Copertina
Autore Elinor Childe
Titolo Il tempo stregato
EdizionePiemme, Milano, 2012 , pag. 530, cop.fle., dim. 13x21x3,5 cm , Isbn 978-88-566-2038-2
LettoreFlo Bertelli, 2012
Classe narrativa italiana , storia medievale , storia: Europa
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Indice


     Autunno 1476                                     5

I.   La chiocciola ferita                            13

     28 novembre 1487                               183

II.  «Andò dunque la damigella del lago dal re»     189

     Febbraio 1482                                  350

III. «Impara ad amare: non è arduo apprenderlo»     357


 

 

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Pagina 5

Autunno 1476



Nella sopravveste di broccato alessandrino a fiori d'oro, le lunghe maniche bordate di vaio che si confondevano con le pieghe della gonna, i capelli castani stretti sotto l'elaborata cuffia di veli inamidati, la bambina teneva le braccia incrociate in grembo, le mani, seminascoste dalla ricchezza delle maniche, esili e pallide, prive della tenera rotondità delle mani infantili, il viso chino in avanti in un gesto di silenzioso raccoglimento che scopriva, sotto i veli della cuffia, l'esile fragilità della nuca.

"Southwell, Philip Southwell" ripeteva tra sé, impuntandosi appena sulla S, come si studiasse di ricordare le parole di una preghiera.

Attendeva in silenzio, nell'arco della buia scala di mattoni che dalla torre nordoccidentale, la Torre delle Signore, portava alla Camera grande, quindi alla cappella. Dai vetri a riquadri della finestra, la luce non rischiarava i gradini perché alla torre facevano ombra i vasti boschi di querce e castagni che salivano dai prati lungo i fianchi delle colline dei Cotswolds. La bambina sembrava uscire da una tenebra fitta, in cui il turchino cupo e l'oro della sua veste mettevano un improvviso chiarore.

Quando alle sue spalle risuonarono i passi leggeri di lady Margery, non si volse, né alzò il capo, assorta, esclusa dalla realtà che la circondava per quella sua tenace ansia di apprendere.

«È tempo, ora, Avice. Padre Debenham e Philip sono alla cappella.»

Lady Margery si chinò verso di lei prendendola per mano, e quella mano infantile, magra e sorprendentemente forte nella stretta con cui si afferrava al broccato della sopravveste, sembrò un istante resisterle.

«Avice» ripeté lady Margery «è tempo di andare.»

Sollevando appena il capo, Avice Gurney annui solennemente, e porse la mano alla donna che l'avrebbe guidata alla cappella, che l'avrebbe, così le era stato detto, guidata nella sua nuova esistenza.

Alta, il viso pungente nella delicatezza dei lineamenti, lady Margery Howard avrebbe dovuto dirsi giovane e bella, e il portamento in lei non aveva perduto nulla della sua sdegnosa fierezza. Ma sembrava si distendesse sulla sua persona un velo così assoluto di sofferenza che parlare di giovinezza o di bellezza suonava quasi un insulto al lutto che vestiva da tempo, e non nei toni cupi degli abiti vedovili, che quel giorno aveva voluto abbandonare, ma nelle profondità del suo animo.

Mentre percorrevano il passaggio alla Camera grande, con le imponenti travi di legno che disegnavano contro il soffitto una lunga fuga di arcate, e raggiungevano nella Torre sudorientale l'antica cappella dalle pareti di mattoni, lady Margery ripeteva a voce bassa le istruzioni che da quasi un mese lei e padre Debenham impartivano alla bambina: era importante che Avice pronunciasse le parole giuste nei momenti giusti, così come le era stato insegnato.

Silenziosa, attenta a sollevare la lunga gonna della sopravveste che teneva stretta quasi sotto il mento, perché non le impedisse il passo, Avice annuiva con la stessa assorta solennità a ogni parola di lady Margery, fissando a terra lo sguardo dei lunghi occhi limpidi e remoti nei quali tutto sembrava esprimersi quel viso infantile.

