Copertina
Autore Louis-Ferdinand Céline
Titolo Morte a credito
EdizioneGarzanti, Milano, 2007 [1964], Nuova Biblioteca 52 , pag. XXI+560, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x4 cm , Isbn 978-88-11-68346-9
OriginaleMort à crédit
EdizioneGallimard, Paris, 1981 [1936]
PrefazioneCarlo Bo
TraduttoreGiorgio Caproni
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe narrativa francese
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Pagina 1

Eccoci qui, ancora soli. C'è un'inerzia, in tutto questo, una pesantezza, una tristezza... Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta. Gente n'è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto qualcosa. Mica m'han detto gran che. Se ne sono andati. Si son fatti vecchi, miserabili e torpidi, ciascuno in un suo cantuccio di mondo.

Ieri alle otto la signora Bérenge, la portinaia, è morta. Si sta schiodando dalla notte un gran temporale. Quassù in cima dove stiamo noi il casamento trema. Era una cara e gentile e fedele amica. Domani la sotterreranno in Rue des Saules. Era proprio vecchia, allo stremo della vecchiaia. Io gliel'avevo detto fin dal primo giorno che s'era messa a tossire: «Non si sdrai, soprattutto!... Se ne resti a ceccia nel suo letto!» Non ero affatto tranquillo. E infatti ecco qua... E infatti, al diavolo...

Mica l'ho praticata sempre, 'sta merda di medicina. Ora glielo voglio proprio scrivere ch'è morta, la signora Bérenge, a tutti quelli che m'han conosciuto, che han conosciuto lei. Ma dove saranno?

Vorrei che il temporale facesse ancor più baccano, che i tetti sprofondassero, che la primavera non ritornasse più, che casa nostra sparisse.

Lei lo sapeva, la signora Bérenge, che tutti i dispiaceri arrivan per lettera. Ma mica so più a chi scrivere... È tutta gente lontana... Si son cambiati l'anima per tradir meglio, scordar meglio, parlar sempre d'altro...

Vecchia signora Bérenge, il suo cane strabico se lo prenderanno, se lo porteranno via...

Tutto il dolore delle lettere, da una ventina d'anni ormai, s'è fermato da lei. Eccolo qui nel sentore della morte recente, l'incredibile acre gusto... È appena uscito dall'uovo... È qui... Se la gironzola... Lui conosce noi, noi conosciamo lui, adesso. Non se n'andrà mai più. Bisogna spengere il fuoco nella guardiola. Ma a chi scrivere? Non ho più nessuno, Più un'anima che accolga dolcemente lo spirito gentile dei morti... che parli, dopo di ciò, con più dolcezza delle cose.... Animo, via, da soli!

Sull'ultimo, la mia vecchia custode, lei non poteva più dir nulla. Soffocava, mi tratteneva per una mano... È entrato il postino. L'ha vista morire. Un rantoletto. Tutto qui. Ne venne da lei gente, una volta, per chieder di me. Se ne son riandati via, lontano, molto lontano nella dimenticanza, a cercarsi un'anima. Il postino s'è levato il berretto. Potrei dir io tutto il mio fiele. So io. Lo farò più in là, se non torneranno. Ora preferisco raccontar delle storielle. Ne racconterò di tali che quelli torneranno apposta, per accopparmi, dai quattro venti. Allora la sarà finita e ne sarò arcicontento.


