Copertina
Autore Javier Cercas
Titolo Soldati di Salamina
EdizioneGuanda, Parma, 2002, Narratori della Fenice , pag. 218, dim. 140x220x18 mm , Isbn 978-88-8246-419-6
OriginaleSoldados de Salamina
EdizioneTusquets, Barcelona, 2001
TraduttorePino Cacucci
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa spagnola
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Pagina 13

Fu nell'estate del 1994, più di sei anni fa, che sentii parlare per la prima volta della fucilazione di Rafael Sánchez Mazas. In quel periodo mi erano da poco successe tre cose: la prima era stata la morte di mio padre; la seconda, mia moglie mi aveva lasciato, la terza, la decisione di abbandonare la carriera di scrittore. Sto mentendo. Per la verità, di queste tre cose, le prime due sono esatte, eccome; ma non la terza. In realtà, la mia carriera di scrittore non si era mai avviata, quindi, difficilmente avrei potuto abbandonarla. Sarebbe più giusto dire che l'avevo abbandonata appena iniziata. Nel 1989 era stato pubblicato il mio primo romanzo; al pari della raccolta di racconti uscita due anni prima, il libro fu accolto con assoluta indifferenza, ma la vanità e una recensione elogiativa di un amico di quei tempi avevano congiurato per convincerini che sarei potuto diventare un romanziere e, per esserlo appieno, la cosa migliore sarebbe stata lasciare il lavoro nella redazione del giornale e dedicarmi totalmente alla scrittura. Il risultato di quel cambiamento di vita furono cinque anni di angosce economiche, fisiche e metafisiche, tre romanzi incompiuti e una spaventosa depressione che mi avrebbe inchiodato per due mesi su una poltrona, davanti al televisore. Stufa di pagare i conti, compreso quello dei funerali di mio padre, e di vedermi fissare il televisore spento e piangere, mia moglie se ne andò di casa proprio quando cominciai a riprendermi, e non mi restò altro da fare che dimenticare per sempre le ambizioni letterarie e chiedere di essere riassunto al giornale.

Avevo appena compiuto quarant'anni, e per fortuna - o perché non sono un bravo scrittore, ma neppure un cattivo giornalista o, più probabilmente, perché al giornale non trovavano nessuno che volesse fare il mio lavoro per uno stipendio esiguo quanto quello che davano a me - accettarono di riprendermi. Venni assegnato alle pagine della cultura, che è la sezione dove vengono mandati quelli che non si sa bene dove mettere. All'inizio, con lo scopo non dichiarato ma evidente di punirmi per la slealtà dimostrata - considerando che, per alcuni giornalisti, un collega che lascia il giornalismo per scrivere romanzi è praticamente un traditore - mi costrinsero a fare di tutto, tranne andare a prendere il caffè per il direttore al bar dell'angolo e soltanto alcuni colleghi, ben pochi, evitarono di infierire con battute sarcastiche e prese in giro. Il tempo si incaricò di stemperare la mia colpa: cominciai ben presto a redigere trafiletti, scrivere articoli, fare interviste. Fu così che nel luglio del 1994 intervistai Rafael Sánchez Ferlosio che in quel periodo stava tenendo un ciclo di conferenze all'università. Sapevo che Ferlosio era molto restio a parlare con i giornalisti ma, grazie a un amico (o meglio a un'amica di quell'amico, che si era occupata della permanenza di Ferlosio in città), ottenni che accettasse di conversare qualche minuto con me. Perché chiamarla intervista sarebbe eccessivo; e se anche lo fu, resta la più strana che abbia mai fatto in vita mia. Per cominciare, Ferlosio comparve sulla terrazza del Bistrot avvolto da uno sciame di amici, discepoli, ammiratori e adulatori; questo, unito alla trasandatezza del suo vestiario e a un fisico in cui si mescolavano inestricabilmente l'aria di un aristocratico castigliano vergognoso di esserlo e quella di un vecchio guerriero orientale - testa massiccia, capelli scompigliati e cosparsi di cenere, volto duro, emaciato e impenetrabile, naso aquilino e guance scure di barba -, avrebbe fatto pensare, a un ignaro osservatore, che si trattasse di un guru religioso attorniato di accoliti. Inoltre, come se non bastasse, Ferlosio si rifiutò recisamente di rispondere a una sola delle domande che gli rivolsi, sostenendo che nei suoi libri aveva fornito le migliori risposte di cui fosse capace. Ciò non significa che non volesse parlare con me, al contrario: quasi cercasse di smentire la fama di uomo scontroso (forse infondata), fu cordialissimo e rimase a chiacchierare per l'intero pomeriggio. Il problema era che se io, tentando di salvare l'intervista, gli chiedevo (diciamo) qualcosa sulla differenza tra personaggi dotati di carattere e personaggi in balia del destino, lui finiva per rispondermi con una disquisizione (diciamo) sulle cause della sconfitta delle navi persiane nella battaglia di Salamina, oppure se cercavo di estorcergli un'opinione riguardo (diciamo) ai fasti del quinto centenario della conquista dell'America, lui rispondeva illustrandomi, con grande sfoggio di dettagli e gesticolando (diciamo), l'uso corretto di una pialla. Fu un tira e molla da sfinimento, e soltanto quando arrivammo all'ultima birra di quel pomeriggio Ferlosio raccontò la storia della fucilazione di suo padre, la storia che mi ha tenuto sulle spine negli ultimi due anni. Non ricordo chi e come abbia tirato fuori il nome di Rafael Sánchez Mazas (forse fu un amico di Ferlosio, o lui stesso). Ricordo però che Ferlosio si mise a raccontare:

«Lo hanno fucilato in un posto qui vicino, nel santuario di Collell».