Non alzava lo sguardo verso la donna che le parlava, la cui presenza le stringeva il cuore di una ignota apprensione per la severa tristezza che avvertiva in lei. Da poco più di un mese Margery Howard era entrata a Gurney, dove era stata accolta dalla servitù, dal siniscalco, dallo stesso padre Debenham, come la nuova castellana. Avrebbe preso presso di lei, le aveva spiegato padre Debenham, il posto di sua madre, che Avice non aveva mai conosciuto: Jane Gurney era morta poche ore dopo il parto, lottando, gli occhi spenti dalla sofferenza ma animati da una ansiosa febbre di vita, contro la morte che la strappava alla bambina appena nata.

"Non ho mai avuto una madre" si era detta Avice. "Perché dovrei averne una ora?"

A volte le sembrava di non avere avuto mai né una madre né un padre. Consumatosi nella passione della ricchezza, nel dolore per la morte della giovane moglie che aveva sinceramente amato, nei continui viaggi tra Anversa, da cui partiva il commercio internazionale della lana e dei tessuti, e Londra, dove aveva sede la compagnia dei "Merchant Adventurers", i mercanti che si avventuravano a inviare in tutti i paesi tessuti di lana e mercanzia di ogni specie, Roger Gurney, senza avere avuto né il tempo né la volontà di risposarsi per dare una madre a Avice, era morto meno di sei anni dopo la moglie. All'unica figlia aveva lasciato una ricchezza che si diceva fosse tra le prime d'Inghilterra, affidandola alla tutela di un altro membro della compagnia degli Adventurers, Walter Southwell, con cui aveva condiviso molte imprese commerciali, e che, per avere sposato in seconde nozze la vedova di un conte, sembrava riunire in sé il nascente prestigio dei ricchi mercanti e il prestigio antico dell'aristocrazia.

Se vi era qualcuno in cui accadeva a Avice di vedere un padre, era John Debenham, cappellano e segretario di Gurney; e non aveva conosciuto altra "madre" se non la balia che l'aveva allevata nella casa paterna.

Ora sembrava dovesse avere una madre, e Avice non comprendeva chi lo avesse voluto, né perché la scelta fosse caduta su quella donna bella, severa e triste a cui ogni realtà sembrava estranea.

Ma padre Debenham le aveva spiegato che tutto questo accadeva per compiere la volontà di Roger Gurney, e Avice credeva senza esitazione alle parole di padre Debenham e ricordava suo padre come un uomo che fissava a volte su di lei uno sguardo di ansiosa tenerezza. Forse, ora suo padre era felice che la sua volontà venissse compiuta, e l'ansia era scomparsa dal suo sguardo.

Avice sospirò appena, uno di quei brevi sospiri infantili in cui sembra esprimersi tutta l'inconsapevole tristezza del mondo.

In quel momento padre Debenham uscì dalla cappella e le si fece incontro: il suo viso era grave ma sereno e lo sguardo dolce, e la bambina rispose istintivamente con un breve sorriso alla dolcezza dello sguardo.

Alle spalle di padre Debenham era l'uomo – in verità poco più che un ragazzo, poiché non doveva toccare ancora i quindici anni, ma ai sei di Avice sembrava appartenere pienamente al mondo degli adulti – il cui nome era Philip Southwell e che lei aveva veduto una sola volta nel corso del mese appena trascorso. Le si avvicinò, le prese una mano portandosela lievemente alle labbra, e Avice alzò gli occhi, fissandoli, con uno sguardo di assorta interrogazione, nel viso di lui.

Sotto i capelli tanto chiari da apparire argentei, il viso adolescente di Philip Southwell sembrava singolarmente stanco, nel disegno delle labbra che agli angoli si piegavano lievemente all'ingiù, di una stanchezza tuttavia dolce e rassicurante, che nello sguardo si animava di un'ombra di spavalderia. E dolce e rassicurante era la voce morbida, già pienamente adulta, che ora le chiedeva quasi in un sussurro: «Siete pronta, Avice?».

Avice annuì solennemente.

A che cosa doveva essere pronta?

Pure, il suo assenso, si disse, non era una menzogna, poiché era senza dubbio pronta a ripetere le parole che le avevano insegnato.

Entrò nella cappella accanto a lui, seguita da padre Debenham, da lady Margery e da Ralph Osbern, il siniscalco di Gurney. Dietro al piccolo altare, la vetrata istoriata scagliava nella cappella silenziosa e buia le schegge colorate del sole al tramonto.

