Copertina
Autore Bruce Chatwin
Titolo In Patagonia
EdizioneAdelphi, Milano, 2002 [1982], Biblioteca Adelphi 117 , pag. 268, dim. 140x220x20 mm , Isbn 978-88-459-0493-6
OriginaleIn Patagonia [1977]
TraduttoreMarina Marchesi
LettoreRiccardo Terzi, 1996
Classe viaggi , narrativa inglese , storia: America , paesi: Argentina , paesi: Cile
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Pagina 9

Nella stanza da pranzo della nonna c'era un armadietto chiuso da uno sportello a vetri, e dentro l'armadietto un pezzo di pelle. Il pezzo era piccolo, ma spesso e coriaceo, con ciuffi di ispidi peli rossicci. Uno spillo arrugginito lo fissava a un cartoncino. Sul cartoncino c'era scritto qualcosa con inchiostro nero sbiadito, ma io ero troppo piccolo, allora, per leggere.

«Cos'è questo?».

«Un pezzo di brontosauro».

La mamma conosceva i nomi di due animali preistorici: il brontosauro e il mammut. Sapeva che questo non era un mammut. I mammut venivano dalla Siberia.

Il brontosauro, come poi ho imparato, era annegato nel Diluvio perché Noè lo aveva giudicato troppo grosso per essere imbarcato sull'Arca. Me lo figuravo irsuto, con movimenti pesanti e rumorosi, artigli, zanne e una maligna luce verde negli occhi. A volte irrompeva rovinosamente attraverso il muro della mia camera, svegliandomi di soprassalto.

Questo particolare brontosauro era vissuto in Patagonia, regione del Sud America all'estremo limite del mondo. Migliaia di anni prima era caduto in un ghiacciaio, era disceso lungo il fianco di una montagna in una prigione di ghiaccio azzurro ed era arrivato in fondo in perfette condizioni. Qui lo trovò Charley Milward il Marinaio, cugino della nonna.

Charley Milward era capitano di un mercantile colato a picco all'entrata dello Stretto di Magellano. Scampato al naufragio si stabilì nelle vicinanze, a Punta Arenas, dove divenne direttore di un cantiere di riparazioni navali. Charley Milward me lo immaginavo come un dio fra gli uomini - alto, taciturno e forte, con neri favoriti e fieri occhi azzurri. Portava il berretto da marinaio inclinato su un lato e l'orlo degli stivali piegato all'ingiù.

Appena vide il brontosauro spuntare dal ghiaccio capì subito cosa bisognava fare: lo tagliò a pezzi, salò i pezzi e li mise in barili che spedì via mare al Natural History Museum di Londra. Nella mia immaginazione vedevo sangue e ghiaccio, carne e sale, squadre di indios al lavoro e file di barili lungo la spiaggia: un lavoro gigantesco e del tutto inutile. Infatti, durante il viaggio attraverso i tropici il brontosauro si decompose e a Londra arrivò soltanto un ammasso di roba putrefatta. Ecco perché al museo si possono vedere le ossa del brontosauro, ma non la pelle.

Per fortuna, però, il cugino Charley aveva mandato quel pezzetto di pelle alla nonna.

La nonna viveva in una casa di mattoni protetta da una siepe di alloro dalle foglie picchiettate di giallo, con alti camini, frontoni appuntiti e un giardino pieno di rose rosso-sangue. Dentro si sentiva odor di chiesa.

Non ricordo molto della mia nonna tranne la sua grande mole. Solevo arrampicarmi sul suo gran seno oppure osservarla di nascosto per vedere se riusciva ad alzarsi dalla sedia. Sopra di lei era appesa una serie di ritratti, grasse e burrose facce di ricchi olandesi annidate in bianchi collari. Sulla mensola del camino c'erano due nanerottoli giapponesi, con occhi d'avorio rossi e bianchi sporgenti dalla testa come quelli delle lumache. Giocavo con questi o con una scimmietta tutta snodata, un giocattolo tedesco, senza tuttavia smettere di tormentare la nonna chiedendole in continuazione di darmi il pezzo di brontosauro.

Mai in vita mia ho tanto desiderato una cosa quanto quel pezzo di pelle. La nonna diceva che un giorno, forse, l'avrei avuto. E quando morì io dissi: «Ora lo posso avere, quel pezzo di brontosauro». Ma la mamma disse: «Oh, quella roba! Ho paura che l'abbiamo buttata via».

A scuola risero della storia del brontosauro. Il professore di scienze disse che mi ero confuso col mammut siberiano. Agli allievi raccontò di scienziati russi che avevano pranzato con mammut congelato e mi disse di non raccontare frottole. Oltre tutto, aggiunse, i brontosauri erano rettili. Non avevano peli, ma una corazza di pelle squamosa. E ci mostrò una ricostruzione dell'animale eseguita da un disegnatore - così diverso da come me lo ero immaginato - color grigio verde, con la testa piccola e una gigantesca serie di gibbosità lungo le vertebre, nell'atto di mangiare placidamente erbaccia in un lago. Mi vergognai del mio peloso brontosauro, ma sapevo che non era un mammut.

Ci vollero parecchi anni prima che la verità saltasse fuori. L'animale di Charley Milward non era un brontosauro, ma un milodonte o bradipo gigante. Charley non aveva mai trovato un esemplare intero e neppure un intero scheletro, ma soltanto un po' di pelle e qualche osso, conservati dal freddo, dal secco e dal sale, in una caverna sul Last Rope Sound, nella Patagonia cilena. Aveva spedito la sua raccolta in Inghilterra, vendendola al British Museum. Questa versione della storia era meno romantica, ma aveva il pregio di essere vera.

