Copertina
Autore Noam Chomsky
Titolo Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente
SottotitoloLinguistica, epistemologia e filosofia della scienza
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2005 , pag. 350, cop.fle., dim. 140x214x20 mm , Isbn 978-88-428-1108-4
OriginaleNew Horizons in the Study of Language and Mind
CuratoreDenis Delfitto, Giorgio Graffi
LettorePiergiorgio Siena, 2006
Classe linguistica , filosofia , epistemologia , scienze cognitive
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Indice

Chomsky fra storia della scienza e
filosofia del linguaggio
di Denis Delfitto e Giorgio Graffi                   9

Prefazione di Neil Smith                            33

Introduzione                                        47

1. Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio      51
2. Modelli di spiegazione dell'uso del linguaggio   71
3. Linguaggio e interpretazione:
   riflessioni filosofiche e ricerca empirica      107
4. Naturalismo e dualismo nello studio
   del linguaggio e della mente                    144
5. Il linguaggio come oggetto naturale             185
6. Il linguaggio da una prospettiva internalista   221
7. Esplorazioni internaliste                       261


Note                                               303
Bibliografia                                       315
Ringraziamenti                                     329
Indice analitico                                   331

 

 

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Pagina 51

1. Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio


Lo studio del linguaggio è uno dei campi di ricerca sistematica più antichi: le sue origini risalgono all'India classica e alla Grecia e la sua storia è segnata dal conseguimento di risultati importanti. Tuttavia, considerato da una prospettiva diversa, è un campo di indagine assai recente: le più importanti iniziative di ricerca odierne hanno preso forma circa quarantanni fa, quando alcune idee centrali della tradizione di studi sull'argomento sono state fatte rivivere e reinterpretate, aprendo la strada a una linea di ricerca che si è rivelata assai fruttuosa.

Il fatto che il linguaggio abbia esercitato, nel corso del tempo, un fascino così forte non è sorprendente: la facoltà di linguaggio umana sembra infatti costituire un'autentica "proprietà della specie", perché presenta una variazione minima fra gli esseri umani e non ha un vero corrispettivo in altre specie; forse il corrispettivo più vicino si ritrova negli insetti, a una distanza evolutiva di un miliardo di anni. Non ci sono ragioni serie per mettere in discussione l'idea cartesiana che la capacità di usare segni linguistici per esprimere pensieri liberamente formati rappresenti la vera differenza fra l'uomo e l'animale o la macchina, sia che per "macchina" si intendano gli automi che catturavano l'immaginazione degli uomini del XVII e XVIII secolo, sia che si intendano quelli che oggi stimolano il nostro pensiero e la nostra immaginazione.

La facoltà di linguaggio costituisce inoltre una parte integrante di ogni aspetto della vita, del pensiero e dell'interazione degli esseri umani, ed è in gran parte responsabile del fatto che essi costituiscano l'unica specie ad avere una storia, un'evoluzione e una differenziazione culturale di ricchezza e complessità notevolissime, nonché del loro successo biologico (nel senso tecnico che essi sono molto numerosi). Per uno scienziato marziano che osservasse gli strani avvenimenti che si verificano sul pianeta Terra sarebbe difficile non rimanere colpito dalla nascita e dall'importanza di questa forma di organizzazione intellettuale apparentemente unica. Un aspetto ancora più naturale di questa situazione è che l'argomento, con tutti i suoi misteri, abbia stimolato la curiosità di coloro che cercano di comprendere la loro natura e la loro posizione all'interno del mondo.

Il linguaggio umano è basato su una proprietà elementare che sembra anch'essa biologicamente isolata: la proprietà dell'infinità discreta, la cui esemplificazione più pura è costituita dai numeri naturali 1, 2, 3,... I bambini non apprendono questa proprietà: senza una dotazione innata della mente, nessuna quantità di dati empirici potrebbe produrre i suoi princìpi fondamentali. Analogamente, nessun bambino deve imparare che esistono frasi di tre e quattro parole, ma nessuna frase di tre parole e mezzo, e che può proseguire nella costruzione delle frasi senza doversi fermare: è infatti sempre possibile costruire una frase dotata di forma e significato più complessa della precedente. Questo tipo di conoscenza non può che provenirci «dalla mano originale della natura», per usare l'espressione di David Hume (1748, § 85): non può che essere parte del nostro corredo biologico.

