divenne una sorta di necessità biologica, imprescindibile dal suo stile di vita. Infatti, la sua biografia e la sua carriera sono costellate da numerosi episodi che lo hanno visto protagonista di piccoli e grandi gesti di estrema generosità nei confronti dei suoi ammiratori. E chiunque ha avuto la fortuna di avvicinarlo ha sempre testimoniato di aver trovato in lui una persona estremamente modesta e disponibile, pronta a regalare quei cinque minuti di felicità che da oltre cinquant'anni riempiono le pagine di centinaia di pubblicazioni, ancora oggi distribuite in tutto il mondo.

E, badate bene, tutto ciò non è normale e dovuto. Personalmente sono stato oggetto di snobismo da parte di artisti anche di alto rango (ricordo un tristissimo episodio con il grande B.B. King e un altro con la nostrana Marcella Bella) e tanti altri amici e conoscenti mi hanno testimoniato di incontri con stelle (o presunte tali) conclusisi nello stile "non fatemi perdere del tempo perché sono una persona importante". Con Elvis è sempre stato diverso: di fatto non dimenticò mai le sue umili origini (la famosa casetta di legno a Tupelo senza bagno, riscaldamento e acqua corrente) e come spesso ebbe a dire lui stesso: "la gente ti avvicina perché vuole solo un autografo e una fotografia da portare a casa e far vedere ai famigliari... è una parte del mio lavoro e l'accetto per quello che è. Mi mancherebbe molto se da un momento all'altro non ci fosse più".

Negli anni dell'infanzia e dell'adolescenza Elvis fu una vera e propria spugna e da ogni fonte (in chiesa come nelle feste paesane, ovvero sotto i porticati delle case di Shakerag, la parte più nera di Tupelo) assorbì tutto quello che gli sarebbe servito in seguito per mettersi davanti a un pubblico, dal modo di interpretare una canzone, sino all'abbigliamento e alla postura. Quando tutto ciò si fuse con la sua fortissima spinta artistica e umana, scaturì il fenomeno che tutti ancora oggi conoscono. Pur non rinnegando mai la musica country, della quale si dichiarò sempre un fortissimo estimatore, Elvis capì velocemente che certi vestiti, certi cappelli e un certo modo di cantare erano ormai superati, anche se Hank Williams resterà per sempre uno dei suoi eroi e ancora oggi in assoluto rimane uno dei pionieri del divismo del rock and roll. Capì però altrettanto celermente un'altra cosa: che era arrivato il momento di fare cose per i giovani e che la musica poteva essere un grande business con i ragazzini e non solo con gente matura amante del jazz o del country. Fu anche per questo che al suo apparire sulle scene degli anni Cinquanta, dove il rock and roll stava prendendo forma, stravolse il pensiero dei giovani (e anche dei loro genitori).

I tour degli anni Cinquanta furono consumati all'insegna di una forma professionale pressoché artigianale. Sono infatti ormai mitiche le cronache che raccontano le migliaia di chilometri macinati passando da una città all'altra, caricando i modesti strumenti nel cofano della vettura e (più di tutto) il romantico contrabbasso legato sul padiglione. Ma al di là di questa sfaccettatura, ciò che non bisogna assolutamente dimenticare e sottovalutare è l'impatto devastante che la presenza di Elvis ebbe sulle menti dei giovani che incontrava sera dopo sera nelle campagne e nelle città americane. Era ormai la metà degli anni Cinquanta: nessuno aveva mai neppure immaginato il materializzarsi di una rivolta che aveva radici economiche e sociali ben più profonde, ma che con lui prese le sembianze di un essere umano. Nessuno sino ad allora era stato capace di gridare che uomini bianchi e neri erano esattamente la stessa cosa e che insieme, seppur attraverso la musica, si poteva convivere. Intervistato a Memphis nei giorni del funerale di Elvis, il grande James Brown, uno dei padri della musica soul, disse: "Elvis ha insegnato ai bianchi a scendere dal piedistallo". Un segno tangibile di quella rivolta è oggi sotto gli occhi di tutti, con il nuovo Presidente degli Stati Uniti d'America che per la prima volta non è più di etnia bianca!

