Copertina
Autore Nicola Chiaromonte
Titolo Credere e non credere
EdizioneBompiani, Milano, 1971, Portico 57 , pag. 224, cop.fle., dim. 13,5x21,5x2,3 cm
LettoreRenato di Stefano, 1972
Classe critica letteraria
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al sito dell'editore






 

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Indice


Premessa                                          5

Fabrizio a Waterloo                              11

Tolstoi e il paradosso della storia              33

L'estate 1914                                    77
    1) Fatalità storica e coscienza individuale  77
    2) I limiti del possibile                   102
    3) Il giudizio di Dio                       115

Malraux e il demone dell'azione                 129

Pasternak fra la natura e la storia             161

Il tempo della malafede                         185

Crisi vera e falsa religione                    201

Credere e non credere                           213


 

 

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Pagina 5

PREMESSA



Questo libro è nato senza premeditazione, in tempi diversi, obbedendo allo stimolo di circostanze e letture diverse. Esso ha tuttavia un tema unico: il rapporto fra l'uomo e l'evento, fra ciò che egli crede e ciò che gli accade. La questione della Storia. È una questione che ha accompagnato me (e con me, senza dubbio, un gran numero di miei contemporanei) fin dalla prima giovinezza, attraverso il fascismo, la seconda guerra mondiale, il comunismo e, piú generalmente, le vicende politiche e intellettuali dell'Europa durante gli ultimi quarant'anni. Si trattava di dire "sí" o "no" alla Storia in atto, di scegliere fra le alternative che essa sembrava imporre fra idee diversamente stabilite e dotate di potere. Se si diceva di "no", bisognava chiarire in nome di che cosa si pronunciasse il "non serviam". E il "no" poteva comportare il rifiuto radicale dell'idea che la verità si trovasse nel corso stesso degli eventi, fosse figlia del tempo e della forza; cioè il distacco da quella credenza piú o meno "dialettica" nella Storia che appariva, in varie forme e specialmente nei fatti, come la credenza dominante.

Non è tuttavia da una riflessione sul problema della Storia in sé e per sé che questo libro ha cominciato a prender forma, ma, piú specificamente, da una domanda che mi ero fatta per anni, nel corso di letture e discussioni con amici, sulla sorte del socialismo europeo: perché il movimento socialista, che aveva indubbiamente costituito il tentativo piú vigoroso e intellettualmente ricco di promuovere la causa della giustizia e dell'eguaglianza in Europa, era stato scompaginato a tal punto dallo scoppio della prima guerra mondiale da non esser poi mai piú riuscito a ricostituirsi in modo politicamente efficace e ideologicamente convincente? Come può un'idea esser sconfitta da un evento? Eppure il socialismo era certo stato sconfitto perché non era riuscito a opporsi validamente alla guerra. Prova flagrante di tale sconfitta, la vittoria del bolscevismo. Due erano stati infatti i motivi principali della vittoria del bolscevismo in Russia e del prestigio che esso aveva acquistato in Europa occidentale: primo, la coerenza con la quale i suoi capi si erano opposti alla guerra e, secondo, non meno importante, il rifiuto implacabile di ammettere nel regime da essi instaurato una qualsiasi forma di democrazia. Questo, Rosa Luxemburg lo aveva visto e denunciato immediatamente con grande chiarezza.

Fra letture, discussioni e rimuginamenti, la domanda rimaneva sospesa. Ora, nel 1952, mi accadde di rileggere un romanzo oggi ingiustamente relegato nel limbo dei "superati": Les Thibault di Roger Martin du Gard, la cui ultima parte, L'Été 1914 e Épilogue, tratta appunto dello scoppio della prima guerra mondiale. Io l'avevo già letta fra il 1937 e il 1939, quando era stata pubblicata per la prima volta, e mi aveva molto colpito. Nel rileggerla, ne fui ancora piú colpito: c'erano lí, su quegli avvenimenti, delle osservazioni che non avevo trovato in nessun altro libro. Il risultato fu una massa di note in cui mi pareva d'intravedere il principio di una risposta alla mia domanda.

