Copertina
Autore Giorgio Celli
Titolo Nuovo bestiario postmoderno
Sottotitoloe altri scritti
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2011, Ecoalfabeto , pag. 192, cop.fle., dim. 12x17x1,1 cm , Isbn 978-88-6222-169-6
LettoreFlo Bertelli, 2011
Classe animali domestici , natura , etologia , natura-cultura , sensi
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Indice

Introduzione di Edgar Meyer 5

Il bestiario vivente 9


Le mie api e qualche formica 22

L'ape e l'uomo 22
Lape e il diavolo 23
L'ape femminista 25
L'ape Robinson 26
L'ape farmacista 28
L'ape guerrafondaia 29
Lape bussola 31
Lape pensante 32
L'ape neopitagorica 34
Lape matematica 35
L'ape stakanovista 37
L'ape e la banca del seme 38
L'ape futuribile 40
La formica e la lotta biologica 41
Formiche d'équipe 43
La formica cieca 44
La formica "ventisei-uomini" 46
La formica drogata 47
La formica robot 49


I miei gatti e qualche cane 51

Il gatto allo specchio 51
Il gatto un po' genio 52
Il gatto a parlamento 54
La gatta psicosomatica 55
Il gatto e la morte 57
Il gatto "gesticola" 58
Il cane simulatore 60
La cagna isterica 61


Bestiario d'amore 63

C'è amore e amore 63
Ditelo coi doni 64
Afrodisiaci salutari 66
Castità da molecole 67
Musica, "maestro"! 69
Il colibrì in discoteca 70
Tristano è una volpe 72
Ti fiuto, e so chi sei 73
Gelosia, che pena! 75
Coppia e nevrosi 76
Non ci si fidi del sesso 77
Castrazione con "trillo" 79
Oh, Lolita! 80
Misteri del seno 82
Smancerie da ristorante 84
L'insetto è un play-boy 85
Kamasutra, con libellule 86
Scopofilia, per piccina che tu sia... 88
Il verme e le ciccione 89
Tra moglie e marito 91


Un poco di bionica 93

Progetti da lombrico 93
L'emulo di Edison 94
Le zampe hanno orecchie 96
Antenne d'autore 97
Guerra chimica 98


Spazio, densità, aggressività 100

Il pesce a teatro 100
Il giusto locatario 101
Il cervo volante è cavalleresco 103
La scimmia assassina 104
Follia da folla 106
Carnefici e vittime 107
Fissare è sfidare 109
Erode è un langur 110


Delfini, pinguini, topi e molti altri 112

Il pinguino ci guarda 112
Il delfino è di scena 113
Il beluga burlone   115
Il topo e il cioccolato 116
Uomini e topi 117
Per amore di un topo? 119
Il pappagallo non sa il tedesco 120
In barba a Chomsky 121
Come Barbanera 123
Il piccione sa contare 124
Il piccione mistico 125
Il piccione migratore 127
L'albero del fulmine 128
Pensare, prevedere, soffrire 129
Il suicidio e lo scorpione 131
L'agnello pazzo 132
Vegetariano è bello? 134
L'animale immaginario 135


Altri scritti 138

A scuola dalle analogie 138
Scienziati e stregoni 144
Qualche appunto ecologico sugli animali in città 153
Dal parco santuario al parco laboratorio:
è possibile un turismo nei parchi? 160
La savana del Serengeti 170
Statue biologiche, una digressione sull'arte e l'ecologia 175
Chernobyl, la strage dei cani abbandonati 181


Gaia Onlus, il pianeta che vive e che legge 185


 

 

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Pagina 2

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Pagina 9

Il bestiario vivente



                                    Se andate nella Nuova Galles meridionale,
                              vedrete i marsupiali saltellare nelle campagne.
                       E se andate negli antipodi della mente auto-cosciente,
                                  incontrerete ogni specie di creature strane
                                                     almeno quanto i canguri.
                                             Non si inventano queste creature
                                     più di quanto si inventino i marsupiali.
                         Esse vivono la propria vita in completa indipendenza
                                               e l'uomo non può controllarle.

                                                A. Huxley, Paradiso e inferno



La filologia, affermava un mio professore di greco, che se ne intendeva e che adorava la maldicenza e i paradossi, è un po' come l'occhio: vede bene le cose solo se le mette "a fuoco", in parole povere se le pone a una certa distanza. Ma questa restituzione delle cose alla loro distanza storica, al loro paesaggio di origine, questo dare a Cesare quel che è di Cesare, non è privo di rischi; può succedere, per esempio, che si espropri il presente, e che si operi una sorta di rimozione culturale.

I bestiari vengono considerati, per lo più, delle opere "datate", dei fossili letterari da imbalsamare e da porre, tra codici alluminati e Bibbie miniate, nelle teche di cristallo delle biblioteche e dei musei. Dal mio punto di vista mi sembra, invece, che lo "spirito" di questi libri sentenziali, niente affatto tramontato, sia solo in parziale eclissi o in incognito. Esclusi dai trattati di zoologia, i bestiari sono divenuti luoghi comuni o modi di pensare; dati come morti, hanno acquistato l'invisibile potere dei fantasmi. Perché, volenti o nolenti, noi continuiamo a confrontarci con gli animali, onirici o reali, che frequentano il nostro mondo o quello parallelo, e speculare, dei nostri sogni. E non parlo mica delle faune fantastiche di Borges! Parlo dei bestiari che governano ancora la nostra vita quotidiana, degli animali "altri" che seguitiamo, imperterriti, a invocare.

