Copertina
Autore Giulietto Chiesa
Titolo Cronache Marxziane
EdizioneFazi, Roma, 2005, Le terre / Interventi 105 , pag. 270, cop.fle., dim. 138x200x19 mm , Isbn 978-88-8112-623-1
CuratoreMassimiliano Panarari
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe politica
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Indice


    CRONACHE MARXZIANE

    Segnali dei tempi che ci attendono                 9

    INTERVISTA

    a cura di Massimiliano Panarari

1.  L'irresistibile ascesa degli Stati Uniti e
    l'alba dell'Impero                                21
2.  Dentro l'Impero                                   34
3.  La morte dell'Occidente                           85
4.  Gli Altri                                        110
5.  Il laboratorio Medio Oriente                     135
6.  La Grande Fabbrica dei Sogni e della Menzogna    164
7.  La fine della democrazia liberale                198
8.  La contraddizione che non c'era.
    Uomo e natura nell'età del neoliberismo          207
9.  Il caso italiano                                 217
10. Invece di questa sinistra. Risposte
    per continuare a nutrire una speranza            227

 

 

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Pagina 9

Segnali dei tempi che ci attendono



Un tempo i rari e molto ricercati aruspici studiavano il futuro leggendo i movimenti degli uccelli, le colorazioni degli astri, le variazioni dei venti e i comportamenti dei pesci. Così pronosticavano le piogge e le calamità, ma anche i buoni auspici non mancavano. Le migliaia di maghi moderni leggono le carte, i fondi di caffè e le linee della mano. Anche loro molto ricercati, perché chi sa guardare nel futuro è una fonte di ricchezza, potenziale o reale. Anche gli analisti politici si fanno passare per maghi, e su questo fanno i soldi, spesso tanti.

Ma a chi non è aruspice o mago, cosa resta? I dati, i semplici dati della realtà effettuale. Che non pronosticano il futuro, ma descrivono il presente, talvolta lo fotografano così bene che in esso si riesce perfino a intravedere un pezzo, magari piccolo, perfino microscopico, del futuro.

In questa modesta sfera di cristallo mi è accaduto di vedere la guerra irachena con addirittura un anno di anticipo. Lo scrissi e fui guardato come un pazzo, o come una Cassandra delle solite. I miei libri, che pronosticavano sventure, non furono recensiti. Eppure sarebbe bastato leggere nei documenti ufficiali, o negli sguardi, volta a volta ebeti o furbi, per capire tutto ciò che era necessario a trarre delle normali, evidenti conclusioni.

Poi scoppiò la guerra, che per molti fu una sorpresa, mentre bastava guardare non la sfera di cristallo ma ciò che stava accadendo sotto i nostri occhi, per capire ch'essa era stata decisa con grande anticipo (come tutte le guerre, del resto) e per motivi del tutto diversi da quelli che ci venivano propinati per giustificarla (come per tutte le guerre, del resto).


Dunque cosa vedo? Vedo la Cina, che invia suoi emissari in tutto il mondo per comprare, con i dollari che ha accumulato in questi ultimi vent'anni di tempestoso sviluppo, tutto ciò che è comprabile. Soprattutto gas e petrolio. Corrono in Africa, i cinesi, e in America Latina, e comprano giacimenti. Talvolta così modesti da poter produrre appena qualche decina di migliaia di barili di petrolio al giorno. Bazzecole. Sciocchezze che gli emiri del Golfo guarderebbero con sovrano disprezzo. Eppure i cinesi li comprano, e a prezzi perfino due volte superiori a quelli di mercato. Al punto da provocare le furie dei guru di Wall Street, aruspici che pronosticano ogni giorno clamorose sciocchezze e sesquipedali banalità. Ma come?, dichiarano indispettiti i commentatori economici. Stanno rovinando il mercato. Guardali questi parvenu appena usciti dal comunismo, neofiti incompetenti, pensano i guru dei mercati. E, siccome non l'avevano previsto, non riescono a capacitarsi di quanto accade.

Invece comprano, i cinesi: comprano anche grandi fabbriche, aziende lontane dai loro confini e mari; grandi fabbriche, pezzi di corporation, come la filiale della IBM che produce personal computer. Ma soprattutto fanno incetta di aziende che lavorano materie prime sempre più preziose, come alluminio e rame. E giacimenti interi di quelle stesse materie prime e di molte altre. Pagano in contanti e senza contrattare sul prezzo. Non si era mai visto, in questo suk mondiale in cui viviamo, gente così poco attenta al denaro. Perché lo fanno?

Io leggo e penso: sono nervosi, non distratti. Il dollaro scende e scenderà, loro l'hanno capito da tempo e agiscono di conseguenza. Meglio liberarsene in fretta. Meglio spenderlo finché vale ancora molto, assai più di quello che vale in realtà. E non è un saggio e previdente padre di famiglia borghese colui che fa questi conti: è il più popoloso paese della Terra, le cui scelte già producono maree grandi come lo tsunami. Penso: sono inquieti, perché temono che il petrolio – di cui hanno disperato bisogno – ormai quasi tutto nelle mani degli Stati Uniti, potrebbe presto diventare non solo merce di scambio assai rara, ma soprattutto mezzo di pressione e ricatto.

Penso: si preparano per tempi duri, per una crisi molto più grande di quelle cui siamo stati abituati negli ultimi cinquant'anni. I conti li hanno fatti da soli, senza leggere gli aruspici di Wall Street. Sanno che, a questi ritmi di crescita dell'economia cinese, nessuno è in grado di resistere, nemmeno loro. Tant'è che, unico paese al mondo, nell'estate del 2004 il primo ministro cinese ha dichiarato solennemente, di fronte al Congresso dei Deputati del Popolo, che il "Paese di Mezzo" avrebbe dovuto ridurre la sua crescita di oltre due punti percentuali, dal 9,3 al 7 per cento, pena la distruzione degli equilibri sociali, economici, ambientali della stessa Cina. Ma anche loro, come tutti noi, appaiono prigionieri di una logica di sviluppo che è quanto di più illogico si possa immaginare. Neanche loro hanno il freno per rallentare la corsa.


Vedo l'Iran, su cui gli Stati Uniti stanno già esercitando pressioni sempre più forti perché rinunci a fabbricare la bomba atomica. Adesso non ce l'ha, forse ce l'avrà. Loro, gli americani non hanno nessun diritto per imporre la loro volontà, ma hanno in compenso già elaborato una dottrina – quella della guerra preventiva – che gli consente, loro pensano, di risolvere tutti i problemi ammazzando coloro che, anche potenzialmente, minaccino il loro tenore di vita e le loro certezze. Prima tra tutte quella di essere non solo i più forti, ma anche i migliori, i più virtuosi. E, come tali, sotto la inflessibile e folgorante protezione divina.

Leggo che gli Stati Uniti vogliono che ci sia, a Teheran, una "rivoluzione democratica", come quella ucraina. Mentre ne preparano attivamente un'altra, in Bielorussia, con la quale cacceranno dal potere l'ennesimo "dittatore sanguinario", nella modesta persona di Lukashenko. Ma già dicono che, se non ci sarà la rivoluzione democratica in Iran, allora bisognerà imboccare l' "opzione militare". Così siamo tutti avvertiti. I "cattivi" innanzutto, le "canaglie". Ma anche tutti coloro che, ignavi, pigri, non virtuosi, infidi, non riescono a capire che i cattivi devono essere estirpati, «spenti» avrebbe detto il Machiavelli.

Gli europei non sono contenti. Sono loro gli ignavi. Leggo che alcuni, Parigi, Berlino, Londra, vorrebbero una variante diplomatica perché anche loro sono inquieti, temono un'altra guerra. Temono le sue ripercussioni in Europa, preferirebbero mettersi d'accordo, trovare un compromesso, offrire qualche compensazione, prendere tempo.

Anche gli ayatollah leggono i giornali americani. E si preparano attivamente. Anche loro comprano armi e nel suk mondiale basta avere denaro per comprarne di sofisticate e temibili. Leggo, sugli stessi giornali americani, quelli specializzati soprattutto, che squadriglie di caccia F-16 ultimo modello sono già pronti, sotto bandiera israeliana, ad alzarsi in volo per andare a bombardare i siti atomici iraniani. Ma, nel frattempo gli iraniani hanno comprato e fabbricato missili che possono colpire anche Tel Aviv. E avvertono: se attaccherete risponderemo.