Il mio interesse per la Patagonia sopravvisse alla perdita della pelle, perché la guerra fredda fece nascere in me la passione per la geografia.

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A La Plata abitava Fiorentino Ameghino, solitario autodidatta figlio di immigrati genovesi, nato nel 1854, che morì direttore del Museo Nazionale. Aveva cominciato a collezionare fossili da ragazzo; più tardi aprì un negozio di articoli di cancelleria, che chiamò El Gliptodonte, nome del suo animale favorito. Alla fine i fossili scacciarono la cancelleria e ne occuparono il posto; ma Ameghino, a quel tempo, era ormai famoso in tutto il mondo per le sue numerose pubblicazioni e i suoi fossili tanto strani.

Suo fratello minore, Carlos, esplorava le barrancas della Patagonia, mentre Fiorentino stava a casa a classificare i fossili. Aveva un meraviglioso potere di immaginazione e riusciva a ricostruire un animale gigantesco da minimi frammenti di denti o di artigli. Aveva anche un debole per i nomi colossali. Chiamò un animale Florentinoameghinea e un altro Propalaeohoplophorus. Amava il suo paese con la passione degli immigrati della seconda generazione e talvolta il patriottismo gli dava alla testa. In una pubblicazione contestò in massa le teorie scientifiche del suo tempo.

Circa cinquanta milioni di anni fa, quando i continenti si spostavano, i dinosauri della Patagonia erano molto simili ai dinosauri del Belgio, del Wyoming e della Mongolia. Estinti i dinosauri, il loro posto fu preso da mammiferi a sangue caldo. Gli scienziati che studiarono il fenomeno fecero l'ipotesi che i nuovi venuti provenissero dall'emisfero settentrionale, da dove erano partiti per colonizzare il mondo.

I primi mammiferi che raggiunsero il Sud America furono delle strane specie, note ora come notoungulati e condilartri. Poco dopo il loro arrivo il mare si aprì un varco attraverso l'istmo di Panama e li tagliò fuori dal resto del Creato. Senza carnivori che li molestassero, i mammiferi del Sud America si svilupparono in forme sempre più strane. C'erano i giganteschi bradipi, i toxodonti, i megateri e i milodonti. C'erano porcospini, formichieri e armadilli; liptoterni, astrapoteri e la macrauchenia (simile a un cammello con la proboscide). Poi l'istmo di Panama riemerse e una moltitudine di più efficienti mammiferi nordamericani, come il puma e la tigre coi denti a sciabola, si precipitò a sud e spazzò via molte specie indigene.

Al dottor Ameghino non piaceva questa versione zoologica della dottrina di Monroe. Alcuni animali del Sud, è vero, si opposero all'invasione nordista. Piccoli bradipi arrivarono nell'America Centrale, l'armadillo arrivò nel Texas e il porcospino nel Canada (il che dimostra che non c'è invasione senza contro-invasione). Ma questo non bastava a soddisfare Ameghino. Fece il suo dovere verso il suo paese e inverti la cronologia. Alterò l'evidenza per dimostrare che tutti i mammiferi a sangue caldo avevano avuto origine in Sud America e erano andati al Nord. Alla fine si lasciò andare completamente: pubblicò un saggio nel quale formulava l'ipotesi che lo stesso Uomo fosse emerso dal suolo della patria; ecco perché, in taluni ambienti, il nome di Ameghino è posto accanto a quelli di Platone e di Newton.

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Pagina 26

La Patagonia comincia sul Rio Negro. A mezzogiorno l'autobus attraversò un ponte di ferro sul fiume e si fermò davanti a un bar. Una donna india scese col figlio. Con la sua roba aveva occupato due posti. Masticava aglio e portava dei tintinnanti orecchini di oro vero e un cappello bianco rigido, appuntato con spilloni alle trecce. Una smorfia di disgusto passò sul volto del figlio mentre la donna trafficava per scendere coi suoi pacchi sulla strada.

Le case del villaggio erano di mattoni, con tubi di stufa neri e sopra un intrico di fili elettrici. Dove finivano le case di mattoni, cominciavano le catapecchie degli indios, fatte con casse da imballaggio, fogli di plastica e tela di sacco.

Un uomo risaliva la strada, con un cappello di feltro marrone tirato giù sulla faccia. Portava un sacco di tela e camminava in mezzo a nuvole di polvere bianca, diretto verso la campagna. Alcuni bambini, riparati sotto l'arco di una porta, tormentavano un agnello. Da una capanna usciva il rumore di una radio e di grasso che friggeva. Apparve un braccio rigonfio che gettò un osso a un cane, che lo prese in bocca e scappò via.

Gli indios erano lavoratori emigrati dal Cile meridionale. Erano indios araucani. Un centinaio d'anni fa gli araucani erano incredibilmente feroci e coraggiosi. Si dipingevano il corpo di rosso, scorticavano vivi i nemici e succhiavano il sangue dal cuore dei morti. L'educazione dei figli consisteva in hockey, cavalcate, bevande alcooliche, arroganza e atletica sessuale. Per tre secoli gli araucani fecero impazzire di paura gli spagnoli. Nel sedicesimo secolo Alonso de Ercilla scrisse un poema epico in loro onore e lo intitolò La Araucana. Voltaire lo lesse e per opera sua gli araucani divennero candidati a impersonare il Nobile Selvaggio (versione violenta). Gli araucani sono ancora molto forti e ancor più lo sarebbero se smettessero di bere.