Un ricordo, che mi folgora: sono all'aeroporto del Cairo, con gli uomini della FAO. Tre boeing di differenti airlines atterrano, in una sequenza armoniosa, come obbedendo ai ritmi di una misteriosa peripezia zodiacale, sulle lunghe piste abbacinate dal sole allo zenith. Sugli alettoni e sulle fusoliere dei tre aviogetti, delle tre chimere tecnologiche, scopro, dipinte a fuoco, delle figure di animali, reali o mitologici. Il reattore egiziano esibisce la testa di uccello di Orus; l'antico dio d'epoca faraonica, adorato da Edfu, mentre il boeing australiano mette in bella mostra l'immagine stilizzata, e un po' buffa, di un canguro in atto di saltare, e, infine, sul DC 9 neozelandese intravedo la sagomina di un kiwi, uccello inetto al volo, e minacciato di estinzione, che vive nelle zone più impervie e segrete dell'isola. L'uomo del ventesimo secolo, mi dico, stenta a restare un proprio contemporaneo. La sua mente abita ancora in compagnia degli animali magici, ed esemplari, delle origini. Espugni pure, astronauta o pilota dell'impossibile, l'alta atmosfera, l'uomo resta tributario del passato, e per questo pone ancora sotto la protezione delle antiche parentele totemiche la sua esistenza. Il cacciatore paleolitico, che affrescava il soffitto della grotta di Altamira, a diventare, per forza di magia, il "signore dei bisonti", siede ancora, sempre lo stesso e figlio di sé stesso, nell'abitacolo del boeing, confortato da tutti i doni della tecnologia e dall'immagine dell'animale del suo clan. La nostra convinzione di essere stati emancipati dal progresso è messa ogni momento in discussione.

Diamo un calcione all'automobile che si "ostina" – pensiamo proprio così! – a non partire? Gli aborigeni australiani consentirebbero al nostro gesto: quale migliore testimonianza di animismo? Un gatto nero ci attraversa, fulmineo, la strada, e noi indietreggiamo, un po' sgomenti, e facciamo gli scongiuri? Precipitiamo in pieno pensiero magico, regrediamo al "prima" di Galileo, e della nascita della scienza, a officiare il sabba, o il potlatch. Ma sono anche, e forse sopra tutto, i discorsi di ogni giorno che tradiscono il "bestiario vivente" che abita in noi. Non dichiariamo, forse, al mattino, di "aver dormito come un ghiro"? O non esclamiamo, tra l'ammirazione e lo spavento, che quella donna è "furba come una volpe"? Oppure che è "una vipera", perché perfida, o ancora economa – e ce ne vorrebbero! – "come una formica"? Questo linguaggio, che si vale di similitudini animali, è lo stesso che parla nel Fisiologo o nel Tesoretto, il dettato di una mentalità peculiare delle origini, ingenua e proiettiva a un tempo.

Rileggevo, l'altro ieri, le Antimémoires di André Malraux. Che libro retorico, mi dicevo, questi "grandi uomini", da Nehru a Mao, che sembrano giocare a fare il verso a sé stessi sono intollerabili! D'un tratto incontro un "punto" formidabile: Malraux racconta l'escursione etnologica di Gustav Jung nel Nuovo Messico. Nel corso di una riunione, gli indios domandano allo psicoanalista svizzero quale sia l'animale del suo clan, e lui nega di averne uno. Più tardi, finito l'incontro, tutti scendono una scala di legno, gli indios alla loro maniera, volgendo le spalle ai pioli, e Jung, più prudente, con la faccia al muro d'appoggio, per meglio aiutarsi con le mani. "Dal basso" scrive Malraux "il capo indica in silenzio l'orso di Berna ricamato sulla casacca del suo ospite: l'orso è il solo animale che scenda con il muso all'albero, o alla scala...". Questo aneddoto, in cui Jung, come Castaneda, va "a scuola dallo stregone", che rivela allo scopritore degli archetipi per l'appunto un archetipo animale, che egli aveva misconosciuto, dilata il suo significato, e si fa antropologo. L'uomo moderno è antico, ha scritto Günther Anders.

Va bene, lo "spirito" del bestiario è il "grande trasparente": esercita su di noi i poteri di una eminenza grigia, e funziona un po' alla stregua di un complesso, che si esprime per simboli – il kiwi sulla fusoliera, o la similitudine animale nel discorso – ; ma per quel che concerne la scienza? Thorndike si pose il problema della "scientificità" dei bestiari e concluse affermando che erano gli ascendenti diretti dei trattati di zoologia veri e propri. La querelle scienza/no, scienza/sì, è simile a quella sollevata dalle opere alchemiche: erano dei protomanuali di chimica, oppure tutt'altra cosa? Cominciamo col dire che, nate dalla funzione fabulatrice, alcune figure dei bestiari si incontrano, nell'autunno del Medioevo, con il presagio dell'avvento di una nuova mentalità, con la scienza nascente o per lo meno gestante ed esprimono, allora, un certo distaccato disincanto. Si veda, come il più esemplare, il caso delle sirene. Per Omero questo mostro di natura era un collage di donna e di uccello, e così ce le descrive nell' Odissea.

Più tardi, Orazio allude alle sirene ma come innesto, ben più noto, di una donna e di un pesce. Nel Fisiologo, opera scritta nei primi secoli dell'era cristiana, la sirena ha per metà corpo muliebre e per metà corpo d'oca. Qualche secolo più tardi, all'ombra del Mille, in un altro bestiario, Liber monstruorum, la "coda" della sirena subisce un'altra metamorfosi zoologica, e torna a farsi squama, e pinna natante. Tutte chirurgie, e trapianti, fantastici, che dimostrano l'instabilità dell'immagine mentale, incerta tra il pesce e l'uccello. Forse, per praticare un poco di "psicoanalisi selvaggia", esiste una singolare ambiguità e reversibilità inconscia tra queste due forme zoologiche, se Sant'Ambrogio, nel suo Esamerone, scrive che i pesci pre-figurano, nella serie degli esseri, e nella continuità della creazione, gli uccelli; sarà, forse, a chiasmo, perché questi nuotano nell'aria, come quelli volano nell'acqua? Alle soglie dell'Umanesimo e del Rinascimento, in cui matura e giunge al suo punto di fusione il pensiero scientifico, l'immagine prodigiosa della sirena perde l'aura, e in qualche modo si razionalizza. Nel Tesoro, scritto nella seconda metà del Milleduecento, Brunetto Latini, dopo aver descritto le sirene secondo l'iconologia ormai consolidata della donna/pesce, aggiunge questa diagnosi strabiliante, che traduco alla buona: "Ma, a dir la verità, le sirene erano tre prostitute che facevano cadere in trappola tutti i passanti, e li riducevano in povertà".

