Copertina
Autore Partha Chatterjee
Titolo Oltre la cittadinanza
EdizioneMeltemi, Roma, 2006, Biblioteca 31 , pag. 190, ill., cop.fle., dim. 146x210x17 mm , Isbn 978-88-8353-503-1
OriginaleThe Politics of the Governed
EdizioneColumbia University Press, New York, 2004
CuratoreSandro Mezzadra
TraduttoreMatteo Bortolini
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe politica , diritto , paesi: India
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Indice

  9 Prefazione all'edizione italiana
 13 Prefazione

    Parte prima
    Leonard Hastings Schoff Memorial Lectures, 2001

 19 Capitolo primo
    La nazione nel tempo eterogeneo

 43 Capitolo secondo
    Popolazioni e società politica

 69 Capitolo terzo
    Le politiche dei governati

    Parte seconda
    Globale/locale
    Prima e dopo l'l1 settembre

107 Capitolo quarto
    Il mondo dopo la Grande Pace

131 Capitolo quinto
    Canto di battaglia

137 Capitolo sesto
    Le contraddizioni del secolarismo

155 Capitolo settimo
    Le città indiane stanno finalmente diventando borghesi?

171 Epilogo

    Le Idi di marzo

175 Postfazione
    Sandro Mezzadra

187 Bibliografia


 

 

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Pagina 9

Prefazione all'edizione italiana


Quando circa dieci anni fa cominciai a riflettere sull'insieme di pratiche che ho definito "società politica", i miei interessi erano assai limitati. Avevo alle spalle le ricerche del progetto dei Subaltern Studies sulla resistenza dei contadini nell'India coloniale e la critica dello Stato postcoloniale nata dalla nostra interpretazione della partecipazione dei contadini al movimento nazionalista indiano. La storia di come le opere del marxista italiano Antonio Gramsci, arrivate in India negli anni Settanta, abbiano costituito un nuovo punto di partenza della storiografia indiana è ormai nota. Eravamo convinti che nella coscienza dei contadini lo Stato fosse un'entità estrinseca e distante. Le istituzioni dello Stato coloniale penetravano spesso nella vita dei contadini, e tuttavia questi ultimi consideravano tali intrusioni come l'intervento — a volte benefico, spesso irritante e molesto, altre volte seriamente dannoso e pericoloso — di una forza esterna. Pensavamo inoltre che le forme della coscienza contadina andassero al di là dei confini delle popolazioni rurali: al contrario, esse caratterizzavano anche le pratiche politiche degli operai industriali e dei poveri delle città, persone che si erano urbanizzate di recente e che mantenevano forti legami con le campagne. Dopo l'indipendenza e la fondazione della repubblica postcoloniale, e dunque dopo l'attribuzione formale della cittadinanza a tutti gli indiani, la relazione tra lo Stato e i contadini non era fondamentalmente cambiata. Le masse contadine erano state incluse nel concetto formale di "popolo", ma una reale partecipazione alla vita quotidiana dello Stato era loro preclusa.

Durante gli anni Ottanta, cominciai però a rendermi conto dell'emergere di fenomeni nuovi. L'idea che le istituzioni dello Stato fossero esterne e lontane dalla coscienza dei contandini non mi convinceva più. Le politiche di sviluppo dello Stato postcoloniale erano penetrate profondamente nella vita quotidiana dei contadini, ma non solo: le stesse popolazioni rurali avevano cominciato a rivolgersi allo Stato sia come fonte di opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita sia come recettore di lamentele e proteste. Forse che la promessa della modernità postcoloniale era stata mantenuta? Il contadino indiano stava forse diventando un moderno cittadino della nazione?

Nient'affatto. Le pratiche emergenti della democrazia postcoloniale indiana erano assai più complicate di quanto una candida narrazione della modernizzazione potesse immaginare. I contadini e gli altri gruppi marginali erano sì stati introdotti nelle politiche governamentali moderne, ma solo come gruppi di popolazione, non come cittadini. Venivano curati, sostenuti e incoraggiati a vivere in maniera più sana e produttiva. E tuttavia, ciò li rendeva oggetti della politica, elementi differenti della popolazione che avanzavano esigenze particolari e rispondevano a ricompense e sanzioni diverse. Compresi che il campo delle politiche governamentali apriva una nuova area politica le cui pratiche non erano per nulla assimilabili a quelle della società civile dei cittadini propriamente detti. Decisi di definire tale campo (non senza una certa vanità, vista la storia dell'uso del termine nella teoria politica liberale) "società politica".

Ricavai un grande aiuto concettuale dalla lettura delle ultime opere di Michel Foucault, anche se devo dire che la mia interpretazione è assai obliqua, in quanto utilizza le analisi foucaultiane delle pratiche del potere tipiche delle democrazie industriali di massa dell'Europa e del Nord America per spiegare le forme emergenti del governo e della politica nell'India contemporanea. Con ciò ho trasferito, e qualche volta rovesciato, le relazioni tra sovranità, disciplina e governamentalità che secondo Foucault costituivano la modalità storica dell'esercizio del potere nell'Occidente moderno. La mia distinzione tra società civile e società politica non è ciò che ci si attende da una normale lettura di Foucault.

