Copertina
Autore Alfredo Chiàppori
Titolo Franco destino
SottotitoloUn'infanzia d'artista
EdizioneMarsilio, Venezia, 2004, Gli specchi , pag. 254, cop.fle., dim. 122x210x22 mm , Isbn 978-88-317-8458-0
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

Non ho mai conosciuto mio padre.

Di lui mi è rimasta una sola fotografia: vedo un sorriso ironico, un ciuffo malandrino di traverso sulla fronte, due occhi vivaci. La sigaretta tra le labbra, all'angolo della bocca, tiene una mano in tasca, l'altra sulla spalla di mia madre, che lo guarda sorridente. Lei ha ventinove anni, indossa un vestito chiaro a fiori con le maniche corte a sbuffo, calzine bianche e scarpette nere. Sembra una ragazzina.

Mio padre ha una camicia a quadri, sbottonata sul collo, i pantaloni di tela, larghi e un po' sformati all'altezza del ginocchio; i piedi nudi infilati nei sandali.

È magro, senza un filo di pancia; una spanna più alto di lei e di vent'anni più vecchio. Ogni volta che riguardo la fotografia, penso a lui come a una canaglia che mi piacerebbe tanto incontrare. Dopotutto, se avessi avuto un altro padre, io non sarei quello che sono.


Mia madre è incinta.

Di me.

Ha già avuto una bambina, che adesso ha quattro anni. Il responsabile della gravidanza se l'è squagliata un minuto dopo aver avuto la lieta notizia. E non s'è fatto più vedere.

Quando mio padre la sposa, lei è dunque una ragazza madre e lui vedovo da sette anni. La moglie era una bella ragazza di Pesaro, figlia unica di un ricco macellaio, morta per una tubercolosi ossea, senza lasciargli figli.

Lui ha una bella voce baritonale e gli piace cantare romanze dell'opera lirica. Una delle sue preferite è "Nemico della patria", dall' Andrea Chénier di Umberto Giordano. Però confessa a mia madre che il compositore che ama di più è Puccini. Anche se il più grande di tutti è Mozart. E allora le canta "Madamina il Catalogo è questo", dal Don Giovanni.

Lei l'ascolta, innamorata e devota, ma sono cose che non riesce a capire. Dopo la quinta elementare, la sua famiglia l'ha mandata a lavorare come servetta in una casa di ricchi, a Canzo, e lei non ha avuto la possibilità di istruirsi. Sua madre è morta subito dopo averla partorita e il padre, un anno dopo, ha trovato un'altra moglie.

La matrigna, Marina, originaria di Colle di Sogno, un paese delle montagne bergamasche, non è stata molto affettuosa con lei.


Si sposano in chiesa, perché lei vuole così. È il prevosto a celebrare l'unione. Per motivi che mia madre ignora, il monsignore conosce bene mio padre e lo tratta con cordialità. Forse anche lui ha contribuito a convincerlo ad accettare la cerimonia religiosa.

«Ego coniungo vos in matrimonio. In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.»


Nella gioia di quel matrimonio, c'è un'ombra che rattrista mia madre: lui non vuole riconoscere come sua quella bambina, sveglia e intelligente, loquace e affettuosa, a cui pure vuole bene.

Mia madre, Carlotta, l'ha conosciuto una domenica pomeriggio portando a passeggio la piccola. Lui chiede il permesso di fare una foto alla bambina...

Così mia sorella Chiara non prende il suo cognome, anche se lo chiama "papà Luigi".


Dietro di loro, nella fotografia, si vede la sponda del Lago di Lecco, una barca a remi alata in secco sulla riva di sassi. Sullo sfondo il profilo del Moregallo e un cielo sereno con qualche cumulo bianco.

È il luglio del 1943. Mio padre vive a Lecco dallo scoppio della guerra. Perché sia approdato lì, dopo un lungo girovagare, resta un mistero.

La fotografia l'ha scattata lo zio Alfredo, suo fratello.

