Copertina
Autore Laura Cerasi
Titolo Perdonare Marghera
SottotitoloLa città del lavoro nella memoria post-industriale
EdizioneFrancoAngeli, Milano, 2007 , pag. 190, cop.fle., dim. 15,5x23x1,4 cm , Isbn 978-88-464-8662-2
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe storia contemporanea d'Italia , citta': Venezia , storia sociale , lavoro
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Indice

Prefazione, di David Forgacs                    7

1.  Processare Marghera                         15

    1. Fiamme a Porto Marghera                  15
    2. Condannare Marghera                      22
    3. Un «crimine di pace»

2.  La città del lavoro                         35

    1. «Una città nella città»                  35
    2. Modernità della grande Venezia           38
    3. Marghera, Italia                         51

3.  Memorie di luoghi                           59

    1. Delimitare la fabbrica                   59
    2. Memoria di luoghi, memoria divisa        65
    3. Tempo della fabbrica, tempo di guerra    72

4.  Conflitti di memoria                        77

    1. Occultamento                             77
    2. Innocenza                                82
    3. Malinconia                               90

5.  Perdonare Marghera                          99

    1. Passato, presente, futuro in conflitto   99
    2. «Non potete chiudere davvero!»          107
    3. «La potremo mai perdonare?»             116

Testimonianze                                  121

 

 

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Pagina 7

Prefazione

di David Forgacs


Via Fratelli Bandiera, la lunga strada alberata che costeggia la zona industriale di Porto Marghera separandola dal quartiere residenziale di Marghera, è ricordata da S.P. come, nel passato, «una barriera, di là c'erano le fabbriche, quindi gli operai, il mondo operaio, e qui tutti gli abitanti». Lo stesso testimone ricorda che negli anni Cinquanta e Sessanta «Marghera era visto dagli altri, e da noi anche, come il Bronx, come una zona abbastanza pericolosa. Noi ci vivevamo sapendo che Mestre era meglio». Un altro residente, M. C., parla della zona industriale come di «un altro pianeta»: entrarvi era «come andare su Marte». Altri ancora, nelle testimonianze orali raccolte in questo libro da Laura Cerasi, si riferiscono alla zona industriale con il termine «la fabbrica», al singolare, come per farne una cosa sola, un'unica realtà di lavoro alienante, lotte sindacali e inquinamento. Perfino lo stesso nome «Petrolchimico», associato pubblicamente al processo conclusosi nel 2004, si riferisce a numerosi impianti produttori di Cvm-Pvc appartenenti, dagli anni Settanta in poi, ai gruppi Montedison, Enichem ed Enimont.

Metafore toponimiche esotiche: «il Bronx», «Marte». Metonimie che racchiudono realtà multiple in sostantivi singoli. Linee di confine materiali che acquistano valenze simboliche fino a connotare una separazione tra due mondi. Confronti fortemente valutativi tra un luogo e l'altro — oltre al confronto in negativo con Mestre, separato da Marghera dalla ferrovia e dalla strada che passano sopra il ponte traslagunare, c'è quello, ancora più negativo per gli abitanti di Marghera, con Venezia e con il suo ricco patrimonio storico e artistico. Che cosa hanno in comune questi modi di parlare di luoghi in cui, o accanto ai quali, si vive? La risposta è che sono tutti modi di crearsi un sistema spaziale immaginario, un sistema che rivela, spesso in modo inconscio o semiconscio, l'esperienza del vivere in quei posti, che comunica il luogo come cosa vissuta.

Sarebbe erroneo considerare le descrizioni di un luogo fatte da chi lo conosce un mero supplemento soggettivo alla sua realtà oggettiva. Il luogo disegnato su una mappa, delimitato dai suoi confini amministrativi o definito quantitativamente dai censimenti ha, certo, una sua realtà, una sua esistenza ufficiale. Ma sono altrettanto reali le rappresentazioni del luogo fatte «dal basso», da chi ci vive. Anzi, in un certo senso sono più reali. I luoghi come realtà culturali sono prodotti da noi, creati dai nostri percorsi quotidiani, dalle descrizioni che ne facciamo, dai nostri racconti su essi. Se i luoghi non fossero abitati e frequentati da persone che vi lasciano la loro impronta non esisterebbero o almeno non esisterebbero come luoghi, nel senso di posti carichi di significati umani. Sarebbero spazi vuoti, deserti.

Se questo vale per il presente, vale ancora di più per il passato, dato che la memoria tende spesso a conservare un'immagine molto nitida di un luogo anche quando non esiste più o quando la sua struttura materiale è cambiata – ad esempio una casa di un quartiere periferico che cinquanta anni fa dava sui campi e ora è racchiusa in un fitto reticolo di strade e edifici – o quando la persona che lo ricorda non vi abita da anni. La memoria, in casi come questi, crea tipicamente versioni stereotipate e nostalgiche del luogo nel passato, a differenza delle immagini dei luoghi frequentati nel presente che sono rese più fluide dalle nostre interazioni con essi. La persistenza del luogo nella memoria non si limita alla memoria visiva ma coinvolge anche gli altri sensi. Così, a Marghera, S.P. ricorda ancora oggi il suono della sirena della Vidal – la grande fabbrica di sapone chiusa ormai da anni – e l'odore di bagnoschiuma «che entrava nella mia cucina mentre mangiavo».