Mosca ha venduto armi molto nuove e inedite agli iraniani. E Mosca è molto arrabbiata con l'America, e anche con l'Europa, perché le hanno portato via da sotto il naso niente meno che l'Ucraina. Sono arrivati, americani e europei, a razzolare nel suo cortile di casa. A Mosca pensano che non è bello comportarsi in questo modo. In fondo – pensa Putin – vi ho lasciato fare la guerra in Afghanistan senza frapporre ostacoli. Vi ho anche permesso di costruire diverse basi militari nell'Asia Centrale che è sempre stata russa, e poi sovietica. E non ho nemmeno protestato. Vi ho consentito (lo so che non potevo impedirvelo, ma avrei potuto creare un mare di problemi, e non l'ho fatto) di estendere la NATO su tutto l'Est europeo, addirittura in tre delle repubbliche ex sovietiche del Baltico, e voi mi ripagate portandomi via l'Ucraina? Non è bello, credetemi, non è educato.

E Putin non può ricostruire una Russia che si rispetti (cioè che rispetti se stessa e si faccia rispettare), grande e potente, senza l'Ucraina. L'Ucraina è carne e sangue della Russia. È ben vero che una metà odia la Russia con tutta l'anima, più e meno come la odia la Polonia. Ma l'altra meta, o poco meno, e russa tecnicamente, è di lingua russa e di religione ortodossa, e guarda a Mosca. Quello che vede, a Mosca, è abbastanza rivoltante, non le piace. Il capitalismo europeo le piace molto di più. Ma andarci comporta dei rischi. Loro, i "russi" di Ucraina, hanno visto e toccato con mano, in questi anni postsovietici, che fine fanno i russi quando sono lasciati in minoranza. Hanno visto come sono trattati i russi in Estonia, Lettonia, Lituania e non vogliono trovarsi nella situazione di reietti, oltre che in quella di poveri. Mosca non gli piace, ma esitano a lasciarla, anche psicologicamente. Questo Occidente sarà pure ricco, ma non è ugualmente accogliente per tutti. Questo l'hanno imparato. Con ritardo, ma l'hanno capito.

A Putin gli hanno dato uno schiaffo in faccia, a lui che è stato così conciliante con l'imperatore. Adesso ha cominciato a capire, forse a subodorare soltanto, di avere sbagliato parecchie mosse della sua personale partita. Ma lui, Putin, ha armi nuove e potenti da agitare sul naso di coloro che l'avevano già dato per spacciato. La Russia ha smesso di organizzare ritirate strategiche. Si è stufata. Quella dall'Ucraina non intende farla e non la farà. L'Occidente ha vinto anche questa battaglia, ma ricomincia la guerra fredda, un'altra, molto meno prevedibile della precedente. Quel ch'è peggio, per altro, è che l'imperatore appare del tutto ignaro delle conseguenze. Lui va avanti da una "missione compiuta" a quella successiva. Inanella "successi", dei quali si inebria ascoltando il coro dei media cretini che lo adulano, che inneggiano alla sua sagacia, che lo incoraggiano nell'avanzata.


E c'è l'Iraq in guerra, dopo che la guerra è già finita e vinta. George Bush non sarà un'aquila, ma bisogna riconoscere, a lui e ai suoi consiglieri, primo tra tutti Paul Wolfowitz, una notevole sagacia propagandistica. In meno di un mese, tra gennaio e febbraio dell'anno di Dio 2005 (primo del suo secondo mandato, terzo mandato della famiglia Bush, che probabilmente sarà seguito da un quarto mandato, al fratello Jeb, che pare addirittura più furbo di lui), ha fatto credere al mondo intero (quello occidentale, l'unico che rientri, seppure a fatica nel suo orizzonte mentale) di avere vinto le elezioni irachene e di avere con-vinto gli alleati europei della sua buona disposizione verso di loro, dopo averli brutalmente schiaffeggiati nel corso del suo primo – si fa per dire, scherzando – mandato presidenziale.

[...]

Guardo nell'unica sfera di cristallo che mi rimane: un cervello. Vedo che non c'è posto, su questo pianeta, per due Americhe. Né democratiche, né autoritarie. Proprio non c'è più posto. E la seconda America è già arrivata e sta mettendo il suo timbro di fabbrica su un sacco di cose. Leggo infatti che il nostro destino prevedibile si ferma al 2055. Me lo dicono millecinquecento scienziati responsabili di ogni parte del mondo, i quali hanno calcolato che quasi tutti gli ecosistemi principali su cui si regge la vita sulla Terra non riescono più a riprodursi e finiranno del tutto di operare attorno a quella data. Anche questi aruspici ci sono. Ma non li ascolta nessuno. Vengono incasellati in un sub-file marginale sotto la voce "catastrofisti". E vengono così, conseguentemente oscurati dalla Grande Fabbrica dei Sogni e della Menzogna (GFSM). E non potrebbe essere altrimenti, quando a milioni, agnelli sacrificali allegri e spensierati, topi danzanti al suono di dieci pifferai magici, andiamo a un tumultuoso suicidio collettivo se non delle nostre vite, certo delle nostre intelligenze, certissimamente della nostra democrazia. Democrazia del piffero.

Due Americhe prima non c'erano. E c'era un solo Occidente, con la "O" maiuscola. Adesso le Americhe stanno diventando rapidamente due. Una si chiama Cina, ed è molto più grande dell'altra, molto più grande anche dell'intero Occidente con la "O" maiuscola. E l'Occidente con la "O" maiuscola non c'è più, mentre al suo posto ci sono almeno due occidenti con la "o" minuscola. I quali hanno idee e identità del tutto diverse tra di loro. Tutto è diventato più complicato e temo che dovremo imparare a raccapezzarci.

L'America, per esempio, che era figlia dell'Europa, ma è diventata la sua antitesi, la sua nemica. Oggi, mentre noi europei cominciamo a ritornare in noi stessi dopo la guerra fredda, ce la troviamo di fronte come non l'avevamo mai vista: come una specie di barbarie dominata dal commercio, in cui i rapporti umani sono impregnati di violenza, in cui la scala dei valori è rovesciata, anzi ha scalini del tutto diversi dai nostri. In cima, il più alto, è la concorrenza. Solidarietà, giustizia, uguaglianza non hanno più senso in una società in cui chi vince è solo il più forte, e per gli altri non c'è spazio e non c'è riscatto possibile. Per un po' li abbiamo seguiti, anche perché si erano posti naturalmente alla nostra guida e alla nostra protezione, contro il mostro rappresentato dal comunismo, ovviamente sanguinario e negatore di tutte le libertà. Ma, quando il comunismo è morto (tra l'altro, non attaccandoci, ma suicidandosi) ci siamo accorti all'improvviso che non abbiamo più bisogno di protettori. Loro, invece, vogliono continuare a proteggerci, a tutti i costi.

Li abbiamo seguiti perché credevamo che fossero più in gamba di noi, più efficienti, più ricchi. Ma poi ci siamo accorti che noi stavamo pagando la loro ricchezza e perfino le armi con cui ci stavano proteggendo. E ci siamo anche accorti — e questa è stata una bella scoperta — che non eravamo affatto così scalcinati come pensavamo di essere, nemmeno dal punto di vista tecnologico. E, soprattutto, ci siamo accorti che il nostro modo di vivere è niente affatto male. Cresciamo più lentamente, ma viviamo assai meglio di loro.

Infine stiamo cominciando a capire che, per tutte queste ragioni e per molte altre, noi siamo percepiti da loro come dei concorrenti. Non come degli amici. Ed essere concorrente dell'Impero, così armato, così determinato a non lasciare spazio a nessuno, non è una bella situazione. Dovremo raccapezzarci, e in fretta. Perché loro tendono a trascinarci nelle loro avventure, nelle quali noi non solo non decidiamo nulla, ma che si ripercuoteranno contro di noi. E dalle quali, comunque noi non avremo niente da guadagnare.

Raccapezzarsi, questo è l'imperativo. Viviamo ormai con un mal di testa perenne, per il quale ancora non c'è il cachet definitivo. L'America è quello che è, e dovremo tenercela in questi anni decisivi, alla guida del treno su cui siamo tutti. Un treno lanciato a trecento all'ora, senza destinazione. Mosca e Pechino hanno appena organizzato le loro prime grandi manovre militari congiunte. Non si amano, ma questi due occidenti, tra loro divisi, stanno facendo di tutto perché si sposino. Pechino è corsa a Mosca a comprare Yuganskneftegaz: altro petrolio in caso di emergenza. Mentre i nuovi sommergibili atomici di Mosca ricominciano a pattugliare il Pacifico e i nuovi sommergibili cinesi si spingono al largo, molto al largo, per dare un'occhiata alle coste occidentali dell'America.