Tale proprietà affascinò Galilei, che considerava l'invenzione di un mezzo per comunicare «i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona [...] con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta» (1632, pag. 131) la più grande nella storia umana. L'invenzione ha successo perché riflette l'infinità discreta del linguaggio che viene rappresentato per mezzo di questi caratteri. Non molto tempo dopo Galilei, gli autori della Grammatica di Port-Royal furono colpiti dalla "prodigiosa invenzione" di un mezzo per la costruzione, a partire da pochi suoni, di un'infinità di espressioni che ci permettono di manifestare ad altri ciò che pensiamo, immaginiamo e sentiamo (dal punto di vista contemporaneo, non si tratta di un'invenzione, ma ciò non la rende certo meno prodigiosa come prodotto dell'evoluzione biologica, aspetto sul quale in questo caso sappiamo ben poco).

La facoltà di linguaggio può essere ragionevolmente considerata un "organo di linguaggio" nel senso in cui gli scienziati parlano del sistema visivo, del sistema immunitario o del sistema circolatorio come organi del corpo. Inteso in questo senso, un organo non è qualcosa che possa essere rimosso dal corpo lasciando il resto intatto: costituisce piuttosto un sottosistema di una struttura più complessa, e noi speriamo di comprenderlo in tutta la sua complessità studiandone parti che presentano caratteristiche distintive e la loro interazione; lo studio della facoltà di linguaggio procede nello stesso modo. Partiamo inoltre dall'ipotesi che l'organo linguistico sia esattamente come gli altri organi, in quanto le sue caratteristiche fondamentali sono l'espressione dei geni. La possibilità di capire esattamente come ciò avvenga è ancora lontana, ma possiamo studiare in altri modi lo "stato iniziale", geneticamente determinato, della facoltà di linguaggio. È evidente che ogni lingua costituisce il risultato di due fattori: lo stato iniziale e l'esperienza. Possiamo concepire lo stato iniziale come un "meccanismo di acquisizione del linguaggio" che prende l'esperienza come input e produce la lingua come output, un output che è internamente rappresentato nella mente (o nel cervello). Tanto l'input quanto l'output sono passibili di indagine: possiamo studiare sia lo svolgersi dell'esperienza sia le proprietà delle lingue acquisite. Ciò che impariamo applicando questo metodo di indagine può fornirci moltissime informazioni sullo stato iniziale che rappresenta la mediazione fra i due livelli.

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Pagina 107

3. Linguaggio e interpretazione: riflessioni fìlosofiche e ricerca empirica


Nella letteratura filosofica degli ultimi quarant'anni vi sono state molte correnti di pensiero influenti che per molti aspetti, anche essenziali, mi sembrano andare incontro a problemi. Ho in mente, prima di tutto, approcci che assumono come punto di partenza determinate concezioni relative al modo in cui il linguaggio viene studiato, o dovrebbe essere studiato, dallo scienziato empirico, o dal "linguista sul campo", per usare i termini del noto paradigma di Quine. Si dovrebbero qui includere Quine, Donald Davidson e altri che si sono mossi verso una forma di pragmatismo o "epistemologia naturalizzata", incorporando nella loro concezione della scienza empirica questioni che si ritiene siano di significato filosofico, ma anche altri che assumono un punto di partenza diverso, per esempio Michael Dummett e molti degli studiosi che subiscono l'influenza di Wittgenstein e della filosofia del linguaggio ordinario. Per dare una prima illustrazione di queste idee, prendiamo in considerazione i commenti di Richard Rorty su Davidson:

Davidson ha sicuramente ragione quando afferma che Quine «ha salvato la filosofia del linguaggio come disciplina scientifica seria» sbarazzandosi della distinzione fra sintetico e analitico. Il migliore argomento offerto da Quine a sostegno di tale operazione è stato che la distinzione non è di alcuna utilità per il linguista che opera sul campo (1986, pag. 339).

Per quanto riguarda il "linguista sul campo", il suo compito si riduce all'«osservazione del modo in cui il comportamento linguistico si svolge parallelamente al comportamento non linguistico durante l'interazione dei nativi con il loro ambiente, un'interazione che [il linguista] considera guidata da regole di azione», più in particolare dal «principio regolatore» in base al quale «nella maggioranza dei casi le regole del nativo sono le nostre stesse regole, vale a dire che nella maggioranza dei casi tali regole sono vere» (ivi, pag. 340; evidentemente, qui "regole" si riferisce a credenze). Non dobbiamo preoccuparci di «uno schema concettuale, un modo di vedere le cose, una prospettiva (o [...] una lingua o una tradizione culturale), [visto che] il linguista che opera sul campo non ne ha bisogno, [quindi] non ne ha bisogno neppure la filosofia» (ivi, pag. 344). Quine e Davidson concordano sul fatto che «una teoria del significato per una lingua è ciò che emerge dalla ricerca empirica sul comportamento linguistico» quando quest'ultimo venga correttamente indagato in accordo con le dottrine «dell'olismo e del comportamentismo» (ivi, pag. 352).