Avice – la mano di lady Margery sulla sua spalla magra, ossuta che la ricchezza del broccato non giungeva a addolcire, sembrava controllare e suggerire le parole e i gesti – pronunciò nei giusti momenti le formule giuste; ma quando Philip le porse un anello, lei dimenticò, attratta dallo splendore dell'oro su cui danzavano le fiamme delle candele, lo afferrò e lo strinse nel pugno; poi, alzando verso di lei uno sguardo ridente e interrogativo, fece per porgerlo segretamente a lady Margery, come in un gioco.

Fu padre Debenham a prenderle la mano, ad aprire il pugno tenacemente stretto, e, restituendo l'anello a Philip, a distendere con dolcezza l'anulare di lei, mormorando: «Philip deve infilarvi l'anello, Avice».

Poi, in un gesto infine familiare a Avice, padre Debenham alzò la mano e li benedisse entrambi.

All'uscita dalla cappella, nell'ombra del passaggio che conduceva dalla Torre alla cucina e alle grandi sale dell'ala occidentale, Avice vide Katharine, la balia, e accanto a lei la piccola Agnes, la sua sorella di latte; quest'ultima ebbe il gesto di correrle incontro, ma la madre la trattenne, e, mentre Avice, che Philip teneva per mano, proseguiva verso la Camera grande, le due figure femminili che erano per lei le più care al mondo tornarono a svanire nell'ombra del passaggio.

La Camera grande era illuminata a giorno. Le torce infisse nei muri e i doppieri d'argento collocati sulla tavola apparecchiata al centro della pedana dissipavano l'oscurità, che veniva respinta verso l'alto e si addensava in cupe ombre tra le arcate di quercia del soffitto. Ma Avice cercava con lo sguardo la finestra a nicchia aperta nella parete opposta alla porta. I vetri a rombi erano divisi da archetti leggeri in due ordini sovrapposti di bifore, e due gradini le consentivano di guardare anche di là dai vetri dell'ordine superiore. Era uno dei luoghi del castello a lei più cari, e Avice vi si diresse senza esitazione, salendo sul gradino più alto e avvicinando il viso al vetro, per guardare i boschi di Gurney, curiosamente scanditi dagli archetti.

La voce dolce e rassicurante di Philip la richiamò.

«Non volete sedere a tavola con noi, Avice? Io parto per Londra, e lady Margery ha voluto offrirmi un banchetto di congedo.»

Seduta al centro della tavola, avendo al fianco il siniscalco e padre Debenham, Margery Howard si rivolgeva a quest'ultimo con una nota di ansia nella voce ben modulata: «Separarli era la soluzione migliore, padre Debenham, se si considera l'età di Avice, e quella di mio nipote Philip».

«Separarli era senza dubbio l'unica soluzione, signora, la sola che io avrei potuto accettare, e non dubitavo che voi l'avreste scelta.»

«Attenderemo, io credo, otto, nove anni, quando saremo certi che Avice possa essere pronta; Philip, si intende» aggiunse con un lieve sospiro «sarà ormai un uomo.»

Avice e Philip venivano ora verso la tavola, e la bambina aveva abbandonato fiduciosamente la mano in quella di lui.

«Sembra che mio nipote sappia ispirarle fiducia. Credo sia un buon inizio, padre Debenham.»

«Conoscete bene vostro nipote, signora?»

«Molto meno di quanto voi conosciate Avice. Sono trascorsi quattro anni dalle nozze di mia sorella con Walter Southwell, ma Philip era a quel tempo paggio presso il conte di Wentworth, una situazione di privilegio» concluse con aspra ironia «che soltanto la ricchezza di mastro Southwell poteva offrirgli.» Né vi erano tra lei e Philip – figlio della prima moglie di Southwell – legami di sangue che potessero rendere più profonda la conoscenza. «Tuttavia, per quel poco che ho veduto di lui e per quanto di lui mi è stato detto» aggiunse, volgendo verso padre Debenham il viso triste «è un giovane di grande serietà e dolcezza di carattere.»

«Io» disse quasi a se stesso padre Debenham «ho molto affetto per Avice; è una bambina grave, a volte stranamente solenne nella sua saggezza infantile, ma è soltanto una bambina, signora.»