Queste note rimasero tali fino al 1953, quando lessi il libretto di Isaiah Berlin, The Hedgehog and the Fox, saggio sulla concezione della Storia esposta da Tolstoi in Guerra e pace, che rimane a tutt'oggi il piú penetrante e suggestivo che io conosca sull'argomento. L'analisi di Berlin mi condusse a vedere con chiarezza che il problema della disfatta del socialismo democratico non era il piú importante; la vera questione era la credenza nella Storia con la maiuscola. Questa era la questione che Tolstoi sollevava in realtà nel suo libro, e non quella della parte maggiore o minore che poteva aver avuto Napoleone nell'esito delle battaglie. Ma, dopo esser stato il credo fondamentale del diciannovesimo secolo, la fede nella Storia sembrava essere ancora molto radicata nel ventesimo. In ogni caso, non c'era un'altra credenza diffusa che le contendesse il campo, ma soltanto obiezioni e contrasti sparsi. Seguendo il filo di tali pensieri, mi misi a rileggere Guerra e pace, cercando di esaminare punto per punto il significato del romanzo.

Mentre scrivevo su Tolstoi, mi resi conto che fra le sue idee sulla "guerra" e la "pace" e i temi dell' Été 1914, ultima parte dei Thibault, c'era un nesso a prima vista sorprendente, e tuttavia certo. Il contesto era diverso, ma le questioni sollevate erano dello stesso ordine. Nell'uno come nell'altro libro, si trattava del significato dell'evento storico e del rapporto fra la storia e la coscienza individuale. Inoltre, in Martin du Gard come in Tolstoi, si manifestava un'idea che colpiva alla radice la visione storicista della vita. Questa idea era l'idea del Destino. La gran fiducia che l'uomo aveva concepito nella sua capacità di controllare gli eventi sembrava aver condotto alla riapparizione di quell'antica figura. Quest'osservazione m'indusse a riprendere le vecchie note su Martin du Gard per cavarne un discorso il piú possibile ordinato.

Ma l'idea del Destino non appariva solo in Tolstoi e in Martin du Gard, fra i romanzieri che avevano preso a loro tema la storia in atto. La si ritrovava, in forma altrettanto insistente che ambigua, nell'opera di uno scrittore contemporaneo: André Malraux. I romanzi — e non solo i romanzi: anche le altre opere — di Malraux sono espressione eminente della preoccupazione dell'azione storica, caratteristica dell'intellettualità contemporanea. È dunque certamente significativo che, in Malraux, il problema dell'azione efficace al fine di abbattere la società borghese e liberale e instaurare un ordine ispirato a Marx e a Nietzsche insieme, sia animato fin dal principio dal sentimento del destino. Per Malraux, essere impegnato in un'azione volta a "cambiare il mondo" e trovarsi a faccia a faccia col destino sono la stessa cosa.

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CREDERE E NON CREDERE



A che cosa crediamo, se tuttavia crediamo in qualche cosa? E che cosa significa credere?

Solitamente e banalmente, si suppone che, per i Greci, dietro il disordine apparente del mondo ci fosse un cosmos, cioè un tutto ordinato e luminoso reso significante e drammatico dalle divinità che ne incarnavano gli aspetti. Si suppone anche che il cristiano del Medioevo, a differenza di noi, fosse ancorato a una gerarchia di credenze che cominciavano con la fede in un Dio Uno e Trino, continuavano col culto dei Santi e finivano col sentimento che ogni cosa creata portava l'impronta della volontà del Creatore e aveva il suo posto in un ordine immutabile; senza contare la fedeltà alla Santa Chiesa Cattolica. Si dice infine oggi (o si diceva fino a poco tempo fa) che, in un mondo disfatto e demoralizzato, gli unici a credere in qualche cosa e ad agire secondo la loro credenza sono i comunisti.

C'è di piú: si parla con una sorta d'invidia e di stupore (anche quando lo si considera un illuso), chiunque dica di credere in una data religione o in una data idea politica, e gli si crede sulla parola, considerandolo un individuo moralmente privilegiato per il fatto stesso di poter dire una cosa simile.

Ma se poi si cerca di spiegare in che cosa consista propriamente il fatto di credere, ci si trova in un mare d'ambiguità. Il cosmos di Esiodo non è quello di Eschilo, quello di Eschilo non è quello di Tucidide; il quale Tucidide è da alcuni considerato (insieme a Euripide) spirito non religioso affatto, ma da altri non meno religioso del poeta del Prometeo; il quale poeta del Prometeo, d'altra parte, in uno dei suoi canti piú solenni si rivolge al Padre degli Dei con le singolari parole: "Zeus, sia egli chi sia, se è con questo nome che gli piace esser chiamato, con questo nome lo chiamerò..."; dalle quali traspare una credenza religiosa ben diversa da quella che ispira la Teogonia o gli Inni omerici, e ben piú complessa.