Ciò di cui sto parlando, tuttavia, non riguarda soltanto la storia postcoloniale. Se guardiamo alle questioni di governo che oggi vengono sollevate dai nuovi flussi migratori verso l'Europa occidentale e il Nord America, non possiamo che concludere che la distinzione tra cittadini e popolazione – la distinzione tra società civile e società politica – non è affatto irrilevante per comprendere l'Occidente contemporaneo. Che cosa possiamo dire delle centinaia di migliaia di lavoratori turchi che pur avendo passato tutta la loro vita in Germania sono ancora categorizzati come "ospiti", e non cittadini? E cosa dire dei milioni di persone che pur lavorando negli Stati Uniti, detenendo proprietà e pagando le tasse vengono ancora definiti "illegali"? Sono tutte persone che fanno parte della "popolazione", non della cittadinanza. La loro sopravvivenza non è garantita dall'appartenenza alla società civile, quanto piuttosto dal disperato tentativo di usare gli strumenti della società politica.

Può darsi allora che oggi i temi trattati in questo piccolo libro possano interessare l'Europa. Benché in Italia Antonio Gramsci non sia più di moda, la storia di come le sue idee abbiano avuto una nuova vita in un continente lontano e abbiano prodotto opere e dibattiti su questioni politiche molto diverse potrebbe interessare qualcuno. Michel Foucault è naturalmente una figura molto più familiare, ma qui è stato utilizzato in maniera un po' particolare. Infine, forse, i lettori italiani troveranno sorprendente che le teorie nate dai problemi del mondo postcoloniale possano illuminare i problemi dell'Europa attuale. Ma dopotutto per due secoli il resto del mondo si è sentito dire che le teorie emerse dalle esperienze storiche dell'Europa andavano bene per tutti.

Calcutta, 20 giugno 2006

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Pagina 43

Capitolo secondo

Popolazioni e società politica


I



Il momento classico in cui le promesse della modernità illuminata parvero fondersi con le aspirazioni politiche universali della cittadinanza nazionale fu, naturalmente, la Rivoluzione francese. Negli ultimi due secoli, tale momento è stato celebrato e canonizzato in vari modi, e forse la sintesi più convincente e universalmente riconosciuta è quella che indica l'identità del popolo con la nazione e della nazione con lo Stato. Non vi è dubbio alcuno che oggi la legittimità dello Stato moderno si fondi chiaramente e saldamente su una qualche concezione della sovranità popolare. È questo il fondamento della politica democratica moderna, ma non solo. L'influenza esercitata dall'idea di sovranità popolare oltrepassa i confini della democrazia: anche il più antidemocratico dei regimi politici moderni è obbligato a fondare la propria legittimità sul volere del popolo, comunque esso venga espresso, e non sul diritto divino della successione dinastica o sulla conquista territoriale. Le autocrazie, le dittature militari, i regimi monopartitici – tutti comandano (rule) in nome del popolo, o almeno così dicono.

La potenza dell'idea della sovranità popolare e la sua influenza sui movimenti nazionali e democratici ottocenteschi in Europa e in America sono ben note. La sua influenza, tuttavia, si estendeva ben al di là di quello che chiamiamo Occidente moderno. Le conseguenze della spedizione napoleonica in Egitto del 1798 sono state ampiamente discusse (Abu-Lughod 1963; Mitchell 1988). Più a oriente, il principe Tipu Sultan, sovrano di Mysore, che stava combattendo una feroce battaglia contro gli inglesi nell'India meridionale, aprì nel 1797 un negoziato con il governo rivoluzionario francese, offrendo un trattato di alleanza e amicizia "fondato sui principi repubblicani della sincerità e della buona fede, cosicché voi e la vostra nazione e io e il mio popolo possiamo divenire una sola famiglia". Si dice che il principe sia rimasto sorpreso di ricevere una risposta indirizzata al "cittadino Sultan Tipu" (Kausar 1980, pp. 165, 219).

Può darsi, naturalmente, che le simpatie repubblicane di Tipu non andassero al di là del richiamo, espresso nella lettera ai "signori del Direttorio", al principio tattico per cui "i vostri nemici possono essere i nemici miei e del mio popolo; e i miei nemici possono essere considerati come vostri nemici". Lo stesso non si può dire dei sentimenti della nuova generazione di riformatori modernisti dell'India dell'Ottocento. A scuola, a Calcutta, si studia lo storico viaggio in Inghilterra compiuto da Rammohun Roy, il cosiddetto padre della modernità indiana, nel 1830. Ci dicono che quando la nave attraccò a Marsiglia Rammohun fosse a tal punto smanioso di salutare il tricolore, rimesso al suo posto dalla monarchia di luglio, che affrettandosi sulla passerella cadde e si ruppe una gamba. Con l'aiuto di una biografia più affidabile ho poi scoperto che in realtà l'infortunio aveva colpito Roy a città del Capo, ma non ne aveva ridotto l'entusiasmo per libertà, uguaglianza e fratellanza. Un altro passeggero scrisse che "due fregate francesi, battenti la bandiera rivoluzionaria, il glorioso tricolore, erano attraccate nella Table Bay; nonostante fosse zoppo, egli insistette per visitarle. La vista di quei colori parve ravvivare la fiamma del suo entusiasmo e renderlo insensibile al dolore". Rammohun venne portato in visita ai vascelli e comunicò ai suoi ospiti "quanto era felice di stare sotto la bandiera che sventolava sui loro ponti – un'evidenza del glorioso trionfo del diritto sulla forza; e lasciando le navi ripeté con foga: 'Gloria, gloria, gloria alla Francia!'" (James Sutherland, cit. in Dobson Collet 1900, p. 308).