Alfredo è un musicista, prima viola nell'Orchestra della Scala. Da qualche mese vive in casa nostra, sfollato dopo i primi pesanti bombardamenti su Milano. Un bell'uomo alto, elegante. Separato dalla moglie, ha una figlia che vede raramente. Non gode di buona salute: soffre di bronchite cronica e non riesce a rinunciare alle sigarette.

Suona il suo strumento per ore e ore ogni giorno, con grande tedio di mia madre. Dice che se sta un giorno senza suonare, se ne accorge lui. Dopo due giorni se ne accorge il direttore d'orchestra, e dopo tre se ne accorge anche il pubblico. Mia madre tace, sopporta quel continuo vibrare di suoni, un dipanarsi senza fine di trilli e accordi che la straziano.


Mio padre è spesso in barca, alla pesca con la lenza. Quando non è in barca, è quasi sempre al Caffè Colonne a giocare a biliardo. Pare che nel gioco all'italiana sia imbattibile. Ha intorno a sé un bel giro di polli che si lasciano spennare e gli danno di che mantenere la famiglia. In casa, malgrado la guerra, il necessario non manca.

Lui ha un mestiere, in verità.

Ha un diploma di ragioniere, ma non ha mai messo piede in un ufficio.

Fa il fotografo.

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Pagina 37

Alla fine mia madre dice di sì. Diventa una delle staffette che fanno la spola tra i diversi gruppi della Resistenza.

Le insegnano come agire in sicurezza, come comportarsi per ridurre i rischi. Le spiegano i segnali utilizzati per informarla quando e dove ritirare i messaggi: un vaso di fiori alla finestra di una certa casa, collocato a destra o a sinistra sul davanzale. Se non c'è il vaso, significa che non ci sono consegne da fare.

Non le nascondono i pericoli. Quando i nazifascisti mettono le mani su una donna che lavora per i partigiani, sanno come fargliela pagare.

È il momento in cui, nei reparti della Resistenza che operano in Valsassina, in Valtellina e nelle valli bergamasche, affluiscono nuove reclute; come avviene in tutta la zona alpina e prealpina, nella pianura padana, nella fascia dell'Appennino centrale.

Nascono le prime brigate. Le più efficienti sono le formazioni comuniste e quelle del partito d'azione. Le prime si chiamano "Garibaldi", le seconde "Giustizia e Libertà".


Ma la guerra ha ovunque lo stesso volto disumano: colpisce alla cieca anche gli innocenti, come se tutti fossero soldati in prima linea.

Il fronte è dappertutto, i rastrellamenti sono all'ordine del giorno. Tedeschi e fascisti arrestano gli uomini per inviarli nelle industrie belliche in Germania e per togliere di mezzo quelli sospettati di fiancheggiare i partigiani.


Un giorno Santina sente il rumore di un autocarro che si ferma sotto casa, sullo stradone per Bergamo. Si affaccia alla finestra e vede che sono tedeschi. C'è anche una camionetta, con un ufficiale ritto in piedi che urla ordini. I militari smontano svelti dal camion, le armi in pugno, e di corsa si dirigono verso la cava, al di là della strada.

Sono SS.

Poco dopo, da una delle gallerie escono due ragazzi con le braccia alzate. Sono i figli di Carolina, che abita nella casa di fianco alla cava. Carolina non assiste alla scena; è andata al lago a fare il bucato.

Santina vorrebbe togliersi dalla finestra, ma resta lì impietrita a guardare.

L'ufficiale continua a urlare. I due ragazzi hanno il terrore negli occhi. Li mettono contro un muro e li abbattono con una sventagliata di mitra. L'ufficiale si avvicina ai due corpi, toglie la rivoltella dalla fondina e impassibile spara un colpo alla nuca, prima a uno, poi all'altro.

Le SS si dividono in gruppi e iniziano a perquisire le case intorno.