Lady Margery non finse di ignorare quelle parole, né il loro significato e l'ansia che tradivano.

«Non credo» disse «che avrete a dolervi di quel che è accaduto oggi. Ricordate che questa era la volontà di Roger Gurney, non meno che di mio cognato Southwell. E accanto a Avice sarò io, e sarà mia cura proteggerla.»

In piedi davanti alla tavola, Avice rivolse un inchino a lady Margery, senza interrompere tuttavia la conversazione che sembrava aver iniziato con Philip. E quando lui disse: «Avice, si direbbe che ora io debba chiamarvi mia moglie. Dovrei anche considerarvi tale?», la bambina alzò il viso al suono rassicurante di quella voce e ricambiò lo sguardo di lui con quello dei suoi lunghi occhi remoti.

E, annuendo e confondendosi un poco, rispose con grave solennità: «Sì, oh, sì, signore».

«Volete dunque che vi porti con me a Londra, a corte, dove regna il bel re Edoardo?»

Lady Margery tese la mano chiamando Avice a sederle accanto.

«Quando giungerà il momento» disse con gravità «se tuttavia il regno di Edoardo durerà tanto a lungo da dare a Avice il tempo di farsi donna.»

In verità, il regno di Edoardo, quarto del suo nome, durava ormai saldamente da cinque anni e nulla sembrava doverlo insidiare. Margery Howard, tuttavia, era perduta nel ricordo del tempo in cui Edoardo era dovuto fuggire di fronte all'esercito del conte di Warwick, e il re d'Inghilterra era tornato per breve tempo a chiamarsi Enrico.

L'anno che aveva segnato la vittoria definitiva di Edoardo di York contro re Enrico VI era per lady Margery l'anno in cui Richard Howard, che agli inizi di gennaio aveva celebrato le nozze con lei, era stato chiamato a battersi al fianco di Warwick per il re, ed era morto prima che il mese di aprile avesse superato la metà del suo corso, tra le fitte nebbie del campo di Barnet.

Per Richard, che non aveva avuto il tempo di darle un figlio, portava ormai da cinque anni il lutto, nelle vesti e nell'animo. E voleva ignorare che da tre anni il regno di Edoardo trascorreva nella pace, e la sua corte, affermava Philip con l'entusiasmo di un ragazzo, risuonava degli echi di feste e banchetti e risplendeva della bellezza delle donne.

«Un giorno, Avice, voi vivrete a corte, tra feste, danze e banchetti, bella tra le belle donne che la ornano.»

Avice ascoltava in silenzio. Non era il suo il silenzio intimorito di una bambina di sei anni quando attorno a lei agisce il mondo degli adulti. Avice era taciturna per natura; si muoveva nel silenzio, nella solitudine, nell'oscurità con la facilità di un uccello nell'aria.

Ma ora, sorprendentemente, ruppe il silenzio, rivelando che la sua mente, chiusa ai discorsi di quanti la circondavano, alle parole stesse di Philip, aveva seguito con quieta tenacia il proprio cammino.

«Se sono vostra moglie, signore» disse, con una nota di solenne ragionevolezza nella voce infantile, che a volte esitava sulle parole, ma le pronunciava con singolare precisione «vorrei sapere che cos'è una moglie.»

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Febbraio 1482



«Mia figlia non saprà nulla, non dovrà sapere nulla. È troppo inesperta e troppo sincera perché si possa essere certi che non si tradisca.»

La donna nell'abito amaranto dalle lunghe maniche bordate di pelliccia, che sembrava sottolineare il pallore del volto, si inchinò profondamente alla regina. La bella Elizabeth Wydeville, gli occhi lucenti come quelli della gatta che le giaceva ai piedi, le tese la mano risollevandola dall'inchino, e avvertì la lentezza con cui lady Anne si rialzava.

«Ero certa, lady Anne» disse «che voi avreste compreso quanto fosse necessario serbare il segreto anche nei confronti di vostra figlia.»

Non vi era alcuna ragione immediata, chiaramente definita, per la decisione di Edoardo IV, fortemente voluta dalla sua regina, di estendere oltre i confini del regno la rete di sentinelle-spie che Sua Grazia aveva istituito in Inghilterra.