Fuori dal villaggio c'erano piantagioni irrigate di mais e di zucche e frutteti di ciliegi e di albicocchi. Lungo la riva del fiume i salici erano tutti germogliati e mostravano l'argento che brilla sotto le loro foglie. Gli indios avevano tagliato dei vincastri, lasciando sui tronchi delle bianche ferite e nell'aria l'odore della linfa. Il fiume, gonfio per lo scioglimento delle nevi sulle Ande, scorreva veloce, facendo frusciare le canne. Rondini rossastre davano la caccia agli insetti. Quando volavano sopra la scogliera, il vento le afferrava e ne invertiva di colpo il volo finché calavano di nuovo basse sul fiume.

La scogliera si elevava a picco sull'approdo di un traghetto. Mi arrampicai su per un sentiero e dall'alto guardai controcorrente verso il Cile. Vedevo il fiume scorrere lucente fra scogliere bianche come ossa, con strisce smeraldine di terra coltivata da ogni lato. Lontano dalle scogliere c'era il deserto. Nessun suono tranne quello del vento, che sibilava fra i cespugli spinosi e l'erba morta, nessun altro segno di vita all'infuori di un falco e di uno scarafaggio immobile su una pietra bianca.

Il deserto della Patagonia non è un deserto di sabbia o di ghiaia, ma una distesa di bassi rovi dalle foglie grigie, che quando sono schiacciate emanano un odore amaro. Diversamente dai deserti dell'Arabia non ha prodotto nessun drammatico eccesso dello spirito, ma ha certamente un posto nella storia dell'esperienza umana. Darwin trovò le sue qualità negative irresistibili. Ricapitolando Il viaggio della Beagle tentò, senza riuscirvi, di spiegare perché, più di tutte le meraviglie da lui viste, questo «arido deserto» aveva tanto colpito la sua mente.

Negli Anni 1860 W.H. Hudson venne sul Rio Negro per cercare gli uccelli migratori che svernavano vicino alla sua casa, a La Plata. Anni dopo riandò con la memoria al suo viaggio, attraverso il filtro della pensione di Notting Hill dove risiedeva, e scrisse un libro così sobrio ed equilibrato da far sembrare al confronto Thoreau un istrione. Hudson dedica un intero capitolo di Giorni oziosi in Patagonia a rispondere alla domanda di Darwin e conclude affermando che chi percorre il deserto scopre in se stesso una calma primitiva (nota anche al più ingenuo dei selvaggi), che è forse la stessa cosa della Pace di Dio.

All'epoca della visita di Hudson, il Rio Negro era la frontiera settentrionale di uno strano reame che ancora mantiene una corte in esilio a Parigi.

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Non lontano da Cholila una ferrovia a scartamento ridotto riconduceva a Esquel. La stazione era una stazione-giocattolo. Il bigliettaio aveva la faccia di quello che beve di nascosto. Nel suo ufficio era appesa la fotografia di un giovane di famiglia borghese, aria mite, capelli ben pettinati, ricercato per aver assassinato il direttore della Fiat. Gli impiegati delle ferrovie avevano delle uniformi color grigio chiaro, con spighetta d'oro agli orli. Sul marciapiede c'era un altarino della Vergine di Lujan, protettrice dei viaggiatori.

La locomotiva, costruita in Germania, con un alto fumaiolo e ruote rosse, aveva almeno ottant'anni. Nella prima classe le esalazioni del cibo avevano impregnato le imbottiture e diffondevano nella carrozza l'odore del pasto del giorno prima. La seconda classe era pulita e luminosa, con sedili di legno verniciati di verde-pisello e una stufa a legna nel centro.

Un uomo stava bollendo l'acqua per il maté in un recipiente di smalto blu. Un'anziana signora parlava al suo geranio favorito, e due alpinisti di Buenos Aires sedevano in mezzo al loro voluminoso equipaggiamento. Erano intelligenti, intolleranti, guadagnavano salari da fame e pensavano degli Stati Uniti il peggio possibile. Gli altri viaggiatori erano indios araucaniani.

Il treno partì con due fischi e uno scossone. Al nostro passaggio, alcuni struzzi dalle piume fluttuanti balzarono via dai binari. Le montagne erano grigie e si intravvedevano appena nella foschia afosa. A volte un camion sporcava l'orizzonte con una nube di polvere.

Un indio adocchiò gli alpinisti e si avvicinò per attaccar briga. Era completamente ubriaco. Mi appoggiai alla spalliera per osservare un po' di storia del Sud America in miniatura. Il giovanotto di Buenos Aires si lasciò insultare per mezz'ora, poi, alzatosi in piedi, intimò minacciosamente all'indio di tornare al suo posto.

L'indio chinò la testa e disse: «Sí, seņor. Sí, seņor».

I villaggi degli indios sorgevano lungo la linea ferroviaria, in modo che un ubriaco potesse sempre arrivare a casa. Alla sua stazione, l'indio scese incespicando dal treno, tenendosi stretto quello che restava del suo gin. Intorno alle capanne, il sole velato dalla foschia faceva luccicare le bottiglie rotte. Scese anche un ragazzo con una giacca a vento gialla e aiutò l'ubriaco a camminare. Un cane, che stava sdraiato sulla soglia di una porta, gli saltò addosso leccandogli tutta la faccia.

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Incurante del polverone, il genio patagonico sedeva in un boschetto di tamerici, immerso in un manuale nordamericano di ingegneria applicata. Portava un berretto blu e un vestito grigio tutto sformato. Le pieghe del suo collo di tartaruga straripavano dal colletto di celluloide. Offrendomi il suo posa piedi mi pregò di sedergli accanto. Fece segno al collega di mettersi su una sedia che qualcuno, troppo tardi, aveva salvato da un falò, e consultò un orologio d'argento.