Allo stesso tempo, però, la memoria, come scrisse Primo Levi, «è uno strumento meraviglioso ma fallace» e non sempre funziona con tale chiarezza. Anzi, a volte può verificarsi il contrario: ci si dimentica com'è stato un luogo nel passato, ci si confonde nel ricordarlo. Quando un luogo cambia forma e aspetto – ad esempio a causa di demolizioni o danni bellici, di nuove costruzioni o di modifiche al sistema stradale – possono essere cancellati i punti di riferimento che erano serviti in precedenza all'orientamento corporeo di coloro che vi abitavano. Allora può succedere che alcuni fanno fatica a ricordare il luogo di prima, devono fare uno sforzo per ricostruirlo, con l'aiuto forse di vecchie fotografie o descrizioni scritte. La memoria di un luogo in un dato periodo può anche modificarsi secondo eventi importanti avvenuti successivamente. In questi casi può capitare che uno proietti retrospettivamente sul luogo una memoria deformante. Un esempio di questa tendenza, lucidamente illustrata da Laura Cerasi, è la rappresentazione, riscontrabile in molti ricordi recenti, di tutto il passato industriale di Porto Marghera come negativo, da respingere. Si tratta di una visione evidentemente influenzata dalla deindustrializzazione e dai fatti recenti collegati al caso Petrolchimico – le malattie causate negli operai dall'uso di sostanze velenose senza protezioni adeguate, il successivo processo, la sentenza – che hanno creato una nuova memoria del passato industriale che si è sovrapposta a quella precedente fino a sostituirla. Ebbene, come nota giustamente l'autrice, è proprio così che funziona la memoria: essendo collocata nel presente, come atto del ricordare, parte sempre dal presente per riandare al passato, anche quando si presenta come una rievocazione autentica che viene dal passato.

Inoltre, le memorie del passato che circolano in un dato luogo sono raramente omogenee. In questo senso la nozione di una «memoria collettiva», che risale allo studio fondamentale di Maurice Halbwachs, Les Cadres sociaux de la mémoire, pubblicato nel 1925, risulta fuorviante se viene presa alla lettera, cioè come una memoria condivisa da un'intera comunità o società. Infatti una delle osservazioni fondamentali di Laura Cerasi nel presente libro è che la memoria sociale a Marghera è diventata, per riprendere il concetto messo in circolazione alcuni anni fa da Giovanni Contini, una memoria divisa. Per molti abitanti del quartiere la responsabilità dell'inquinamento prodotto dalla zona industriale viene infatti attribuita non tanto a coloro che effettivamente ne furono responsabili – i proprietari degli impianti, le grandi imprese petrolchimiche – ma ai lavoratori che materialmente portarono avanti l'attività di quegli impianti, anche se sono stati quegli stessi lavoratori a respirare e a ingerire le sostanze velenose e a ammalarsi. I lavoratori stessi naturalmente non accettano tale responsabilità e si vedono come vittime di padroni irresponsabili ma ora anche dell'incomprensione dei residenti. Così, due gruppi di persone che frequentano Marghera si trovano a contestare la memoria del suo passato industriale.

Questo libro è nato di una ricerca di gruppo, basata all'University College London, dove insegno, e portata avanti sotto la mia direzione dal 2001 al 2005. La ricerca ha avuto il titolo generale «Memory and place in the twentieth-century Italian city» ed è consistita, oltre ad un intenso scambio di idee, letture e discussioni di metodologia, in una serie di case studies, svolti sul campo da ciascuno dei principali membri del gruppo – Laura Cerasi, John Dickie, Nicholas Dines, John Foot, David Forgacs – su cinque città italiane o ad essere più precisi su particolari quartieri o zone di queste città, dove sono avvenuti nel ventesimo secolo dei cambiamenti bruschi e drammatici (bombardamenti, terremoti) oppure più lenti (industrializzazione, deindustrializzazione) o entrambi. Le città che abbiamo studiato erano, oltre a Marghera (che è stata bombardata dagli Alleati il 28 marzo 1944 e che ha visto nascere e morire, nell'arco di meno di sessanta anni, molti impianti industriali, con relativi cambiamenti demografici), Roma (San Lorenzo, che ha subito gravi danni nel bombardamento del 19 luglio 1943 e dove si sono vissute notevoli trasformazioni socioeconomiche), Messina (quasi interamente distrutta e ricostruita dopo il terremoto del 28 dicembre 1908), Napoli (Quartieri Spagnoli e Montesanto, due quartieri popolari danneggiati dal terremoto dell'Irpinia del 23 novembre 1980) e Milano (Bovisa e Pero, quartieri periferici che, come Marghera, hanno vissuto il lungo ciclo di industrializzazione e deindustrializzazione).