*



Nella clinica dove fo servizio io, la Fondazione Linuty, già m'han fatto mille osservazioni spiacevoli per le storielle che vo raccontando... Mio cugino Gustin Sabayot, al proposito, è esplicito: dovrei proprio cambiar registro. È medico anche lui, ma dall'altra parte della Senna, alla Chapelle-Jonction. Ieri mi mancò il tempo d'andarlo a trovare. Volevo appunto parlargli della signora Bérenge. Me la sbrogliai troppo tardi. È un mestieraccio faticoso, il nostro, con le visite. Anche lui la sera è un cencio. Quasi tutti pongon domande snervanti. Hai voglia di cercar di sbrigarti, bisogna ripetergli una ventina di volte tutte le minuzie della prescrizione. Ci pròvan gusto a farti chiacchierare, a far ch'un si sfibri... Non se ne faranno nulla dei buoni consigli, proprio un bel nulla. Ma han paura ch'un non s'affatichi abbastanza, e per esser più sicuri insistono; son ventose, radiografie, prese... Fan ch'un li palpi da capo a piedi... Fan ch'un gli misuri ogni cosa... L'arteriosa e la fan... culaggine loro... Gustin, lui, alla Jonction, sono ormai trent'anni che pratica. I miei, i miei accattoni, ci sto pensando da un pezzo, finirò con lo spedirli un bel mattino ai mattatoi della Villette, a ber sangue caldo. Gli toglierà la lena fin dall'aurora. Proprio non saprei che altro fare per disgustarli.

Finalmente ier l'altro ero deciso d'andarlo a trovare, il Gustin, a casa sua. La sua landa è a venti minuti da me, una volta passata la Senna. Mica bello come tempo. Mi butto lo stesso. Prenderò l'autobus, mi fo. Corro a finir la mia tornata. Me la filo per la corsia delle medicazioni. Una marcolfa m'avvista e m'abbranca. Ha una voce strascicosa, come la mia. In me è la stanchezza. Ma lei raschia per giunta, ed è l'alcool. Ora fa il piagnisteo, vuol rimorchiarmi. «Venga, dottore, la scongiuro!... la mia figlioletta, la mia Alice!... È in Rue Rancienne!... a due passi!...» Mica son obbligato ad andarci. Per norma, le mie visite l'ho terminate!... Quella s'ostina... Siamo fuori... Ne ho fin qui degli egrotanti... Ce n'è già una trentina di rompicoglioni, qui, che sto rattoppando da questo pomeriggio... Non ne posso più!... Che tossiscano! Scaràcchino! Si disossino! Si sderetanino! Se ne volin via con trentamila scorregge nel codione!... Io mi ci spalmo!... Ma la piagnona lei m'acciuffa, mi s'appende carognescamente al collo, mi soffia in faccia la sua disperazione. È una disperazione piena di «cancarone» ... Non sono in condizioni di lottare. Non mi mollerà più. Quando saremo in Rue des Casses, ch'è lunga e senza un lampione, forse riuscirò a mollarle una bella pedata nelle micche... Ora sono stanco... Mi sgonfio... E la solfa ricomincia. «La mia figliolina!... La supplico, dottore!... La mia Alicetta!... Sa dov'è?...» Rue Rancienne mica è tanto vicina... Mi fuorvia... Lo so dov'è. È dopo i Gomenifici... L'ascolto attraverso il mio intontimento... «Abbiamo appena 82 franchi la settimana... con due figli!... Eppoi mio marito, che con me è tremendo!... Una vera vergogna, caro Dottore...»

Tutto fumo, lo so bene. Puzza di grano fracido, il fiato delle pituite...

Siamo arrivati davanti al gabbio...

Salgo. Ch'io mi sieda, infine... La marmocchietta porta le lenti. Mi metto accanto al letto. Quella continua a giocherellare ancora un po' con la sua pupa. La divertirò a mia volta. Son spassoso, io, se mi ci metto... Mica è perduta, la sgnàcchera... Non respira troppo liberamente... Congestione, si capisce... La fo ridere. Soffoca. Tranquillizzo la madre. Se n'approfitta, la carogna, dal momento che son caduto nel suo cuccio, per farsi visitare anche lei. È per via dei segni delle botte, di cui ha piene le cosce. Si tira su le sottane, enormi striature e anche scottature profonde. Questo è l'attizzatoio. Ecco com'è quel senzamestiere di suo marito. Do un suggerimento... Organizzo con uno spago un piccolo sueggiù molto buffo con la laida pupetta... Sale, scende, fino alla maniglia della porta... meglio che parlare.