«Ho una mezz'ora da dedicarvi per parlare della preistoria della Patagonia».

Poi mi sommerse di informazioni statistiche, datazioni ricavate dal carbonio radioattivo, migrazioni di uomini e animali, regressioni marine, sollevamenti delle Ande e comparse di nuovi manufatti. Dotato di memoria fotografica, era in grado di descrivere dettagliatamente qualsiasi pittura rupestre india del Sud: «... nella seconda foresta pietrificata c'è una raffigurazione unica al mondo del milodonte... a Rio Pinturas troverete un rodeo di paleo-lama, gli uomini hanno copricapi fallici... un secondo affresco rappresenta l'uso di un'esca come descritto da Pigafetta... al Lago Posadas c'è un combattimento mortale fra una macrauchenia e un milodonte...».

Presi accurata nota di tutto. L'altro padre, con la tonaca svolazzante, stava in piedi vicino ai resti carbonizzati della sedia.

«Qué inteligencia!» diceva. «Oh Padre! Qué sabiduría!».

Padre Palacios sorrise e andò avanti a parlare. Notai, però, che non si rivolgeva più a me. Con lo sguardo fisso al cielo, indirizzava il suo monologo alle nuvole che si stavano abbassando.

«O Patagonia!» gridò. «Tu non cedi i tuoi segreti ai pazzi. Arrivano esperti da Buenos Aires e perfino dal Nord America. E cosa sanno? Non possiamo che meravigliarci della loro incompetenza. Fino ad ora nessun paleontologo ha disseppellitò le ossa dell'unicorno».

«L'unicorno?».

«Precisamente, l'unicorno. L'unicorno della Patagonia fu contemporaneo alla megafauna del tardo pleistocene. L'uomo andò a caccia degli ultimi unicorni, fino ad estinguerli, nel quinto o sesto millennio prima di Cristo. Al Lago Posadas potrete vedere due pitture di unicorni. Uno ha il corno eretto come nel Salmo 29: "Tu innalzerai il mio corno come il corno di un unicorno". L'altro è raffigurato nell'atto di impalare un cacciatore e lascia le sue impronte nelle pampas, come descritto nel libro di Giobbe». (In Giobbe è il cavallo che «lascia le impronte nella valle», mentre l'unicorno è giudicato inadatto a tirare l'aratro).

La lezione si trasformò in un viaggio di sogno. Gli abitanti delle Isole Marchesi approdavano con le loro canoe nei fiordi del Cile meridionale, scalavano le Ande, si stabilivano vicino al Lago Musters e si fondevano con le popolazioni indigene. Padre Palacios descrisse ciò che lui stesso aveva scoperto nella Terra del Fuoco: una scultura di donna senza testa, di grandezza naturale, ricoperta di ocra rossa.

«Oh Dios! Qué conocimientos!».

«Avete delle fotografie?» chiesi.

«Certo che ho delle fotografie,» sorrise di nuovo «ma non sono da pubblicare. E ora permettetemi di farvi una domanda. In quale continente fece la sua comparsa la specie umana?».

«In Africa».

«Falso! Assolutamente falso! Qui in Patagonia, esseri intelligenti, vissuti nel terziario, furono testimoni della formazione delle Ande. Un antenato dell'uomo visse nella Terra del Fuoco prima dell'australopiteco africano. Inoltre,» aggiunse con noncuranza «l'ultimo è stato visto nel 1928».

«Genio!».

Padre Palacios tratteggiò allorà la storia dello Yoshil (da lui in seguito pubblicata su una rivista culturale).

Lo Yoshil (nome indio) era - e forse è ancora - un protoominide senza coda, con capelli stopposi di colore verde giallastro. Era alto circa ottanta centimetri, camminava in posizione eretta e viveva nel territorio dello Haush. Andava sempre in giro armato di una pietra o di una corta clava. Lo Yoshil era probabilmente vegetariano e si nutriva di frutti selvatici, funghi e lombrichi bianchi, che sono la base del nutrimento del picchio magellanico.

La prima notizia fornita su uno Yoshil in tempi moderni ci viene da Yioi:molke, un cacciatore dello Haush, che nel 1886 ne vide uno mentre andava a caccia di cormorani a Caleta Yrigoyen; l'ultimo avvistamento sicuro fu quello del cacciatore Pai:men, nel 1928. Ma l'incontro più sconvolgente avvenne con l'indio Paka, informatore di padre Palacios, durante la grande guerra.

Paka era solo, accampato nella foresta, quando uno Yoshil comparve vicino al fuoco. Conoscendo la sua fama di pericolosità, Paka afferrò subito l'arco, ma l'animale con un balzo si mise in salvo. Paka pensò che se si addormentava sarebbe stato ammazzato. Così si mise sdraiato, arma alla mano, pronto a difendersi. Lo Yoshil si avvicinò. Paka tirò una freccia e sentì un grido di dolore. La mattina dopo trovò il cadavere nelle vicinanze. Con terrore vide che l'animale aveva le stesse fattezze di suo fratello, morto da poco. Scavò una tomba, senza capir bene se stava seppellendo uno Yoshil oppure, per la seconda volta, il fratello.

«Ho deciso di chiamare questa creatura Fuegopithecus Pakensis» concluse padre Palacios. «Il nome, si capisce, è provvisorio. Lo Yoshil potrebbe appartenere alla stessa specie dell'altro protoominide patagonico, Homunculus Harringtoni, del Chubut. Soltanto un esame delle ossa potrà chiarire la questione».