Lo scopo principale della ricerca nel suo insieme era di capire come, in tutti questi casi, la memoria degli abitanti interagisce col luogo, sia nei modi a cui ho accennato sopra (il racconto orale come costitutivo di certe immagini del luogo, nostalgiche o negative che esse fossero, perfino «false»; la memoria divisa o contestata) sia in altri sensi: ad esempio, i rapporti instaurati dagli abitanti con la memoria «ufficiale» codificata nei monumenti e nelle lapidi commemorative, oppure con le case danneggiate e mai ricostruite dopo un terremoto o un bombardamento o con le ex-fabbriche, lasciate in disuso oppure riconvertite. Ai fini della nostra ricerca ciascuno di noi ha scritto un saggio – quello di Laura Cerasi ha costituito il nucleo del presente libro – e ha ideato e diretto un film, un «videosaggio», della durata, dopo il montaggio, di una cinquantina di minuti, nel quale sono state raccolte alcune delle testimonianze orali e col quale sono stati esplorati il luogo e le sue interazioni con la memoria, anche tramite filmati di repertorio e vecchie fotografie. Per questa parte della ricerca abbiamo avuto la preziosa collaborazione del Department of Media Arts di Royal Holloway, University of London, e del collega John Quick. Le riprese e il montaggio sono stati curati da Daniel Sayer, che per tutti noi è stato non solo una fonte costante di stimoli e di suggerimenti tecnici ma anche un collaboratore creativo nel senso pieno del termine.

Come équipe siamo diventati, nel corso della ricerca, più sensibili ai diversi tipi e significati di «memoria». Infatti il termine stesso viene usato comunemente in almeno due sensi diversi che spesso si confondono, e a volte si sovrappongono, ma che converrebbe tenere distinti: da una parte i contenuti della mente, dall'altra le rappresentazioni del passato. Il primo tipo è spesso concepito come un fatto del tutto privato e interno (nonostante che, dopo Halbwachs, si è teso a sottolineare di più l'aspetto sociale e culturale dei nostri processi mnemonici) e la memoria in questo senso viene immaginato esso stesso come «luogo», come una sorta di deposito o archivio mentale, tant'è vero che si sente dire talvolta da qualcuno che ha «perso» qualcosa che stava prima «nella memoria». Si tratta, com'è noto, di un modo molto antico di concepire la memoria che si collega tra l'altro all'arte mnemonica, insegnata agli oratori greci e romani, come memorizzazione di una serie di luoghi («loci») dove fissare e schedare le immagini mentali delle parti di un discorso. Il secondo tipo è invece la memoria come processo in atto, volta verso l'esterno, verso interlocutori e ascoltatori: l'atto del ricordare e del raccontare in pubblico. Si tratta della memoria come narrazione di eventi nel passato (e così si parla di «trasmissione» di memorie, di «passaggio» di memorie attraverso le generazioni).

Inoltre, conviene distinguere tra memoria consapevole, la cosiddetta «declarative memory», e quella involontaria, la memoria di eventi o cose viste, oppure di gusti, odori o sensazioni tattili, che scatta fortuitamente, come il passato rievocato dal sapore della madeleine inzuppata nel té nel romanzo di Proust. E bisogna anche riconoscere, tra questi due tipi di memoria, la memoria abitudinaria, la «habit memory», quel tipo di memoria inconscia o semiconscia di azioni e gesti ripetuti che può imprimersi sul corpo fino a diventare parte della stessa appartenenza del soggetto alla società, come ad esempio la memorizzazione di un percorso fatto ripetutamente attraverso la strade della città oppure di una serie di azioni semivolontarie, come l'andare in bicicletta o il guidare un'automobile. Infine bisogna distinguere le forme ufficializzate di memoria, che propongono versioni istituzionalizzate del passato (come ad esempio le commemorazioni di ricorrenze storiche, di vittime di stragi, di «giornate della memoria»), dalle memorie informali, ufficiose, poco strutturate ma a loro volta anche spesso fortemente strutturanti, nel senso che creano versioni molto rigide del passato.

Tutti questi tipi di memoria, va sottolineato, hanno a che fare con i nostri rapporti con i luoghi e tutti si trovano esemplificati concretamente nella ricerca di Laura Cerasi e nelle testimonianze da lei raccolte. A un certo punto l'autrice osserva, giustamente, che tra gli storici e gli altri studiosi vi è stata una tendenza recente ad identificare i cosiddetti «luoghi della memoria» unicamente con il primo tipo di memoria, quella istituzionale, che poi diventa parte di un progetto consapevole, anche politico, di promuovere la memoria civile o sociale in una società in cui, almeno così si pensa e si sostiene, tale memoria è sempre più minacciata dalla tendenza della società moderna e postmoderna a produrre l'oblio. Il libro della Cerasi, come il nostro progetto più in generale, è più interessato invece alla memoria dei luoghi nel secondo senso: quella informale, sia pure strutturante.