Ausculto, ci son rantoli quanti ne vuoi. Ma infine non è un caso così disperato... Tranquillizzo ancora. Ripeto due volte le stesse parole. Ecco cos'è che ti sgonfia... La marmocchia lei si sta sbellicando, ora. Ricomincia a soffocare. Son costretto a interrompere. Si fa cianotica... Che ci sia un po' di difterite? Bisognerebbe vedere... Prelevare?... Domani!...

Il babbo rincasa. Coi suoi 82 franchi non si beve che sidro da lui, non più un goccio di vino. «Io m'attacco alla ciotola. Fa pisciare, questo,» m'annunzia subito. S'attacca al collo della bottiglia. Mi ammicca... si compiace che lei non è poi mica troppo male, la bellona. Io, da parte mia, è la pupa ad appassionarmi... Son troppo stanco per occuparmi degli adulti e dei pronostici. Sono il vero rompimento, gli adulti! Non ne farò più uno prima di domani.

Me ne sbatto che mi trovino poco serio. Bevo ancora alla salute. Il mio intervento è gratuito, del tutto suppletivo. La madre mi riporta alle sue cosce. Offro un estremo consiglio. E poi scendo le scale. Sul marciapiede ecco un cagnolo che zoppica. Mi segue perentorio. Tutto s'appiccica a me, stasera. È un foxolino, quel cagnetto lì, bianco e nero. Mi ha l'aria d'essere sperso. Sono ingrati i mortidifame di su. Nemmeno m'accompagnano. Son certo che ricominceranno a suonarsele. Li sento sbraitare. Ma che glielo sbatta didietro tutto intero, il suo tizzone! Le raddrizzerà la schiena, alla troiona! Imparerà così a scomodarmi!...

Adesso me ne filo sulla sinistra... Verso Colombes, insomma. Il cagnolo, lui mi segue sempre... Dopo Asnières c'è la Jonction e quindi mio cugino. Ma il cagnetto zoppica molto. Mi guarda fisso fisso. Mi fa male allo stomaco vederlo strascicarsi a quel modo. Sarà meglio tornare a casa, alla fin fine. Son passato dal Pont Bineaux eppoi dalle fabbriche. Era ancora aperto l'ambulatorio quando son arrivato... Ho detto alla signora Hortense: «Bisognerà dar qualcosa alla bestiola. Mandi qualcuno in cerca di ciccia... Domattina, presto, si telefonerà... Verranno a prenderlo con l'auto quelli della "Protezione". Stasera bisognerà tenerlo rinchiuso.» Così me ne son riandato tranquillo. Ma era un cane troppo spaventato. Aveva ricevuto batoste troppo dure. La strada è spietata. L'indomani, aperta la finestra, non ha esitato un momento, s'è buttato di sotto, aveva paura anche di noi. Credeva che lo avessimo messo in castigo. Non capiva più nulla delle cose del mondo. Aveva perso ogni fiducia. È terribile, un caso così.


*



Lui mi conosce bene, Gustin. Quand'è a stomaco vuoto è un consigliere eccellente. È un esperto in fatto di bello stile. Ci si può fidare dei suoi pareri. Non è per nulla invidioso. Non chiede più gran che alla vita. Ha un vecchio dispiacere d'amore. Non desidera liberarsene. Ne parla il meno possibile. Mica era una donna seria. Gustin è un cuore raro. Resterà così fino alla morte.

Nel frattempo, alza un pochino il gomito...

Il mio strazio, per me, è il sonno. Se avessi sempre dormito bene non avrei mai scritto un rigo...