Questo è il presente, non il futuro. Non c'è niente da prevedere, perché sta già avvenendo. L'unico avvertimento che mi sento di dare a chi legge queste righe è il seguente: si tenga pronto, bene stretto alla poltrona. L'atterraggio non è annunciato, ma se ha la cintura di sicurezza la tenga agganciata. Anche quando va alla toilette.

GIULIETTO CHIESA

aprile 2005

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Lei che cosa avrebbe fatto, dunque? Perché qualcosa si doveva fare per porre termine alla pulizia etnica e agli eccidi di quell'epoca, visto che la via diplomatica non portava a nulla.

E, invece, qui, lei commette un errore. Si è fatto moltissimo: si è organizzato il summit di Dayton, in Ohio, nel 1995, dove Milosevic, che era un grandissimo macellaio, è diventato un interlocutore. Il punto è che la verità è esattamente il contrario di quello che ci è stato spacciato come tale, e ritorniamo sempre da capo. A Rambouillet c'erano tutte le condizioni per fare un accordo, e Milosevic era pronto ad accettarlo, ma si operò – ahinoi, in modo vincente - per impedire infine che lo sottoscrivesse. Si pose il presidente serbo nella situazione di non poter accettare nessuna delle soluzioni che gli venivano proposte. Come ha raccontato il ministro degli Esteri Lamberto Dini (non un pericoloso bolscevico, né un simpatizzante comunista, notoriamente, ma un filoamericano dichiarato, un osservatore, in questo caso, onesto e attento) nel corso di un'intervista con Maurizio Molinari pubblicata col titolo Fra Casa Bianca e Botteghe Oscure [Guerini e Associati, 2001], durante i negoziati di Rambouillet, gli Stati Uniti posero sistematicamente condizioni così inaccettabili da obbligare Milosevic a rifiutarle, in modo da poterlo poi accusare di essere la causa del disastro e, quindi, del cosiddetto "genocidio". Esattamente in questo modo agiva il segretario di Stato americano, Madeleine Albright, col suo stuolo di suggeritori, come si evince dalla lettura dell'intervista a Dini. Quindi, quando mi si dice che bisognava fare qualcosa, rispondo che tutto andava fatto tranne che organizzare la guerra, perché esisteva una larghissima possibilità – reale! – di giungere a un accordo politico. Il genocidio non era avvenuto e tutte le cifre che sono state riportate si sono rivelate false. Per quanto riguarda i circa tremila morti di etnia albanese della successiva guerra del Kosovo, si è scoperto che gran parte di questi, parlo di cifre ormai pubblicamente note, erano caduti in scontri a fuoco ai quali avevano preso parte l'UCK e varie fazioni, e quindi si trattava di combattimenti e non di uno sterminio programmato di inermi. Non c'è stato nessun genocidio, non risulta. La storia delle fosse comuni si è rivelata un colossale bluff, perché, per quanto ovviamente oggetto di esecrazione da parte di tutti noi, vennero approntate in misura e in numero infinitamente minore di quanto dichiarato dagli americani. Si è parlato di centomila morti, inesistenti. Per lunghissimi mesi, l'intera campagna pubblicitaria sulla futura guerra del Kosovo è stata organizzata sistematicamente, con la partecipazione di autorevoli giornalisti come Christiane Amanpour, che andavano a rinvenire gli assassinati dalla polizia serba quando, in realtà, si trattava, come a Racak, dei periti nei conflitti a fuoco fra le opposte fazioni. Quindi, noi abbiamo visto per mesi e mesi una formidabile campagna pubblicitaria sui profughi del Kosovo: la «guerra per la conquista dei cuori e delle menti», come venne definita e che lì è stata sperimentata per la prima volta. L'UCK è stata armata, organizzata, preparata a lungo e lanciata dagli Stati Uniti, in modo tale che i serbi fossero costretti a reagire. Cosa che, per la verità, hanno fatto, superando la misura. Ma, come sappiamo, la gran massa dei profughi e dei morti, in Kosovo, è avvenuta a bombardamenti iniziati, e non prima. Non parlo poi del ritiro della missione dell'OSCE, che fu ordinato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, per lasciare campo libero de facto alle azioni dell'UCK. Insomma, la storia di Milosevic macellaio non sta in piedi in nessun modo. Milosevic è un personaggio che io giudico in questi termini: uno che non aveva capito quanto stava accadendo e che, di fronte all'alternativa «arrenditi o ti massacreremo», ha scelto di combattere. E, a distanza di alcuni anni, i serbi continuano a essere massacrati e sottoposti a una specie di processo infinito perché, non avendo piegato la testa, sono considerati degli inguaribili nazionalisti. Tutta questa storia è stata scritta dai vincitori americani e, come credo di poter dimostrare passo dopo passo, è stata organizzata mediaticamente per turlupinare il popolo europeo. La prova che porto sempre, e che ripeto a lei per i nostri lettori, è che, contemporaneamente al "mostruoso massacro" di Milosevic, se ne stava perpetrando un altro, assai più orribile e tremendo, un genocidio reale, con il numero di profughi moltiplicati per dieci e quello dei morti moltiplicato per cento rispetto alla situazione kosovara. Un macello che noi sudditi soggetti al potere imperiale non abbiamo mai visto: sto parlando della Cecenia. Mentre in Kosovo, sotto i nostri occhi, si stava svolgendo, ben ripresa dalle telecamere del sistema mediatico imperiale, la mostruosa carneficina operata dai serbi, ce n'era un'altra in corso di svolgimento, dove i morti, secondo le dichiarazioni della buonanima del generale russo Lebed, furono più di centomila. Ma di essa abbiamo soltanto qualche dettaglio secondario e qualche informazione di seconda mano. E come poteva essere diversamente, dal momento che a ordinare il genocidio ceceno era stato quell'ineffabile ladro e assassino di Boris Eltsin, il fedelissimo compagno di merende degli USA, docile e interessato servitore dell'Impero nella svendita e liquidazione dell'ex URSS? Qualcuno deve spiegarmi perché il macellalo Milosevic non è stato equiparato al macellaio Eltsin che, invece, è stato esaltato come un democratico e un eroe. E questa opinione rimane tuttora valida, a quanto pare, dal momento che nessuno ha ancora smentito questa sua straordinaria qualifica di democratizzatore della Russia. Allora, per amore della verità storica, dobbiamo avere ben presente che il democratizzatore della Russia ha causato in Cecenia dieci volte il numero dei morti civili (senza contare i suoi soldati) del macellaio serbo. Io ne sono stato testimone e, dunque, posso raccontare con cognizione di causa e non per sentito dire. Sono stato in Cecenia quattro volte volte, ho visto le migliaia di profughi civili ceceni deportati e costretti alla fuga. C'è stato un momento nel quale i profughi ceceni erano almeno 280.000, ma noi li abbiamo visti solo in qualche rarissima trasmissione televisiva. Io che ero corrispondente da Mosca per «La Stampa», sono stato invitato a fornire la mia testimonianza solo sporadicamente ed eccezionalmente; e, quando ci riuscivo, le mie corrispondenze si riducevano a sessanta righe, dal momento che la questione non era giudicata interessante. E, in tutto questo, vedevo continuamente e soltanto i profughi del Kosovo, che inondavano gli schermi italiani, e mi domandavo che fine avessero fatto i profughi della Cecenia, i massacri della Cecenia, e quelli delle altre guerre che insanguinavano il pianeta. Da lì ho cominciato a capire che, per una tale diversità di trattamento dei cadaveri e dei profughi, dovevano esserci delle ragioni cogenti. Erano le prove generali della mediacrazia al servizio delle finalità politiche ed economiche dell'Impero in ascesa, cui Eltsin, il liquidatore della Russia, messo a quel posto dagli Stati Uniti, e confermato al potere da un popolo russo stordito e inconsapevole, risultava perfettamente funzionale.


Riconoscerà almeno che Milosevic era un satrapo corrotto...

Non ho mai pensato che Milosevic fosse un sant'uomo; tuttavia, per essere precisi, non era peggio di tanti altri. Niente di sensazionale. Il diavolo l'ho sempre immaginato peggiore, con le corna e la coda. E anche per quanto concerne l'uso del termine "dittatore" mi permetta di fare una notazione aggiuntiva. Questi dittatori violenti e sanguinari, saranno dei diavoli terrificanti, come Hitler, per l'appunto, ma in questo ritratto c'è qualcosa che non quadra, che stona. Perché un dittatore sanguinario che lascia fare le elezioni, che si lascia sconfiggere da elezioni abbastanza democratiche da sconfiggerlo, e che se ne va senza arrestare gli oppositori, accettando la sconfitta senza nemmeno combattere, io non l'ho mai visto, e neanche ne ho letto sui libri di storia. Insomma Slobodan Milosevic è stato estromesso dal potere dagli elettori e non mi risulta ci sia stato un intervento armato per impedire che la volontà democratica dei cittadini jugoslavi si realizzasse. Non c'è stato nessun bagno di sangue, nessuna repressione.