Subito dopo, tuttavia, tornando alla retorica comparativo/simbolica del bestiario canonico, aggiunge: "Se la Storia riporta che esse avevano delle ali e degli artigli, è per dire dell'Amore, che vola e che ferisce; e se esse dimorano nell'acqua è perché la lussuria è nata dall'umidità".

Ma per enucleare i rapporti produttivi, o genetici, tra bestiari e scienze naturali, non sarà molto proficuo prendere in esame – caso per caso, animale per animale – se l'antico compilatore abbia "visto giusto", o se "abbia travisato", oppure se la nozione riportata derivi da una osservazione, o da una invenzione; meglio sarà entrare criticamente nel cuore stesso di queste opere, a "smontare" il significato e la retorica. Scrive Gabriel Bianciotto che, nei bestiari, "la struttura degli articoli, classificati con grande fantasia apparente, è binaria: enunciazione di una natura dell'animale considerato; significato religioso o morale di questa natura". Questa natura "doppia" – A: descrizione della natura; B: confronto con la natura umana – sembra distinguere nettamente il bestiario dal trattato di zoologia quale noi lo intendiamo. La scienza, ha scritto Gillespie, ha il suo punto di partenza nella natura, e non nella mente. Lo scienziato confronta le osservazioni esposte in A, non con B ma, in parte, con la letteratura esistente e, sopra tutto, con il mondo dei fenomeni. Frequenta, cioè, l'interfaccia tra osservazione e notizia, tra fatto e verifica. Al contrario il compilatore dei bestiari si confrontava, sì, un poco, con il mondo, e molto di più con tutti gli ipse dixit dei testi ma, fondamentalmente, l'operazione più propria del suo metodo era cercare la convalida di A in B, nel senso che il dettato animalistico doveva possedere, per venire accettato, una sua piena pregnanza teologica e morale. Al punto che, mentre allo scienziato non è consentito interpolare la creazione con l'immagine, e trattare come reale l'animale fantastico perché, in prima e ultima istanza, "non esiste", il bestiologo non conosceva queste restrizioni: ogni mostro, o prodigio, che servisse a illustrare esattamente una qualità, o una virtù, dell'uomo, era legittimato a reclamare diritto di esistenza, e trovava il suo posto tra le creature "vere". Nel bestiario di Pierre de Beauvais, che risale ai primi anni del Milleduecento, leggiamo che lo struzzo, in conformità con quanto scrive di lui Il Fisiologo, ha le ali, ma non vola, e si prende gran cura dei suoi piccoli. Però, c'è un momento in cui l'animale entra in trance: alza gli occhi al cielo, immemore di tutto, e quindi anche della sua discendenza, e resta intento a fruire i beni celesti. Ecco due verità incommensurabili a confronto: la prima, inettitudine al volo e cure parentali, che è esatta, è derivata da una osservazione e, volendo, può trovare nell'osservazione la sua verifica e la sua falsificazione. La seconda verità si fonda sulla congruità teologica del fenomeno. Infatti, non ha detto l'apostolo: "Dimentico i beni di questo mondo, e mi sforzo di penetrare i luoghi supremi cui siamo chiamati"? E Cristo non afferma, forse, nel Vangelo: "Chi ama il padre, la madre, o i figli più di me, non è degno di me"? Ergo, lo struzzo entra in estasi. "Ogni lettura del mondo" scrive ancora Bianciotto "non può che tendere a fare apparire dei segni; la realtà sensibile è la lettera di cui è necessario interpretare lo spirito; da ciò lo stabilirsi di una relazione metaforica costante tra il mondo e quello che gli conferisce ai nostri occhi un senso: i due Testamenti, insieme di significati allegorici che fanno luce sulla natura divina e sulla condizione dell'uomo. La descrizione delle nature animali si integra con certe prospettive escatologiche in cui, come dice Sant'Agostino, quel che importa è il significato di un fatto, e non la sua autenticità: la veracità delle nature descritte non è quindi affatto necessaria: è possibile inventarle, o evocare delle nature mitiche nella misura in cui ci consentono di comprendere delle verità di tutt'altra portata che, in loro stesse, non sono suscettibili di contestazioni". Il comportamento, descritto dal Vangelo, dell'anima assetata di Dio, convalida il comportamento dello struzzo, immemore della sua discendenza, o per meglio dire conferisce al fatto una valenza metaforica che, in un universo concepito come una "forêt de Symboles", equivale a uno statuto di esistenza.

Ma torniamo un poco sui nostri passi. Risponde proprio a verità quello che abbiamo affermato, e cioè che lo scienziato compari A con il mondo, e che trascuri il rimando, tipico del bestiario, a B, non attivando per nulla il corto circuito uomo/animale? L'antropomorfismo, norma del bestiario, quel fenomeno di proiezione in forza del quale noi attribuiamo agli animali i nostri sentimenti, e diciamo che il gatto è infuriato, o che il cane ci ama, è stato proprio estromesso del tutto, come scientificamente fuorviante, dai libri della zoologia moderna? La cosa esige un qualche ripensamento.