«Dios! Qué ciencia!».

«E ora,» disse «credo che abbiamo finito il nostro breve excursus sulla Patagonia», e tornò a sprofondarsi nel suo libro.

Senza fiato per la meravigliosa ispirazione di quell'autodidatta, me ne andai.

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Pagina 114

Il proprietario dell'estancia Paso Roballos era un isolano delle Canarie, di Tenerife. Sedeva in una cucina tinteggiata di rosa, dove un orologio a pendolo batteva le ore e la moglie con indifferenza si riempiva la bocca di cucchiaiate di marmellata di rabarbaro. La casa era tutta corridoi e stanze inutilizzate. Un divano del salotto lasciava piovere sul pavimento frammenti di doratura. L'ottimistico impianto idraulico messo in opera cinquant'anni prima era andato in rovina e puzzava di ammoniaca.

Pieno di nostalgia e di rimpianti per il perduto vigore, il vecchio parlava di fiori, di alberi, della tecnica agricola e delle danze della sua soleggiata montagna in mezzo al mare.

In giardino chicchi di grandine martellavano i cespugli di ribes.

Il genero della coppia era il poliziotto locale, che aveva il compito di sorvegliare la frontiera e non far passare i ladri di pecore. Aveva una magnifica corporatura atletica, ma la fisarmonica di rughe sulla sua fronte raccontava una lamentevole storia di immobilità e di ambizioni represse.

Il suo cervello sognava fughe e conquiste. Parlava di Vichinghi nella giungla brasiliana. Un professore, diceva, aveva trovato in uno scavo iscrizioni runiche. I marziani erano atterrati in Perù e avevano insegnato agli incas le arti della civiltà. Come spiegare altrimenti la loro intelligenza superiore?

Un giorno, dopo essersi liberato della moglie restituendola al padre, avrebbe guidato la camioneta della polizia verso nord, oltre il Paraná, attraverso Brasile e Panama, Nicaragua e Messico, e le chicas del Nord America gli sarebbero cadute fra le braccia.

Sorrise amaro al miraggio di un sogno impossibile.

«Perché andate a piedi?» chiese il vecchio. «Non sapete andare a cavallo? La gente di qui detesta quelli che vanno a piedi. Li credono pazzi».

«So andare a cavallo,» dissi «ma preferisco andare a piedi. Mi fido di più delle mie gambe».

«Ho conosciuto un italiano che diceva la stessa cosa».

Si chiamava Garibaldi. Anche lui detestava i cavalli e le case. Portava un poncho araucaniano e non aveva bagagli. Saliva fino alla Bolivia e poi si precipitava giù verso lo Stretto. Era capace di fare quaranta miglia al giorno e lavorava solo quando aveva bisogno di stivali.

«Sono sei anni che non lo vedo» disse. «Forse se lo sono portato via i condor».

Il mattino seguente, dopo colazione, mi indicò un'alta piattaforma naturale sulla montagna di fronte.

«Č da là che vengono i fossili».

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Pagina 147

Attraversai lo Stretto ed entrai nella Terra del Fuoco. Sulla costa settentrionale del Primo Stretto un faro a righe bianche e arancioni si ergeva sopra una spiaggia disseminata di ciottoli cristallini, cozze violacee e gusci rotti di granchi. Sulla battigia, i pescatori cercavano ostriche fra strati di alghe color rubino. La costa della Terra del Fuoco era una striscia grigia a meno di due miglia di distanza.

Alcuni camion erano allineati davanti a un ristorante di lamiera, in attesa che la marea facesse di nuovo galleggiare i due traghetti. Fuori dal ristorante c'erano tre anziani scozzesi con gli occhi un po' arrossati, celesti come quelli di un neonato, e i denti ridotti ad aguzzi frammenti nerastri. All'interno una donna formosa e attraente, seduta su una panca, si stava pettinendo mentre il suo compagno, un camionista, le stendeva fettine di mortadella sulla lingua.

La marea, avanzando, spingeva materassi di alghe sulla scarpata della spiaggia. Il vento soffiava forte da ovest. In una zona di acque più calme due anatre cinerine delle Falkland intrecciavano la loro monogama conversazione: tuk-tuk... tuk-tuk... tuk-tuk... Lanciai un sasso nella loro direzione, ma erano tanto assorte una nell'altra che non riuscii a disturbarle e a farle scappare sbattendo le ali sull'acqua.

Lo Stretto di Magellano è uno dei tanti esempi di come la natura imita l'arte. Un cartografo di Norimberga, Martin Beheim, disegnò il passaggio a sud-ovest affinché Magellano andasse a scoprirlo. La sua ipotesi era del tutto ragionevole. Il Sud America, per quanto singolare, era un continente normale se paragonato all'ignoto continente antartico, l'Antichthon dei pitagorici, segnato con la parola NEBBIE sulle mappe medioevali. In questa terra capovolta, la neve cadeva dal basso in alto, gli alberi crescevano dall'alto in basso, il sole brillava di luce nera, e il popolo degli antipodi, dalle sedici dita, ballava fino a raggiungere uno stato di estasi. «Noi non possiamo andare da loro,» era stato detto «loro non possono venire da noi». Ovvio che una striscia di acqua dovesse separare questo chimerico paese dal resto del creato.