Dall'altra parte del mondo, nei Caraibi, altre popolazioni coloniali scoprirono che esistevano dei limiti alla promessa di una cittadinanza universale, e le loro sofferenze andarono ben al di là di una gamba rotta. I capi della rivoluzione di Haiti presero molto sul serio il messaggio di libertà e uguaglianza che veniva da Parigi e si sollevarono dichiarando la fine della schiavitù. Con grande sgomento, si sentirono dire dal governo rivoluzionario francese che i diritti dell'uomo e del cittadino non valevano per i negri, anche se si erano dichiarati liberi, perché non erano, o non erano ancora, cittadini (James 1963). Il grande Mirabeau chiese all'Assemblea nazionale di ricordare ai coloni che "nel fare la proporzione tra il numero dei deputati e la popolazione della Francia non abbiamo computato né i cavalli né i muli" (cit. in Trouillot 1995, p. 79). Finì che nel 1802, dopo la dichiarazione di indipendenza dal governo coloniale da parte dei rivoluzionari haitiani, i francesi mandarono a Santo Domingo una spedizione militare per ristabilire il governo coloniale e la schiavitù. Secondo lo storico Michel-Rolph Trouillot la rivoluzione di Haiti era troppo in anticipo. Nell'intero spettro del discorso occidentale dell'epoca dell'Illuminismo non vi era spazio per degli schiavi neri che si rivoltavano per conquistare l'auto-governo: l'idea era semplicemente impensabile (pp. 70-107).

E dunque, mentre i nazionalismi creoli potevano proclamare le repubbliche indipendenti nell'America spagnola all'inizio del diciannovesimo secolo, i giacobini neri di Santo Domingo si vedevano negare il medesimo diritto. Il mondo avrebbe dovuto aspettare un altro secolo e mezzo prima che i diritti dell'uomo e del cittadino potessero raggiungere luoghi tanto remoti. A quel punto, però, con il successo mondiale delle lotte democratiche e nazionali, i limiti posti da classe, rango, genere, razza, casta e tutto il resto si sarebbero gradualmente allontanati dall'idea di sovranità popolare e la cittadinanza universale sarebbe stata riconosciuta, come avviene oggi, nell'ambito del diritto generale di autodeterminazione delle nazioni. Insieme allo Stato moderno, il concetto di popolo e il discorso dei diritti si sono ormai generalizzati nell'ambito dell'idea di nazione. Ma si è anche creata una forte spaccatura tra le avanzate nazioni democratiche dell'Occidente e il resto del mondo.

La forma moderna della nazione è al tempo stesso universale e particolare. La dimensione universale è rappresentata innanzitutto dall'idea del popolo come fonte originaria della sovranità dello Stato moderno e, in secondo luogo, dall'idea che tutti gli esseri umani siano portatori di diritti. Come è realizzabile tutto ciò, se vale davvero in senso universale? Mettendo in pratica gli specifici diritti dei cittadini nell'ambito di uno Stato costituito da un popolo particolare, costituito cioè da una nazione. Lo Stato-nazione divenne così la forma specifica, e normale, dello Stato moderno. La cornice fondamentale dei diritti venne definita dalle idee gemelle di libertà e uguaglianza. Ma libertà e uguaglianza spesso procedevano in direzioni opposte. Come ha utilmente sottolineato Etienne Balibar (1993), le due idee necessitavano della mediazione di altri due concetti: proprietà e comunità. La proprietà cercava di risolvere le contraddizioni tra libertà e uguaglianza al livello dell'individuo e delle relazioni che intratteneva con altri individui. La comunità era invece il luogo in cui le contraddizioni andavano risolte al livello dell'intera fratellanza. Lungo le dimensioni della proprietà, la soluzione poteva essere più o meno liberale; lungo le dimensioni della comunità essa poteva essere più o meno comunitarista. Ci si attendeva comunque che gli ideali universali della cittadinanza moderna si realizzassero nel contesto della forma specifica dello Stato-nazione sovrano e omogeneo.

Utilizzando una scorciatoia teorica, si può dire che proprietà e comunità definissero i parametri concettuali all'interno dei quali il discorso politico del capitale, che proclamava libertà e uguaglianza, poteva svilupparsi. Le idee di libertà e uguaglianza da cui nascevano i diritti universali del cittadino erano fondamentali non solo nella lotta ai regimi assolutistici ma anche per insidiare le pratiche precapitalistiche che limitavano la mobilità e le scelte dell'individuo entro i tradizionali confini definiti dalla nascita e dallo status. Ma erano anche fondamentali, come nota il giovane Karl Marx (1844), per separare la sfera astratta del Diritto dal concreto contesto di vita della società civile. Nella teoria politico-giuridica i diritti del cittadino non venivano compromessi da razza, religione, etnia o classe (e all'inizio del ventesimo secolo i medesimi diritti vennero estesi anche alle donne), ma ciò non comportava l'abolizione delle differenze reali tra gli uomini (e le donne) nella società civile. Al contrario, nella società l'universalismo della teoria dei diritti presupponeva, e al tempo stesso rendeva possibile, una nuova configurazione delle relazioni di potere basata appunto sulle distinzioni di classe, razza, religione, genere e così via. Allo stesso tempo la promessa di emancipazione sostenuta dall'idea di uguali diritti universali funzionava anche come una fonte sempre nuova di critica teorica alla società civile esistente. Negli ultimi due secoli tale promessa ha ispirato in tutto il mondo lotte finalizzate a cambiare le ingiuste differenze sociali basate su razza, religione, casta, classe o genere.