Quanto al Medioevo, esso fu un'epoca di miscredenza e d'eresia, non meno che di slanci mistici e d'alta speculazione teologica. Intorno al 1200, essere cristiano poteva voler dire essere bogomil o càtaro, forme di credenza che s'accordavano assai poco con quel dato essenziale del cristianesimo che è la riconciliazione fra Dio e l'uomo e la redenzione della natura umana dalla colpa originale; ma un càtaro si affermava cristiano proprio per quegli aspetti della sua fede che contraddicevano non solo la concezione che del cristianesimo potevano avere un Bonaventura da Bagnoregio o un Francesco d'Assisi, ma le parole piú semplici dei Vangeli.

Quanto ai comunisti, infine, che cosa significasse per loro credere nella "linea" dettata da Stalin e, particolarmente, nella giustizia dei processi di Mosca, oggi, infine, lo sappiamo: significava insieme non crederci, non dubitarne e fare come se ci si credesse; né si può dire che una tale ambigua condizione di spirito non fosse una manifestazione di fede, visto che ci fu, tra l'altro, chi l'attestò col martirio.

Nei suoi Travels in Arabia Deserta, Charles Doughty, un viaggiatore inglese del secolo scorso, racconta la conversazione udita una notte, durante una sosta del pellegrinaggio alla Mecca, fra un persiano e un giovane arabo. Diceva il persiano: "Che cosa pensi dei cristiani? La loro è una buona religione, dicono: adorano Gesú come noi Maometto e gli ebrei Mosè. Chi può dire che la loro religione non è buona, o che la nostra è migliore? Se qualcuno mi mettesse qui in mano mille sterline, non sono per niente sicuro che non consentirei a cambiare la mia religione con la sua." Rispose l'arabo: "Io a nessun costo consentirei a cambiare la mia religione; il mondo scomparirebbe."

Questa, si dice, è fede, credere significa questo: la garanzia della compattezza e solidità del mondo, una tale adesione dell'animo a una Verità suprema e alla Legge che ne discende che fede e sentimento del reale diventano la stessa cosa; nel seguito incoerente dei giorni e delle circostanze, solo la credenza religiosa può fornire quella certezza che tutto concorre a un unico significato e a un unico fine da cui dipende per noi il legame di un'idea con l'altra, di un'azione con l'altra, di una cosa con l'altra.


Cosí si suppone. E tale si presenta di fatto la fede religiosa. Ma è questo un credere nel senso proprio della parola, oppure qui al credere si mescola e si sovrappone una volontà caparbia: la volontà di chiusura a tutto ciò che non è la fede professata e condivisa con la propria gente? Nel sentimento che se non si mantenesse fermo il legame religioso "il mondo scomparirebbe", sembra implicita la coscienza piú o meno oscura che, per mantenere la fede, bisogna mantenere a distanza, oltre che le credenze diverse dalla propria, una realtà informe, minacciosa, ostile che è precisamente il mondo nudo e crudo, quello dell'esperienza grezza ed elementare. Ma se il mondo va tenuto insieme da un atto che esclude tanta parte della realtà, allora l'atto di fede somiglia molto a un atto di forza. Una fede mantenuta grazie a una tale tensione della volontà è fede in un Dio o in un ordine d'idee che, mentre si afferma unico e assoluto, implica, per la sua stessa natura esclusiva, l'esistenza, fuori di esso, di tutto un mondo di cose e d'idee ad esso estranee e da esso indipendenti che lo mettono in dubbio, e che perciò bisogna di continuo ignorare, tenere a distanza, combattere. Viene allora in mente il detto di quello spagnolo compagno di Cortes di cui parla Diaz del Castillo, secondo il quale la virtù prima del cristiano non sta nel credere, ma nel "dover voler credere".

Credere, si direbbe, è un atto molto piú semplice. E c'è da domandarsi, a proposito del dialogo fra il persiano e l'arabo, chi dei due fosse a conti fatti il piú religioso: quello che si abbandonava all'incredulità svagata e un po' cialtrona, ma nell'abbandonarvisi arrivava a presentire che l'arcano del mondo (e dunque anche del Divino Potere che vi presiede) non finisce dove finiscono i dogmi e i precetti di una religione rivelata, sia pur essa quella nella quale si crede; oppure l'altro, quello fermo e imperterrito nel "dover voler credere", nell'animo del quale evidentemente l'atto del credere, che è un atto insomma positivo d'adesione a una verità interiore, si mescolava di negazione, rivelando con questo i suoi limiti e la debolezza insita nel suo rigore; debolezza che consiste nel ripudiare piú o meno radicalmente quel rapporto libero con i fatti della natura e dell'esperienza di cui in definitiva si alimenta ogni e qualsiasi disposizione umana.