Questa linea di pensiero conduce a una forma di pragmatismo che Rorty condivide e attribuisce a James e Dewey, e che include, fatto di importanza cruciale, il rifiuto di ogni relazione di "esser rese vere" sussistente fra le credenze e il mondo. Piuttosto, afferma Rorty, «noi comprendiamo tutto ciò che c'è da sapere sulla relazione fra credenze e mondo quando comprendiamo le relazioni causali fra credenze e mondo» (ivi, pag. 335).

Tralasciando le conclusioni raggiunte da Rorty, consideriamo i postulati sui quali si fonda il suo ragionamento. Se il miglior argomento contro la distinzione fra analitico e sintetico è che tale distinzione non è di alcuna utilità per il "linguista sul campo", allora praticamente chiunque lavori nel settore della semantica descrittiva, o vi abbia mai lavorato, deve essere gravemente in errore, visto che questo genere di lavoro è costellato di supposizioni relative a connessioni di significato che produrranno (in particolare) esempi della distinzione fra analitico e sintetico. Risulterebbe difficile trovare studi sul linguaggio che non assegnano a "uccidere", "così" ecc. una struttura e un significato tali che non vi sia una distinzione qualitativa, determinata dal linguaggio stesso, tra le frasi "Giovanni ha ucciso Guglielmo, cosicché Guglielmo è morto", e "Giovanni ha ucciso Guglielmo, cosicché Giovanni è morto".

[...]

Tuttavia, quel che si presume sia stato dimostrato da Quine va al di là delle questioni di analiticità e conduce alla conclusione che non esistono connessioni semantiche che possano essere attribuite alla facoltà di linguaggio stessa in quanto distinta dai nostri generali sistemi di credenza; altrove Rorty considera questa una delle due scoperte fondamentali che mettono in crisi una visione del mondo tradizionale.

Come è noto, Quine e altri hanno offerto la loro spiegazione di queste distinzioni. Tornerò su queste proposte e sul modo in cui dovrebbero essere valutate conformemente ai criteri epistemologici propri delle scienze naturali; qui vorrei solo notare che il riferimento al "linguista sul campo" non può certo essere inteso come riferimento a coloro che in effetti svolgono il lavoro di linguista: esso ha, piuttosto, un carattere normativo, in quanto indica il modo in cui tale lavoro dovrebbe essere svolto aderendo alle condizioni di "olismo e comportamentismo" imposte dal filosofo ma non seguite in pratica dallo scienziato, che sarebbe quindi in errore. Anche se sulla base dell'analisi questa posizione potrebbe risultare giustificabile, si potrebbe perdonare a coloro che hanno una certa familiarità con la storia della disciplina un certo scetticismo iniziale.

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Pagina 185

5. Il linguaggio come oggetto naturale


Vorrei discutere un approccio alla mente che considera il linguaggio e fenomeni simili come elementi del mondo naturale che devono essere studiati con i metodi ordinari della ricerca empirica. Userò i termini "mente" e "mentale" senza una valenza metafisica; intendo pertanto "mentale" in analogia con "chimico", "ottico" o "elettrico": certi fenomeni, eventi, processi e stati sono informalmente denominati "chimici" (ecc.), senza che con questo si suggeriscano particolari divisioni metafisiche. I termini vengono usati per selezionare alcuni aspetti del mondo come obiettivo della ricerca empirica: non cerchiamo di determinare il vero principio del chimico, il contrassegno dell'elettrico o le frontiere dell'ottico. Userò "mentale" allo stesso modo, attribuendogli più o meno la valenza semantica propria dell'uso comune, ma senza implicazioni più profonde. Con "mente" intendo gli aspetti mentali del mondo, senza che l'interesse per la precisazione dei confini di questa nozione o per l'individuazione dei suoi princìpi sia maggiore che in altri casi del genere.

Userò i termini "linguistico" e "lingua" in modo del tutto analogo. Concentriamo la nostra attenzione su aspetti del mondo che ricadono sotto questa denominazione informale, cercando di migliorarne la comprensione. Nel far questo potremmo sviluppare (anzi chiaramente lo facciamo) un concetto che assomiglia più o meno alla nozione informale di "linguaggio", postulando che tali oggetti appartengano al mondo naturale, come le molecole complesse, i campi elettrici, il sistema visivo umano e così via.