Per un Hitler in chiave moderna direi che è un record di fair play. E non si può neppure dire che non avesse gli strumenti della forza per fare dei guai. Li aveva, come ben sappiamo, e non li usò. Dunque moderiamo i termini, e cerchiamo di scendere di qualche tono. Vediamo se Berlusconi se ne andrà dal potere così tranquillamente. Stalin non se ne andò sconfitto dagli elettori...


In URSS, non ci risulta che si votasse...

Ecco, appunto, in Jugoslavia invece si votava. Quindi, se volessimo essere maligni, dovremmo dire che si era in linea con il mainstream attuale, quello che è ormai diventato il metro di misura della democrazia, dopo le elezioni in Afghanistan e in Iraq. Se si riesce a far vedere che qualcuno vota, cioè mette una scheda in un'urna, ecco che c'è la democrazia che celebra i suoi fasti. Dunque anche in Jugoslavia, come in Iraq, c'era la democrazia. Una democrazia guidata – scrivono i grandi giornali indipendenti (dalla verità) – da un dittatore sanguinario. C'è da morire dal ridere, ma è quello che ci hanno detto e propagandato per mesi e mesi, prima e dopo la guerra del Kosovo.

È democrazia andare a votare? Risposta: è una parte, un segmento della democrazia, qualcosa che sta alla democrazia come una mosca sta a un elefante. Perché votare non è affatto sufficiente per stabilire che un paese è democratico. Votare è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per giungere a quella conclusione. Democrazia è partecipare alle decisioni, democrazia è conoscere come stanno le cose, democrazia è avere istituzioni che si bilanciano e dove nessun potere sovrasta gli altri e nessuno può ritenersi al di sopra di una verifica del suo operato. Tutto questo, in un paese democratico, avviene ben prima del voto, e rimane dopo il voto. Anzi tutto questo è la condizione perché il voto sia democratico. Infatti se non c'è, allora è molto facile che il voto stesso sia truccato. A ben vedere, nell'era dell'Impero, di elezioni non truccate non ce ne sono molte. Anche quelle americane sono state truccate, come s'è visto. Ultimamente, come abbiamo potuto vedere in Tv, pare che i bombardamenti abbiano un effetto benefico sulla democrazia. L'Impero libera i popoli oppressi a suon di bombardamenti, e i popoli non più oppressi vanno in massa a votare. E, presi da subitaneo entusiasmo, come in Iraq, non si accontentano del bipartitismo nostro, promuovono 111 partiti e poi se li disputano a colpi di mortaio. Da qui si deduce che i bombardamenti sono come la benedizione del cielo, il viatico verso la democrazia.

Ciò detto, bisogna ancora vedere se e come gl'italiani riusciranno a liberarsi del nostro attuale capo, del nostro attuale regimetto, che se ne sta sempre dalla parte di chi bombarda. Anche se, a futura memoria, ci tengo in ogni caso a sottolineare che, per toglierci dai piedi Berlusconi, non vorrei essere bombardato da nessuno. No grazie, facciamo da noi, se ci riusciamo. E non sarà facile, perché lui ha tutte le televisioni e noi niente. Così anche lui applicherà alla perfezione il nuovo assioma: se vai a votare vuol dire che tutto è regolare e la democrazia trionfa, come in Iraq. E anche noi voteremo, ma di democrazia non ce ne sarà nemmeno l'ombra (come già non c'è che qualche simulacro) perché milioni di persone saranno state frastornate da imboscate televisive quotidiane, saranno state impaurite da guerre (televisive o reali).

Tornando alla Jugoslavia, ricordo che ai tempi del Kosovo (a proposito di Kosovo, chi ne parla più? Eppure adesso la pulizia etnica c'è davvero, alla rovescia) per settimane andò avanti un dibattito assai colto: ci si chiedeva quale fosse l'interesse degli Stati Uniti nel colpire la Jugoslavia. C'è il petrolio? No? Allora non può che esserci una ragione umanitaria, chiosavano compunti i grandi giornalisti. Anche Barbara Spinelli, anche Lucia Annunziata, per dirne due. Non avevano colto il dettaglio consistente nel fatto che la Jogoslavia è stata una delle più brillanti operazioni d'immagine degli ultimi decenni, superata soltanto - per sagacia propagandistica – dal voto iracheno del 30 gennaio 2005.

L'operazione servì all'America per ribadire l'indispensabilità della sua presenza in Europa. Una presenza militare che, com'è evidente, non era e non è più necessaria. Se ne deduce che la presenza degli Stati Uniti in Europa serve essenzialmente a loro; l'Europa ne potrebbe tranquillamente e completamente fare a meno.

Per portare un esempio: giusto adesso, grazie al lavoro di un istituto di ricerca indipendente, abbiamo scoperto che ci sono svariate centinaia di testate nucleari in Europa, che ci erano state tenute nascoste fino a ieri (i vertici NATO avevano detto che non ce n'erano quasi più) e che si trovano nelle basi militari americane in Italia, Germania, Belgio e Gran Bretagna. Secondo quello studio la riposta della NATO è stata vaga (le cifre sarebbero «campate in aria») ma nessun numero è stato fornito a fronte dei dati molto dettagliati che sono emersi, e secondo i quali le testate atomiche in Europa sarebbero esattamente 480. A che servono queste armi? Contro chi sarebbero utilizzabili? Non è chiaro per niente. A meno che non si faccia l'ipotesi che mantenerle significa tenere legata l'Europa a una prolungata dipendenza dagli Stati Uniti. Ecco, quello che voglio ribadire è che l'operazione Jugoslavia fa parte di questa strategia, che consiste nel giustificare la presenza militare statunitense sul terreno europeo. Inoltre, da non dimenticare: la guerra jugoslava ha consentito agli Stati Uniti, alleati consenzienti, alcuni obtorto collo, di modificare le regole della NATO. Infatti, proprio mentre la guerra era in corso, la NATO celebrò a Washington, in grande pompa, i suoi cinquant'anni, e scoprimmo in quel momento che essa si era trasformata da organizzazione difensiva in offensiva (lasciamo perdere le formulette con cui la pillola è stata indorata) e che la sua area d'intervento si era estesa a qualunque teatro potenziale di guerra, praticamente in ogni regione del mondo, ovviamente anche molto lontano dai confini della NATO. Era capo del governo Massimo D'Alema. Il Parlamento italiano non ne fu informato, non ci fu nessun dibattito pubblico. La stampa e quasi tutta l'informazione indipendente (dalla verità) tacquero e quando ne parlarono fu solo per avallare, o sminuire, oppure per avallare e sminuire simultaneamente.

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Prego, usi pure il termine; sono per il liberalismo linguistico oltre che politico...

Bene. Come ho già detto, questo è un gruppo di persone con una fortissima venatura "apocalittica". Non è la prima volta che queste pulsioni si affacciano sul proscenio della storia americana. Ma questa volta con un'intensità senza precedenti. E spiegabile, perché essi avvertono senza dubbio che questa congiuntura è altamente instabile e si rifugiano nella spiegazione escatologica. Poiché sono certi di essere nel giusto, e protetti dalla benedizione divina, se le cose vanno male non può significare che una cosa: è nel disegno divino che debbano andare male. Così, presi dalla missione, vanno a testa alta verso l'Apocalisse. Un terreno su cui prosperano le sette bianche, i gruppi evangelici fondamentalisti, tutti sostenitori appassionati del team Bush. Così si delinea un ritratto abbastanza preciso dell'attuale destra al potere in America: una sintesi "perfetta" di idee forti, qualcosa di estremamente vecchio, antiquato, oscurantista, e qualcosa di tremendamente nuovo, materialista, consumista, individualista, egoista, violento. L'intelligencija liberal americana sembra non aver compreso proprio il carattere esplosivo di questa miscela. Ma ho il sospetto che anche quella europea abbia continuato e continui a pensare che si tratti di una piccola bufera temporanea, dopo la quale tornerà il sereno, la democrazia, il rispetto dei diritti, una modernità illuminata. Si sbagliano, perché hanno sbagliato l'analisi dell'Impero e perché non hanno più criteri di analisi della società. Quelli vecchi, marxiani, li hanno buttati via, e di nuovi non ne hanno creati. Così vanno avanti come gattini ciechi.