In generale, i marxisti hanno considerato l'affermazione del capitale sulla comunità tradizionale come un segno inevitabile del progresso storico. Invero il ragionamento presenta una profonda ambiguità. Se la comunità era la forma sociale dell'unità tra il lavoro e i mezzi di produzione, allora la distruzione di tale unità da parte della cosiddetta accumulazione originaria del capitale produsse un nuovo lavoratore che era non solo libero di vendere il proprio lavoro come una merce ma anche sciolto dagli intralci della proprietà di tutto, esclusa la propria capacità di lavorare. Marx ha scritto passi amaramente ironici sulla "doppia libertà" del salariato affrancato dai legami della comunità precapitalistica. Nel 1853, tuttavia, egli scrisse che in India il governo britannico stava realizzando una rivoluzione sociale necessaria: "Quali possano essere stati i crimini dell'Inghilterra", scrive, "essa è stata inconsciamente lo strumento con cui la storia porta la rivoluzione in India". Più avanti, come sappiamo, Marx divenne più scettico circa gli effetti rivoluzionari del governo coloniale nelle società agrarie come l'India e arrivò a ipotizzare che in Russia la comunità contadina potesse raggiungere direttamente una forma socialista di vita collettiva senza attraversare la fase distruttiva della transizione capitalistica. Nonostante lo scetticismo e l'ironia, tuttavia, i marxisti del Novecento hanno solitamente salutato favorevolmente il declino delle forme di proprietà precapitalistiche e la creazione di unità politiche ampie e omogenee sul modello degli Stati-nazione. Laddove pareva realizzare il compito storico della transizione verso forme di produzione più moderne e sviluppate, il capitale riceveva l'attenta, benché risentita e ambivalente, approvazione della teoria storica marxista.

Quando si parla di uguaglianza, libertà, proprietà e comunità in relazione allo Stato moderno, si parla in realtà della storia politica del capitale. Dal mio punto di vista, il dibattito tra liberali e comunitari che ha dominato recentemente la filosofia politica anglo-americana ha confermato il ruolo cruciale che in questa storia politica i due concetti intermediari della proprietà e della comunità giocano nella determinazione dello spettro delle possibilità istituzionali nell'ambito del contesto strutturato su libertà e uguaglianza. I comunitari non potevano negare il valore della libertà individuale, poiché se avessero enfatizzato oltremisura le pretese dell'identità comunitaria si sarebbero esposti all'accusa di negare il diritto fondamentale dell'individuo a scegliere, possedere, utilizzare e scambiare liberamente i beni. Dall'altra parte, nemmeno i liberali negavano che identificarsi con la comunità potesse essere un'importante fonte di significato morale per le vite individuali. Per loro il punto era che mettendo in discussione il sistema liberale dei diritti e la politica liberale della neutralità circa le questioni del bene comune, i comunitari aprivano le porte all'intolleranza delle maggioranze, alla riproduzione di pratiche conservatrici e a una pressione conformistica potenzialmente tirannica. Pochi di essi negavano il fatto empirico per cui la maggior parte degli individui, anche nelle democrazie liberali industriali avanzate, conduce la propria vita nell'ambito di una rete di legami sociali ereditata che può essere descritta come una comunità. Era però presente la sensazione piuttosto netta che non tutte le comunità avessero il medesimo valore nel quadro della vita politica moderna. In particolare, le forme di attaccamento che parevano enfatizzare ciò che era tramandato, particolare, primordiale o tradizionale venivano considerate dalla maggior parte dei teorici come portatrici di pratiche conservatrici e intolleranti, e quindi contrarie ai valori della cittadinanza moderna. La comunità politica che sembrava raggiungere il massimo dell'approvazione era la nazione moderna, capace di garantire uguaglianza e libertà al di là di qualsivoglia differenza culturale o biologica.

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Pagina 131

Capitolo quinto

Canto di battaglia [21 settembre 2001]


Considero barbari e atroci gli attacchi sferrati a questa città l'11 settembre. Io non sono un sostenitore della non-violenza politica: studiando la vita politica dei paesi coloniali e postcoloniali mi sono convinto che, radicandosi le strutture di dominio del mondo moderno tanto profondamente nella possibilità di utilizzare forme massicce ed efficaci di violenza, non è possibile né giustificato chiedere a coloro che lottano contro un dominio ingiusto di evitare sempre e comunque l'uso della violenza politica. E tuttavia, non conosco alcuna forma politica anti-imperialista o anti-coloniale che giustificherebbe l'uccisione di cinquemila persone normali, uomini e donne, in un attacco deliberato contro un obiettivo civile. Anche se, per una qualche contorta logica politica, uno pensasse di essere in guerra con gli Stati Uniti, si tratterebbe di un atto assai difficile da giustificare anche come atto di guerra. Sono convinto che grandi azioni terroristiche premeditate e calcolate come quelle siano il frutto di una politica e di un'ideologia fondamentalmente sbagliate e che vanno rifiutate e condannate. Oggi le ideologie basate sul fanatismo etnico o religioso sono molto diffuse e non sono affatto appannaggio di una sola comunità religiosa. Io sono fra quanti sostengono che dobbiamo comprendere empaticamente perché in tutto il mondo tante persone credono a fanatismi del genere. Ciò, tuttavia, non significa che dobbiamo simpatizzare con le loro azioni politiche o sostenerle.