La pace regnava da anni ormai tra il regno d'Inghilterra e quello di Francia. La rendita annuale che Luigi XI di Francia, per evitare un'invasione, aveva accettato di corrispondere al sovrano inglese dopo il trattato di Picquigny, veniva regolarmente versata. Né vi erano state voci di ribellioni o di grave malcontento tra i sudditi del re francese.

Era soltanto l'indebolirsi delle sue forze, di una salute che declinava, sebbene il sovrano fosse ancora lontano dalla vecchiaia, a fargli temere complotti, infedeltà, tradimenti. Era l'ostilità sempre più palese del fratello, Riccardo di Gloucester, verso la regina e la famiglia di lei, a tenerlo in una costante sensazione di incertezza.

E delle intenzioni del re di Francia chi mai poteva dirsi sicuro? Chi sentirsi tanto saldo nella propria regalità da non temere che le tortuose trame del "ragno universale", come Luigi veniva chiamato, si volgessero contro il suo regno?

In verità, era stata la regina, consapevole, ben più del sovrano, dell'ostilità di Riccardo, timorosa per i suoi fratelli e per i due figli maschi, a esercitare la poca influenza che ancora aveva su Edoardo inducendolo a estendere la rete di sentinelle alla corte di Francia. Nulla lasciava presagire un possibile accordo tra Riccardo duca di Gloucester e Luigi di Francia, ma Elizabeth Wydeville avvertiva, tra l'affilata intelligenza del duca e le complesse mene del sovrano francese, una sorta di affinità che le incuteva timore.

Aveva chiesto quindi che la Francia fosse il primo paese oltre i confini a entrare in quella fitta rete di sorveglianza che garantiva a Edoardo la conoscenza di quanto accadeva in tutto il suo regno, e Sua Grazia il re aveva approvato il progetto, e il piano ideato dalla regina perché non potesse esservi ombra di sospetto sulla persona inviata alla corte di Luigi.

Forte di una lontana parentela con Costanza di Savoia, seconda moglie del re francese, lady Anne aveva chiesto asilo alla corte di Francia, e ora, in un pomeriggio di febbraio, con la figlia e una piccola scorta, si imbarcava sulla nave che le avrebbe condotte nella prima tappa del viaggio.

Era un febbraio mite, e la giornata, mossa da una lieve brezza, odorava di primavera.

«Un tempo ideale per la traversata» aveva detto il capitano della piccola imbarcazione. E il tramonto sul mare parve dargli ragione. Il cielo, rosso intenso, scolorava a tratti in un verde di tenue luminosità prima di spegnersi in una trionfale esplosione dorata. Al tramonto seguì senza transizioni il crepuscolo: per un breve istante il cielo fu un immenso spazio vuoto, leggero, privo di densità, e subito si incupì in un blu intenso, e subito si accese una stella meravigliosa, lucentissima.

Gli auspici sembravano propizi, e la traversata si svolse felicemente.

Il viaggio per terra, lungo, tortuoso, con numerose tappe, parve interminabile a lady Anne, che l'esuberante felicità della figlia, l'insopprimibile vitalità con cui la giovane donna ammirava ogni particolare delle città e delle campagne attraversate, sfiniva indicibilmente. Era ansiosa, inquieta; comprendeva di avere avuto torto ad accettare quel compito. Fedele agli York, lady Anne aveva compiuto altre volte per loro missioni segrete, ma non era mai accaduto che dovesse coinvolgervi la figlia, inconsapevole e felice nella sua orgogliosa sincerità.

Né le era mai accaduto di sentire con tanta forza la presenza del male che da qualche tempo le toglieva le forze. Le avevano detto che forse il suo cuore era stanco, ma che era ancora giovane per avere seri timori; e quando Elizabeth Wydeville le aveva chiesto di riprendere quelle segrete missioni per gli York, che aveva abbandonato dal giorno in cui questi, nella persona di Edoardo, avevano occupato saldamente il trono inglese, non le era parso di poter rifiutare.