Noi gente supposta razionale tendiamo a identificare il vero credente con questo secondo tipo. E non a caso: è in lui, infatti, che la credenza religiosa si mescola di elementi razionali, volontari e pragmatici, ed è quindi piú comprensibile, in quanto partecipa piú da vicino della fede nella conoscenza obbiettiva e nell'efficacia tecnica che ha sostituito in noi moderni (senza necessariamente annullarla) la fede nel Dio unico. Perciò noi tendiamo a fare della credenza religiosa una caricatura della certezza scientifica quanto a un determinato stato di fatto: struttura di un corpo o funzionamento di una macchina che sia. Immaginiamo, cioè, la credenza religiosa come un blocco spirituale impenetrabile a ogni realtà estranea o il perno adamantino di ogni movimento dell'animo.

In altri termini, non senza fondamento in una lunga storia, noi confondiamo la credenza col fanatismo intellettuale o intellettualizzato e, cosi facendo, trascuriamo il fatto evidente che un credere assoluto è una contraddizione in termini, giacché la nozione stessa del "credere" implica una certa relatività e instabilità, dato che l'oggetto del credere — Dio, racconto mitico o senso ultimo del mondo — ci è dato come incerto, sfuggente e oscuro per natura.

"A che cosa crediamo?" Rispondere o tentar di rispondere alla domanda ci mette subito in una situazione ambigua: rischiamo, cioè, di affermare di credere in una quantità di cose in cui di fatto non crediamo piú, o non crediamo veramente, ma pensiamo di dover credere (e soprattutto di dire che ci crediamo) se non vogliamo far figura di non credere in nulla; ciò che equivarrebbe a una confessione d'impotenza morale. Strano timore, dato che il piú semplice atto o pensiero comportano la credenza in un certo aspetto del mondo del quale ci si fida o al quale ci si affida, e dunque non credere a nulla è cosa propriamente impossibile.

Ma qui sta appunto il paradosso del credere: nel non sapere né poter sapere mai di certo in che cosa si crede, e fino a che punto. Di fatto, il credere coincide col mondo nel quale realmente e attualmente viviamo, quale realmente e attualmente lo sentiamo, soffriamo e pensiamo; di esso soltanto non possiamo dubitare, mentre dubitiamo naturalmente che gli aspetti mutevoli in cui esso ci si presenta siano veramente quali ci si dice che sono. La credenza si dimostra con l'esistenza che si conduce, con i pensieri che si esprimono, non con le professioni di fede, che possono essere bugiarde o vuote. Il credere, quando è autentico, è incerto, come l'esistenza e, come l'esistenza, sta li già prima che se ne sappia qualcosa. Invece, le credenze esplicite riguardano in genere un mondo fittizio in cui le credenze autentiche e attuali si mescolano a quelle mantenute in forma di articoli di fede, e magari di fanatismo, ma non piú vive. Perciò dire in che cosa non si crede è piú facile che formulare ciò in cui si crede veramente. E questa è anche la ragione per cui chi vede la falsità che si nasconde dietro le professioni di fede ufficiali e la denuncia può cosi facilmente essere accusato di non credere in nulla, e non ha modo di difendersi.


In apparenza, non c'è nulla di piú certo del fatto che "questa cosa è là davanti ai miei occhi"; ed è ad esempi di questo tipo che si ricorre solitamente per distinguere la certezza razionale dalla credenza o dalla superstizione.

Ora, sí, non c'è dubbio: io sono in questa stanza, seduto a questo tavolo, circondato da questi oggetti, e piú o meno assorto nell'impresa di scrivere ciò che sto scrivendo. Non posso certo in buona fede esprimere questa situazione dicendo che credo di essere in questa stanza, di vedere queste pareti, eccetera. Ma se mi domando perché sto qui, perché cerco di scrivere quello che scrivo, che senso abbia questa mia situazione, allora la questione del "credere" sorge in pieno e finisce col riflettersi anche sulla "realtà" degli oggetti che mi stanno davanti e delle pareti della stanza in cui sono rinchiuso. Se infatti mi trovassi a non poter rispondere alla domanda sullo scopo e il senso di ciò che sto facendo, allora questi oggetti e queste pareti rimarrebbero certo davanti a me, certamente "reali", ma acquisterebbero un carattere d'insensatezza che renderebbe non dubbia, no, ma peggio: intollerabile, la loro realtà; e allo stesso tempo questi oggetti cosí solidi sarebbero, per me, ridotti a parvenze, diventerebbero inutili, incomprensibili, incredibili.

