Copertina
Autore Noam Chomsky
Titolo Egemonia americana e «stati fuorilegge»
EdizioneDedalo, Bari, 2001, Strumenti/Scenari 17 , pag. 332, dim. 140x210x20 mm , Isbn 978-88-220-5317-6
OriginaleRogue States. The Rule of Force in World Affairs
EdizioneSouth End Press, Cambridge MA, 2000
PrefazioneSalvo Vaccaro
TraduttoreViviana Segreto
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe politica , storia contemporanea , diritto , guerra-pace , paesi: USA , storia: America
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Indice


Prefazione
di Salvo Vaccaro                              5

Capitolo primo
Galleria di fuorilegge. Chi li etichetta?    15

Capitolo secondo
Stati fuorilegge                             31
    La crisi irachena                        31
    Disprezzo palese                         38
    Stati fuorilegge: un'accurata
        interpretazione                      41
    Eccezioni di stati fuorilegge            55
    Qualcos'altro sul «dibattito»            57

Capitolo terzo
Crisi nei Balcani                            63
    Le questioni                             71
    L'intervento umanitario                  78
    Le regole dell'ordine mondiale           81

Capitolo quarto
Retrospettiva su Timor Est                   87
    Il «dilemma» di Timor Est                92
    Distruggere una nazione                  96
    La solita risposta                       99

Capitolo quinto
Il Piano Colombia                           103

Capitolo sesto
Cuba e il governo americano. Davide contro
        Golia                               137
    I frutti della conquista                141
    La sfida di Castro                      145

Capitolo settimo
Sotto pressione. L'America Latina           151
    Esercitare pressione                    152
    La tomba del debito                     157

Capitolo ottavo
Giubileo 2000                               161

Capitolo nono
«Recuperare i diritti». Un percorso tortuoso173
    Nuovi diritti?                          177
    Ordine economico e diritti umani        181
    Ordine politico e diritti umani         186
    Diritti per chi?                        187
    Il diritto all'informazione             191

Capitolo decimo
Gli Stati Uniti e la «sfida del relativismo»197
    Diritti umani «universali»              202
    Diritti civili e politici               209
    Diritti economici, sociali e culturali  213
    Condizioni dei diritti umani            227
    Altri patti internazionali              240

Capitolo undicesimo
L'eredità della guerra                      247
   La sacralizzazione della guerra          247
   Le conquiste europee                     250
   Il XX secolo                             254
   L'estensione della guerra da parte
        degli Stati Uniti                   258
   Dopo la guerra                           262

Capitolo dodicesimo
Saluti dal millennio                        269
   «Imputazione di criminalità» ed
        autoadulazione                      271
   Prove più serie                          281

Capitolo tredicesimo
Il potere all'interno del territorio
        nazionale                           291

Capitolo quattordicesimo
Sovranità socio-economica                   307
   La sfera politica                        308
   La sfera socio-economica                 311
   Non ci sono alternative                  313
   Società delle imprese                    319

 

 

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Pagina 15

Capitolo primo

Galleria di fuorilegge. Chi li etichetta?


Come molti altri termini del linguaggio politico, il termine «stato fuorilegge (rogue state)» ha due usi: uno propagandistico, applicato ai nemici in genere, e uno letterale applicato agli stati che non si considerano vincolati alle regole internazionali. La logica suggerisce che gli stati più potenti rientrino nell'ultima categoria a meno che non abbiano costrizioni interne, ipotesi che la storia conferma.

Benché le norme internazionali non siano rigidamente determinate, esiste un certo grado di intenti sui principi generali. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, tali norme sono in parte codificate nella Carta dell'ONU, nelle sentenze della Corte internazionale di giustizia e in molteplici convenzioni e trattati. Gli Stati Uniti si considerano esonerati da queste condizioni, ancora di più a partire dalla fine della guerra fredda che ha lasciato loro un predominio così schiacciante da scoraggiare ampiamente ogni pretesa e questo non è passato inosservato. Il bollettino dell'American Society of International Law (ASIL) ha riportato nel marzo 1999 che «oggi nel nostro paese, con ogni probabilità il diritto internazionale gode di minore considerazione rispetto ad Ogni altro periodo» di questo secolo; il direttore di questa rivista specialistica aveva poco prima messo in guardia sull'«allarmante inasprimento» seguito al rifiuto di Washington di rispettare gli obblighi del trattato.