Quando entrano in quella di Santina, la trovano seduta davanti al camino spento, con me in braccio e Cornelia che si nasconde alle sue spalle. Passano di stanza in stanza, guardano dappertutto, sotto i letti, dentro gli armadi. Salgono in solaio, sul tetto, scendono in cantina, escono nell'orto e sfondano a calci la porta del capanno dove Sandro tiene gli attrezzi. Guardano persino dentro il pozzo.

Cercano gli uomini, ma non ne trovano.

E finalmente se ne vanno.

Allora Santina, che ha ancora nelle orecchie i tonfi degli scarponi chiodati, cerca la scatoletta di tabacco Sant'Agostino. Con le mani che le tremano, si fa due prese abbondanti.

Tocca a lei andare incontro a Carolina, per prepararla a quel che l'aspetta. Mi affida a Cornelia ed esce.

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Pagina 51

Fino a che punto si spinge la nostra memoria?

I miei primi ricordi sono vaghi, nebulosi. Quando cerco di afferrarli, diventano fuggevoli ed evanescenti come fantasmi. Ma per una qualche ragione che ignoro, dalla memoria incerta ecco sorgere particolari e circostanze in cui mi ritrovo in lucida coscienza. Sono frammenti, eppure continuano a rincorrermi, a circuirmi.

A partire da qui comincia a dipanarsi il filo ininterrotto che tiene uniti gli eventi della mia vita: la memoria diventa tutt'uno col mio "io".


Sono nel lettone, tra Sandro e Santina, che dormono russando. Io sono sveglio e guardo il soffitto nel buio della camera. Qualcosa ha catturato la mia attenzione. Un sottile fascio di luce entra dalle persiane chiuse, si proietta sul soffitto e si muove ora in un senso, ora nell'altro.

È come un lungo dito luminoso che disegna un semicerchio, ora di qua, ora di là.

Resto incantato.

È il riflesso dei fari dei pochi veicoli che passano sullo stradone. Ascolto il rumore arrivare da una parte, avvicinarsi, per allontanarsi e scomparire dall'altra. Però mi accorgo che se il rumore viene da destra, il dito luminoso compare a sinistra. E quando il rumore svanisce a sinistra, la luce si dilegua a destra.

Il dito luminoso e il rumore vanno sempre al contrario.


Altri ricordi sono legati al lettone.

Fa freddo, la coperta è morbida e calda. Si sente l'ululare cupo del vento che arriva dal lago, s'impiglia tra gli alberi, ne scuote le fronde, e scende con un lamento giù per il camino, di là in cucina. Sandro, che ormai chiamo "papà Sandro", è lì vicino a me e mi canticchia una filastrocca:

    El gatt soeu'l tècc
    el mugna ch'el gh'ha frècc
    miaaaauuu!

Io rido e gli chiedo di dirmela ancora. E poi un'altra volta, e un'altra ancora. Finché non mi addormento.


Nella camera da letto ci sono un comò e un grande armadio di legno scuro.

Sul comò, sopra un centrino ricamato, una piccola statua in gesso policromo della Madonna sotto una cupola di vetro: una figura in bianco e azzurro, gli occhi rivolti al cielo.

Ogni sera, prima di mettermi a dormire, Santina, che ormai chiamo "mamma Santina", mi dice che devo salutare la Madonna, e m'insegna un gesto che faccio con la mano destra, toccandomi la fronte, il petto e le spalle.

«È il segno della croce.»

Ma la cosa che m'interessa di più, in quella camera, è il grande armadio, che a me pare una casa misteriosa.

L'armadio ha in alto un timpano dalle modanature molto semplici: sembra il tetto a spioventi di una casa.

Dev'essere una casa, e dentro ci dev'essere qualcuno.

Tento di aprirne le ante per guardare e non ci riesco. Provo e riprovo, ma le ante non si aprono. Chi c'è dentro?

«Cosa stai facendo?...»

«Mamma Santina, chi c'è dentro?»