Allora mi accorgerei di ciò che mi rimane nascosto la maggior parte del tempo, vale a dire che anche il fatto che "questa cosa è là davanti ai miei occhi" partecipa della credenza e, in fin dei conti, della fede; non è certo che nei limiti in cui è certo il mondo morale del quale è parte: fino al momento, cioè, in cui esso lascia trasparire, per dir cosí, il suo rapporto con l'insieme delle cose. Una percezione singola esattamente individuata e definita con certezza non esiste che nell'ambito della conoscenza scientifica. Ma la conoscenza scientifica è un'impresa che si definisce precisamente per il proposito di descrivere e definire gli oggetti singoli nel linguaggio piú obbiettivo possibile, senza preoccuparsi d'altro. E tale proposito, a sua volta, poggia sulla credenza alquanto dogmatica secondo cui il solo mondo reale è quello che si può descrivere nel linguaggio dell'obbiettività rigorosa.

Una percezione che non sia da ultimo fondata su una credenza non esiste, dunque. L'idea di un'apprensione ingenua della natura appartiene all'ordine dei miti come quella di una percezione esatta del reale. La visione dello scienziato è rigorosa ma, quanto a essere veridica, lo è solo nei suoi propri termini e nei limiti dei fini che essa si assegna. Allo stesso modo, noi ormai sappiamo bene quanto poco ingenua (nel senso di semplice e verace per antonomasia) sia la visione che ha del mondo il cosiddetto "primitivo".


Se vuol mantenersi nei limiti della ragione e non sconfinare nel dogmatismo, nel fanatismo o nella pazzia, il razionalista deve riconoscere che la sua certezza è da ultimo fondata sulla credenza; che essa implica, cioè, un'affermazione che va molto al di là delle premesse di fatto: quella per cui la misurazione esatta degli oggetti del mondo (siano essi i corpi celesti o i moti dell'animo umano) è la sola forma valida di conoscenza. Il razionalista piú ragionevole sarà dunque quello che riconoscerà tale asserzione per ciò che essa è: da una parte l'anima, per dir cosí (o la causa finale), dell'impresa scientifica, ma dall'altra una tesi messa in dubbio da tutto ciò che nel mondo non può essere espresso in termini di obbiettività misurabile, e non per questo è meno reale. Vale a dire, una credenza. Il che, tuttavia, non toglie nulla alla verità dei fatti accertati.

Ma, se non c'è impresa di ricerca razionale che non sia fondata sull'ambiguità della credenza, non c'è neppure credenza la quale non abbia il suo limite e il suo punto di crisi nell'evidenza del mondo esterno, della natura, dei fatti singoli e irriducibili, nonché nei moti e mutamenti dell'animo umano.

Il credo quia absurdum è giustamente considerato l'espressione più energica della fede cristiana ai suoi inizi. "Assurda" non è soltanto l'idea dell'incarnazione, del sacrificio e della resurrezione del Figlio di Dio; è assurdo prendere a oggetto di fede un presunto evento storico, supponendo realmente accaduto un fatto soprannaturale, e per di piú credere in esso proprio per il suo carattere d'impossibilità reale, di eccezione unica e impensabile al corso naturale delle cose.

Ma è appunto questo, credere. Si crede per via di quegli aspetti di una determinata religione o dottrina che fuoriescono dai limiti della ragione — resurrezione finale, salto dal regno della necessità in quello della libertà, soluzione scientifico-pragmatica dei problemi umani — e per ciò stesso una rottura liberatrice delle leggi del reale. Ma si crede però anche perché una tale assurdità si accorda con quel residuo oscuro ma decisivo di dubbio nella sensatezza della ragione — di ogni ragione, vale a dire di ogni pretesa spiegazione o sistemazione del mondo — che non si può eliminare dal fondo dell'animo umano perché non si può eliminarne il sentimento del casuale, dell'aleatorio, dell'irrazionale insiti nella combinazione di cose e di circostanze che chiamiamo "realtà".