Il 21 ottobre 1520, festa di sant'Orsola e delle sue undicimila vergini (perite in naufragio), la flotta doppiò un promontorio che Magellano chiamò Cabo Virgenes. Davanti alle navi si apriva una baia, apparentemente senza altri sbocchi nel mare. Durante la notte un forte vento si alzò da nord-est e spinse la Concepción e la San Antonio attraverso il Primo Stretto, il Secondo Stretto e poi in un ampio canale in direzione sud-ovest. Osservando la corrente della marea, i naviganti si resero conto che il canale sfociava in un altro oceano. Ritornarono alla nave ammiraglia con la notizia. Applausi, salve di cannone e bandiere al vento.

Un gruppo sbarcato sulla costa settentrionale trovò una balena arenata e un «cimitero» con duecento cadaveri issati su pali. Nessuno sbarcò sulla costa meridionale.

Tierra del Fuego, Terra del Fuoco. I fuochi erano quelli di un campo di indios fuegini. Secondo un'altra versione Magellano vide solo fumo e la chiamò Tierra del Humo, Terra del Fumo, ma Carlo V disse che non poteva esserci fumo senza fuoco, e cambiò il nome.

I fuegini oggi sono scomparsi e tutti i fuochi si sono spenti. Soltanto le fiamme degli impianti petroliferi innalzano una nuvola nera nel cielo notturno.

Fino al 1619, quando la flotta olandese di Schouten e LeMaire doppiò il Capo Horn e lo chiamò così da Hoorn sullo Zuyder Zee, i cartografi disegnarono la Terra del Fuoco come l'estremità settentrionale dell'Antichthon e la riempirono di adeguate mostruosità: gorgoni, sirene e il Roc, un condor gigantesco che poteva portare un elefante.

Dante collocò la montagna del Purgatorio al centro dell'Antichthon. Nel ventiseiesimo canto dell' Inferno Ulisse, sospinto verso sud nel suo folle viaggio, avvista l'isola-montagna che sorge dal mare mentre le onde travolgono la sua nave - infin che 'l mar fu sopra noi richiuso - distrutta dalla sua passione di voler oltrepassare i confini stabiliti per l'uomo.

La Terra del Fuoco è quindi la terra di Satana, dove le fiamme tremolano come lucciole in una notte d'estate, e nei gironi sempre più stretti dell'Inferno il ghiaccio imprigiona le anime dei traditori come cannucce di paglia in un bicchiere di acqua gelata.

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Nel 1890 una crudele interpretazione della teoria di Darwin, nata a suo tempo in Patagonia, ritornò in Patagonia e sembrò incoraggiare la caccia agli indios. Uno slogan: «la sopravvivenza dei più forti», un Winchester e una cartucciera diedero ad alcuni europei l'illusione di essere fisicamente superiori agli indigeni, in realtà molto più forti. Gli Ona della Terra del Fuoco erano andati a caccia di guanachi da quando il loro antenato Kaux aveva diviso l'isola in trentanove territori, uno per ciascuna famiglia. Le famiglie litigavano, è vero, ma in genere a causa di donne; non pensavano ad allargare i loro confini.

Poi arrivarono i bianchi con un nuovo guanaco, con le pecore, e un nuovo confine, il filo spinato. All'inizio gli indios apprezzarono il sapore dell'agnello arrosto, ma presto impararono a temere quel guanaco più grande e più scuro e l'uomo che lo cavalcava e sputava un'invisibile morte.

Gli Ona, rubando le pecore, costituivano una minaccia per i profitti delle compagnie (a Buenos Aires l'esploratore Julius Popper parlò delle loro «allarmanti tendenze comuniste») e la soluzione approvata fu di radunarli e civilizzarli nella Missione - dove essi morirono a causa di vestiti infetti e per la disperazione della prigionia. Ma Alexander MacLennan disprezzava quella lenta tortura che offendeva il suo istinto sportivo.

Da ragazzo aveva lasciato le bagnate ardesie di Scozia per gli sconfinati orizzonti dell'impero britannico. Era diventato un uomo forte, con una faccia piatta arrossata dal whisky e dai tropici, capelli rossicci e occhi con riflessi di blu e di verde. Era stato sergente di Kitchener a Omdurman. Aveva visto due Nili, una tomba a cupola, giubbe egiziane rattoppate e guerrieri sudanesi, uomini del deserto che si ungevano i capelli con grasso di capra e, durante le cariche di cavalleria, stesi a terra, strappavano le budella ai cavalli con un corto coltello a uncino. Forse capì allora che i selvaggi nomadi sono indomabili.

Lasciò l'esercito e fu reclutato dagli agenti di José Menéndez. I suoi metodi ebbero successo là dove quelli dei suoi predecessori avevano fallito. I suoi cani, i suoi cavalli e i suoi peoni lo adoravano. Non era uno di quei fattori che offrivano una sterlina per ogni orecchio di indio; preferiva uccidere da solo. Detestava veder soffrire qualsiasi animale.

Negli accampamenti degli Ona c'erano dei traditori. Un giorno un rinnegato, che nutriva rancore contro la sua razza, venne da MacLennan e gli disse che un gruppo di indios cacciatori si stava dirigendo verso la colonia di foche di Cabo de Peņas, a sud di Rio Grande. Gli indios macellavano le foche in una piccola insenatura chiusa da alte rocce. Dalla scogliera Red Pig e i suoi uomini guardavano la spiaggia farsi rossa di sangue e l'alta marea che avanzava, costringendo gli Ona in una zona sempre più ristretta. Quel giorno il bottino fu di almeno quattordici teste.

«Un atto umanitario!» disse Red rigo «Se uno ha il fegato di compierlo».