Questo libro è certamente uno dei prodotti più ricchi della nostra ricerca di gruppo, più denso di riflessioni metodologiche e più interessante come analisi di un «caso». Non va dimenticato che esiste anche in parallelo al libro, il bellissimo film di Laura Cerasi, Marghera, Porto Marghera, che era originariamente una parte integrante della ricerca, sia come metodo di indagine che come mezzo di diffusione, e che dà sostanza visiva e uditiva a molte cose contenute nel libro, comprese alcune delle testimonianze e delle descrizioni dei luoghi. Chi non sa niente di Marghera troverà qui in nuce, corredata da molti dati, la sua storia urbanistica e quella del porto industriale dai primi anni venti, quando nacque il quartiere, a oggi. Ma troverà anche molto di più. Troverà una Marghera raccontata nelle parole dei suoi abitanti e da alcuni «esperti». Troverà una serie di mappe mentali, di narrazioni soggettive del luogo, che comunicano con grande efficacia la complessità e densità di questo caso unico di memoria inquieta e divisa.

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1. Processare Marghera


1. Fiamme a Porto Marghera

Oggi è un giorno che non sarà dimenticato, nella storia del Petrolchimico e dei paesi che gli stanno intorno. Il giorno in cui tutti - ma proprio tutti, compresi i sindacalisti chimici che della fabbrica velenosa sono sempre stati i difensori più decisi — dicono che bisogna smettere di campare con la morte dietro l'angolo. Lo scoppio dell'altra sera al reparto Tdi della Dow Chemical, la nube che si alza, la popolazione messa in allarme con 50 minuti di ritardo, le sirene che urlano.


La sera del 28 novembre 2002 uno sversamento di peci clorurate nel reparto Td5 dell'azienda Dow Chemical, all'interno dell'area del Petrolchimico di Porto Marghera, ha generato un incendio di vaste proporzioni in prossimità di un serbatoio di fosgene, un gas letale se inalato anche in piccole quantità, necessario al ciclo di produzione del Tdi (toluendisocianato), un prodotto chimico di base per la produzione di poliuretani, che vengono utilizzati per ottenere imbottiture, calzature, sedili e cruscotti per auto, vernici, adesivi. Nello scoppio sono stati investiti e intossicati leggermente quattro operatori addetti agli impianti. Il serbatoio è stato solo lambito dall'incendio e l'esplosione, che avrebbe ucciso parte della popolazione di Marghera, Mestre, Venezia e del territorio contermine, non si è verificata. Sul posto sono intervenuti tempestivamente i pompieri del nucleo interno e poi i vigili del fuoco, e lo scoppio di un secondo serbatoio, a distanza di circa un'ora dal primo, ha provvidenzialmente bloccato l'estendersi delle fiamme. Le sostanze bruciate nel rogo delle peci clorurate hanno liberato nell'atmosfera una nube tossica, che le analisi hanno accertato contenere sostanze nocive, come acido cloridrico e diossine.

Solo le particolari condizioni atmosferiche e la singolare assenza di vento hanno fatto sì che la nube non raggiungesse rapidamente i centri abitati – che ne hanno ricevuto comunque una parte sensibile – e ricadesse invece a pioggia sopra gli impianti. Una serie di circostanze fortunate, insomma.

Non era il primo incidente a Porto Marghera, né il primo incendio, né la prima nube tossica. Ma in quell'occasione la popolazione della terraferma e di Venezia insulare è stata allertata dalle sirene – seppure, è stato notato, con un certo ritardo, quando ormai l'incendio era sotto controllo – e i comunicati hanno diffuso la raccomandazione di rimanere in casa e bloccare tutte le prese d'aria esterne, come era stato spiegato da un'esercitazione della Protezione civile che si era svolta proprio poche settimane prima dell'incidente. Le fiamme, le sirene, gli altoparlanti, lo stato di allerta cittadino, la dispersione di diossine nell'aria, le immagini in tv del sindaco Costa in visita sul posto con la maschera antigas: l'esperienza della sera del 28 novembre ha depositato nella cittadinanza la sensazione di un disastro sfiorato. Nella sensazione comune, tuttavia, si è trattato della rappresentazione di un disastro "avvenuto", pur in assenza della morte di massa e del lutto collettivo. Le emozioni sollecitate dall'evento hanno mostrato una diffusa predisposizione alla catastrofe, alla percezione di ciò che sarebbe potuto accadere "come se" fosse realmente avvenuto. E i mezzi di comunicazione, locali e nazionali, ne hanno immediatamente dato conto: «Le immagini che la televisione, ai primi notiziari speciali, hanno rovesciato in casa nostra sembravano uscite da una produzione hollywoodiana. Automobili con lampeggianti furiosi, uomini in tuta bianca e maschere antigas della speciale unità per i disastri chimici, ambulanze».

Il dibattito dei giorni successivi all'incidente registrava toni accesi e reazioni radicali. Nessuno è sembrato intenzionato a minimizzare. Anzi. Il pm Felice Casson ha subito aperto un'inchiesta per incendio colposo. La presenza di Porto Marghera è apparsa a tutte le latitudini portatrice di un rischio intollerabile, un «sistema industriale prossimo al collasso», una «continua e permanente emergenza ambientale». «Non fateci fare la fine dei topi, dateci le maschere antigas», era la richiesta di gruppi di cittadini di fronte alla sede del Municipio. «Spremono le fabbriche come limoni, poi se ne vanno. Siamo in una delle stagioni più pericolose della storia di Marghera. Dobbiamo chiudere, riconvertire». «Quanto è accaduto giovedì scorso impone immediatamente delle scelte precise da parte dei partiti, del sindacato, delle istituzioni e delle organizzazioni sociali, prima che la fortuna ci abbandoni e ci ponga di fronte a tragedie di portata inimmaginabile».