La resurrezione della carne, la palingenesi socialista o il trionfo finale della tecnica sulla natura, tuttavia, sono credenze che hanno senso in quanto prendano la forma di speranze animatrici di azioni, anzi di buone azioni. Diventano idee insensate e funeste non appena si trasformino in dogmi che impongono la mortificazione del corpo e dello spirito in vista di scopi inflessibilmente prescritti. In quel momento, esse entrano in contraddizione violenta con la natura delle cose e con quella dell'uomo.


Non la Ragione né la Scienza, ma la Natura nel senso piú largo e, si vorrebbe dire, piú indocile della parola è la pietra d'inciampo della fede religiosa e delle ideologie pragmatiche. Con i fatti teorizzati e sistemati, un "accomodamento" è, a rigore, sempre possibile. Ma dinanzi alla semplice manifestazione della natura negli émpiti dell'animo, nei fatti dei mondo fisico o nei sommovimenti della storia, non si può che cedere e venire a patti. Oppure ignorare e reprimere; ma è un mezzo assai aleatorio.

Ma in che modo possiamo invocare la Natura, noi che l'abbiamo abolita? Ci fu un tempo in cui la natura era il potere arcano che regolava il corso delle cose e da cui l'uomo dipendeva, insieme agli animali e alle piante; questa natura, noi pretendiamo di averla ridotta a energia da domare e sfruttare a nostro profitto. La natura era anche, in noi, la forza essenzialmente buona che ci sollecitava a liberarci dalle antiche paure e servitú; noi ne abbiamo fatto un tumulto di appetiti da soddisfare a nostro arbitrio.

Allora, che senso ha ormai parlare di Natura? Ebbene, è forse appunto nel dubbio che sorge in noi nei riguardi di un mondo cosí fatto che la natura si manifesta, non piú come forza o impulso, ma come principio di ragione e di fede insieme.

Questa vita che ci tocca di vivere, questa combinazione ineluttabile di casi che chiamiamo "mondo attuale", alla quale noi contribuiamo per parte nostra scegliendo a ogni crocevia una strada piuttosto che un'altra, non sono, in fin dei conti, che una delle sorti che avrebbero potuto capitarci; e questo mondo, con tutto il peso della sua necessità, non è che un caso realizzato. Forse che il fatto di esser lí lo rende "vero" al punto da farne la sola realtà, un assoluto, una specie di Dio? No, non foss'altro che per la coscienza che abbiamo del fatto che esso ci è toccato in sorte, e dunque o è accaduto a caso, oppure è causato da una necessità suprema da cui esso dipende e della quale non è che una manifestazione occasionale.

Della necessità non possiamo giudicare. Ma dell'occasione ci è lecito, anzi doveroso, dubitare che essa meriti di essere trasformata in un assoluto, adorata come unica realtà, considerata qualcosa di piú che un caso imperioso. A questo mondo noi non dobbiamo altro se non tutti i sentimenti e tutti i pensieri che, a proposito di esso, noi possiamo avere: primo fra tutti, quello della sua contingenza e della nostra. Nel quale pensiero, ciò che si manifesta non è il nostro arbitrio, ma il sentimento della natura soverchiante, dell'ordine ultimo dell'universo, che non è l'ordine di cui ci parlano le leggi fisiche, ma piuttosto quello, puramente pensabile e immaginabile, di un mondo umano che s'accordasse col ritmo vero della natura.

Questo mondo è quello che è, dobbiamo viverci come meglio possiamo. Ma, quanto a pensarlo, non possiamo pensarlo che a partire dal dubbio e dall'incredulità. Piú forte di ogni sua "realtà" è, infatti, l'evidenza che esso avrebbe potuto e potrebbe ogni momento essere altro da quello che è, e noi con esso. Necessario non può essere questo o quello stato di fatto, ma solo la legge non scritta né scrivibile da cui esso dipende. Pensare diversamente sarebbe lo stesso che credere che noi eravamo destinati a essere proprio quello che siamo, a fare esattamente quello che facciamo e che questa nostra esistenza, cosí com'è venuta a combinarsi, è parte necessaria dell'ordine universale.

Tale è il dubbio che ci ispira la natura, tanto piú forte quanto piú convinto della propria eccellenza e superiore necessità ci appaia questo mondo. Da questo dubbio parte forse il movimento destinato a riportarci dal casuale e dall'arbitrario verso ciò che è perché è giusto che sia.

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