Il principio operativo fu elaborato da Dean Achenson nel 1963 quando comunicò all'ASIL che la «pertinenza» della replica a una «sfida... [al]... potere, alla posizione, al prestigio degli Stati Uniti, non è una questione legale». Il diritto internazionale, aveva osservato in precedenza, è utile «per abbellire la nostra posizione con un ethos derivato da principi morali generali che hanno interessato le dottrine giuridiche», ma alle quali gli Stati Uniti non sono vincolati.

Achenson si stava riferendo specificatamente all'embargo contro Cuba. Cuba è stata uno dei principali bersagli della guerra del terrore ed economica degli Stati Uniti per 40 anni, anche prima della decisione segreta del marzo 1960 di rovesciarne il governo. La minaccia cubana fu identificata da Arthur Schleisinger che stese un rapporto conclusivo della missione in America Latina del neo presidente Kennedy: «La diffusione dell'idea di Castro di prendere in mano i propri affari», idea che avrebbe potuto stimolare dovunque «le popolazioni povere e indigenti», che «in questo momento chiedono possibilità di una vita decente» - l'effetto «virus» o «mela marcia», come è talvolta chiamato. C'era una relazione con la guerra fredda: «l'Unione Sovietica si muove ad ampio raggio, offrendo grandi quantità di prestiti allo sviluppo e presentandosi come modello per il raggiungimento della modernizzazione in un solo decennio».

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Pagina 20

La dottrina dello stato fuorilegge è rimasta in vigore anche quando i democratici sono ritornati alla Casa Bianca. Nel 1993 il presidente Clinton informava le Nazioni Unite che gli USA avrebbero agito «multilateralmente ove possibile, unilateralmente se necessario», posizione ripresa un anno dopo dall'ambasciatore alle Nazioni Unite Madeleine Albright e nel 1999 dal Segretario alla difesa William Cohen, secondo il quale gli USA si sarebbero affidati «all'uso unilaterale della forza militare» per difendere gli interessi vitali, che includevano «la garanzia di accessi illimitati ai mercati chiave, alle forniture energetiche e alle risorse strategiche», e inoltre a qualunque cosa Washington avesse stabilito rientrare all'interno della «sua giurisdizione».

L'unica novità di queste posizioni è che sono pubbliche. Nei documenti interni, esse furono assunte nei giorni immediatamente seguenti alla fine della guerra. Il primo memorandum del neo costituito Consiglio di sicurezza nazionale (NSC 1/3) richiedeva il sostegno militare alle operazioni segrete in Italia, unitamente alla mobilitazione nazionale negli USA, «nel caso in cui i comunisti avessero ottenuto il potere del governo italiano con mezzi legali». Il sovvertimento della democrazia in Italia rimase il principale obiettivo almeno fino agli anni '70.

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Pagina 29

Le perdite umane sono troppo ingenti per cercare di quantificarle, ma per gli stati fuorilegge con un terribile potere, i crimini non hanno importanza. Sono cancellati dalla storia o trasformati in benevole intenzioni che a volte non hanno buon esito. Così, al di là di ogni ammissibile critica, la guerra contro il Vietnam del sud, poi contro tutta l'Indocina, cominciò con «sforzi grossolani per operare bene», anche se «nel 1969» era diventato chiaro, che «l'intervento sarebbe stato un disastroso errore», dato che gli Stati Uniti «non potevano imporre una soluzione che non comportasse un prezzo troppo alto per loro stessi». L'apologia della guerra da parte di Robert McNamara era indirizzata agli americani e fu sia condannata come perfida (dai falchi), sia considerata meritoria e coraggiosa (dalle colombe): se milioni di morti erano sparsi tra le rovine del paese devastato dai nostri attacchi, e ancora morivano a causa di ordigni inesplosi o degli effetti ritardati della guerra chimica, questo non ci riguardava, e non richiedeva nessuna apologia, per non parlare dei risarcimenti o dei processi per crimini di guerra.