«Chi c'è dentro?... Ci sono i vestiti.»

«Chi sono?»


Dopo la morte di Cornelia non ho più nessuno che giochi con me. A pianterreno vivono due famiglie con bambini, ma sono tutti troppo grandi e non mi vogliono tra i piedi. Loro vanno già a caccia di lucertole e ramarri, a tirare sassi ai rospi, a cercar nidi di uccelli arrampicandosi sugli alberi, a fare il bagno nudi nel torrente che scende dal Magnodeno.

Così resto solo, quasi sempre sul grande terrazzo coperto, a inventarmi giochi silenziosi.

Rivelo una precoce attitudine al disegno, che diventa il mio gioco preferito. La fase dello scarabocchio dura poco; ben presto i miei disegni si fanno più precisi e accurati, ricchi di particolari.

«El se pèrd via inscé, el Nino» dicono in casa.

Un giorno, mamma Santina torna da Chiuso e dalla borsa della spesa toglie un pacchetto per me. Dentro ci sono un album, una matita, un temperino e una scatoletta di cartone con sei pastelli colorati marca Giotto.

Capisco per la prima volta che cos'è un regalo.

Disegno il mondo attorno a me: mamma Santina e papà Sandro; Rosetta e le altre; il cane Friz e il gatto Ciccio; il treno che vedo passare tra gli orti e i canneti verso il lago, con la locomotiva nera e lo sbuffo che esce dal fumaiolo; le montagne verdi, il cielo azzurro e le nuvole bianche; i vasi di gerani allineati lungo la ringhiera del terrazzo; le galline, i tacchini e le oche giù nel cortile.

Uno dei soggetti più frequenti è il grosso gallo che si chiama Terenzio: l'alta cresta frastagliata, i bargigli carnosi e rossi, il becco giallo, la coda a forma di falce e le piume blu, le zampe con gli speroni. Papà Sandro prende uno di questi miei disegni e lo incolla sul vetro della credenza in cucina.

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Pagina 75

Lasciare la casa di mamma Santina è come perdere il centro del piccolo mondo della mia prima infanzia: un universo chiuso e nondimeno illimitato. È lì che ho imparato a nominare le cose, animate e inanimate, quelle visibili e quelle invisibili. È lì che ho scoperto i colori, gli odori, i sapori, gli umori; la luce e l'ombra, il giorno e la notte, il mutare delle stagioni e il fluire del tempo; i tuoni, i lampi, le saette, la pioggia, la neve, la grandine, il calore e il gelo.

La morte.

È lì che ho scoperto" quella cosa là", che soltanto molto più tardi ho chiamato "sesso".

La grande cucina, il fuoco, le fiamme del camino, il vento che si lamenta giù per la cappa, il paiolo della polenta, la finestra a levante, che al mattino lascia entrare, obliqui, i raggi del Sole a illuminare il tavolo scuro e le sedie di paglia. La camera da letto, il comò con la statuina della Madonna, l'armadio delle meraviglie e delle paure, il lettino e il lettone, la finestra a ponente, che al tramonto s'imporpora dell'ultima luce del Sole calante dietro le montagne del Lago di Garlate. Il grande terrazzo coperto, la ringhiera di ferro battuto, il pavimento in cotto, la tinozza del bagno domenicale, il pimpinello. Gli orti, il pozzo, la cisterna dell'acqua piovana, il gallo Terenzio che schiamazza a presagire il giorno, i canneti, il frinire delle cicale, il canto dei grilli nelle sere d'estate, le bestie di Serafino, il profumo del letame, il cortile di Carolina, il piccolo bosco sulla collinetta, lo stagno delle rane, la roccia dell'acqua sorgiva, le more, le pesche, le fragole, le susine, i fichi, le albicocche, le mele, la linfa dell'acetosella e dell'erba cucca, le pannocchie. Bastiano e la fisarmonica, i firlinfeu, i balli, le marionette, il rito della Messa, le candele, l'incenso, le galline strozzate da Laurenti, il tabacco da presa di mamma Santina e il toscano di papà Sandro, le tenerezze di Milietta, Gina e Rosetta, la fotografia incorniciata di Cornelia sulla mensola del focolare, lo spazzacamino Salvatore dalla faccia nera che mi fa paura.