Ma gli Ona avevano un veloce e coraggioso tiratore scelto chiamato Täapelt, specializzato nel togliere di mezzo gli assassini bianchi con fredda e selettiva giustizia. Täapelt si mise a pedinare Red Pig e un giorno lo sorprese mentre andava a caccia di uomini col capo della polizia locale. Una freccia colpì il collo del poliziotto. L'altra penetrò nella spalla dello scozzese, che però guarì e con la punta della freccia si fece fare una spilla da cravatta.

Red Pig trovò la sua nemesi nel liquore del suo paese. Ubriaco giorno e notte, fu licenziato dalla famiglia Menéndez. Si ritirò con la moglie Bertha in un bungalow a Punta Arenas. Morì di delirium tremens a circa quarantacinque anni.

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Thomas Bridges era piccolo di statura, onesto, credeva nella divina provvidenza e non temeva i pericoli. Rimasto orfano, era stato adottato dal reverendo George Packenham Despard, pastore del Nottinghamshire e segretario della Società della Missione della Patagonia, che lo portò alle Isole Falkland. Era lì quando Jemmy Button assassinò i missionari, dei quali proseguì il lavoro, continuando a vivere nella Terra del Fuoco, salvo saltuarie visite in Inghilterra. Ma nel 1886, con gli indios che sempre più morivano, si rese conto che i giorni della Missione erano contati e, avendo una famiglia di sette persone da mantenere e nessuna prospettiva in Inghilterra, chiese al presidente Roca di concedergli la proprietà dei terreni a Harberton; mossa che lo condannò agli occhi di coloro che si consideravano più giusti e virtuosi degli altri.

Da giovane Thomas Bridges aveva avuto la pazienza di passare molto tempo ad ascoltare un indio chiamato George Okkoko, imparando a fondo, con lui, la lingua che Darwin scherniva. Con sua meraviglia scoprì una complessità di struttura e un'abbondanza di vocaboli che nessuno avrebbe sospettato in un popolo «primitivo». A diciotto anni decise di compilare un dizionario che l'avrebbe aiutato a «parlare agli indios, con soddisfazione mia e consolazione loro, dell'amore di Gesù». Questo lavoro gigantesco era a malapena finito alla sua morte, avvenuta nel 1898. Aveva elencato circa 32.000 vocaboli senza aver per niente esaurito le riserve di espressione della lingua Yaghan.

Il suo dizionario sopravvisse agli indios e divenne il loro monumento. Ho avuto fra le mani il manoscritto originale di Bridges, al British Museum, e mi piace immaginare il pastore che di notte, con gli occhi arrossati, mentre il vento sibila sopra la casa, riempie il libro dai risguardi di carta marmorizzata blu con la ragnatela della sua calligrafia. Sappiamo che disperò di trovare, in quel labirinto di significati particolari, parole atte a esprimere gli indefinibili, sfuggenti concetti del Vangelo. Sappiamo anche che non tollerava la superstizione degli indios e che non cercò mai di comprenderla: la strage dei suoi colleghi era troppo recente. Gli indios capivano questa sua tendenza all'intolleranza e gli tenevano nascoste le loro credenze più profonde.

I dubbi di Bridges sono abbastanza comuni. Molti, infatti, trovando nei linguaggi «primitivi» scarsità di parole atte a esprimere concetti morali, hanno pensato che questi concetti non esistessero. Ma i concetti di «buono» o di «bello», così essenziali al pensiero occidentale, sono privi di significato se non sono legati alle cose. Coloro che per la prima volta usarono un linguaggio, per suggerire idee astratte presero il materiale grezzo fornito dal loro ambiente e lo costrinsero in una metafora. La lingua Yaghan - e per deduzione ogni linguaggio - è come una rete di navigazione. Le cose che hanno un nome sono punti fissi, allineati o confrontati, che permettono a chi parla di progettare la prossima mossa. Se Bridges avesse scoperto l'estensione della metafora Yaghan, il suo lavoro non sarebbe mai giunto a compimento. Ma quanto ci ha lasciato è tuttavia bastante per risuscitare davanti a noi la luce dell'intelletto indio.

Cosa dobbiamo pensare di un popolo che definiva la «monotonia» come «un'assenza di amici maschili»? O che per «depressione» usava la parola che descrive la fase vulnerabile del ciclo stagionale del granchio, quando ha perso il vecchio guscio e aspetta che cresca quello nuovo? O che faceva derivare «pigro» dal pinguino Jackass? O «adultero» dallo hobby, un piccolo falco che svolazza qua e là, librandosi poi immobile sulla sua prossima vittima?

Ecco alcuni dei loro sinonimi:

Nevischio - Squame di pesce

Banco di sarde - Muco viscido

Groviglio di alberi caduti bloccando il sentiero - Singhiozzo

Combustibile - Qualcosa di bruciato - Cancro

Cozze fuori stagione - Pelle raggrinzita - Vecchiaia.

Alcuni di questi loro collegamenti erano per me incomprensibili:

Pelliccia di foca - Parenti di un uomo assassinato.

Altri sembravano oscuri e poi divennero chiari:

Disgelo (di neve) - Cicatrice - Insegnamento.

Il ragionamento procede così:

La neve copre il terreno come una crosta copre una ferita. Si scioglie a chiazze e lascia una superficie liscia e piatta (la cicatrice). Il disgelo annuncia l'arrivo del tempo primaverile. In primavera la gente comincia a circolare e le lezioni iniziano.

Un altro esempio:

Pantano - Ferita mortale (o ferito a morte).