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Pagina 68

[...] Posso immaginare che ricamassero su qualche circostanza secondaria, qualche dettaglio marginale; ma non mentivano, tra gli altri motivi perché, se lo avessero fatto, la menzogna non si sarebbe inserita nel rompicapo e li avrebbe traditi. Per il resto, i tre erano profondamente diversi tra loro e l'unica cosa che ai miei occhi li univa era la condizione di sopravvissuti, quella sorta di ingannevole prestigio che i protagonisti del presente concedono spesso ai protagonisti del passato, e che risulta sempre consuetudinario, scialbo e senza gloria e, conoscendolo soltanto attraverso il filtro della memoria, ci sembra sempre eccezionale, tumultuoso ed eroico: Figueras era alto e robusto, aria quasi giovanile - camicia a quadri, berretto da marinaio, jeans sdruciti -, un uomo navigato e provvisto di una inarrestabile vitalità e una parlantina infarcita di gesti, esclamazioni e risate; Maria Ferré che, a quanto mi avrebbe detto più tardi Jaume Figueras, aveva avuto la civetteria di andare dalla parrucchiera prima di accogliermi nella sua casa di Cornellà de Terri - casa che un tempo era stata bar e negozio di generi alimentari del villaggio, e che conservava ancora all'ingresso, quasi come reliquie, un bancone di marmo e una bilancia -, era minuta e dolce, schiva, gli occhi che alternavano malizia a commozione per l'incapacità di evitare le trappole tese dalla nostalgia durante il racconto, occhi giovanili, cristallini come un ruscello d'estate. In quanto ad Angelats, l'incontro avuto con lui si sarebbe rivelato decisivo. Decisivo per me, intendo dire; o, più precisamente, per questo libro.

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Pagina 101

«C'è qualcuno lì?»

Il soldato lo sta guardando; Sánchez Mazas lo fissa a sua volta, ma gli occhi stanchi e miopi non riescono a interpretare ciò che vedono: sotto le ciocche di capelli bagnati e l'ampia fronte e le sopracciglia grondanti, lo sguardo del soldato non esprime compassione o odio, e neppure disprezzo, ma una sorta di segreta o insondabile allegria, qualcosa che sfiora la crudeltà e sfugge al raziocinio senza però dipendere dall'istinto, qualcosa che trasmette vitalità con la stessa cieca ostinazione con cui il sangue segue i suoi percorsi e la terra gira sulla sua orbita sempre uguale e così ogni essere vivente persiste nella propria condizione, qualcosa che elude le parole come l'acqua del ruscello elude la pietra, perché le parole sono fatte soltanto per esprimere se stesse, per dire il dicibile, cioè tutto tranne ciò che ci governa o ci spinge a vivere, ciò che siamo o ciò che è quel soldato anonimo e sconfitto, che adesso guarda quest'uomo il cui corpo si confonde con la terra e l'acqua fangosa della pozza, e che a un certo punto urla al vento senza smettere di fissarlo:

«Qui non c'è nessuno!»

Poi si volta e se ne va.

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Pagina 136

Insomma, è probabile che Foxá, in fin dei conti, avesse ragione: dalla fine della guerra al giorno della sua morte, essenzialmente Sánchez Mazas forse non fu nient'altro che un milionario. Un milionario senza troppi milioni, languido e un po' decadente, dedito a passioni piuttosto stravaganti - gli orologi, la botanica, la magia, l'astrologia - e alla non meno stravagante passione per la letteratura. Viveva alternativamente nella grande casa di Coria, dove trascorreva lunghi periodi facendo vie de chateau, nell'hotel Velázquez di Madrid e nello chalet del quartiere del Viso, circondandosi di gatti, ricordi portati dall'Italia, libri di viaggio, quadri spagnoli e incisioni francesi, in un salone con il caminetto francese e un giardino dove abbondavano le rose. Si alzava verso mezzogiorno e, dopo aver pranzato, scriveva fino all'ora di cena; la notte era dedicata alle letture, restando spesso sveglio fino all'alba. Usciva poco di casa; fumava molto. È probabile che in quegli anni non coltivasse più alcun ideale. E forse, nel profondo dell'animo, non aveva mai creduto in niente; e ancora meno in ciò che difendeva o predicava. Si era impegnato nella politica, ma in fondo la disprezzava. Esaltava vecchi valori - la lealtà, il coraggio - e intanto si comportava da traditore e codardo, e contribuì come pochi all'imbarbarimento prodotto dalla retorica della Falange; esaltava anche vecchie istituzioni - la monarchia, la famiglia, la religione, la patria - ma non mosse mai un dito per riportare un re sul trono di Spagna, ignorò la propria famiglia, vivendo spesso separato da questa, e avrebbe scambiato tutto il cattolicesimo per un solo canto della Divina Commedia; in quanto alla patria, bene, non si sa di preciso cosa sia, o è soltanto un rozzo pretesto per giustificare ogni canagliata. A chi lo ha frequentato negli ultimi anni ripeteva spesso i ricordi delle vicissitudini affrontate durante la guerra e soprattutto la fucilazione di Collell. «È incredibile quanto si possa imparare in quei pochi istanti prima dell'esecuzione» disse nel 1959 a un giornalista, senza tuttavia rivelare quali insegnamenti avesse tratto nell'imminenza della morte. Forse era soltanto un sopravvissuto, e proprio per questo al termine della sua esistenza gli piaceva immaginarsi come un gran signore decaduto, fallito, qualcuno che, pur avendo potuto compiere gesta memorabili, non aveva fatto nulla o quasi.

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