Perché l'antropomorfismo, in primo luogo, è una malattia costituzionale del linguaggio. L'uomo ha "inventato" il linguaggio per parlare con l'uomo, e dell'uomo. Quando sconfina semanticamente è fatale che conservi nel discorso, vizio d'origine, gli echi di continue allusioni antropomorfe. Si ha un bello sforzarsi: il cane che scodinzola ci par proprio "felice"! La prova del nove di questa coazione all'antropocentrismo linguistico ce l'hanno fornita, in negativo, quegli psicologi che, alla fine del XIX secolo, tentarono di "depurare" le proposizioni scientifiche elaborando una nuova nomenclatura obiettiva, di ascendenza fisiologica. Per loro, non bisognava più parlare di sensazioni o di percezioni, ma di recezioni. Per cui, non si dica il cane adocchia una bistecca, o riconosce qualcuno, ma che ha una fotorecezione del cibo, o una icono-recezione del padrone. Con il risultato che, per essere coerenti, invece di dichiarare che il nostro gatto "ha fame" dovremmo dire che "i suoi propriocettori gastrici, in ritmica contrazione, inviano impulsi al centro ipotalamico". Che fatica di Sisifo essere obiettivi! Troppa, perché la scienza mira, in primo luogo, all'economia dei mezzi, anche espressivi...

Tra l'altro, dopo Darwin, un certo grado di antropomorfismo è diventato scientificamente legittimo. Lo scienziato inglese è uno dei numi tutelari, possiamo ben dirlo, del bestiario vivente che ancora ci governa. Dopo tutto, come ha scritto Vandel, il linguaggio antropomorfo "rappresenta la proiezione dell'umano sul piano degli esseri che hanno presieduto alla sua genesi". Ragione per cui sarà più "scientifico", comparando, dire che uno scimpanzé è infelice, invece che attribuire questo stato d'animo a una rana. Lo scimpanzé è, difatti, a tutti gli effetti, un nostro fratello minore, magari un po' impedito.

Ma non basta: a ben leggere i bestiari si può accertare facilmente come la funzione che in essi si assegna all'animale sia a due valenze. Ora la bestia, reale o immaginaria, raffigura i vizi e le perversioni dell'uomo e ora è, al contrario, lo specchio vivente delle sue virtù o degli ammaestramenti della Chiesa. In parole povere, il pigro deve avere come esempio la formica, o il probo misconoscersi nella donnola, perché l'una scevra il grano dall'orzo, e pone "il suo frumento nei granai celesti", mentre l'altra "che concepisce con la bocca e partorisce con le orecchie" è come quegli uomini che, dopo aver mangiato il pane degli angeli in chiesa, estromettono la parola divina per via auricolare. Il bello è che questo duplice modo di porre a confronto l'uomo e l'animale, norma nel bestiario e nelle favole, è presente, in modo più o meno esplicito, nei libri di etologia e di sociobiologia. Non ci credete? Quando, per esempio, Konrad Lorenz ha preso in esame il tema scottante dell'aggressività ha parlato in modo esplicito, per gli animali, di fenomeni atti a far diminuire la pericolosità degli scontri. I cervi maschi, quando si battono per le femmine, o i lupi quando confliggono per la gerarchia, per il comando del branco, compiono delle sorte di giostre, di tornei naturali, atti a far desistere l'avversario senza versare il suo sangue. Il lupo egemone, per esempio, non azzanna a morte la gola che l'antagonista sconfitto gli porge in atto di sottomissione. La soddisfazione di aver vinto gli basta, per cui dona cavallerescamente la vita al contendente che si proclama suo vassallo. È fatale che la cosa attivi una comparazione uomo/animale. Non è affatto vero, allora, proclamiamo contriti, che il lupo è cattivo; siamo noi le creature più crudeli del pianeta, noi che abbiamo praticato la guerra totale e il genocidio. Lorenz, lo voglia o no, ci propone così una pastorale per l'uomo contemporaneo; il "lupo buono" è l'equivalente, post-Darwin, del "buon selvaggio" di Rousseau, e per l'etologia il paradiso terrestre è un luogo che è potuto divenir tale solo dopo la cacciata di Adamo. Tutte le guerre della preistoria e della storia testimoniano contro di noi a favore degli animali che risultano, alla fine, "edificanti".


"Se si considera il numero di assassinii commessi per migliaia di individui all'anno" scrive Wilson "gli esseri umani occupano livelli molto bassi nella graduatoria degli organismi violentemente aggressivi". E più avanti riporta, come esempio di "nature" ben più malvagie di noi, quel che ha veduto Hans Knut a proposito della lotta tra delle iene per il possesso di una carcassa di gnu. Riportiamo per esteso la descrizione di un vero e proprio linciaggio belluino:

"I due gruppi si mischiarono in un frastuono di richiami, ma subito dopo si separarono nuovamente e le iene di Mungi corsero via inseguite per breve tratto dalle iene della Scratching Rock, che poi ritornarono alla carcassa. Una dozzina di iene della Scratching Rock però riuscirono a bloccare un maschio di Mungi e cominciarono a morderlo dove potevano – specialmente sull'addome, sulle zampe e sulle orecchie. La vittima fu completamente sopraffatta dai suoi assalitori, che continuarono a maltrattarla per una decina di minuti, mentre il resto del loro branco stava divorando lo gnu. Il maschio di Mungi fu letteralmente sbranato e quando più tardi studiai le ferite più da vicino potei constatare che le sue orecchie erano state mozzate e così le sue zampe e i testicoli, l'animale era paralizzato da un trauma alla colonna vertebrale, aveva estese ferite a livello delle zampe posteriori e del ventre, emorragie sottocutanee un po' dappertutto... Il mattino seguente trovai una iena che stava divorando la carcassa e constatai che anche altre avevano partecipato al banchetto; circa un terzo degli organi interni e della muscolatura era stato divorato. Cannibali!".