I pantani della Terra del Fuoco sono gnoccosi materassi di muschio, stillanti acqua; del colore, giallo opaco con macchie rossastre, di una ferita aperta in suppurazione, con pus e sangue. Coprono il fondo delle valli, piatti come un uomo che giace ferito.

In questa lingua i verbi sono la cosa più importante. Gli Yaghan avevano un verbo espressivo per ogni contrazione dei muscoli, per ogni possibile azione della natura o dell'uomo. Il verbo iya significa «ancorare la canoa a un nastro di alghe»; okon «dormire in una canoa galleggiante» (ben diverso dal dormire in una capanna, o sulla spiaggia, o con la moglie); ukomona «scagliare la fiocina su un banco di pesci senza prenderne di mira uno in particolare»; wejna «essere libero o facilmente spostabile come un osso rotto o una lama di coltello», «andare alla ventura, vagare qua e là come un bambino senza casa o sperduto», «essere attaccato ma nello stesso tempo libero, come un occhio nella sua orbita o un osso nella sua cavità», «dondolarsi, muoversi o viaggiare», o semplicemente «esistere o essere».

Paragonate ai verbi, le altre parti del discorso perdono d'importanza. I nomi derivano dalle loro radici verbali. La parola che significa «scheletro» deriva da «rosicchiare completamente». Aiapi significa «una speciale fiocina messa nella canoa e pronta per la caccia»; aiapux è l'animale cacciato, perciò «la lontra di mare».

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Il milodonte era un bradipo gigante, alquanto più grande di un toro, di una classe unica in tutto il Sud America. Nel 1789 un certo professor Bartolomé de Muņoz mandò da Buenos Aires a Madrid, per il Gabinetto delle curiosità del re di Spagna, le ossa di un Megatherium, cugino, ancora più grosso, del milodonte. Il re ne ordinò un secondo esemplare, vivo o morto.

Lo scheletro stupì i naturalisti della generazione di Cuvier. Goethe lavorò a un saggio che sembra anticipare la teoria dell'evoluzione. Gli zoologi dovevano costruire l'immagine di un mammifero antidiluviano, alto quindici piedi, che era anche una versione ingrandita dei comuni bradipi mangiatori di insetti, che stanno appesi, capovolti, agli alberi. Cuvier gli diede il nome di Megatherium e fece l'ipotesi che la natura si fosse voluta divertire con «qualcosa di imperfetto e grottesco».

Darwin trovò le ossa di un milodonte fra quelle dei suoi «nove grandi quadrupedi» sulla spiaggia di Punta Alta, vicino a Bahia Blanca, e le mandò al prof. Richard Owen al Royal College of Surgeons. Owen rise all'idea di giganteschi bradipi su giganteschi alberi prima del Diluvio. Ricostruì il Mylodon Darwini come un goffo animale che si sollevava sulle anche usando le zampe posteriori e la coda come un treppiede e che, invece di arrampicarsi sugli alberi, li abbatteva con gli artigli. Il milodonte aveva una lingua lunga ed estensibile, come quella della giraffa, che adoperava per raccogliere foglie e vermi. Per tutto il secolo diciannovesimo nelle barrancas della Patagonia continuarono ad affiorare ossa di milodonte. Gli scienziati rimasero perplessi riguardo alla natura degli innumerevoli blocchetti ossei che venivano trovati insieme agli scheletri, finché Ameghino non li interpretò giustamente come elementi di una corazza, simili alle scaglie dell'armadillo.

C'era tuttavia un punto nel quale l'animale estinto si fondeva con l'animale vivente e con l'animale dell'immaginazione. Leggende indie e racconti di viaggiatori avevano convinto alcuni zoologi che un grande mammifero era sopravvissuto alle catastrofi dell'èra glaciale e si aggirava ancora nelle Ande del Sud. Cinque erano gli esseri di cui si parlava a questo proposito:

a. Lo Yemische, una specie di demone divoratore di cadaveri.

b. Il Su, o Succurath, di cui si hanno notizie fin dal 1558. Viveva sulle rive dei fiumi della Patagonia, aveva una testa di leone «con qualcosa di umano», una corta barba da orecchio a orecchio, e una coda irta di aguzze setole, che serviva da riparo ai piccoli. Il Su andava a caccia, ma non solo per la carne; cacciava animali per le loro pelli, con cui si scaldava nella stagione fredda.

c. Il Yaquaru o tigre d'acqua (spesso confuso col Su). Il gesuita inglese Thomas Falkner ne vide uno sul Paraná nel diciottesimo secolo. Era un essere maligno che viveva nei gorghi del fiume, e quando mangiava una vacca i polmoni e le interiora galleggiavano alla superficie (era probabilmente un caimano). 'Tigri d'acqua' figurano anche nel saggio di George Chaworth Muster At Home with the Patagonians [A casa coi Patagoni]; l'autore racconta che la sua guida, un indio Tehuelche, rifiutò di guadare il Rio Senguer per paura dei «quadrupedi gialli più grandi di un puma».

d. L' Elengassen, un mostro descritto nel 1879 da un cacicco della Patagonia al professor Moreno. Aveva una testa umana e una corazza ossea, e lanciava sassi agli estranei che si avvicinavano al suo covo. L'unico modo di ucciderlo era di fargli un taglio nella pancia.

e. Il quinto e più convincente rapporto circa esseri appartenenti a una fauna misteriosa riguardava un enorme animale «che somigliava a un Pangolino gigante» ucciso sul finire degli Anni 1880 da Ramón Lista, allora governatore della provincia di Santa Cruz.

Tali erano le notizie su cui si basava l'opuscolo di Fiorentino Ameghino.

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