Per una parte della cittadinanza l'incidente del 28 novembre 2002 al reparto Tdi ha rappresentato l'occasione per una presa di posizione netta contro la permanenza in prossimità del centro abitato delle lavorazioni "sporche" della chimica di base, come quelle interessate al ciclo del cloro, fra le quali è compresa la lavorazione del fosgene, frequentemente definito "gas di guerra", per essere stato utilizzato fin dal primo conflitto mondiale contro le truppe e le popolazioni. L'incidente è considerato un «punto di svolta», per aver evocato la concreta possibilità del rischio chimico e del disastro ambientale, cui segue la richiesta di chiusura immediata degli impianti ritenuti pericolosi. Allora «Incendio a Marghera», «Via il fosgene subito», «Petrolchimico come il Vajont» sono le parole d'ordine per una mobilitazione spontanea di cittadini, che ha sperimentato forme interessanti di partecipazione e organizzazione; dal 28 febbraio 2002 ogni settimana alla Municipalità di Marghera si riunisce un gruppo di informazione, studio e sensibilizzazione sul problema del rischio chimico raccogliendo notizie, verificando dati e organizzando iniziative rivolte alla cittadinanza per raccogliere consenso alla richiesta di chiusura degli impianti del ciclo del cloro: dalla raccolta di firme, alle biciclettate domenicali, all'organizzazione di dibattiti, fino alla proposta di un referendum cittadino — di cui tratteremo più oltre — che si è tenuto nell'inedita forma del sondaggio postale nel giugno 2006. Nelle parole di uno degli animatori, il fenomeno di auto-organizzazione sorto in seguito all'incidente al Tdi — «che ha ricordato a tutti i veneziani il terribile significato del termine "rischio chimico"» — «all'esigenza di autodifesa dal "rischio invisibile" aggiunge approfondimento e informazione, in pieno contrasto con un radicato settarismo corporativo, secondo il quale solo gli "addetti ai lavori" possono comprendere le complessità delle produzioni chimiche».

In realtà, la trasformazione di un gruppo spontaneo in un soggetto pubblico in grado di agire sull'opinione pubblica locale e di esercitare un'azione di lobbying e di contrattazione con i soggetti istituzionali preposti a governare la complessa materia industriale, se realizza un fatto di innegabile partecipazione democratica, non è tuttavia un fenomeno privo di contraddizioni. Si inserisce, infatti, in una complessa dinamica di rapporti fra gli enti locali preposti al governo dell'area, le strategie delle aziende proprietarie, gli interessi dei lavoratori e delle loro rappresentanze, quelli della popolazione residente, e financo le iniziative della magistratura, che affondano le radici nelle difficoltà a governare lo sviluppo mostrate dagli ultimi decenni di storia industriale del nostro paese, nei percorsi cioè della riallocazione di risorse e attività produttive seguiti alla crisi della fase di crescita "fordista" dei secondi anni Settanta. Il cui svolgimento più recente, per Porto Marghera, va fatto risalire almeno ad un documento di programmazione degli interventi di regolamentazione e ammodernamento degli impianti industriali del settore chimico, sottoscritto alla fine degli anni Novanta fra i soggetti istituzionali preposti al governo dell'area, le rappresentanze delle organizzazioni sindacali e quelle della proprietà, allora costituita soprattutto da Enichem.

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2. La città del lavoro


1. «Una città nella città»

Una città nella città. Tutto quello che si vede fa parte della Montedison, tutta area di industria chimica. In quell'area là c'è il famigerato impianto del Cvm, quello che ha creato non pochi guai a tanti lavoratori, c'è anche un processo in corso. Qua invece abbiamo tutta l'area dove una volta si faceva l'alluminio. Era divisa fino a una quindicina di anni fa in due parti. La parte di là, che ora vediamo tutta spianata, c'erano i forni dove si faceva proprio l'alluminio, si colava l'alluminio, mentre in quest'area dove siamo noi si facevano gli anodi. [...] Tutta questa area qua, la più grande che sia stata chiusa a Marghera, è stata recuperata, non più di dieci anni fa, è stata recuperata, è stata chiusa, ed è cominciata una trasformazione che ha portato i lavoratori che erano metalmeccanici a diventare lavoratori portuali. Tutta un'altra storta.