La "specularità" e la scrittura binaria del bestiario rivivono in modo più o meno esplicito: il lupo, che funge da esempio morale da seguire, ha come rovescio della medaglia la iena cannibale che funge, invece, da ammonimento a non imitarla. Insomma, come Il Fisiologo, l'etologo si serve dell'animale per proporci uno specchio ai nostri vizi e alle nostre virtù e propinarci un sermone: uomo sii pio come il lupo, e non empio come la iena.

Per un solo verso queste opere sentenziali sono completamente differenti dal trattato di zoologia: praticano il rifiuto di ogni tassonomia. L'universo dei viventi è stato ordinato da Linneo in una complessa mappa di relazioni, in cui la topologia reciproca dei vari organismi dipende dalla loro somiglianza. Dopo Darwin, si dà per scontato che questa somiglianza equivalga al grado di parentela, alla comunanza delle origini. Tipo, classe, ordine, famiglia, genere, specie, un lungo viaggio dalla molteplicità all'unità, dalla diversità all'identità.

Per Linneo, fissista e creazionista, il vuoto tra specie e specie era espressione della volontà divina, per cui la sua tassonomia era "discreta". Darwin, con il concetto di evoluzione, opera un rammendo teorico e introduce una tassonomia virtualmente continua. Tra specie e specie non ci sono lacune, ma soltanto anelli mancanti.

Il bestiario è assolutamente antidarwiniano. Più radicale di Linneo, nega ogni ordine possibile. Se una somiglianza o un grado di parentela possono, alla lunga, venire quantificati – numero degli stami, dei petali ecc. – e tradotti in indici numerici, il bestiario opta per una non-sistematica eteroclita e qualitativa. Ogni "natura" è unica e incomparabile. Per cui gli articoli si susseguono senza un legame "necessario": il leone, la lucertola, il pellicano sono "animali pretesto", metafore metafisiche dei vizi e delle virtù dell'uomo e costituiscono, alla fine, una ineffabile e assoluta zoologia del paradiso e dell'inferno.

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Pagina 22

Le mie api e qualche formica



L'ape e l'uomo

Jacob von Uexküll è stato uno dei biologi più interessanti dei primi decenni del secolo scorso. Studioso del comportamento animale, può venire annoverato, senza tema di smentite, tra i fondatori dell'etologia. Purtroppo, la filosofia vitalista che professava apertis verbis ha fatto cadere su di lui un certo discredito, e difatti lo troviamo citato raramente. Più fecondo è stato il suo rapporto con la filosofia kantiana, che gli ha suggerito la concezione dei "mondi invisibili".

Gli animali che sembrano convivere nello stesso mondo, afferma von Uexküll, abitano, in realtà, in tanti universi paralleli "ritagliati" dalle capacità del loro sistema sensoriale. Mi spiego meglio: io e un'ape stiamo attraversando il medesimo prato. Per me, che ho due occhi "a camera" abilitati a vedere il rosso, ma non l'ultravioletto, l'erba è verde; per l'ape, che ha occhi composti ciechi al rosso ma sensibili all'ultravioletto, è grigia. Quel fiore di senape, che a me appare giallo, assume per l'ape un misterioso colore di porpora.

Ma abbandoniamo questa sfera sensoriale. Per quel che riguarda le capacità olfattive, l'uomo e l'ape sembra siano abbastanza simili anche se, in generale, l'insetto ha possibilità più sottili per quanto concerne il profumo dei fiori. Ma ci sono delle eccezioni: l'ape non è sensibile al profumo dei fiori di mirtillo e lo è molto meno di noi all'odore del rosmarino, che pure l'insetto frequenta attivamente. Anche nell'ambito del senso del gusto noi e l'alchimista del miele abitiamo due universi non sovrapposti del tutto, e questa circostanza ha avuto perfino una ricaduta pratica.

Si sa che una delle operazioni dell'apicoltura consiste nel nutrire artificialmente l'alveare con dello zucchero per consentirgli di far fronte a periodi di emergenza. Come vendere questo zucchero a un prezzo inferiore, avendo la certezza che l'apicoltore lo somministri alle sue api e non ne faccia oggetto di speculazione commerciale? È necessario, come per l'alcool d'uso sanitario, denaturare lo zucchero, rendendolo incormmestibile. Karl von Frisch scoprì molti anni fa che esistono certe sostanze che per l'ape non hanno sapore e che per l'uomo risultano amarissime. Si addizionino, dunque, allo "zucchero per api" e il gioco è fatto. A ciascuno il suo mondo. E il suo zucchero.


L'ape e il diavolo

Al tempo in cui Berta filava si credeva seriamente alla generazione diabolica. Si pensava, in altre parole, che il diavolo fosse abilitato a ingravidare delle donne, per esempio le streghe, che mettevano al mondo una prole di ascendenza satanica. I teologi però, pur dando per vero il fenomeno, si domandavano ansiosi come potesse una creatura incorporea come il demonio aver figli in carne e ossa, finché risolsero il problema in maniera davvero singolare.

Il diavolo, decisero, non ci mette niente di suo. Si limita a trasportare lo sperma, prelevato da un uomo immerso nel sonno, nelle vie genitali della strega diletta, conseguendo egregiamente lo scopo. Si comportava, dunque, come quei ginecologi nostri contemporanei che, diavolo a parte, praticano la cosiddetta fecondazione artificiale, ricorrendo addirittura, in certi casi, a vere e proprie banche dello sperma, "rilasciato" magari da premi Nobel.