Elizabeth Wydeville parlava con la voce dolce e sommessa che aveva a suo tempo incantato Edoardo, ma lady Anne sentiva che le stava trasmettendo un ordine regale, e temeva che un rifiuto avrebbe messo a rischio la sua posizione a corte, e più ancora quella della figlia, ora che le due donne erano sole dopo la morte del marito di Anne, la cui età e la cui autorevolezza le erano sempre parse un baluardo contro ogni tempesta.

Aveva accettato; né aveva osato rivelare la verità quando, il giorno precedente quello previsto per la partenza, il dolore al petto l'aveva trafitta con maggior forza.

Era stata una follia la sua, ma le era stata offerta un'autentica alternativa?

"Forse" volle dirsi "è soltanto la stanchezza del viaggio che mi fa temere il peggio."

Tuttavia comprese che doveva fare qualcosa per proteggere la figlia, se... se quell'avvenimento a cui non voleva pensare avesse sconfitto le sue resistenze, poiché era stata tanto avventata da non saperla proteggere finché era in vita.

Erano a meno di un giorno di distanza da Parigi, e si fermarono a una locanda per l'ultima tappa del viaggio. Lady Anne, scendendo dal carro che le aveva condotte, dovette sorreggersi con forza al braccio della figlia.

«Il viaggio è stato duro per voi, madre, siete pallida, siete terribilmente pallida. Dovremo riposare questa notte alla locanda prima di riprendere il viaggio.»

Soltanto allora, uscita dall'oscurità del carro, alla luce piena del giorno, Alice aveva veduto il pallore estremo della madre, il suo viso segnato dalla stanchezza. Per la prima volta ebbe paura, e non trovò una parola di conforto da dirle. Le strinse con forza la mano, le abbandonò appena il capo sulla spalla, con leggerezza, per non esserle di peso, e si mise l'altra mano sulla bocca per soffocare il grido che le saliva dal petto, quando Lady Anne rispose: «Sì, Alice, io dovrò riposare; e il mio riposo sarà molto lungo. Ho agito male verso di te...».

«No» la interruppe la giovane donna «non parlate, siete troppo pallida, troppo debole; mi direte tutto più tardi, quando il riposo vi avrà ristorato.»

Lady Anne scosse il capo.

«Non dovrò dirti nulla, Alice; quello che dovevo dirti è in questa lettera. Ora voglio riconoscere soltanto di avere agito male, di essere in colpa verso di te. No» aggiunse, consapevole che la figlia voleva nuovamente parlarle per non ascoltare le sue parole «non dirò altro. Soltanto questo: se... se accadesse un miracolo, non leggere la lettera. La darai nuovamente a me e io saprò che cosa farne.»

Erano entrate ormai nella locanda e venivano condotte alla stanza preparata per loro, mentre gli uomini e le donne della scorta toglievano le casse degli abiti dal carro e prendevano accordi per il breve soggiorno.

Fu una notte stranamente tranquilla. Lady Anne si era assopita nel suo letto, mentre Alice le restava accanto e non osava prendere sonno. Fino a quel giorno, la madre non le aveva mai parlato di un suo male, e lei era stata troppo presa da se stessa, dalla pienezza della sua vita per scorgerne i segni.

Ora guardava quel viso mortalmente pallido, da cui il sonno aveva tuttavia cancellato le tracce della stanchezza, stringendo tra le mani la lettera, e si sentiva soffocare, e avrebbe voluto pregare, ma non trovava parole, e la sua preghiera era soltanto un lungo gemito silenzioso.

Lady Anne non si risvegliò. Sul candore del cuscino il viso sembrava sereno, e calmo, e pareva aver ripreso colore, e la mano era tesa verso la mano della figlia, che, cedendo infine al sonno, l'aveva abbandonata sul letto.

Alice era sola, in un paese che non conosceva, con l'unica compagnia dei pochi uomini e delle dame della scorta. La madre, il suo ultimo legame di affetto su questa terra, era morta, e lei non aveva saputo nulla, non le era stata accanto nella sua sofferenza. Rimase a lungo immobile, inginocchiata accanto al letto della madre, il capo abbandonato su quella mano tesa verso di lei, in un estremo gesto di tenerezza e di protezione.