Detto questo, vorrei passare alla questione della giusta risposta agli atti terroristici. A poche ore dall'evento il Presidente degli Stati Uniti ha dichiarato che il suo paese era in guerra. Subito il pensiero è corso a Pearl Harbor: era dalla seconda guerra mondiale, ci hanno detto, che l'America non subiva attacchi sul proprio territorio. Da allora mi sono spesso sentito chiedere: ma era proprio necessario fare quell'annuncio? Perché la decisione è stata così rapida? Sarà forse perché la memoria pubblica dell'Occidente riconosce nella guerra un tropo familiare? Dai romanzi ai libri di storia fino al cinema, innumerevoli fonti della cultura popolare occidentale hanno insegnato alle popolazioni che cos'è la guerra e che cosa bisogna fare quando il proprio paese entra in guerra. L'abbiamo visto nell'ultima settimana, quando le persone hanno esposto le bandiere, si sono messe in fila per donare il sangue o hanno cantato il Canto di battaglia della repubblica nelle funzioni di suffragio nelle chiese. Un atto di violenza del tutto privo di precedenti è stato reso comprensibile rappresentandolo come un atto di guerra. Forse quando ha detto che voleva Osama Bin Laden "vivo o morto" George W. Bush, assai inesperto nelle questioni di Stato, era più vicino al sentimento popolare dei navigati veterani del Dipartimento di Stato. E quando il presidente Bush ha detto, nel suo vocabolario politico limitato, che li avrebbe "stanati e braccati" stava usando una retorica familiare nel linguaggio bellico americano.

Una dichiarazione di guerra tanto rapida ha chiaramente costretto i decisori politici americani in un angolo dal quale è assai difficile uscire. Dieci giorni dopo l'attacco non vi è traccia di risposta militare. Gli esperti cercano di spiegare alla gente che non esiste alcun nemico in senso convenzionale: nessun paese, nessun territorio, nessun confine. Non ci sono obiettivi evidenti da attaccare. La costruzione di una coalizione internazionale per colpire il nemico efficacemente potrebbe richiedere molto tempo. È una guerra contro il terrorismo. E tuttavia, poiché è stato detto loro che era una guerra, le persone sono costernate dalla mancanza di qualsivoglia risposta riconoscibile. Nel paese sta montando un vulcano virtuale di rabbia e frustrazione. Il popolo non è nelle condizioni di accettare una guerra metaforica: il popolo vuole, per usare un linguaggio più prosaico, sangue.

In assenza di un nemico o di un obiettivo evidente la retorica scivola spesso in una forma di odio palesemente religiosa, etnica o culturale. E non si tratta soltanto di retorica, visto che sono avvenuti attacchi a moschee e templi, aggressioni a uomini e donne di aspetto esotico e almeno due omicidi. Sebbene i leader più autorevoli, presidente compreso, abbiano cercato di rassicurare gli arabo-americani che la loro sicurezza non è in pericolo, la retorica dell'intolleranza culturale continua. I leader responsabili parlano alla radio e in televisione di come dobbiamo comportarci con le parti del mondo non civilizzate, di tenere d'occhio i vicini con un cognome arabo e di persone con "pannolini sulla testa". Parlano di "terminare" Stati come l'Afghanistan, l'Iraq, la Siria e la Libia e di "cancellare" i militanti islamici in Libano e Palestina. Se questo è il linguaggio delle élite come possiamo accusare le persone normali di interpretare questa guerra come uno scontro di civiltà?

Possiamo, e dobbiamo, io credo, porre la questione della responsabilità e della trasparenza. Se la guerra al terrorismo è diversa da tutte le altre guerre che il paese ha combattuto, come ci dicono oggi, ciò avrebbe dovuto essere chiaro fin dal primo giorno. E allora perché confondere tutti utilizzando il familiare linguaggio della rappresaglia contro paesi e popoli nemici? Se gli Stati Uniti sono davvero l'unica superpotenza di un nuovo mondo privo di confini, le risorse culturali della guerra tradizionale saranno del tutto inadeguate e inappropriate per il nuovo ruolo imperiale. Chiediamoci: la leadership ha agito in maniera responsabile per preparare sé stessa e il paese a questo ruolo?