Risulta, quindi, subito chiaro perché i benpensanti denuncino tutte queste manipolazioni della riproduzione come opera di Satana, e anche molti teologi, ora come allora, sono pronti ad avallare questa opinione. Per loro sfortuna, la strategia di prelievo e di trasporto del seme maschile non è solo un'invenzione medioevale, vera ancora oggi per chi ha fede nel demonio, o una pratica di laboratorio messa in atto da nuovi Frankenstein in camice bianco: è anche una procedura biologica molto comune in natura. Per esempio, le api si comportano nei riguardi delle piante superiori come il diavolo con le streghe, e lo notava con arguzia in una sua noterella lo scrittore Alfredo Panzini. Difatti, l'ape vola sulle corolle per raccogliere del cibo, nettare o polline, e ciò facendo si imbratta il corpo, per altro peloso, di una miriade di granuli pollinici. Li porta, così, di fiore in fiore, consentendo alla pianta, per sua natura immobile, di superare la barriera della consanguineità e di inviare in giro la propria informazione genetica.

Charles Darwin ha dimostrato per primo che l'impollinazione incrociata favorisce in un gran numero di casi la fecondità e la produttività di moltissime specie botaniche spontanee e coltivate. Dunque, il diavolo, l'ape, il ginecologo...


L'ape femminista

Una delle leggende più misteriose è sicuramente quella dell'esistenza, nella Grecia arcaica, di una società, per certi versi terribile, di matriarche.

Le Amazzoni avrebbero dato origine a un popolo di sole donne che, esperte nel tiro dell'arco (si mutilavano un seno per tirare fino in fondo la corda!) e in tutte le arti marziali, escludevano gli uomini, salvo ricorrere loro come "stalloni" nel momento propizio alla riproduzione, scacciandoli o uccidendoli subito dopo la "prestazione".

Quando un'Amazzone troppo romantica cadeva in preda a una funesta passione per qualche uomo-oggetto, doveva subire l'ostracismo del clan, a meno che non si facesse giustizia da sé, sbranando a baci, come Pentesilea invaghita di Achille, l'uomo che l'aveva fatta tralignare dalle leggi, e lavando con il sangue (dell'altro!) la propria iniquità.

Ma se tra gli uomini, per fortuna, questi usi cruenti sono soltanto leggendari, tra le api, che vivono in società "femministe" per eccellenza, la cosa è di ordinaria amministrazione. I poveri maschi, i cosiddetti fuchi, hanno il destino biologico di morire nell'atto, se raggiungono e fecondano la regina durante il volo nuziale, e di venire sterminati in massa se, superstiti, (e quindi "vergini") rientrano nell'alveare illusi, per dir così, d'essere ancora graditi.

La loro triste sorte, già intuita e osservata dal conte René Antoine de Réaumur, è stata descritta con dovizia di particolari da F. Huber, che è stato uno dei più celebri studiosi delle api del Settecento. Il massacro si verificò il 4 luglio del 1787 e Huber si valse, per averne contezza, di un'arnia speciale, con il fondo di vetro trasparente.

Strisciando bocconi sotto l'alveare si poteva seguire da vicino tutto quello che avveniva all'interno. Che non era affatto piacevole! Le api operaie, armate di un aculeo avvelenato, furono viste avventarsi sui fuchi, disarmati e inetti, per bistrattarli in vario modo e per pugnalarli più volte all'addome. Ebbre di strage, le virago si precipitarono anche sulle cellette che ospitavano le larve dei fuchi, strappandole dal loro abitacolo, sventrandole, e talune delle assassine si misero a leccare avidamente il liquore che sgorgava dalle ferite, in un pasto cannibalistico, degno coronamento di una strage in piena regola. Una società femminile dai modi ben poco femminili! O forse sì?


L'ape RobinSon

Tutti, da ragazzi, abbiamo letto il romanzo di Daniel Defoe che narra le prodigiose vicissitudini di Robinson Crusoe, il naufrago letterario più famoso del mondo. Questo marinaio gettato dalla tempesta sulle spiagge di un'isola deserta, e che vive per molti anni separato dal consorzio civile in compagnia di sé stesso e della propria inventiva, è una delle più compiute allegorie dell'uomo che sfida e vince le avversità della natura, e suggerisce che ogni uomo, nella sua individualità, è in qualche modo il compendio del genere umano. Per questo, se adulto, può vivere a lungo in solitudine, e gli eremiti della Tebaide, Robinson della metafisica, o molti speleologi o astronauti, Robinson della scienza, hanno dimostrato che si può abolire per molto tempo ogni interazione sociale senza che il soggetto comprometta la propria vita.

Per l'ape le cose sembrano andare diversamente e gli etologi hanno osservato una circostanza davvero curiosa. Fatti i conti, e le dovute comparazioni, se si isola un'ape adulta, questa si nutre regolarmente e sembra godere di ottima salute ma, ahimè, muore in breve tempo. Più celermente delle altre, che vivono in comunità. Due api campano il doppio di un'ape sola, e si è scoperto che un'ape viva, posta insieme a una morta, è più longeva. Il fenomeno sembra dipendere dalla struttura estremamente solidale delle società degli insetti, che sono state spesso paragonate a dei superorganismi, in cui gli individui assolverebbero la funzione di organi o di supercellule.

In realtà, per tutto l'alveare, in forma volatile o passate in complesse operazioni bocca-a-bocca tra gli individui, circolano delle sostanze particolari, dette feromoni, che regolano, come le secrezioni endocrine all'interno dei corpi, le più importanti funzioni del complesso sociale.

Le api parlano tra loro in molte maniere, con la danza, con il movimento delle antenne e mediante un linguaggio molecolare, responsabile principale della coesione sociale, che assolve i compiti un tempo assegnati da Maurice Maeterlink al fantomatico "spirito dell'alveare". Per qualche tempo un'ape morta emette dei feromoni, in altre parole continua a colloquiare chimicamente con l'ape viva, e contribuisce così a rendere meno letale la sua solitudine.