Ma questa scriteriata destra USA si accorge oppure no di avere la responsabilità diretta della corsa folle e forsennata verso l'impoverimento del pianeta e il rischio di una devastazione ecologica? A chi imputano la situazione se non a loro stessi? Com'è possibile essere tanto in malafede?

Vede, io e lei, nelle nostre differenze, apparteniamo comunque a un sistema di valori europeo. Lo vogliamo chiamare il secolo dei lumi, della razionalità, corretto dagli orrori di due guerre mondiali, dal colonialismo, da Marx e da Freud? Quelli che guidano gli Stati Uniti oggi fanno parte di un altro mondo di valori, di idee, di priorità, che con il nostro c'entra nulla o poco. Se vuole sapere la mia opinione al riguardo, è che temo che per alcuni di loro non sia proprio questione di malafede. Anzi credo che la malafede non c'entri nulla. Abbiamo a che fare con persone profondamente e intimamente convinte di essere portatrici di un'autentica superiorità morale rispetto al resto della popolazione mondiale, soprattutto di quella parte che non ha la pelle bianca, essendo gli altri, per così dire, fuori concorso. Il disastro lo imputano allo squilibrio e alla corruzione morale di cui si è macchiata tanta parte del mondo. Sta scritto nella Bibbia e chi non crede nelle Sacre Scritture non può comprendere la profezia, che è l'epifania di un imperscrutabile disegno divino. La missione di questa destra evangelica è salvare il mondo, portando alla vittoria il Bene contro il Male.

Ha mai sentito ripetere le parole Bene e Male, con la maiuscola, come in questi ultimi anni? In Europa solo Berlusconi ha il coraggio di ripetere queste giaculatorie senza arrossire. Ma è un commediante smaliziato. Dall'altra parte dell'Atlantico invece non recitano affatto. Noi abbiamo così un presidente degli Stati Uniti che, prima di cominciare il lavoro, fa due chiacchere con Dio e invita alla preghiera nello Studio Ovale i membri del suo governo. Qui siamo al di là delle sottigliezze dell' Ideologia tedesca di Marx. Qui siamo in pieno Medioevo. Governano l'Impero i portatori del messaggio divino. Naturalmente la "falsa coscienza" marxiana li permea da capo a fondo, e quindi applicano la doppia morale a ogni piè sospinto senza neppure saperlo, perché l'idea di una doppia morale non li ha mai nemmeno sfiorati. In questo è racchiusa tutta intera la loro straordinaria pericolosità. Perché, insieme alle loro inossidabili certezze, dispongono di una forza che non ha precedenti. Niente del genere è mai avvenuto prima in Occidente perché perfino l'ideologia hitleriana era assai più debole, piena di buchi, fondata sul niente che era il pregiudizio razziale. Qui non troviamo l'abominio della razza, ma la sicurezza assoluta e cieca nutrita da un manipolo di uomini di essere investiti di una missione divina. I nazisti erano dei criminali e dei banditi che avevano raffazzonato un'ideologia, pescando confusamente dalla tradizione dell'irrazionalismo germanico e innestandola sulla loro nietzscheana "volontà di potenza". I promotori americani dell'esportazione della democrazia sono corazzati in tutti i sensi. E la loro missione appare, a prima vista, l'esatto contrario di una ripugnante idea. A molti appare perfino bella. Certo, sporca di sangue, ma bella.


Non è un'affermazione un po' impegnativa e forte quella che sta facendo?

No. Ne sono persuaso. Provi a rifletterci... Zero dubbi, totalitarismo etico, rifiuto di riconoscere pari dignità a qualunque altra nazione sulla faccia della terra, ottusa e stolida persuasione che il modello americano sia superiore a tutti i rimanenti (e, per loro, residuali), una potenza militare inarrestabile e sterminata, usata senza esitazioni, fuoriuscita dallo Stato di diritto e dalla democrazia, un pianeta ridotto a sistema feudale nel quale gli altri paesi sono vassalli e valvassori dell'imperatore. Ecco l'America che si affaccia sulla soglia del terzo millennio, ed ecco perché George W. Bush junior mi pare perfino più pericoloso di Hitler. Se non altro perché di fronte a Hitler c'era ancora un mondo di potenze imperiali, che alla fine lo sconfisse. Di fronte a George Bush e a Jeb Bush, che potrebbe succedergli, non c'è più nessuno, salvo la Cina. Mentre i liberal americani, umiliati, o impotenti, o conniventi, nascondono la testa sotto la sabbia e non battono un colpo.


Lei sostiene che, di fatto, non esiste più un'America progressista. Un'affermazione, a mio giudizio, esagerata – e davvero troppo radicale, se si considerano i tanti che hanno votato democratico – anche se, notiamo, lei nutre forti dubbi sulla possibilità di far rientrare buona parte di questo elettorato sotto un'etichetta di sinistra. Ora, esiste la possibilità che l'America progressista – quella che diversi italiani (tra i quali mi colloco) rispettano e amano, fors'anche mitizzandola – si ricostruisca, oppure lei la dà per definitivamente spacciata?

Partiamo dalla sua prima affermazione, che è assai diffusa a sinistra in Italia. Certo che esiste un'America progressista; e, del resto, come potrebbe non esserci, visto che gli Stati Uniti del passato sono stati il centro della democrazia liberale? Il punto, però, è che questa America progressista è oggi tremendamente minoritaria. Qui ci siamo fatti un'idea dell'America divisa in due, con un campo progressista pari, grosso modo, alla metà della nazione. E così? No, purtroppo non è così. La nostra rappresentazione attuale degli Stati Uniti soffre ancora, e molto, dell'esaltazione del passato.

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E così non si è accorta che l'Occidente, per come l'abbiamo conosciuto, è morto, defunto. Dobbiamo solamente fissare la data per il suo funerale. Negli ultimi quindici-vent'anni, quelli della globalizzazione imperiosa e vincente, l'Occidente ha preso tutto quello che poteva arraffare, ha finito per pensare che tutto sarebbe andato avanti nello stesso modo e per sempre, non si è accorto che il vaso di Pandora era stato scoperchiato e che la stessa esistenza di un Occidente unito era in grave pericolo. Al suo interno ci furono i cantori della "fine della storia", che tesserono le tele ideologiche della vittoria finale del capitalismo. E l'Occidente tutto credette loro, anche perché il suo possente sistema mediatico raccontò magnificamente quella vittoria e scrisse la cronaca e la storia dei vincitori. Si finisce per credere alle proprie bugie.


Quando lei parla di Occidente...

...parlo essenzialmente dell'Europa. Gli Stati Uniti quelle leggende le hanno create, l'Europa le ha subite e credute vere.


Quell'Europa che per lei, immagino, corrisponde a un insieme di caratteristiche e di valori peculiari.

L'Europa è un fenomeno unico nella storia dell'umanità. È, credo, l'unico caso di uno Stato che nasce e si costruisce senza una guerra, per un concorso graduale di volontà, con l'afflusso di componenti via via nuove, che vi giungono perché conquistate economicamente e politicamente, non militarmente. Senza retorica lo si può salutare come un grande evento culturale innovatore. Un fenomeno di egemonia. Dovremmo esserne orgogliosi, perché è anche l'unico momento in controtendenza: alla frantumazione di Stati nazionali, seguita al crollo dell'Unione Sovietica, alla difesa dell'interesse particolare, l'Europa risponde con un trasferimento volontario di sovranità dai singoli Stati a un'entità superiore e nuova. L'Europa è l'unico punto in cui una vasta comunità si rende conto che il pianeta si trova a fronteggiare sfide che nessuno Stato può ormai affrontare da solo. Certo tutto questo non è beneficenza, ma può diventare un impulso mondiale di estremo valore e nella giusta direzione.

Poi c'è il Canada, che mi pare, nonostante tutto, molto "europeo", e l'Australia, che mi pare molto più "americana". Il Giappone non è mai stato Occidente, anche se, durante la guerra fredda, ha preso parte alla lotta dell'Occidente. È un paese che fu colonizzato con estrema brutalità dal vincitore americano e che fu arruolato contestualmente nella guerra fredda contro l'Unione Sovietica. Che sia parte dell'Occidente è falso. Fu risucchiato dentro la logica del mercato internazionale (oltre che dall'omogeneizzazione giuridica e dalla subalternità totale agli USA) e, dal momento che il mercato è stato indebitamente equiparato all'Occidente (equivoco infausto e letale!), cadiamo spesso vittime di questo errore. Così si è vissuti tutti nell'illusione di un grande Occidente, dilatato su tutti i continenti. Era un'illusione ottica che comincia a vedersi a occhio nudo ora che la Cina è parte del mercato globale ma nessuno può seriamente considerarla parte dell'Occidente. Il mercato è unico, ma la Cina non è l'Occidente: è semplicemente un'altra cosa. Lo stesso vale adesso per il Giappone e in futuro le diversificazioni si vedranno ancor meglio. L'Europa è e sarà sempre di più Europa, e sempre di meno Occidente, nel senso che non sarà più un pezzo minore della comunità atlantica. Per meglio dire si vedrà sempre di più che di occidenti ce ne sono due, e che sono molto diversi l'uno dall'altro. L'Europa ha radici culturali, storiche, politiche, psicologiche molto diverse da quelle degli Stati Uniti.