Ma per avere una esauriente (letteralmente esauriente) impressione della forza che Elvis si portava dentro e sprigionava da ogni poro, sera dopo sera e canzone dopo canzone, è sufficiente la visione della sua prima partecipazione televisiva nazionale, il 28 gennaio 1956 allo "Stage Show" dei fratelli Dorsey. Tutto nella sua persona, dalla postura, all'abbigliamento, all'acconciatura dei capelli e sino alla estrema determinazione con la quale aggredisce il brano e il pubblico, mostrano che qualche cosa era realmente cambiato.

Un "marziano" era sceso sul palcoscenico del mondo e tutti lo avrebbero seguito!

A non totale vantaggio di Elvis c'è da dire che presto perse però una sorta di innocenza e di genuinità. Guardando i pochi filmati e le tante fotografie di quegli anni, si può chiaramente intuire come sino al 1956 la sua personalità e il suo modo di porsi furono guidati essenzialmente dall'istintività, quella che in fin dei conti ne aveva decretato il successo. Il successo planetario e più probabilmente l'approccio con l'industria del cinema (che sin da subito ne condizionò pesantemente l'attività discografica e live), ne plasmarono in qualche modo la personalità e presto una certa luce negli occhi (gli occhi della tigre, per prendere a prestito la frase di un film) scomparve, per lasciare spazio a una espressione di estrema sicurezza che talvolta riusciva poco anche a nascondere una certa forma di presunzione e senso dell'arrivato (peraltro ben disegnata nel suo film Il Delinquente Del Rock And Roll, del 1957).

Con il trascorrere degli anni anche lui si renderà conto che il sogno si era trasformato in una gabbia dorata sino a quando, un giorno del 1975, incontrando un suo vecchio promoter confessò quanto gli sarebbe piaciuto poter tornare indietro. I rapporti con i suoi vecchi amici e musicisti Scotty Moore, Bill Black e D.J. Fontana finirono con il deteriorarsi (li perse completamente di vista alla fine degli anni Sessanta). È vero che queste sono le cose che accadono puntualmente a tutti gli uomini del mondo ma ancora una volta con Elvis assumono un carattere ben diverso e forte.

Desidero sottolineare idealmente con la penna rossa che furono proprio Scotty, Bill e D.J. a plasmare con lui "quel" sound unico e inimitabile. E dovrebbero prendere nota di ciò e ristudiare la storia tutti coloro per i quali la musica live di Elvis è "solo" quella degli anni Settanta, la cui potenza artistica in questo caso è attribuibile esclusivamente a Elvis stesso. Punto e basta! Per rendere meglio l'idea del concetto, provate a domandarvi che cosa rimane – musicalmente – di tanto grandioso dei musicisti che lo hanno accompagnato in quegli anni? Praticamente nulla: puro e semplice lavoro da turnisti. Quasi tutti hanno costruito delle carriere postume sulla figura e l'immagine di Elvis (basti pensare all'imponenza del concerto virtuale, che a distanza di dieci anni gira ancora il mondo), compresi quelli che a un certo punto lo lasciarono o furono sul punto di farlo (Glen Hardin e James Burton, per intenderci). Tutti indubbiamente bravissimi musicisti che però avrebbero potuto benissimo essere sostituiti da altri senza che nessuno se ne accorgesse. Un esempio: provate ad ascoltare l'album di Paul McCartney PAUL IS LIVE e immaginate i suoi musicisti dietro Elvis. Non sarebbe cambiato nulla (anzi..., come direbbe il nostro collaboratore Alessandro Bertolino).

Però è assolutamente impossibile scindere Elvis dai Blue Moon Boys! Questa è storia! La magia di Milkcow Blues Boogie, That's All Right e – sopra tutte – l'immensità di Mystery Train rimangono uniche, "scolpite" dalle mani, dal "feeling" e dalla cultura bianca/nera, da Elvis, Scotty e Bill nelle afose notti di Memphis! È giusto ammirare i vari Ronnie Tutt, Jerry Scheff e gli altri membri della band degli anni Settanta, ma chiunque decida di cercare un approccio intelligente alla musica di Elvis deve necessariamente partire dagli anni Cinquanta, ovvero dalle registrazioni della Sun Records. E non per una mera ragione cronologica. In tanti riconsidereranno il proprio pensiero. Lì è nato tutto! E non solo per Elvis. Un altro esempio calzante in questo senso è Sting: ha fatto della grandissima musica da solista (il suo primo album post Police, THE DREAM OF THE BLUE TURTLES rimane uno dei migliori nella storia della musica pop), ma l'essenza della sua grandezza artistica rimane indissolubilmente legata a Andy Summer e Stewart Copeland, perché con loro ha reinventato il punk-rock.