L'ape farmacista

Chi frequenta i negozi dell'Esculapio selvaggio, in cui si spacciano le "medicine naturali", o una farmacia evoluta, con qualche vocazione omeopatica, avrà notato, da un po' di tempo, tra i sacchetti d'erbe odorose e i balsami vegetali, dei flaconcini con tappo contagocce, pieni di un liquido giallo cupo. Il farmaco, che di questo si tratta, consigliato come cicatrizzante, ottimo per le ferite del cavo orale, sembra funzionare come antibatterico e come antimicotico. Il principio attivo è una sostanza dal nome grecizzante: la propoli. Le sue origini sono per lo meno singolari: viene elaborata negli alambicchi misteriosi di quella piccola fabbrica biotecnologica che è l'alveare. Dopo il boom del miele, del polline, della pappa reale, riscoperti come apportatori di benessere fisico, la propoli è salita, in questi ultimi anni, alla ribalta della celebrità. Viene ormai prescritta anche da medici solo un po' eclettici e i farmacologi ufficiali di tutto il mondo la stanno studiando per mettere in formule le sue proprietà.

Per le api la propoli è, tanto per cominciare, una sorta di superstucco. Ne raccolgono il materiale di base sulle gemme di certe essenze legnose, e nei loro laboratori fisiologici lo manipolano mediante enzimi e secrezioni, impiegando il prodotto finale come calcina duttile per chiudere le fessure dell'alveare, o per alzare degli ostacoli, dei cavalli di Frisia a misura degli invasori, sull'entrata dell'arnia (da cui il nome propoli, ovvero "davanti alla città"). Si pensa, e certo a ragione, che la sostanza non serva solo a cementare e a stuccare, ma che sia responsabile della salute del popolo delle api, che vive in un ricovero umido, e a forte densità, condizioni favorevoli alle epidemie.

Questa funzione primordiale e sanitaria della propoli darebbe ragione delle sue qualità terapeutiche, che qualcuno spergiura di aver scoperto oggi! Diamine, se anche Plinio il Vecchio ne parlava... I legionari romani non partivano mai per le loro gloriose campagne senza avere in saccoccia un grumo della benefica propoli, toccasana per le ferite. In un'epoca più recente, all'inizio del XX secolo, durante la guerra dei Boeri, prima che venissero scoperti gli antibiotici, è stato un distillato della propoli, la propolisina, a salvare dalle infezioni e dalla morte migliaia di soldati feriti in battaglia.

Viva la propoli, dunque, ma non si esagerino al di là del lecito le sue virtù. C'è chi afferma che la propoli sarebbe perfino un insetticida ecologico. Ragioniamo un po': come potrebbe? L'ape, che la fabbrica, non è un insetto?


L'ape guerrafondaia

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I miei gatti e qualche cane



Il gatto allo specchio

Il mio gatto è allo specchio. Fissa con una certa curiosità, e forse un po' di tensione, la propria immagine riflessa.

D'un tratto si alza, per dir così, in piedi, puntellandosi con le zampe anteriori contro la superficie magica che sta tra lui – questa sembra essere la sua ipotesi – e quell'altro gatto un poco irreale, quasi un fantasma, che si muove "al di là": come Alice nel romanzo di Lewis Carroll, il mio amicone si adopera per andare oltre lo specchio, a raggiungere quel sé stesso non riconosciuto come tale. Alla fine desiste, pieno di inquietudine.

Possiamo affermare senza tema di smentite che non sa superare la prima fase del rapporto tra il bambino e lo specchio, quella prima fase che lo psicoanalista Jacques Lacan ha posto ai primordi della nascita dell'io. In tal senso, non riconoscersi allo specchio equivale a non conoscersi come individui, per cui il mio gatto, per altri versi notevolmente intelligente, rivela in questo frangente una debole coscienza di sé. Ma non è certo così per tutti gli animali, soprattutto per quelli più evoluti, come le scimmie antropomorfe, dotate sicuramente di autoconsapevolezza.

Charles Darwin pose, una volta, uno specchio davanti a due oranghi, e accertò come essi si comportassero più o meno come il mio gatto. Ma se il grande naturalista non si fosse accontentato di queste sommarie osservazioni e avesse fatto qualche esperienza sottile, avrebbe scoperto delle cose quanto mai istruttive. Una volta, per esempio, uno scimpanzé venne narcotizzato e gli fu spruzzata sulla testa della vernice di colore rosso. Uscito dal sonno artificiale, il bell'addormentato nello zoo fu portato davanti a uno specchio. L'animale osservò attento la propria immagine e fece il gesto cruciale. Ispezionò con le dita la macchia ma, si badi bene: non sulla testa di quell'altro, che stava nello specchio, ma sulla propria. Si "riconosceva", ergo: si "conosceva".


Il gatto un po' genio

Nei giardini zoologici, belli o brutti che siano, gli animali impazziscono. D'altra parte, nelle nostre grandi città, prigionieri della civiltà delle macchine e della folla, gli uomini danno sempre più frequentemente di matto.

Anche i piccoli amici, che alleviamo e curiamo amorosamente nei nostri appartamenti, cani e gatti soprattutto, pagano le nostre attenzioni con la frustrazione e la nevrosi. D'accordo, non sono delle tigri. Li abbiamo modellati fin dalla preistoria a nostra immagine, li abbiamo selezionati perché meglio accettassero di vivere con noi.

In realtà, è sufficiente che un passero si posi e cinguetti ignaro sul davanzale di una finestra, perché il pacioso gatto di casa subisca una perversa trasformazione.