Ora abito con mia madre, Corrado e mia sorella Chiara, che ha lasciato il collegio delle orfanelle. Corrado ha riconosciuto Chiara come figlia sua, sicché lei adesso ha un altro cognome, ma sempre diverso dal mio.

La casa è nel vecchio borgo di Lecco, a pochi passi dall'ingresso laterale della Basilica di San Nicolò, il patrono della città. Le scale sono così strette che si passa a malapena in due. E sono così buie che salgo e scendo sempre di corsa, più in fretta che posso; ma talvolta mi fermo e chiamo mia madre.

«Vieni giù a prendermi!»

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Pagina 101

Come mai papà Corrado non va a lavorare?

Da giorni lo vedo girare per casa in ore in cui, di solito, è in fabbrica. Nervoso, l'aria cupa, va e viene come un'anima in pena. A me e a Chiara non rivolge nemmeno la parola; e tratta male mia madre.

«C'è da pagare l'affitto» gli dice lei, mentre tiene d'occhio il tegame sulla stufa.

«Il padrone di casa può aspettare. Sta pur certa che non muore di fame. Con tutti i soldi che ci chiede per questa stamberga, deve solo ringraziare il suo Cristo se non gli rompo il muso a cazzotti.»

«Càlmati, adesso... È pronto da mangiare.»

Seduti a cena, nessuno parla. Lui, a capotavola, tiene gli occhi bassi sul piatto di minestra.

«Vino non ce n'è?»

«No... Dobbiamo pagare il conto della Gemma, abbiamo indietro un mese... Non ordino dell'altro vino.»

Finita la cena, papà Corrado si avvia alla porta senza salutare.

«Non fare tardi.»

Lui si ferma, e prima di uscire punta l'indice verso di lei.

«I padroni ci rubano tutto. E con De Gasperi al governo non si mangia.»

«Lo so.»

«Se facciamo sciopero è solo per ottenere quello che è nostro, lo capisci o no?»

«Sì, capisco.»

«Dici di capire, però vorresti che lo sciopero finisse subito.»

«Non abbiamo più un soldo. Come facciamo a tirare avanti?»

«In qualche modo faremo. Ma questa volta non cediamo.»

Scende tre gradini, si ferma, torna indietro.

«Cosa credi?.. Credi che abbiamo fatto la guerra partigiana solo per cacciare i nazifascisti? No, Carlotta, volevamo cambiare la vita e costruire un mondo nuovo. E invece?... Guarda te in che condizioni siamo. Lo sai o no che gli operai comunisti sono mandati nei reparti peggiori? Li mandano lì come al confino, li umiliano, li stroncano... E poi trovano la scusa buona per licenziarli.»

«Toccherà anche a te?»

«È probabile.»

«E allora?»

«Allora niente. Andiamo avanti.»

«Credevo che la guerra fosse finita da un pezzo.»

«È iniziata un'altra guerra. Con i dollari degli americani sono riusciti a spaccare il sindacato. Hanno inventato il sindacato degli operai cattolici, ti rendi conto?... Come se in fabbrica fossimo diversi. La verità è che, adesso, siamo tutti più deboli.»

«Quanto durerà lo sciopero? Sono già dieci giorni che non lavorate.»

«Stiamo a vedere chi cede per primo, se i padroni o noi.»

«Ma quanto durerà?»

«Non lo so. Anche i padroni ci rimettono un mucchio di soldi.»

«Quanto durerà?» insiste mia madre.

«Non ci fossero i crumiri, avremmo già vinto.»

«Sono tanti i crumiri?»