Piuttosto avvenne il contrario. Gli USA furono salutati come il leader degli «stati illuminati», che avevano il diritto di ricorrere alla violenza quando lo ritenevano opportuno. Negli anni di Clinton la politica estera ha raggiunto una «fase nobile» con un «alone di santità» (secondo il «New York Times»), dato che l'America si trovava al «culmine della sua gloria», con un primato non macchiato da crimini internazionali, soltanto una piccola parte dei quali è stata menzionata.

Gli stati fuorilegge che sono liberi internamente - e gli Stati Uniti lo sono oltre ogni limite - devono fare affidamento sulla buona volontà delle classi colte a produrre consenso e a tollerare o negare i terribili atti criminali. Anche su questo argomento c'è una gran mole di documenti, che saranno ripresi ampiamente altrove. Ciò non dovrebbe essere motivo di orgoglio.

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Pagina 38

Disprezzo palese

Il disprezzo per le regole del diritto è profondamente radicato nella pratica e nella cultura intellettuale americane. Ricordiamo, ad esempio, la reazione alla sentenza della Corte mondiale nel 1986 che condannava gli USA per «illegittimo uso della forza» contro il Nicaragua, esigendo la cessazione e il pagamento di ingenti risarcimenti, e dichiarando gli aiuti americani ai contras, qualunque fosse la loro natura, «aiuti di tipo militare» e non «di tipo umanitario». Da ogni parte si accusò il tribunale di essersi delegittimato. I termini della sentenza furono considerati non adatti alla pubblicazione, e furono ignorati.

Il Congresso, controllato dai democratici, stanziò immediatamente nuovi fondi per accrescere l'uso illegittimo della forza. Washington pose il veto a una risoluzione del Consiglio di sicurezza che invitava tutti gli stati a rispettare il diritto internazionale - non nominandone nessuno, anche se l'intento era chiaro. Quando l'Assemblea generale diede il via a una risoluzione analoga, gli USA votarono contro, insieme soltanto a Israele e a El Salvador, e la respinsero a tutti gli effetti; l'anno seguente si poté contare solo sul voto di Israele. Ben poco di tutto questo, tralasciando ciò che questo significhi, ha ottenuto spazio nel media e nelle riviste.

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Pagina 41

Stati fuorilegge: un'accurata interpretazione

È anche interessante rivedere i punti che rientrano nel non-dibattito sulla crisi irachena. Ma prima una parola riguardo al concetto di «stato fuorilegge».

La concezione di base è che sebbene la guerra fredda sia finita, gli USA hanno ancora la responsabilità di proteggere il mondo - ma da che cosa? Non può essere apertamente dalla minaccia del «nazionalismo estremo» - cioè la mancata volontà di sottomettersi alla volontà della superpotenza. Tali idee sono adatte soltanto ai documenti di programmazione interna, non all'opinione pubblica. Dall'inizio degli anni '80, fu evidente che le tecniche convenzionali per la mobilitazione di massa - il «monolitico e crudele complotto» di JFK, «l'impero del male» di Reagan - stavano perdendo la loro efficacia: c'era bisogno di nuovi nemici.

In patria, la paura della criminalità - in particolare delle droghe - era suscitata da «un insieme di fattori che avevano poco o niente a che fare con la criminalità stessa», secondo la conclusione della Commissione penale sulla criminalità nazionale, incluse le pratiche dei media e il «ruolo del governo e dell'industria privata che seminano paura tra i cittadini», «che usano tensioni razziali latenti per scopi politici» a fini razzisti, con incarcerazioni e sentenze tese a distruggere la comunità nera, che creano un «abisso radicale» ponendo la «nazione a rischio di una catastrofe sociale». I risultati sono stati descritti dai criminologi come «il Gulag americano», la «nuova apartheid americana»; infatti gli afroamericani costituiscono oggi, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, la maggioranza dei detenuti, imprigionati in proporzione ben sette volte più dei bianchi, senza che si possa fare una stima degli arresti che colpiscono i neri al di là dell'uso o del traffico di droga.