«Potresti», era l'opinione di Gustin, «raccontar cose piacevoli... di quando in quando... Non c'è sempre sudiciume nella vita...» In certo senso era abbastanza esatto. C'è un po' di fissazione, nel mio caso, di partito preso. Prova ne sia che al tempo che mi ronzavan le orecchie e ancor più d'adesso avevo la febbre a qualsiasi ora, ero molto meno triste... Manipolavo sogni bellissimi... La signora Vitruve, mia segretaria, me l'aveva fatto notare anche lei. Li conosceva bene i miei triboli. Quando si è troppo generosi, si sparpaglian qua e là i propri tesori, si finisce con lo smarrirli... Mi dissi allora: «Quella bagasciaccia di Vitruve dev'esser stata proprio lei ad avermeli ficcati da qualche parte...» Autentiche meraviglie... Pezzi da Leggenda... estasi pura... Ormai non mi resta che gettarmi su quello scaffale là... Per esser più sicuro, butto all'aria il mucchio delle mie scartoffie... Mica ritrovo nulla... Telefono a Delumelle, il mio intermediario; voglio farmene un nemico mortale... Voglio che rantoli sotto gl'improperi... Ce ne vuole per riscaldarlo!... Se n'infischia! Ci ha i milioni, lui. Mi risponde di prendermi un po' di ferie... Arriva finalmente lei, la mia Vitruve. Diffido di lei. Ho i miei bravi motivi. Ma dove diavolo l'hai messa la mia bell'opera? l'attacco di punto in bianco. Ne avevo, a dir poco, a centinaia, di ragioni per sospettare...

La Fondazione Linuty era davanti al pallone di bronzo di Porte Péreire. Lei veniva lì a restituirmi le cartelle che aveva copiato, quasi ogni giorno quand'avevo finito i miei malati. Un piccolo edificio provvisorio, poi raso al suolo. Mica mi ci trovavo. Le ore vi scorrevan troppo regolari. Linuty che l'aveva creata era un arcimilionario, voleva che tutti si curassero per poi sentirsi meglio senza un quattrino. Son dei bei rompicoglioni, i filantropi. Avrei preferito da parte mia un intrallazzetto municipale... Delle vaccinazioni alla zitta... Una mezza autorizzazioncella a rilasciar certificati... Un bagno pubblico, magari... Una specie di piccola sinecura, insomma. Amen. Io mica son Checca, meteco, nè Massone, nè Normalista, non so farmi apprezzare, scopo troppo, io, non godo buona reputazione... In quindici anni che, nella Zone, mi tengon gli occhi addosso e vedon com'io mi difendo, gli stronzi più stronzi si son prese tutte le libertà, han per me ogni sorta di disprezzo. E ancor fortunato se non m'han sbattuto fuori. La letteratura mi ripaga. Avrei torto a lamentarmi. Mamma Vitruve batte i miei romanzi. È attaccata a me. «Senti,» le fo, «cara Marescialla, è l'ultima volta che spreco per te degli insulti!... Se non ritrovi la mia Leggenda, fa' pure una croce sulla nostra amicizia, di' pure ch'è la fine. Niente più collaborazione fiduciosa!... Più un cacchio da mettere in bocca!... Più panierino!... Più piselletti!...»

Lei allora si scioglie in geremiadi. È orrenda in tutto, Vitruve, e come volto e come gatta da pelare. Una vera cambiale firmata. Me la strascino dall'Inghilterra. È la conseguenza d'un giuramento. Mica ci conosciamo da ieri. Me lo fece giurare sua figlia Angèle, a Londra, molto tempo fa, ch'io l'avrei sempre aiutata nella vita. Mi sono interessato a lei, posso dirlo. Ho mantenuto la promessa. È il Giuramento d'Angèle. Risale al tempo della guerra. Eppoi, tutto sommato, lei sa un sacco di cose sul mio conto. Be'. Di regola, non è una chiacchierona, ma si ricorda... Angèle, la sua figliola: aveva del temperamento. È incredibile fino a che punto una madre possa diventar canaglia. Angèle ha fatto una tragica fine. Racconterò ogni cosa, se mi si costringerà. Angèle aveva un'altra sorella, Sophie, la gran polpettona, a Londra, stabilitasi là. E qui Mireille, la nipotina, col vizio di tutte le altre, una vera vacca, una sintesi.