Soffriva, soffriva con un doloroso senso di rimorso al pensiero che forse quel viaggio aveva provocato la morte, e quel viaggio era stato compiuto a causa sua. Soffriva, e avrebbe voluto rimanere per sempre là, inginocchiata accanto a quel letto, la fronte sulla mano della madre che il freddo della morte non aveva ancora raggiunto.

Pure, non vi era posto in lei per lo sgomento. Le sembrava che il dolore stesso le desse forza. Era un dolore tormentoso, ma non poteva abbattere l'insopprimibile vitalità che era in lei. La madre, morendo, le aveva offerto la sua vita senza più alcun vincolo. Alice non si chiedeva se quei sentimenti fossero colpevoli: le sembrava non potesse esservi colpa nel desiderio di vivere. E lei doveva vivere. Voleva vivere.

Ora iniziava una nuova vita che apparteneva soltanto a lei. Era sola, era oppressa dal dolore e dal rimorso, ma la vita, l'emozione di un ignoto futuro, in lei erano più forti.

Sollevò appena il capo, e í grandi occhi chiari si fissarono sul viso della madre.

«Tu mi hai dato la vita» disse con forza. «Non può offenderti che io voglia viverla.»

Si alzò lentamente da terra; vide accanto al letto la lettera che le era scivolata dalle mani quando il sonno l'aveva vinta.

E quella lettera la stupì e le accese nel cuore un'emozione singolare, e la liberò dal rimorso, poiché ora sapeva che il viaggio non era stato una fuga dalla corte di Edoardo a causa del rifiuto che lei aveva opposto alle attenzioni del re; poiché tutto era stato deciso tra il re, la sua regina e lady Anne, affinché la "fuga" dalla corte inglese e la richiesta di potersi rifugiare presso la sua parente, la regina Costanza, offrissero a lady Anne un'insospettabile ragione per entrare alla corte di re Luigi.

"Ho accettato, ho dovuto accettare – poiché non è agevole né senza pericoli resistere alla volontà dei sovrani – che si servissero di te, ma non avevo timori: ero troppo certa della tua forza e della tua limpida fierezza. E avevo la parola della regina che Sua Grazia il re non avrebbe passato i limiti. Ma ho accettato che si servisssero di te, e per questo ti chiedo di perdonarmi."

Tutto era stato una finzione, una rappresentazione in cui lei aveva svolto, senza esserne consapevole, il ruolo che le era stato assegnato.

Si era trattato di un intrigo ben congegnato perché sua madre potesse svolgere alla corte di Francia un ruolo che aveva svolto altre volte in altri luoghi, e che lei aveva sempre ignorato.

"Ma non è necessario che tu sappia più di questo; e dovrai liberarti della lettera, e dimenticare quello che vi ho scritto, e vivere continuando a ignorarlo."

Oh, sì, lei avrebbe vissuto, e avrebbe ignorato quella parte della vita di sua madre che la incuriosiva e da cui si sentiva respinta, perché la sua fiera sincerità rifuggiva da menzogne o stratagemmi.

Sarebbe stato necessario inviare uno degli uomini della scorta alla corte di Edoardo, perché i sovrani sapessero della morte di lady Anne. Era tutto quanto avrebbero appreso da lei. Poi, avrebbe seguito la volontà di sua madre.

Sarebbe stata l'ultima volta in cui si lasciava guidare da una volontà che non era la sua.

Da quel momento la sua esistenza sarebbe stata sua, e non avrebbe conosciuto inganni.


Gli uomini e le donne della scorta, che la videro scendere le scale della locanda e raggiungerli, compresero di non avere più davanti a loro la giovane donna orgogliosa e felice che avevano scortato lungo il viaggio. Quella che parlò brevemente era una donna nella sua piena maturità, il viso segnato dal pianto, ma la voce ferma e sicura, mentre diceva: «Lady Anne è morta questa notte. Io so quale sia la sua volontà e intendo seguirla, e anche voi la seguirete. Provvederemo a rendere alla mia venerata madre gli estremi onori. Quindi partiremo alla volta della corte di Borgogna».

Nessuno sembrò stupirsi, nessuno sollevò obiezioni. Quella donna giovane, bella, orgogliosa e sicura di sé, sola in una situazione drammatica, in un paese che non conosceva, non rivelava alcuno sgomento, ma parlava con la tranquilla autorità che era stata di suo padre.

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