Il sito da cui S.C. indicava due fra i principali siti produttivi di Porto Marghera — l'area chimica e quella dell'alluminio, storicamente le produzioni base del porto - era la sommità di uno dei silos del Centro Intermodale Adriatico, situato all'estremità della zona Ovest, da cui si domina tutta l'area industriale. La zona Ovest fa parte del territorio di più antico insediamento degli stabilimenti, la cosiddetta "prima zona", fondata nel primo dopoguerra: costeggia da un lato via fratelli Bandiera, l'arteria che separa la zona industriale dall'abitato di Marghera e congiunge quest'ultima al cavacalcaferrovia di Mestre. e dall'altra il canale navigabile Ovest, per l'approdo delle grandi imbarcazioni. Proprio per la sua prossimità al nodo stradale urbano, la zona Ovest è stata sede di una composizione molto eterogenea e variabile di impianti: vi hanno prevalso in una prima fase gli stabilimenti medio-piccoli, in genere di estrazione locale, attirati dalle facilitazioni concesse per l'insediamento iniziale, presto però allontanatisi per lasciare spazio a imprese più potenti. Fra le due guerre qui si trovavano officine meccaniche ed elettriche, impianti di materiali edili, cementifici, piccole fabbriche chimiche. È qui che erano situate le industrie alimentari (la Chiari e Forti, la Riseria Italiana; ora rimane la Grandi Molini), le officine Berengo, ancora operative, le industrie meccaniche come la Metallotecnica e lo stabilimento ottico di precisione Galileo, industrie tessili come il Cotonificio Veneziano e il Feltrificio Veneto, il saponificio Vidal, oggi tutte cessate. Nella sua parte meridionale, che si affaccia sul canale Brentelle ed è prospiciente l'area del Petrolchimico, si sono insediati invece alcuni degli impianti più importanti e storicamente significativi del porto industriale: la centrale termoelettrica della Sade, costruita fra le prime, nel 1926, una delle creature di Giuseppe Volpi; la società elettrometallurgica San Marco, per la produzione di ghisa e silicio, anch'essa controllata da Volpi, la società Miniere e cave del Predil, impresa mineraria per l'estrazione dello zinco, di proprietà Montecatini, e soprattutto la Società alluminio veneta anonima (Sava) di proprietà di un gruppo di industriali veneti associati alla svizzera Alusuisse, che avviata nel 1927 è arrivata ad impiegare 3000 dipendenti nella produzione di allumina e alluminio, uno dei comparti qualificanti del polo industriale di Marghera. La Sava, uno dei primi stabilimenti ad entrare in crisi negli anni Settanta, dopo una serie di ristrutturazioni ha proseguito la produzione di alluminio fino ai primi anni Novanta, fino a cessare completamente l'attività produttiva per riconvertire l'utilizzo dell'area in servizi di movimentazione intermodale, come accennava S. C. nella sua presentazione.

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Porto Marghera è tutta dentro la modernità novecentesca, la rappresenta. Fin dai primi decenni di attività, è profondamente radicata nei caratteri del suo tempo: nella natura "strategica" dei comparti produttivi più forti, funzionali alle necessità di un'industrializzazione di base; nel privilegiamento delle ragioni della grande industria, risultato dall'azione combinata di interessi privati e pubblici nell'ottenere appoggio governativo e nell'inserirsi negli indirizzi cruciali della politica economica; nel modello sociale autoritario dei rapporti di lavoro, dove prevale l'utilizzo di manodopera poco qualificata, il regime di bassi salari, la dura subordinazione della forza lavoro alla disciplina di fabbrica. Quest'ultimo aspetto è stato accuratamente documentato, mostrando come la politica imprenditoriale si orientasse verso il reclutamento di manodopera di origine contadina, proveniente dalla cintura di paesi contermini, poco qualificata, formata alle mansioni all'interno della fabbrica, disposta ad accettare i duri ritmi di lavoro e la rigida organizzazione interna, piuttosto che ricorrere ai settori operai della città insulare, più qualificati, più esperti, ma anche sindacalizzati e spesso radicati in quartieri popolari ostili al fascismo. L'impiego generalizzato della forza-lavoro contadina consentiva alla disciplina di fabbrica di conservare le gerarchie sociali dell'ambiente rurale e di mantenere un elevato controllo sociale sul lavoro. Il risultato fu la scarsissima incidenza della crescita occupazionale del porto industriale per il mercato del lavoro del centro storico veneziano, che resta in gran parte estraneo alle dinamiche di crescita indotte dal polo di terraferma: anche per il reclutamento di tecnici e operai specializzati ci si sarebbe rivolti fuori dal bacino comunale richiamando manodopera da altre regioni italiane. La crescita di Porto Marghera non si risolve, dunque, in un'occasione di lavoro per la classe operaia veneziana, che vede al contrario declinare gli impianti industriali del centro storico (il cotonificio, il mulino Stucky, le officine Junghans, la fonderia Neville, e soprattutto i cantieri dell'Arsenale), e sente maturare un sentimento di estraneità verso la grande fabbrica. Le pressioni che, per sedare gli effetti della nuova ondata di disoccupazione seguita alla crisi del '29, gli stessi sindacati fascisti insieme al federale di Venezia esercitarono sul prefetto affinché orientasse gli industriali verso una politica di assunzioni che privilegiasse finalmente gli operai veneziani, sortirono l'effetto di dividere ancor più i lavoratori-contadini dagli operai cittadini.