All'estero le minacce erano costituite dal «terrorismo internazionale», dai «narcotrafficanti ispanici» e, quella più seria, dagli «stati fuorilegge». Uno studio riservato del 1995 del Comando strategico, responsabile degli arsenali nucleari strategici, sottolinea questa fondamentale convinzione. Reso pubblico grazie al Freedom of Information Act, lo studio - Fondamenti della deterrenza post-guerra fredda - «mostra come gli USA hanno mutato la loro strategia della deterrenza contro la defunta Unione Sovietica indirizzandola ora verso i cosiddetti stati fuorilegge, come Iraq, Libia, Cuba e Corea del nord», come riferisce l'Associated Press. Lo studio sostiene che gli Stati Uniti usano i loro arsenali nucleari per apparire «irrazionali e vendicativi se si attaccano i loro interessi vitali». Questa «dovrebbe essere parte dell'immagine nazionale che proiettiamo verso i nemici, in particolare verso gli stati fuorilegge». È inopportuno raffigurare se stessi «troppo pienamente razionali e assennati», non occupiamoci di sciocchezze quali il diritto internazionale e gli obblighi dei trattati. «Il fatto che alcuni elementi» del governo degli Stati Uniti «possano apparire potenzialmente "incontrollabili" può essere vantaggioso per creare e rafforzare dubbi e paure nella mente degli strateghi nemici». Nel rapporto risorge la «teoria dei pazzi» di Nixon: i nostri nemici devono essere convinti che siamo pazzi e imprevedibili, con una straordinaria forza distruttiva ai nostri ordini, così per paura si piegheranno alla nostra volontà.

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Pagina 52

Nel gennaio 1991, mentre risuonavano i colpi della guerra, la Commissione internazionale dei giuristi fece notare alla Commissione per i diritti umani dell'ONU che «dopo aver perpetrato i più clamorosi abusi sulla propria gente senza una parola di biasimo da parte delle Nazioni Unite, l'Iraq deve avere concluso che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa a suo piacimento»; le Nazioni Unite in questo contesto significa in primo luogo gli USA e la Gran Bretagna. Questa verità deve essere sepolta insieme al diritto internazionale e ad altre «utopiche» distrazioni.

Un inesorabile commentatore potrebbe ribadire che la recente tolleranza americana e inglese verso i gas velenosi e le armi chimiche non è poi così sorprendente. Gli inglesi usarono armi chimiche nel 1919 in occasione del loro intervento nella Russia settentrionale contro i bolscevichi, con grande successo, secondo il comando britannico. In qualità di segretario di stato al Ministero di guerra nel 1919, Winston Churchill fu entusiasta delle prospettive di «usare gas velenoso contro tribù non civilizzate» - curdi e afgani - e autorizzò il comando aeronautico in Medio Oriente ad usare armi chimiche «come esperimento contro gli arabi recalcitranti», respingendo le obiezioni del Ministero per l'India in quanto «non ragionevoli» e deplorando la «schizzinosità all'uso del gas»: «noi non possiamo essere sempre aquiescenti nel non utilizzare qualsiasi arma che serva a far cessare in breve tempo il disordine che regna alle frontiere»; le armi chimiche sono semplicemente «l'applicazione della scienza occidentale alla guerra moderna».

L'amministrazione Kennedy aprì la strada all'uso massiccio di armi chimiche contro civili quando iniziò il suo attacco contro il Vietnam del sud nel 1961-62. C'è stata una preoccupazione molto giustificata sugli effetti della guerra sui soldati americani, ma poca sugli effetti incomparabilmente peggiori sui civili; qui da noi, almeno. In un quotidiano israeliano a grande tiratura, il noto giornalista Amnon Kapeliouk ha riferito del suo viaggio in Vietnam nel 1988, dove ha verificato come «milioni di vietnamiti ancora muoiano per gli effetti della guerra chimica americana», citando stime intorno a 250.000 vittime nel Vietnam del sud e descrivendo scene «terrificanti» negli ospedali, dove i bambini morivano di cancro e soffrivano di orribili deformità congenite. Era stato il Vietnam del sud a essere colpito dalla guerra chimica, non il nord dove non vi erano state tali conseguenze. C'è inoltre una prova fondamentale dell'uso americano di armi biologiche contro Cuba, riportata come notizia minore nel 1977, e nella peggiore delle ipotesi si tratta solo di una piccola parte del terrore perpetrato dagli USA.