Ma c'è un'altra grande domanda sulla responsabilità dell'America verso il resto del mondo. Data l'enorme preponderanza economica e militare degli Stati Uniti, ogni loro azione in qualsivoglia parte del mondo non può che avere enormi ripercussioni sugli Stati e le società coinvolti. Chiediamoci: l'America ha agito responsabilmente nel considerare le conseguenze a lungo termine, e quelle inattese, delle proprie azioni? Non voglio parlare dell'esempio del Medio Oriente, dove la politica americana ha avuto un eccezionale impatto storico. Vorrei parlare dell'Afghanistan, un paese dove negli anni Ottanta gli Stati Uniti hanno combattuto una lunga guerra per procura contro l'Unione Sovietica. È stata definita la più grande operazione della Cia della storia: insieme al regime militare pakistano e alla monarchia conservatrice dell'Arabia Saudita, gli Stati Uniti hanno organizzato, addestrato, finanziato e armato i militanti afgani, incoraggiandone l'ideologia islamica e applaudendo quando hanno scacciato le truppe sovietiche. Ieri sera ho visto in televisione Zbigniew Bzrezinski, una figura familiare nei corridoi della Columbia University, affermare di essersi sentito molto bene quando gli ultimi soldati sovietici attraversarono il fiume Amu Darya tornandosene in Unione Sovietica. Ha aggiunto che si sarebbe sentito anche meglio se avesse saputo, allora, di assistere all'inizio del collasso dell'Unione Sovietica. Non credo che abbia pensato neppure per un attimo alle disastrose conseguenze del coinvolgimento degli Stati Uniti. I talebani sono nati negli anni Ottanta nei campi di addestramento dei mujaheddin in Pakistan, lo stesso periodo in cui Osama Bin Laden è diventato un eroe per i militanti islamici. Lo stesso esercito del Pakistan è stato profondamente penetrato dall'ideologia islamica. Oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Chiediamoci: hanno forse accettato gli Stati Uniti di avere delle responsabilità per quello che è stato fatto a quella regione e per quello che la regione sta facendo al resto del mondo?

La domanda va fatta oggi, nello stesso momento in cui le navi da guerra, i bombardieri e i commando stanno preparandosi per le prossime operazioni militari. C'è qualcuno che sta pensando a quali potrebbero essere le conseguenze di una nuova guerra in Afghanistan? O alle conseguenze sul Pakistan? O alle conseguenze sull'intera Asia meridionale, dove ci sono due paesi dotati di armi nucleari e un'atmosfera politica che ribolle di conflitti religiosi e settari?

Piaccia o no, comprensibile o no, gli Stati Uniti sono oggi l'unico potere imperiale esistente. Per questo motivo ciò che fanno ha delle conseguenze per tutto il resto del mondo. E gli analisti della Difesa americana non devono riflettere soltanto sui danni collaterali di un attacco militare – i leader americani devono anche pensare al danno collaterale che ricadrà sulla storia delle società e dei popoli del resto del mondo. Essendo l'unica superpotenza mondiale, gli Stati Uniti devono essere responsabili delle proprie azioni nei confronti del popolo di tutto mondo.

Non credo che la leadership americana né il popolo americano siano consapevoli dell'enorme responsabilità morale che la storia contemporanea ha assegnato loro. Dopo gli attacchi al World Trade Center il presidente Bush riusciva a pensare solo ai cartelli con la scritta "wanted" che aveva visto nei film western. Mentre il mondo vorrebbe una politica americana flessibile, sensibile e in armonia con gli enormi cambiamenti avvenuti nel mondo negli ultimi dieci-quindici anni, quello che avremo sarà probabilmente una riedizione della solita arroganza americana, con il suo contorno di bullismo e insensibilità. Forse la conclusione della prima guerra del ventunesimo secolo non sarà tanto diversa da quella delle tante guerre del Novecento. E ciò è molto triste.

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Capitolo settimo

Le città indiane stanno finalmente diventando borghesi? [11-13 gennaio 2003]


O, se preferite, potremmo chiederci: le città indiane stanno purtroppo diventando borghesi?


I


Al di là delle passioni che può suscitare, esistono molte ragioni per porre una domanda come questa. In primo luogo, è evidente che negli ultimi dieci o quindici anni si è tentato con forza di ripulire le città indiane, di liberare le strade e i terreni pubblici dagli occupanti abusivi e di riconsegnare gli spazi pubblici ai cittadini propriamente detti. Questo movimento è stato stimolato da gruppi di cittadini e sostenuto fermamente dal potere giudiziario, particolarmente attivo nella difesa del cosiddetto diritto dei cittadini a un ambiente salubre in cui tutti rispettano la legge. In secondo luogo, sebbene prosegua in tutte le metropoli indiane il processo di spostamento delle classi medie verso le periferie, sta crescendo l'attenzione, espressa nella forma di movimenti organizzati e regolamentazioni legali, per la conservazione della storia architettonica e culturale dei centri storici coloniali e precoloniali. In terzo luogo, benché gli spazi pubblici vengano rivendicati all'uso generale dei cittadini propriamente detti, proliferano gli spazi segregati e protetti riservati ai consumi, alla cultura e allo stile di vita delle élite.