Quali sono, dunque, i valori che lei definisce genetici e caratteristici di questo Occidente in senso positivo e alto?

Libertà, eguaglianza e fratellanza, per rifarci alla Rivoluzione francese. Giustizia sociale, per risalire al marxismo e agli ideali positivi della Rivoluzione d'ottobre. Stato di diritto. Spiritualità e senso della condivisione di una condizione e di un destino collettivi. Un'Europa che crede nella ricerca scientifica, usata a fin di bene e per l'avanzamento collettivo, e pensa che sia l'evoluzionismo, e non questa forma assurda di creazionismo in cui crede – si rende conto? – la maggioranza degli americani, a spiegare la storia naturale. In una parola, umanesimo.

E poi un diverso modo di concepire la vita, il lavoro, la società, la politica. Eccoli, i valori dell'Occidente in cui tutti noi, "persone di buona volontà" ci riconosciamo. Tutte cose assai diverse da quelle americane con gli stessi nomi. Il vocabolario è ingannevole e ci dà l'impressione di parlare delle stesse cose, mentre usiamo le stesse parole, ma non è così. Non lo è mai stato, in verità, ma adesso si vede bene che non lo è. Naturalmente per accorgersene bisogna dimenticare per un attimo i cantori servili – numerosissimi in Europa – del modello americano, tutti impegnati ancora oggi, come ai tempi della guerra fredda, a spiegarci che noi siano identici all'America.

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Lei parla di Europa disarmata. Ma per pesare dal punto di vista degli equilibri di forza, pur senza investire troppo in armi, l'Europa dovrà disporre di strutture e corpi di intervento militari. Per avere un ruolo strategico di peace keeping, ad esempio...

Quando dico Europa disarmata, intendo strategicamente disarmata. Mentre sono, senza alcun dubbio, un sostenitore di una forza autonoma europea. L'Europa dev'essere in grado di intervenire senza chiedere aiuto agli Usa e deve dare vita a un sistema di difesa e di pronto intervento determinato dalle esigenze di ordine pubblico internazionale. Quindi, l'Unione Europea deve dotarsi di una propria forza di pronto intervento totalmente svincolata dalla NATO, una forza multinazionale europea in grado di esercitare le sue funzioni anche fuori dai nostri confini, ma solo su eventuale richiesta degli Stati interessati e con l'autorizzazione formale da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, cioè rispettandone scrupolosamente la Carta. Al di fuori, lo ripeto ancora una volta, dei comandi dalla NATO, e senza alcuna arma strategica (dalle portaerei alle testate nucleari). L'Unione Europea non si deve, ovviamente!, dotare di armi intercontinentali a lunga gittata, perché è da escludere in linea di principio un'Europa impegnata in un braccio di ferro da Mutua Distruzione Assicurata. Un'Europa che negozia non può essere né attaccante, né attaccata. È un'Europa che ripudia la guerra.


Il che richiede un'industria bellica, però...

Bisogna semplicemente che effettuiamo la produzione delle armi necessarie in casa nostra e, se il loro prezzo sarà buono, smettiamo di acquistarle dagli Stati Uniti.


Si rende conto che questa posizione potrebbe attirarle le critiche del movimento pacifista...

Non temo le critiche delle persone ragionevoli. Parto invece dal fatto che gli Stati Uniti costituiscono un grave pericolo per la pace mondiale e che noi non possiamo più affidarci a loro per la nostra protezione. In primo luogo perché i nemici che loro hanno scelto non sono i nostri. I loro criteri di scelta sono per noi dannosi. La loro analisi del terrorismo internazionale diverge dalla nostra. E poi è ormai chiaro che noi, noi europei, siamo considerati da loro come concorrenti, quando non addirittura come potenziali nemici. Il documento della sicurezza nazionale prodotto da questa amministrazione statunitense individua come avversari, implicitamente, anche noi, l'Europa. Come possiamo affidarci alla protezione di gente di questo calibro? Non solo non sono più un ombrello protettivo, ma la loro politica aggrava continuamente e minaccia la nostra sicurezza e, in caso noi la accettassimo, ci renderebbe corresponsabili della loro irresponsabilità.

In molte zone del mondo noi dobbiamo essere in grado di agire da soli, indipendentemente dagli Stati Uniti. Per lo meno fino a che le attuali tendenze unilateraliste non saranno state abbandonate. Per questo dobbiamo dotarci di una forza di rapido intervento che non consenta più agli americani di decidere a loro piacimento e secondo i loro interessi, e, come abbiamo visto in Iraq, al di fuori di una concezione condivisa della legalità internazionale. Sono in grado – e l'ho già fatto più d'una volta – di argomentare come si deve questi concetti di fronte a qualunque assemblea pacifista. Anzi, di fronte a qualunque assemblea. Sono idee che non solo non contrastano la pace, ma vanno tutte precisamente nella direzione di rafforzare la pace e la comprensione tra i popoli e le civiltà.

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6. La Grande Fabbrica dei Sogni
e della Menzogna



La questione dell'informazione e del sistema dei media, che lei giudica un tema essenziale, occupa un ruolo centrale nelle sue riflessioni, come pure nella sua opera di sensibilizzazione all'azione politica. A suo giudizio, la megamacchina della comunicazione è quanto potremmo chiamare la 'falange armata" dell'Impero.

Esatto; anzi, molto di più. Ne è il propellente e la linfa vitale. L'egemonia del neoliberismo e l'Impero non potrebbero esistere senza quella che io chiamo la "Grande Fabbrica dei Sogni e della Menzogna", che non è solo uno strumento di dominio, ma rappresenta l'espressione per eccellenza di questi nuovi tempi cosiddetti postmoderni.

Cito un aneddoto personale, perché da vecchio e mai pentito lettore di testi del marxismo penso che dietro ogni pensiero o tentativo di teorizzazione ci debba essere l'esperienza quotidiana. Tutti noi viviamo immersi, giorno dopo giorno, in una condizione di perenne inquietudine per le nostre esistenze, minacciate dal senso di insicurezza e dalla precarietà lavorativa. In poche parole, stiamo vivendo sempre più in un mondo ansiogeno. In parte, queste sensazioni sono la naturale risposta biologica a stimoli negativi che esistono effettivamente e provengono dalla vita reale; ma in parte - non trascurabile - vengono anche indotti e alimentati artificialmente dalla fabbrica mediatica, che, in questo caso, non produce più sogni, ma incubi.

E, allora, la gente dove trova riposo e quiete? In che modo può tentare di "staccare la spina" (esercizio estremamente rischioso nell'età delle reti, nella quale stiamo vivendo)? Semplicemente, non riesce ad avere né riposo né quiete, non ce la fa più, e l'inquietudine viene così ancora aumentata dalla scomparsa di ogni oasi di tranquillità. Non ci si può più rifugiare da nessuna parte; la possibilità di regressione non è neppure più contemplata. Ci si siede davanti alla televisione e ci si trova di fronte a spettacoli che aumentano la nostra inquietudine e quella dei nostri bambini.