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Pagina 53

Il sostegno di Washington a Saddam Hussein raggiunse un livello tale che si sorvolò anche su un attacco aereo iracheno alla nave da guerra americana Stark, che uccise 37 uomini dell'equipaggio, privilegio altrimenti goduto solo da Israele (nel caso della Liberty). Fu il decisivo appoggio di Washington a Saddam, ben dopo i crimini che ora sconvolgono così tanto l'amministrazione e il Congresso, che portò alla capitolazione dell'Iran, a «Baghdad e Washington», secondo le conclusioni di Dilip Hiro nella sua storia della guerra Iran-Iraq. I due alleati avevano «coordinato le loro operazioni militari contro Teheran». Egli scrisse che l'abbattimento di un aereo civile iraniano da parte dei missili cruise della Vincennes fu il culmine della «campagna militare, economica e diplomatica» di Washington a sostegno di Saddam Hussein.

A Saddam fu inoltre richiesto di compiere i soliti doveri di uno stato cliente: per esempio addestrare le molte centinaia di libanesi mandati in Iraq dagli USA per rovesciare il governo di Gheddafi, come rivela Howard Teicher, ex assistente di Reagan alla Casa Bianca.

Non erano i suoi grandi crimini che innalzavano Saddam al rango di «Mostro di Baghdad». Piuttosto stava oltrepassando il limite, molto di più di un criminale di gran lunga minore, Noriega, i cui più grandi crimini furono commessi mentre era un cliente degli USA.

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Pagina 55

Eccezioni di stati fuorilegge

La qualifica di «stato fuorilegge» è ulteriormente chiarita dalla reazione di Washington alle rivolte in Iraq nel marzo 1991, subito dopo la cessazione delle ostilità. Il Dipartimento di stato respinse formalmente ogni sua relazione con l'opposizione democratica irachena a cui, proprio prima della guerra del Golfo, fu di fatto negato l'accesso ai principali media americani. Il portavoce del Dipartimento di stato Richard Boucher affermò che «gli incontri politici con loro non sarebbero opportuni in questo momento per la nostra politica». «Questo momento» era il 14 marzo 1991, mentre Saddam stava decimando l'opposizione nel sud sotto gli occhi del generale Schwarzkopf, che rifiutò anche il permesso agli ufficiali militari ribelli di accedere alle armi irachene sequestrate. Se non fosse stato per una inattesa reazione dell'opinione pubblica, Washington probabilmente non avrebbe offerto neanche un tiepido sostegno ai ribelli curdi sottoposti poco dopo allo stesso trattamento.

[...]

Il concetto di «stato fuorilegge» ha molte sfumature. Così Cuba è definita il principale stato fuorilegge a causa del suo presunto coinvolgimento nel terrorismo internazionale, ma gli USA non rientrano nella categoria nonostante i loro attacchi terroristici contro Cuba, durati quasi 40 anni, che manifestamente sono continuati per tutto il 1997, secondo un importante rapporto investigativo del «Miami Herald», che non è riuscito a raggiungere la stampa nazionale (da noi; ci è riuscito in Europa). Cuba era uno «stato fuorilegge» quando le sue forze militari si trovavano in Angola, a sostegno del governo contro gli attacchi sudafricani appoggiati dagli Stati Uniti. Il Sud Africa, di contro, non era allora uno stato fuorilegge, neanche durante gli anni di Reagan, quando provocò più di 60 miliardi di dollari di danni, e un milione e mezzo di morti negli stati vicini, secondo una commissione dell'ONU, per non parlare di alcuni fatti avvenuti nel suo territorio - con un ampio sostegno degli USA e della Gran Bretagna. La stessa eccezione vale per l'Indonesia e per molti altri.

I criteri sono abbastanza chiari: uno «stato fuorilegge» non è semplicemente uno stato criminale, ma uno che sfida gli ordini degli stati potenti - che naturalmente fanno eccezione.

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