Quando sgomberai da Rancy, e venni a Porte Péreire, mi scortarono entrambe. È cambiato, Rancy, non resta quasi più nulla delle mura e del Bastione. Grossi ruderi neri tutti crepe, li estirpano dal molle terrapieno come radici di denti. Tutto ci andrà di mezzo, la città rode le sue vecchie gengive. Adesso, in tromba, fra le rovine, ci passa il «P.Q. bis». Fra poco, dovunque, non ci saran più che mezzi grattacieli di mattoni. Ce ne accorgeremo. Con la Vitruve eravamo sempre a discutere in fatto di guai. Pretendeva, quella, d'averne passate più di me. Impossibile. Se si parla di rughe, su questo non ci son davvero dubbi, lei ne ha sicuramente di più! Sono innumerevoli, in lei, le rughe, laida facciata degli anni belli sulla sua ciccia. «Dev'essere stata Mireille ad aver riposto le sue pagine!»

Esco con lei, l'accompagno al Quai des Minimes. Abitano insieme, accanto alle cioccolate Bitrounelle, si chiama Albergo Meridiano.

La loro camera è un guazzabuglio indescrivibile, un intrallazzo di cianciafruscole, biancheria soprattutto, cose fragili, da bassissimo prezzo.

La signora Vitruve e la nipote son tutt'e due robetta. Non possiedono che tre siringhe, più una cucina completa e un bidè di caucciù. Il tutto fra i due letti e un grosso vaporizzatore che non son mai riuscite a far sprizzare. Non voglio dir troppo male della Vitruve. Forse lei nella vita ha avuto più disillusioni di me. Ecco perché cerco di moderarmi. Altrimenti, se fossi certo, gliene darei tante che Dio solo sa. La parcheggiava in fondo al camino la Remington che lei non aveva finito di pagare... Stando ai si dice. Non offro molto per le mie copie, anche questo è esatto... Sessantacinque centesimi per pagina, ma cuba lo stesso, fatti i conti... Specie coi grossi volumi.

In fatto di strabismo, non ho mai visto nulla di peggio della Vitruve. Faceva male a guardarla.

Alle carte, ai tarocchi voglio dire, tale strabismo le aggiungeva prestigio. Alle sue clientucce forniva non soltanto calze di seta... ma anche l'avvenire a credito. Quand'era presa da incertezza o perplessità, di dietro le barricole il suo sguardo viaggiava proprio come quello d'un'aragosta.

Specie dopo le «scartomanzate», il suo ascendente aumentava nei dintorni. I cornuti li conosceva uno per uno. Me li indicava dalla finestra, e pure i tre assassini, «io ne ho le prove!». Le avevo fatto dono, anche, per la pressione arteriosa, d'un vecchio apparecchio Laubry, e le avevo insegnato un certo massaggetto per le varici. Il che accresceva i suoi incerti. Aveva una ambizione, gli aborti, o meglio ancora l'altra di sguazzare in una rivoluzione sanguinosa, sì che dappertutto si parlasse di lei, e la cosa si spantegasse sui giornali.

Quando la vedevo rovistar nei più reconditi angoletti del suo bazar, mica riuscirò mai a scriverlo quanto mi scombussolasse lo stomaco. In tutto il mondo ci sono ogni momento dei camion che arrotano gente simpatica... Mamma Vitruve lei emanava un odorognolo come di pepe. È spesso il caso delle rosse. Soggiacciono, penso, al destino degli animali, è un fortor salvatico, tragico, tutto nella pelle. L'avrei ammazzata quando la sentivo discorrer troppo forte, tirar fuori i suoi ricordi... Col prurito al sedere com'aveva lei, non le riusciva facile trovare sufficiente amore. Ci voleva proprio un ubriaco fradicio. E che per giunta fosse buio pesto, altrimenti mica aveva fortuna! Da questo lato mi faceva pena. Io ero in vantaggio sulla via delle belle armonie. Anche questo lei non lo trovava giusto. Il giorno che si fosse reso necessario, già avevo accumulato in me quasi quanto basta per potermi prendere il lusso di morire... Vivevo di rendita, in fatto d'Estetica. Me n'ero sbafato di ciccetteria e di meravigliosaggine... pura luce, devo confessarlo. M'ero abbuffato d'infinito.