Vengo alla mia esperienza, che è quella di tanti altri genitori. Ho un figlio di otto anni e cerco di tenerlo il più possibile lontano dalla televisione, perché quello che vede è mostruoso, e si trova esposto a una marea di sollecitazioni quasi tutte violente, aggressive e prive del benché minimo contenuto positivo, educativo, pulito, semplice. E la stessa cosa vale per i videogame e per i videoclip, che hanno un montaggio così frenetico che ti vedi passare sotto gli occhi una marea di immagini di cui non è possibile percepire, controllare il contenuto, e che ti entrano dentro superando i controlli razionali. Con il risultato che inconsapevolmente ti ritrovi in uno stato di tensione, perché ti accorgi che sei derubato della possibilità di cogliere fino in fondo una serie di allusioni immaginifiche, che ti appaiono seducenti, ma che non puoi godere. Un meccanismo infernale a proposito del quale spesso mi chiedo se coloro che lo producono ne sono consapevoli, o se lo fanno perché sono stupidi, incolti e violenti. Propendo per la seconda ipotesi. E anche per l'idea che siano prepotenti. Ma penso anche all'effetto che questa sottrazione indebita di significati produce sui bambini, sui ragazzi; penso alla frustrazione che li accompagna e li rende violenti, perché insoddisfatti e traditi. Penso alle donne esibite a ogni angolo di strada, seducenti, nude, disponibili, che invadono i nostri occhi, che ti colpiscono il sistema nervoso rettile, che ti costringono a pensare che puoi fare quello che vuoi di loro. Per un attimo, perché nel successivo scoprirai, tuo malgrado, che non è vero, che non puoi. E ne ricaverai la frustrazione della realtà inevitabile. Ma questo vale solo per coloro che hanno capito l'obbligo di essere saggi, la costrizione della necessità. E, invece, questa società di inabili al pensiero è piena di persone che non capiscono, non accettano la necessità, e non si vogliono convincere a rispettare gli altri, per esempio le donne. E quindi gli sembra naturale prendersele, esattamente come i manifesti suggeriscono si possa fare. E l'insulto alla donna, consumato milioni di volte da ogni manifesto, da ogni parete, da ogni televisore, diventa uno strumento per incarognire l'uomo, per farlo regredire all'animalità, che è a sua volta esaltata, blandita dalla suggestione che il più forte deve vincere, deve imporsi a tutti i costi, che chi è bello vale, e chi non lo è non vale. Non si finirebbe più di elencare le nefandezze di questo flusso di sozzura che ci circonda e ci assale, dal quale qualche volta noi – che ci crediamo e siamo intellettuali (perché chiunque leggerà queste righe vuol dire che è automaticamente parte di una ristretta élite intellettuale, visto che gli altri, i milioni, queste righe non le vedranno mai) – ci convinciamo di essere mitridatizzati, vaccinati, immuni. Ma non è così, quasi mai, perché nessuno può sfuggire a questo bombardamento. E in ogni caso a quest'indegnità a flusso continuo non possono sfuggire i bambini, i ragazzi, i nostri figli, il nostro futuro.

Qualcuno potrà anche dire che sono ormai un vecchio signore, ma il fatto rimane: non c'è tregua. Basta guardarsi intorno per rendersene conto. In queste condizioni, dove trovare un attimo di sollievo? Siamo tutti circondati da segnali sempre più inquietanti. Anch'essi allusivi, parziali, appena accennati. Ma che si sedimentano e lasciano tracce nel nostro inconscio e perfino ai limiti della nostra coscienza.

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Pagina 171

Internet è, ovviamente, uno strumento comunque fondamentale. Quindi, il punto è che la tecnica può essere usata in un modo piuttosto che in un altro, in una direzione anziché in un'altra; il tema, dunque, è ancora una volta quello dell'arretratezza della sinistra rispetto alle novità.

Sì, naturalmente. Questo problema se l'è trovato di fronte, per prima, la sinistra americana, mentre da noi si è presentato abbondantemente dopo. Mi pare che qui da noi una riflessione seria su queste tematiche sia ancora da fare. Siamo ancora fermi nell'adorazione di una "nuova frontiera", di una "sconfinata prateria della libertà", e ancora non ci siamo resi conto, almeno non del tutto, che i più forti si erano già impadroniti di quella prateria e l'avevano trasformata in un grande supermercato.

L'aspetto positivo - e inaspettato - di Internet, invece, si è presentato e fatto strada quasi da solo. E non sto parlando della ricchezza e della libertà informativa (ampiamente sovrastimate in parte false come dicevo). La Rete si è rivelata - come ho già detto un formidabile strumento di organizzazione, in grado di mettere in comunicazione milioni di persone in un colpo solo, quello di un clic fatto col mouse. E, quindi, in quanto tale, non va considerata come il regno della libertà che dispensa e distribuisce più conoscenza, ma come un vettore e un canale unico, prima inimmaginabile, per comunicare con grandi masse popolari (io continuo a chiamarle così). Naturalmente, se si ha qualcosa da veicolare: cosa che, invece, non accade a buona parte della sinistra moderata attuale che, non avendo niente da dire, non ha il problema di comunicarlo.


Quindi il problema sono i contenuti...

Uno dei problemi è rappresentato proprio dai contenuti. L'aspetto sfortunatamente fondamentale, che non dobbiamo affatto sottovalutare, rimane la recente conversione della Rete in una immensa discarica. Un enorme bidone della spazzatura, in cui non risulta più possibile navigare tranquillamente, senza essere sommersi da roba da comprare o da vendere e da immagini di sfruttamento del sesso. Il Web è diventato un grande magazzino ed emporio commerciale, un osceno sexy-shop, un immane contenitore di falsificazioni e di sistemi per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica, nel quale i servizi segreti possono disinformare o introdurre falsità con una facilità estrema. La macchina di Internet macina tutto e produce immense, non verificate, quantità di informazioni che qualcuno, prima o poi, legge. Di fatto, quindi, molti usano Internet per scopi che nulla hanno a che fare con la democrazia, l'informazione corretta e il rispetto dell'opinione pubblica. L'obiettivo è quello della pura e semplice disinformazione, o della vendita, o sempre più frequentemente, della truffa.


È il problema della legittimità e dell'attendibilità della fonte.

Certo. Come si fa a sapere chi è l'autore? Basti pensare alla difficoltà di attribuire una paternità alle varie rivendicazioni del terrorismo. C'è ormai una popolazione di espertissimi frequentatori della Rete, che ne conoscono tutte le astuzie e gli anfratti. Molti di essi sanno costruire cortocircuiti interessati e perversi, depistaggi sapienti, preparazioni di atti di terrorismo, campagne di disinformazione vere e proprie. Se non si sta attenti si cade in trappole ben costruite. Le fonti non sono spesso rintracciabili, se non ai più esperti, e quindi l'inquinamento è facile.

C'è la possibilità concreta che uno strumento del genere, sommerso da queste ondate di fango, possa diventare inservibile per la conoscenza e la democrazia. E, poiché la sua immensa importanza non è in discussione, esso deve essere studiato a fondo, in tutte le sue possibili ripercussioni sociali, economiche, psicologiche, politiche. Occorre cioè una vera e propria strategia per Internet, su Internet, con Internet. L'Impero questa strategia sta cominciando a elaborarla, e già la usa. Il movimento democratico mondiale considera Internet, di fatto, ancora alla stregua di un giocattolo. A fronte di questa urgenza, invece di indagarne a fondo le implicazioni, una parte della sinistra è andata dietro all'illusione che, finiti i partiti e le organizzazioni di massa, Internet fosse il luogo che risolveva il problema, invece di essere (cosa che io penso) uno dei punti da cui ricominciare a pensare al problema dell'organizzazione delle masse.

Quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni è quanto io ho definito la "Grande Fabbrica dei Sogni e della Menzogna", che è diventata l'elemento cruciale di questa fase dello sviluppo umano. Ovvero, un gigantesco sistema di produzione di comunicazione — dove l'informazione è un sottoinsieme, tra l'altro di gran lunga minoritario — di cui si serve la macchina economica globale, e che ha così cominciato a produrre le sue "tossine" a ciclo continuo. Le chiamo in questo modo perché sono gli effetti collaterali di un sistema comunicativo integralmente sottoposto alle leggi del mercato, della compravendita e del profitto, punto e basta, che ha trasformato tutta la comunicazione in mera merce. E siccome questo sistema distributivo e commerciale è quello che veicola tutte le nostre conoscenze, anch'esse sono state convertite in merce. La Lex mercatoria è così riuscita a devastare anche i processi di generazione e produzione della conoscenza, scaricandoci addosso una rappresentazione virtuale della realtà che ci trasforma simultaneamente in consumatori di oggetti, per la gran parte non necessari. Sudditi dell'irresistibile ordine del pensiero unificato e del gusto individuale unificato.