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4. Conflitti di memoria


Era come andare su Marte. Voi l'avete vista da fuori. Porto Marghera, tutte le fabbriche, sono una città. Non sono solo dentro Marghera, ma sono una città a fianco di Marghera, un'area vastissima. Io non ci sono mai andato dentro, l'ho sempre vista da fuori, ed era come andare in un altro pianeta. Non era bello, però era affascinante, perché i rumori, perché questi fumi che si levavano altissimi...


1. Occultamento

Al primo appello della memoria, la percezione della presenza delle fabbriche è data dai suoni e dagli odori; è una percezione indiretta, ma molto presente e fortemente inserita negli aspetti della quotidianità. Il suono ricorrente è quello che richiama la fabbrica fordista, la sirena: «Mi ricordo ad esempio il rumore della sirena. Io venivo svegliato spesso dal rumore delle sirene, delle navi o delle fabbriche, che anche se non son vicinissime, si sentono». Ed era ancor più "il fumo", lo scarico tossico delle industrie nell'atmosfera, a far percepire la vicinanza della fabbrica: «Noi vivevamo qui, il nostro mondo era circoscritto a questa zona, e delle industrie avevamo soltanto il fumo, il fumo che arrivava, molto abbondante. Quindi per noi la fabbrica era rappresentata dal fumo e dalle sirene, che ogni quattro-cinque ore definivano i turni di lavoro [...] La sirena dava il ritmo agli operai, e dava il ritmo anche alla mia vita». Era una percezione forte: «l'aria era veramente pesante, si sentiva molto che l'ambiente era inquinato», ma chiaramente collocata nel passato, circoscritta ad un «tempo della fabbrica» che ha cessato di esistere in quelle proporzioni: «Qui davanti c'era la Vidal, per cui anche la mia vita procedeva con la sirena della Vidal, che suonava all'una e mezza, quando c'era la pausa degli operai, quindi mi arrivava sia il fumo della Vidal, che produce — produceva, perché adesso non produce più — saponi e deodoranti, e mi arrivavano anche i suoni indiretti, cioè più che indiretti, diretti, perché mi entrava direttamente in cucina mentre mangiavo con i genitori; mi arrivava la sirena e poi tutti i fumi, gli odori eccetera. Quindi insomma adesso gli odori non si sentono più, le sirene neanche, e la situazione è molto cambiata».

La fabbrica, dunque, non veniva conosciuta di per se stessa. Viverci accanto non significava averne esperienza diretta, sapere davvero quali fossero le lavorazioni nocive, le sostanze tossiche, le produzioni inquinanti: «Non si ha la conoscenza di cosa è Porto Marghera, anche dalle persone che abitano a Mestre, a Venezia, o qua attorno, o anche a Marghera. Se uno non ci lavora dentro e ha la possibilità di cambiare, di andare da una parte all'altra, o di venire qua sopra, dove siamo noi, a guardarsi attorno, uno non si rende conto di questa roba qua». E non può rendersene conto, per la segregazione spaziale che isola l'area industriale: «Penso che Porto Marghera sia sentita ancora come un'incognita. Qualcosa che è da una parte, nascosto, perché quando si percorrono le strade per andare qua attorno, ci sono i muri che separano».

La barriera fisica costituita dalle protezioni di cinta sottrae la grande fabbrica all'esperienza diretta, la nasconde, la occulta. L'occultamento spaziale favorisce una forma di rimozione. Non ci si concentra sulla fabbrica in sé, sulla sua vita interna, su chi vi lavora, su cosa effettivamente si produca, su quali siano i processi che effettivamente causano danni. Si tende ad unificare la presenza della fabbrica in un unico complesso nocivo, invisibile, estraneo. Piuttosto, si tende a sottolineare, nonostante la vicinanza, la linea del confine fra le aree, ad enfatizzare la reciproca estraneità: il carattere di limite, demarcazione, confine costituito da via Fratelli Bandiera è molto sentito: «ancora adesso è la linea che definisce la zona abitata dalla zona industriale. [...] A quel tempo si viveva proprio come una barriera, di là c'erano le fabbriche, quindi gli operai, il mondo operaio, e qui tutti gli abitanti»; «Questa strada era il limite era il punto estremo, non si poteva andare di là», ed accentua l'isolamento dell'area industriale dal centro abitato: «La fabbrica è un mondo a sé. E tuttora un mondo a sé. Poi c'è proprio anche questa linea di confine, che è data dalla strada principale, da via Fratelli Bandiera: il porto è tutto di là».