All'inizio degli anni Sessanta, ovvero al rientro in patria dopo aver assolto il servizio militare, Elvis e il Colonnello decisero di abbandonare le scene per dedicarsi quasi totalmente al cinema, con esiti discutibili e contrastanti. Da un lato tale scelta fece arrivare nelle loro tasche una vera e propria valanga di soldi, mentre dall'altro consegnò ai posteri un'eredità che rappresenta indiscutibilmente l'aspetto meno interessante del loro lavoro. Ben presto questi film diventarono tutti uguali, le canzoni sempre più insipide con Elvis sempre più prevedibile nella sua recitazione.

Lo scarso risultato artistico dei film era anche frutto di produzioni velocissime che quindi lasciarono molto tempo libero a Elvis. Rimane quindi quasi inspiegabile il perché fosse stata completamente accantonata l'attività live. L'unica risposta possibile va cercata all'interno del pensiero del Colonnello, rimasto sempre contrario alla over exposition del suo cliente/socio. Per divagare un momento, nello stesso periodo storico rimane altrettanto discutibile l'atteggiamento di Elvis su un altro aspetto della sua carriera. Infatti non si comprende perché pur avendo così tanto tempo a disposizione non decise di lavorare maggiormente sulla propria musica, tanto è vero che ne rispolvererà concretamente il carattere solo dal 1966 in avanti. Per capirci meglio, nessuno vuole mettere in dubbio l'importanza di brani come She's Not You, Good Luck Charm e Surrender (tra gli altri), ma qualsiasi amante di musica si sarebbe aspettato da un "peso massimo" come Elvis ben altre cose. Quando i film iniziarono a stancare tutti, produttori, registi, pubblico e – non ultimo – Elvis stesso, fu deciso che era arrivato il momento di ritornare alla "missione della vita". Senza girarci troppo intorno: fare dischi buoni e tornare a suonare in pubblico.

Il ritorno sulle scene alla fine degli anni Sessanta fu accolto con grandissimo entusiasmo tanto dal pubblico quanto dalla critica, che plaudirono al nuovo ciclo di Elvis. Ancora una volta fu capace di sorprendere tutti, mostrando un'ennesima sfaccettatura della sua eclettica personalità. In un periodo di fortissimo revival del rock and roll a tutti i costi, nel 1969 si presentò completamente rinnovato nello spirito e nella spinta artistica, con uno spettacolo che proponeva una nuova visione del rock and roll – la sua visione – che almeno sino alla fine del 1972 ripagò tantissimo in termini di resa artistica. Prevedibilmente il biglietto per il concerto di Elvis Presley divenne il più ambito nel circuito live americano. Sera dopo sera Elvis polverizzò tutti i record di affluenza delle città che lo ospitavano, dimostrando non solo che era l'artista più importante del paese, ma anche il più cool dal punto di vista musicale.

La scelta del repertorio fu ben ponderata e tutto, sin nei minimi particolari, pensato e ripensato. Anche la sua presenza scenica ebbe una fortissima spinta verso l'alto. Archiviato definitivamente il look che aveva caratterizzato la sua esibizione nello speciale televisivo del 1968, a metà strada tra il rocker che era stato e ciò che forse avrebbe voluto essere, al suo ritorno sulle scene si presentò con una forma fisica a dir poco strepitosa, un taglio di capelli nuovo e avvolto in straordinari abiti di alta sartoria a taglio unico (i famosi jumpsuits) che presto diventeranno il marchio di fabbrica della sua intera carriera e quasi un'ossessione per le migliaia di imitatori sparsi in tutto il mondo.

[...]


Torino, 8 gennaio 2012

Sebastiano Cecere


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