Risparmi non ne aveva, ci vuol poco a indovinarlo, manco c'è bisogno di parlarne. Per la buccolica e in più la goduria doveva incastrare il cliente con la stanchezza e la sorpresa. Era un inferno.

Dopo le sette, di regola, gli sgobboncelli son tornati a casa. Le mogliere sono alle prese con le stoviglie, il maritozzo s'avvoltola nelle onde radio. Allora Vitruve abbandona il mio bel romanzo per andare a caccia della sua sussistenza. Da un pianerottolo all'altro va all'uccellagione con le sue calze un poco sdrucite, i suoi farsetti senza prestigio. Prima della crisi riusciva ancora a sfangarcela, grazie al credito e al modo come impapocchiava i clienti, ma ora i suoi articolucci da magliara si danno identici in premio di consolazione a tutti i baccaglioni rimasti fregati nel gioco delle tre carte. Non son più condizioni leali. Ho cercato di spiegarle ch'era tutta colpa dei piccoli Giapponesi... Non m'ha voluto credere. L'ho accusata, d'aver fatto sparire apposta la mia bella Leggenda, in una con le sue immondizie...

«È un capolavoro!» avevo aggiunto. «Bisogna quindi ritrovarla per forza!...»

Lei se l'è presa in ridere... Abbiamo rovistato insieme nel mucchio delle sue cianfrusaccole.

Finalmente tornò la nipote, molto in ritardo. Bisognava veder le sue anche! Un vero scandalo a retroscarica... La gonna tutta a piegoline... Per tener bene la nota. La fisarmonica del fendimento. Nulla va perso. Lo scopamestieri è disperato, è sensuale, manca la grana per invitare... S'inalbera. «O culona!» le mollavano... in pieno viso, d'in fondo agli anditi, a furia d'incordarsi a vuoto. I giovincelli che han lineamenti più fini degli altri, loro sì che son ben dotati per affondarci i denti, per farsi cullar dalla vita. Soltanto più tardi lei s'abbassò per campare!... dopo molte batoste... Per intanto si sollazzava...

Mica l'ha trovata la mia bella Leggenda. Se n'infotteva, lei, del «Re Krogold»... Soltanto io mi ci arrovellavo. Sua scuola d'emancipazione era il «Panierino», poco prima della Ferrovia, la balera di Porte Brancion.

Non mi levavan gli occhi di dosso quand'andavo in bestia. Come «fessacchiotto», secondo loro, detenevo il primato! Segaiolo, timido, intellettuale, e chi più ne ha più ne metta. Ma adesso, di sorpresa, gli era presa la fifa ch'io tagliassi la corda. Se avessi preso il volo, mi domando come se la sarebbero cavata. Son certo che la zia, lei, ci pensava molto spesso. Era roba da far accapponar la pelle il sorrisetto che mi rifilavano tutte le volte che niente niente accennavo a un viaggio...

La Mireille, oltre il culo stupendo, aveva occhi da romanza, lo sguardo assassino, ma un naso a refe doppio, un patatone ch'era la sua croce. Quando volevo abbassarle un po' la cresta: «Scherzi a parte!» le facevo, «Mireille. Ma lo sai che il tuo nappione è proprio degno d'un uomo?...» Anche lei sapeva raccontar delle storie, le piacevano quanto a un marinaio. Ha inventato un sacco di cose, prima per farmi ridere, poi per farmi del male. Io ho sempre avuto la debolezza di starle a sentire, le belle storie. Lei ne abusava, questo è il fatto. La fine dei nostri rapporti è stata violenta, ma la scarica finale fu lei a meritarsela, e anche d'essere accoppata, magari. Ha finito col convenirne. Son stato invero molto generoso... L'ho punita perché avevo serie intenzioni... L'han detto tutti... Gente che sa quel che si dice...

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