Della fabbrica occultata, quello che viene percepito sono i suoi effetti, soprattutto negativi. «Era normale avere l'aria inquinata. Il fumo per me era un odore quotidiano, al quale mi ero anche abituato. Quando arrivavo alla fabbrica, ché qualche volta passavamo in bicicletta a farci i giri, ci venivano addosso le piogge acide, ma non pensavamo agli effetti della pioggia acida. Per cento metri, quando arrivavamo davanti alla fabbrica, ogni giorno pioveva, c'era una nuvola, gialla, di pioggia acida». La fabbrica, allora, è occultata anche perché viene assorbita dalla quotidianità, così come la sirena era un suono "familiare", che scandiva le giornate. Per S.P., che è nato nei primi anni Sessanta, questa scansione era alla base dell'attività della sua famiglia. Il padre, dopo la guerra, si era trasferito a Marghera da un paese dell'entroterra verso Padova per costruire un chiosco di bibite alla fermata del tram di fronte alle fabbriche: «Mio padre era uno dei tanti che sono venuti dalla campagna»; e gli operai, prima e dopo il turno di lavoro, prima di entrare negli stabilimenti, o di riprendere il tram o l'autobus per tornare alle loro case nell'entroterra, lungo la riviera del Brenta o lungo la costa verso Rovigo, «si trovavano qui davanti per bere quella che si chiama qui da noi l'ultima 'ombra', l'ultimo bicchiere di vino insomma». Il bar era il ritrovo degli operai pendolari, che arrivavano in abiti "civili", senza la tuta blu perché doveva restare all'interno degli stabilimenti, ma «tutti col basco e con la borsa col cibo» — prima di ottenere la mensa aziendale; e il bar si ingrandiva man mano che crescevano gli insediamenti industriali, poi veniva sopraelevato per sistemare l'abitazione della famiglia. «Il locale era come il termometro dell'area industriale»: nei momenti di maggior afflusso, negli anni Sessanta, i genitori di S.P. dovevano preparare i bicchieri già riempiti in fila sul bancone per far fronte alle richieste; poi, con gli anni Settanta (e dopo la costruzione del cavalcavia di Marghera, che ha imposto lo spostamento della fermata), è iniziata una fase discendente: man mano la folla scompariva, gli avventori erano più sparuti. «Il locale ha risentito dello stesso declino della fabbrica», culminato con la chiusura della Vidal, la tabbrica prospiciente. I genitori hanno cercato di modificare gli orari con aperture nelle ore notturne, ma ormai la fase era chiusa. Il locale è stato poi riaperto da S.P., che l'ha reso il primo jazz club di Mestre e Marghera, dove si suona musica dal vivo. Ma anche se erano clienti del bar, S.P. di operai non ne conosceva, non vivevano lì attorno, non giocava con i loro figli; la fabbrica era fonte di sussistenza, ma rimaneva estranea. E ancora, anche se il locale oggi è famoso, d'estate si sposta nella grande area all'aperto vicina ai centri commerciali, un rapporto con i lavoratori dell'area non si è mai costruito. Anzi. S.P. ha animato, insieme ad altri, diverse iniziative di protesta contro il complesso di sigle di multinazionali comunemente designata con il nome collettivo Petrolchimico. Ha organizzato una festa che, con un gioco di parole, si chiamava "Facciamo la festa al Petrolchimico", chiudendo per un giorno via Fratelli Bandiera e rendendola area di gioco e svago. E i contrasti sono stati con gli operai. «Qualche operaio che ha appoggiato la festa è stato contestato, perché gli operai erano un po' contro, perché in qualche modo il Petrolchimico per loro è lavoro. Loro vedono quel lato. Per noi è l'inquinamento e il pericolo del fosgene. Le due cose poco si sposano». S.P. conosce bene la sua città, conosce le dinamiche politiche, conosce gli amministratori, conosce gli assetti proprietari dell'area industriale. Sa bene che non sono i lavoratori a costituire una minaccia per la popolazione; sa che ormai sono pochi e divisi; sa che sono loro i primi a correre rischi e a subire gli effetti delle lavorazioni nocive; sa che le decisioni sulla sicurezza delle produzioni — o sulla loro dismissione - vengono prese da grandi multinazionali, che largamente prescindono dalle posizioni del lavoratori. Eppure è con questi ultimi, le prime vittime della chimica, che si formano i contrasti: e sono molto sentiti nel contesto veneziano.

È, questo, un procedimento di spostamento simile a quello osservato da Contini per descrivere i meccanismi della "memoria divisa": non si identifica l'effettiva causa efficiente della strage, i militari tedeschi - estranei, stranieri, potenti - ma ci si appunta su chi si ritiene l'abbia provocata, i partigiani, - compaesani, conosciuti, pochi - rendendoli il capro espiatorio del risentimento e del lutto della comunità. Anche qui l'ostilità è spostata dagli unici responsabili della lunga storia di violenza ambientale, di tossicità imposta ai lavoratori e alla popolazione — gli industriali e il management delle aziende petrolchimiche, lontani, difficili da identificare, potenti — a chi l'ha subita dovendo anche esserne partecipe, i lavoratori: facili da identificare, isolati, spesso ora concittadini. Il nodo è lo stesso, la difficoltà di identificare e affrontare l'origine della violenza. Per M.C., il risentimento si indirizza non tanto verso i lavoratori di oggi, quanto verso quelli delle generazioni passate: «Ci si sente anche un po' traditi da una generazione che si è fatta mettere sulle spalle dei pesi molto importanti, senza considerare le conseguenze, senza considerare quello che sarebbe potuto succedere, vendendosi alla possibilità di avere un futuro positivo».

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