Nel complesso, ciò rappresenta da molti punti di vista un ribaltamento della struttura delle città dell'India indipendente degli anni Cinquanta e Sessanta, una configurazione in cui l'élite urbana emersa durante il dominio coloniale esercitava il proprio dominio sociale e politico sulla città, sostituendo gli europei nelle posizioni politiche e creando metodi di controllo sulle nuove istituzioni della rappresentanza elettorale di massa. A Calcutta, per esempio, i ricchi possidenti e i professionisti diventarono i maggiorenti, e spesso gli eletti, del Partito del Congresso, detentore del potere. I ricchi erano l'avanguardia di un massiccio coinvolgimento della classe media nella leadership sociale, culturale e morale dello spazio urbano. Esisteva solitamente una densa rete di istituzioni di vicinato – scuole, associazioni sportive, mercati, sale da tè, biblioteche, parchi, assemblee religiose, organizzazioni benefiche e così via – organizzate e sostenute dalle classi ricche e medie, attraverso le quali emergeva e si conservava un senso attivo e partecipativo della comunità urbana. Era la norma, e non l'eccezione, che i bambini delle classi medie frequentassero le scuole e i parchi del vicinato; che i giovani si trovassero per l' adda al club locale o al bar; che le casalinghe leggessero i libri della biblioteca di quartiere o acquistassero i vestiti al mercatino sotto casa; che gli anziani si incontrassero presso un'organizzazione di vicinato per ascoltare prediche religiose o musica sacra. Molti quartieri erano misti in termini di classe. Una strada su cui si affacciavano grandi palazzi o le eleganti case della classe media nascondeva invariabilmente le affollate baracche del personale di servizio. Nelle aree industriali si concentravano ovviamente grosse popolazioni che vivevano in baracche. I poveri della città erano spesso legati ai ricchi mediante relazioni di patronage che andavano frequentemente al di là del rapporto personale ed erano mediate da organizzazioni benefiche o addirittura, come ha mostrato Dipesh Chakrabarty (1989) nel suo libro sugli operai della juta di Calcutta, da proto-sindacati. Anche quando la classe operaia era organizzata da attivisti politici, i sindacati funzionavano come un ponte tra l'intellighenzia della classe media e i lavoratori dei quartieri malfamati.

Almeno per quanto riguarda la città di Calcutta, intendo sostenere che nei primi vent'anni dopo l'indipendenza il potere sociale e politico dei ricchi e la leadership culturale delle classi medie erano sorretti da un reticolo di istituzioni di quartiere che tentarono di creare e far crescere comunità di vicinato. I quartieri di Calcutta non erano omogenei per classe e spesso erano misti anche per lingua, religione ed etnia. Sebbene in vari contesti le differenze di classe fossero chiaramente mantenute, il senso dell'esistenza di una comunità trasversale rispetto alle classi veniva attivamente asserito mediante l'idea di vicinato o para. Al di là del sostegno quotidiano delle istituzioni di quartiere, l'idea era rafforzata anche da incontri e ritrovi periodici ai quali partecipavano molti abitanti del quartiere: una partita di calcio con la squadra di un altro para, le performance teatrali e musicali all'aperto nel parco di quartiere o la Durga Puja annuale. Le occasioni comunitarie di questo tipo erano miste in termini di classe ma omogenee per quanto riguardava la lingua, la religione o l'etnia. Secondo Nirmal Kumar Bose, che nei primi anni Sessanta ha studiato il fenomeno da vicino, i gruppi etnici di Calcutta tendevano a concentrarsi per quanto riguardava le relazioni sociali, anche se ciò non sempre valeva per le scelte residenziali. Pur sovrapponendosi alle altre nello spazio del vicinato, ogni comunità etnica, definita dalla religione o dalla lingua, rimaneva in effetti separata. Non solo i bengalesi, ma anche i marwari, gli oriya, i musulmani di lingua urdu, gli anglo-indiani, i gujarati, i punjabi e i cinesi avevano una propria rete associativa. La conclusione in qualche modo scorata di Bose (1968) era che "i diversi gruppi etnici che compongono la popolazione della città hanno assunto l'uno verso l'altro lo stesso tipo di relazioni che caratterizzano le caste dell'India". In effetti, vista la percentuale di persone di lingua bengalese presenti in città – circa il 63% nel 1961 – e dato il fatto che gli unici quartieri etnicamente omogenei erano quelli abitati da esse, si può dire che la posizione assunta dai bengalesi a Calcutta fosse simile a quella occupata dalla casta dominante in molte regioni dell'India rurale. La densità e la visibilità della vita pubblica nei quartieri bengalesi creò l'immagine di una città sostanzialmente bengalese.

Una vita associativa basata su relazioni di patronage con i ricchi e potenti, tuttavia, non è del tutto compatibile con la definizione della vita pubblica borghese di una città moderna. Evidentemente Calcutta, così come tutte le altre città indiane degli anni Cinquanta e Sessanta, non era riuscita a realizzare la transizione verso una completa modernità urbana. In un famoso articolo pubblicato sullo «Scientific American» nel 1965 Nirmal Bose (1965) aveva definito Calcutta una "metropoli prematura (...) sfasata con la storia (...) nata nel contesto di una economia agricola tradizionale prima di quella rivoluzione industriale che dovrebbe generare la metropoli". Le conclusioni di Dipesh Chakrabarty (1989) sulla natura delle organizzazioni e della coscienza della classe operaia non erano diverse: la persistenza di forme di socialità preborghesi nelle fabbriche e nei quartieri malfamati impediva agli operai l'azione di classe. Ricordo la mia prima volta a Bombay, nei primi anni Settanta, e il sentimento di invidia per quella che mi sembrava una meravigliosa e organica relazione tra la città e la sua borghesia. Ben presto una maggiore familiarità con la storia di Bombay mi disilluse: se Calcutta non era né moderna né borghese, lo stesso valeva per Bombay. La scoperta mi confortava.