Chi sarà mai quella piccola belva con gli occhi sulfurei e le unghie pronte allo scempio? Povero mister Hyde: che tristezza non potere uccidere! In un mondo che gli altri, e non lui, hanno "moralizzato", il povero Fuffi è un assassino in astinenza per mancanza di vittime. Alcuni dei suoi fasti e nefasti denunciano apertis verbis che è ormai un animale un po' pazzo.

Mescola comportamenti sensati ad altri che avevano, un tempo, per la specie, un loro significato biologico, ma che ora sono messi in atto a vuoto, a riprova dello stato confusionale della bestiola.

Per esempio, il mio gatto da qualche anno, con l'intuizione e forse anche con l'osservazione, entrambe prodigiose, ha scoperto la destinazione del water-closed, e ne fa uso, per lo meno per i "rifiuti liquidi", e non solidi, del suo organismo.

Lo osservo all'opera: con il corpo in precario equilibrio sulla tazza, la coda eretta e il posteriore spinto sul vuoto, assolve la sua funzione fisiologica. Che genio!, si griderebbe. Ma ora, che cosa fa? Con le zampe spazza per bene la ciambella, "come se" volesse coprire con la terra i1 suo escreto. Se fosse in giardino, la cosa andrebbe bene, ma qui? A che cosa serve più tutto quel suo darsi da fare? A nulla: ergo, il gattone è nevrotico.

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Il cane simulatore

Una delle strategie più comuni del nevrotico, studiata per bene da Adler, consiste nel fingersi perpetuamente malato, oppure, che è in fondo lo stesso, nell'occultare la sopravvenuta guarigione. Si vuole, in tal modo, catturare la benevolenza e ottenere il gradevole risultato di porsi al centro dell'attenzione universale. "Poveretto, soffre tanto!", queste parole riempiono di esultanza il malato immaginario, perché acquista la certezza di essere amato, e che comunque si continua a parlare di lui.

Bene, sembra che anche tra i cani sia stata osservata questa perversa tendenza a perdurare nella malattia, esibendone certi sintomi anche dopo che il veterinario ha decretato la guarigione completa. È chiaro come si attiva, nel proverbiale "amico dell'uomo", questa nevrosi di sapore molieriano: il cane si è raffreddato e ha cominciato a tossire. Ed ecco che il padrone diventa più sollecito: gli propina, forse, qualche cattiva medicina, ma in compenso lo coccola, lo prende in braccio, gli parla con grande dolcezza.

Il cane non è mica scemo: ben presto collega la tosse a tutte quelle attenzioni, e nota che se diminuisce, calano anche le coccole. Dunque, sarà pur lecito simulare un po' di tosse, che diamine! Un mio collega, uomo non uso a contar frottole, mi ha raccontato che il suo cane ha continuato a zoppicare anche dopo che la ferita al piede si era perfettamente cicatrizzata. Al punto che si sospettò che un frammento dell'iniquo chiodo fosse rimasto in loco, ma ogni investigazione in tal senso non diede alcun risultato.

Secondo gli studiosi di queste singolari nevrosi, è necessario prestar molta attenzione se si decide di smascherare il simulatore. Un brusco intervento (per esempio, afferrare e scuotere la zampa "psicomalata") può evocare una crisi d'ansia, per cui il povero cane cade in una depressione prolungata e manifesta aggressività. Non fa piacere essere trattati da bugiardi, soprattutto se lo si è!

Si consiglia, questa è la cura, di far calare piano piano le attenzioni, finché cane e padrone ritrovino il loro comportamento reciproco di sempre. Esiste, allora, una possibile psicoanalisi degli animali?


La cagna isterica

Uno dei fenomeni più surreali, e strani, è la cosiddetta gravidanza isterica, croce e delizia dei sostenitori della medicina psicosomatica. Una donna, colpita da una vera e propria ossessione frustrata di maternità, fantastica di essere incinta e siccome, come dice la canzone della Cenerentola di Walt Disney, i sogni son desideri, quel desiderio finisce per iscriversi nel corpo e per forzare, da contrabbandiere, i confini del reale. Alla finta gravida cessano le mestruazioni, ed ella cade preda di nausee, capogiri e vomiti, come se fosse al secondo o al terzo mese; il suo ventre, poi, si ingrossa in proporzione. Finché, ovviamente, il delirio perde quota e tutto finisce nel niente, il sogno torna sogno, e il ventre fa puff, e svanisce come una bolla di sapone.

Una persona degna di fiducia, il cui padre alleva cani per scopi venatori, da me aspramente riprovati, e che per la incongruenza del cuore umano ama i gatti, ma sicuramente meno le lepri e i fagiani che fucila senza pietà, mi ha raccontato una storia che trovo strabiliante, ma che è suffragata dallo spergiurare di numerosi testimoni oculari.

Il cacciatore non-pentito, e cinofilo, possedeva due cani bracchi italiani, se ben ricordo, due femmine che vivevano insieme in perfetta concordia. Una delle due venne un bel giorno destinata alla riproduzione, ma l'esclusa, selezionata sessualmente, sopportò male la cosa e decise di prendersi una rivincita nell'immaginazione. Si "inventò" così una gravidanza, crebbe di volume, e quando l'altra partorì le sue mammelle si gonfiarono per bene di latte. Era, in tal modo, pronta ad affrontare i compiti di madre del desiderio, e li assolse non nel sogno, ma nel reale.

Fu così che la cagna "isterica" diventò una balia in piena regola, e con grande stupore il "padrone" poté assistere alle gesta di una famigliola molto particolare. Metà della cucciolata venne allattata dalla madre vera, e metà dalla madre "vicaria", e non risultò a nessuno che l'una fosse, alla fin fine, più efficiente dell'altra. I quattro piccoli crebbero sani e robusti, e vissero comunque tutti felici e contenti.

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