Il primo ad avere intuito questa straordinaria catena di implicazioni fu Marshall McLuhan, il geniale scopritore (non inventore, preciso, ma scopritore) del villaggio globale. Si sarebbe dovuto studiarlo meglio invece di esaltarlo ed esecrarlo al tempo stesso. Quello che intuì McLuhan era tuttavia esatto: il medium diventava il messaggio. Il potere, impadronendosi del medium, diventava padrone di tutti i messaggi. E, quindi, trasformava in manipolazione tutta la comunicazione, e nello stesso tempo trasformava tutto in merce, comunicazione inclusa, informazione inclusa. Il mercato globale non sarebbe stato neppure pensabile senza questa successione di concatenazioni, dove il potere ha assunto e mantenuto l'iniziativa fin dall'inizio. Il consumatore globale inconsapevole non sarebbe stato creato altrimenti che da questo contesto. Che non prevede, e non può farlo, alcuna indipendenza informativa, poiché se si omologano comunicazione e informazione a una merce come le altre, allora sarà inevitabile che esse vengano vendute e comprate come le altre merci. E se ne ricaverà facilmente che una merce-informazione cattiva ma vendibile sarà migliore di un'altra "buona" ma difficilmente vendibile. Obiettività, verità, qualità intellettuale, rigore, estetica saranno sacrificate senza pietà – la pietà non fa parte del mercato –, saranno ritirate dal banco vendita non appena ci si accorge che nessuno vuole comprarle. Cattive merci, da mandare al macero. Ecco come la verità giornalistica – e, più in generale, informativa – ha finito per venire classificata: tra le merci non buone. Perché i tycoons al servizio del potere non possono – e, in nome dei privilegi acquisiti, neppure vogliono – permettersi di disturbare il manovratore, che della verità non sa che farsene. Pensare è faticoso, produce disagio nel compratore e, allora, la merce-informazione che fa riflettere viene istantaneamente ritirata dal commercio che è l'attività primaria dei grandi network e delle catene mediatiche, in primis americane. Non c'è scampo, purtroppo. La verità non è più vendibile, o è vendibile solo casualmente e raramente (e a piccolissime dosi, omeopatiche). La verità risulta spesso difficile da capire, perché si rivela complicata da descrivere, e questo si scontra immediatamente con le esigenze della televisione, la quale, con la sua belluina forza dei grandi numeri ha travolto tutti i rimanenti mezzi di informazione - a partire da quelli scritti - e ha imposto le sue regole ferree e ottuse. E siccome la televisione non tollera l'idea dell'approfondimento, e men che meno le analisi accurate, vince la pratica della banalizzazione. La TV banalizza la verità fino al punto di falsificarla. Diciamolo chiaramente e fino in fondo: la televisione non ha alcun contenuto di verità; è la bugiarda per eccellenza nel campo dell'informazione. Per non parlare di tutto il resto del flusso comunicativo, che viene concepito esclusivamente in funzione delle esigenze produttive delle multinazionali. La pubblicità e l'intrattenimento, sottoposti alla legge della vendita pura e semplice (la regola del fatturato di inserzionisti e sponsor delle trasmissioni), sono i dispositivi attraverso i quali le classi dominanti trasmettono i propri valori e la propria visione, illustrando al popolo come comportarsi e cosa omaggiare. Punto e basta. That's all, come si dice nella lingua franca dei padroni del mondo: non si discute. È la signora TINA (There Is No Alternative).

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Se non sbaglio, lei in qualche occasione si è definito anticapitalista, mentre quanto emerge dalle sue parole, in definitiva, è un quadro nel quale si evidenzia come il neoliberismo abbia distrutto i principi essenziali del liberalismo e finisca precisamente col negare l'idea di un mercato come luogo di competizione tra imprese e soggetti economici meritocratici, in cui prevale chi è più bravo e portatore di maggiori competenze. Quella attuale, invece, è una situazione nella quale vincono la truffa e gli oligopoli, esattamente quelli che ammazzano e soffocano la libera concorrenza. Ad esempio tutti sappiamo quanto risulti difficile per non dire impossibile, costruire una nuova televisione in Italia, dove a dare le carte e a dirigere la situazione è, di fatto, un monopolio. E questo proprio in settori quali quelli tecnologicamente avanzati e "sensibili", dove le esperienze maggiormente progredite (una su tutte, quel formidabile incubatore e laboratorio di innovazione che è la californiana Silicon Valley) ci insegnerebbero, tutt'al contrario, che occorrono concorrenza e totale libertà di competere introducendo idee e soluzioni nuove e originali, non certo monopolisti già insediati che avversano qualunque altra iniziativa.

Esattamente. Io sono per un nuovo modo di vivere e di consumare. L'etichetta ce la metta lei. Sto semplicemente cercando di ritornare alle basi e ai fondamenti della democrazia liberale, e scopro che la società in cui viviamo viola tutte le sue norme più essenziali, come pure quelle del capitalismo dei tempi andati. Che fu violento e senza regole, ma che gradualmente seppe divenire – anche se non sempre e non dappertutto – civilizzato. Naturalmente anche perché distribuì i frutti delle sue rapine nel Terzo Mondo sulle popolazioni del Nord del pianeta; ma costruì anche lo Stato di diritto, che è meglio che niente.

Io non ho mai abiurato le mie idee comuniste. Comunista italiano, figlio di Gramsci, ma anche di Marx, Freud e Einstein. Che non trovo in contrasto con i principi di cui sopra. E certamente non in contrasto, in nessun punto, con le idee di libertà, di democrazia, di difesa dei diritti umani. Ma stiamo assistendo alla fine della democrazia e delle regole, di tutte le regole, e stiamo andando verso un suicidio insensato e collettivo. Né sono l'unico a pensarla così. Per fortuna. E scopro ogni giorno che c'è molta gente di qualità, che io ammiro, che la pensa nello stesso modo, sebbene le loro matrici culturali e politiche siano diversissime dalle mie. John Kenneth Galbraith, per esempio, nel suo già citato libretto davvero aureo, L'economia della truffa, racconta, dall'alto della sua sapienza, che oggi anziché applicare le norme si organizzano sistematicamente le frodi. E chi fa questo non sono le solite e poche mele marce, ma sono tutti. La regola è quella di aggirare, travisare le norme, renderle inattive, svuotate. In Italia abbiamo il maestro piduista di questo trucco, che si fa approvare le leggi per sé, ma la pratica è universale. Essere contro queste pratiche, contro l'inganno, la truffa, la guerra, l'universale mercificazione dell'individuo, l'idea insensata e folle di sviluppo che ne sta alla base, significa difendere l'Uomo. Lo vuole chiamare essere contro il capitalismo? Faccia pure. A me pare che la faccenda sia più complessa e non riconducibile alle vecchie formule. Se per mercato s'intende poter uscire di casa e comprare un cappuccino con brioche senza chiedere il permesso a nessuno e trovando un bar nel raggio di qualche chilometro, allora io sono per il mercato. Ma sono anche per lo Stato perché so che pagando le tasse, alla fine, mi garantirò l'assistenza sanitaria. Quando la società funziona relativamente bene, pur con tutti i limiti connaturati alle cose umane, non posso che approvarla e dirmi ad essa favorevole. Ma quando scopro che per molti, nella società in cui vivo, tutto questo non vale; quando mi accorgo che miliardi di persone, altrove, sono private di quello di cui io posso godere; quando vedo che stiamo andando sempre più frequentemente in guerra contro di loro, per impedire che possano risalire la corrente, allora non posso evitare di pormi la domanda: ma è possibile vivere in pace in queste condizioni? E giusto ignorare lo stato del mondo e infischiarsene degli altri? È razionale?

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[...] Una situazione in cui non si è più capaci di dire la verità alla gente, perché si teme di dover spiegare per quale motivo non gliela si è raccontata prima. Perché si teme di doverle dire, adesso, che bisogna cambiare molte cose della nostra vita comune, per il bene comune. Ma per fare questo bisogna sottrarre l'informazione dalle mani dei potentati che vogliono nasconderla. Sono loro che stanno rubando la democrazia ai popoli, cancellando il suffragio universale, restringendo il potere nelle mani di gruppi oligarchici sempre più ristretti. Sono loro che stanno lesionando il grande patto antifascista emerso dalla seconda guerra mondiale, che ha ricostruito l'Europa e garantito la pace. Se non faremo questo, dal sonno attuale della ragione che caratterizza gli eventi mondiali, emergeranno mostri.

Io credo che questo processo possa ancora essere efficacemente contrastato. Non tutto è perduto e, per quanto sia difficile, ce la possiamo ancora fare. E con queste "risposte per continuare a nutrire una speranza" che voglio terminare le nostre Cronache marxziane: dove abbiamo messo un po' di Marx, che è un pezzo della mia storia; un po' di Marte, nel senso che io stesso in qualche modo sono un marziano precipitato sulla Terra, altrimenti non parlerei così; e un po' di Marte inteso come dio della guerra, che sta dilagando nel mondo. Venere, l'Europa, non c'è nel titolo ma può essere il suo antidoto. La pace neppure c'è nel titolo, perché, mentre parliamo, piange e si dispera. Speriamo di convincerla a tornare a volare.

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