II


La vecchia struttura del potere sociale e politico venne profondamente trasformata negli anni Settanta e Ottanta dall'effetto combinato di democrazia e sviluppo. Da una parte, i partiti politici concorrenti intensificarono gli sforzi per mobilitare il proprio seguito politico nelle città. Dall'altra, l'enorme incremento della popolazione delle grandi città, dovuto soprattutto a migrazioni dalle campagne, creò situazioni sociali esplosive, caratterizzate da irrequietezza politica, criminalità, barbonismo, squallore e malattie. Emerse dunque una nuova attenzione per la fornitura di servizi abitativi, igiene, acqua, elettricità, trasporti, scuole, sanità e tutto il resto, indirizzati ai poveri della città. Avvenne negli anni una proliferazione delle misure di welfare e sviluppo, finanziate soprattutto dal governo con l'aiuto di organizzazioni come la Banca Mondiale, per sistemare la crescente popolazione di poveri nelle strutture della vita urbana, anche se queste venivano portate al limite.

Le necessità della mobilitazione elettorale, da una parte, e la logica della distribuzione del benessere, dall'altra, si sovrapposero fino a fondersi. Altrove ho usato l'espressione società politica per distinguere tale ambito dal concetto classico di società civile. L'amministrazione pubblica del welfare per i poveri urbani era obbligata a seguire una logica diversa dalle normali relazioni tra lo Stato e i cittadini organizzati nella società civile. Spesso i poveri vivevano occupando abusivamente il suolo pubblico, non pagavano i mezzi pubblici, rubavano l'acqua e l'elettricità, invadevano le strade e i parchi. Date le risorse disponibili era irrealistico pretendere che diventassero cittadini normali prima di poter ricevere i servizi pubblici. I molti progetti di sviluppo urbano degli anni Settanta e Ottanta davano per scontato che parecchi poveri avrebbero dovuto vivere in città pur non avendo alcun diritto sul luogo in cui abitavano. E tuttavia, le autorità fornirono agli insediamenti abusivi acqua e igiene, scuole e ambulatori. Per ridurre le perdite dovute al furto di energia le compagnie elettriche negoziarono tariffe collettive con interi insediamenti. Le compagnie ferroviarie suburbane di Calcutta e Bombay davano per scontato nei loro bilanci di previsione che più della metà dei pendolari non avrebbe pagato il biglietto. Le popolazioni dei poveri andavano tranquillizzate e anche assistite, in parte perché fornivano manodopera e servizi necessari all'economia cittadina, in parte perché se non venivano assistiti potevano mettere a repentaglio la sicurezza e il benessere dell'intera cittadinanza.

L'atteggiamento diffuso di quel periodo è emblematicamente sintetizzato dalla forte avversione diffusasi nel paese non appena circolò la notizia delle demolizioni coatte dei quartieri malfamati e dello sloggio dei residenti dall'area del Turkman Gate di Delhi durante l'Emergenza. Lo zelo dell'opera risanatrice di Sanjay Gandhi venne considerato come un disconoscimento della cultura democratica della città postcoloniale. Negli anni Ottanta tale atteggiamento si rifletteva anche nella propensione del sistema giudiziario a intervenire in favore dei poveri delle città, un virtuale riconoscimento del loro diritto a una sistemazione abitativa e a una permanenza in città e dell'impossibilità, da parte delle autorità pubbliche, di farli spostare o di penalizzarli senza provvedere a una qualche forma di risistemazione.

Sarebbe un errore, tuttavia, descrivere il processo come un'estensione della cittadinanza ai poveri. Non lo era. In realtà, come ho mostrato più approfonditamente altrove, veniva tracciata un'attenta distinzione concettuale tra cittadinanza e popolazioni. Le popolazioni sono categorie empiriche di persone qualificate da caratteristiche sociali o economiche rilevanti per l'amministrazione delle politiche di welfare o di sviluppo. Possono esistere schemi specifici per bambini degli insediamenti abusivi o per madri lavoratrici al di sotto della linea di povertà o, diciamo, per insediamenti a rischio di inondazioni nelle stagioni delle piogge. Ogni schema di questo tipo, o anche l'azione politica più generale all'interno della quale viene formulato, identificherà gruppi distinti di popolazione le cui dimensioni e caratteristiche socio-economiche o culturali verranno empiricamente definite e registrate mediante censimenti e ricerche. Le popolazioni sono quindi il prodotto degli schemi di classificazione propri del sapere governamentale. Diversamente dalla cittadinanza, che include l'aspetto morale della partecipazione alla titolarità della sovranità dello Stato e quindi della capacità di rivendicare diritti nei suoi confronti, le popolazioni non sono portatrici di alcuna intrinseca domanda morale. Quando vengono seguite dagli uffici pubblici, esse si trovano semplicemente a ricevere il favore di una politica che si giustifica per il calcolo costi/benefici delle conseguenze economiche, politiche o sociali. Tali politiche cambiano al cambiare dei calcoli e con esse cambia la composizione dei gruppi a cui si rivolgono. E dunque, se potessi avanzare un argomento teorico generale senza elaborare ulteriormente l'argomentazione, direi che l'amministrazione governamentale dello sviluppo e del welfare ha prodotto un sociale eterogeneo, i cui molteplici gruppi di popolazione vengono fatti oggetto di politiche egualmente diverse e flessibili. Ciò si contrappone all'idea di cittadinanza caratterizzata da una forte e ininterrotta insistenza sull'omogeneità nazionale.

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