«All'inizio erano pochi. Aumentano ogni giorno che passa. Per farli entrare in fabbrica hanno mobilitato interi reparti della Celere. Gli "scelbini", li chiamiamo noi. Armati di tutto punto: elmetti, manganelli, camionette, autoblindo, idranti. Tre scelbini per ogni crumiro.»

«È una battaglia persa, Corrado.»

«Ma cosa dici?»

«Vincono sempre loro.»

«Ti sbagli, non è vero.»

«Sì, che è vero.»


Saliti in torretta, io e Chiara c'infiliamo sotto le coperte in attesa di addormentarci. Nel buio, ascoltiamo il picchiare della pioggia sulle tegole dei tetti. Di tanto in tanto, il bagliore d'un lampo illumina la piccola stanza. Il rombo del tuono arriva di lì a poco e fa tremare i vetri delle finestrelle.

«Cosa vuol dire sciopero?» domando a Chiara.

«È quando gli operai non vanno a lavorare.»

«Perché non vanno a lavorare?»

«Non lo so. La maestra ci ha detto che gli operai che scioperano sono tutti comunisti.»

«Cosa vuol dire comunisti? Papà Corrado è comunista?»

«La maestra ci ha detto che i comunisti non vanno in chiesa. Come gli ebrei.»

«Chi sono gli ebrei?»

«Quelli che hanno crocifisso Gesù.»

Il giorno dopo, la mamma ci dice che papà Corrado è andato a vendere la sua Moto Guzzi rossa fiammante.

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Pagina 111

La scoperta dell'alfabeto mi si spalanca davanti come una porta luminosa: quando l'attraverso, mi ritrovo nel mondo dei grandi, che sanno leggere e scrivere.

Alle pareti dell'aula scolastica sono appesi cartelloni con le vocali e le consonanti, in stampatello e in corsivo, le maiuscole e le minuscole. E disegni che raffigurano oggetti e animali, ciascuno col proprio nome scritto sotto.

Avverto la magia di quelle immagini.

Che il mondo dei grandi sia lo stesso mondo delle fiabe?

Io so che i maghi e le fate sanno compiere prodigi: con la bacchetta magica tracciano misteriosi segni. Il segreto dei maghi e delle fate è forse l'alfabeto?

Fanno comparire uomini e cose, suoni e colori, draghi e cavalli alati, castelli di ghiaccio e palazzi d'oro, le nuvole e i fiori, il giorno e la notte, le albe e i tramonti, la neve, la pioggia, il vento. La Luna, il Sole, le stelle.

Prima con la matita dalla punta morbida, poi con i pastelli, imparo a scrivere le vocali e le consonanti. Nelle vocali avverto un sentimento colorato, nelle consonanti qualcosa che sta al di fuori di me.

La a bianca, la e verde, la i gialla, la o rossa, la u blu: la meraviglia, la gioia, la tenerezza, il calore, la paura.

Quando riesco a fare una o senza sbagliare, un segno di forma ovale che si ricongiunge in alto in un punto esatto, provo un brivido di piacere.

Nella erre di "ruota" sento il rotolare; nella elle di "fuoco" vedo le fiamme; nella esse di "serpente" rivedo lo strisciare di una biscia nel cortile di Carolina; nella ti di "tetto" ritrovo le tegole che vedo dalla finestrella della torretta; nella emme di "mamma" immagino mia madre.

Dopo le lettere dell'alfabeto, la scrittura unita: compongo le prime parole collegando una lettera all'altra. Uso la cannuccia e il pennino, la carta assorbente per asciugare l'inchiostro. Il pennino lo intingo nella boccetta di vetro dai bordi allargati, inserita in un'apertura tonda sulla destra del banco.

Ormai sono in grado di evocare le parole con la scrittura: ho trovato la bacchetta magica.

È Pasquale, il bidello, che riempie le boccette a ciascuno di noi, usando un recipiente di latta dal lungo becco.

«Questo è inchiostro» ci ammonisce. «Guai a voi se lo bevete!»

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