Un approccio naturalistico agli aspetti linguistici e mentali del mondo cerca di costruire teorie esplicative intelligibili, supponendo che sia "reale" quanto siamo indotti a ipotizzare nel corso delle nostre ricerche, nella speranza che si giunga a un'unificazione finale con lo "zoccolo duro" delle scienze della natura: unificazione, non necessariamente riduzione. La riduzione su larga scala è rara nella storia della scienza. Normalmente la scienza più fondamentale deve subire una revisione radicale perché l'unificazione possa realizzarsi. Il caso della chimica e della fisica costituisce un esempio recente: la spiegazione del legame chimico operata da Pauling ha unificato le due discipline, ma solo dopo che la rivoluzione quantistica in fisica ha reso possibili questi sviluppi. L'unificazione di gran parte della biologia con la chimica avvenuta alcuni anni più tardi potrebbe essere considerata un'autentica riduzione, ma non è affatto un fenomeno comune e non ha un particolare significato epistemologico o di altro genere: l'"espansione" della fisica a incorporare ciò che si sapeva della valenza, della tavola periodica, dei pesi chimici ecc. costituisce una forma di unificazione non meno valida della precedente. Nel caso in discussione, le teorie del linguaggio e della mente che sembrano meglio motivate su base naturalistica assegnano alla mente (o al cervello) proprietà computazionali di tipo ben noto, anche se non si sa abbastanza per spiegare come una struttura costituita di cellule possa essere in possesso di tali proprietà. Ciò pone un problema di unificazione, ma di tipo comune.

Non sappiamo come l'unificazione finale potrebbe procedere in questo caso, o se abbiamo individuato le categorie corrette per cercare di unificarle, o anche solo se la questione ricade entro la nostra portata cognitiva. Non c'è alcuna giustificazione per supporre semplicemente che le proprietà mentali debbano essere ridotte a "proprietà delle reti neurali", tanto per citare una delle proposte più tipiche (si veda Patricia Churchland 1994). Dichiarazioni simili si sono spesso rivelate false in altri domini, e in questo caso sono prive di particolari meriti scientifici. Se la tesi sulle reti neurali viene interpretata come ipotesi di ricerca, benissimo: aspettiamo e vedremo; se invece le si vuole conferire un'altra interpretazione, sorgono problemi piuttosto seri.

Riguardo alla questione della portata cognitiva, se gli esseri umani fanno parte del mondo naturale e non sono quindi esseri soprannaturali, allora l'intelligenza umana avrà la sua portata e i suoi limiti, determinati dalla struttura iniziale. Potremo allora determinare in anticipo che certi problemi non ricadono entro la portata cognitiva degli esseri umani, proprio come i topi non sono in grado di percorrere labirinti facendo uso di proprietà numeriche, dal momento che sono privi dei concetti appropriati. Potremmo chiamare questioni di tal tipo "misteri-per-gli-esseri-umani", proprio come alcune questioni pongono "misteri-per-i-topi"; fra questi misteri potrebbero trovarsi problemi che noi solleviamo, insieme ad altri problemi che non sappiamo formulare correttamente o non sappiamo formulare affatto. Simili truismi non servono a mettere sotto accusa la "debole intelligenza" degli esseri umani: non condanniamo la "debolezza" dell'embrione umano per il fatto che le sue istruzioni genetiche sono abbastanza ricche da permettergli di diventare un essere umano, escludendo altri percorsi di sviluppo. Tutti sarebbero felici se le questioni si trasformassero «da Misteri Che Possiamo Solo Contemplare In Soggezione in Problemi Difficili Che Stiamo Cominciando A Penetrare» (Patricia Churchland 1994). Dimostrare l'avvenuta trasformazione per alcuni problemi di lunga data è impresa di non poco conto, e ci si potrebbe in effetti domandare se gli orizzonti rimangono lontani come sono sempre stati, forse per ragioni che hanno a che fare con il corredo biologico umano.

Daniel Dennett sostiene che la nozione di limite epistemico, sebbene sia «filosoficamente conveniente», è «retoricamente instabile», dal momento che «Chomsky e Fodor hanno reso omaggio alla capacità del cervello umano di analizzare, e quindi presumibilmente comprendere, l'ufficiale infinitezza delle frasi grammaticali del linguaggio naturale», incluse quelle «che esprimono al meglio le soluzioni ai problemi del libero arbitrio o della coscienza», che secondo la sua errata asserzione io avrei dichiarato «al di là del limite» (1991, pag. 10). Tuttavia, anche se le soluzioni ai problemi in questione possono essere formulate nel linguaggio umano (il che dovrebbe essere dimostrato, non semplicemente asserito), l'argomento non è corretto. In primo luogo, come è ben noto, le espressioni del linguaggio naturale risultano spesso non analizzabili (non solo a causa della loro lunghezza o complessità in qualche senso indipendente dalla natura della facoltà di linguaggio). In secondo luogo, anche se analizzate e dotate di un'interpretazione, queste espressioni potrebbero risultare completamente incomprensibili; è fin troppo facile trovare esempi al riguardo.

La storia delle scienze più avanzate offre qualche indicazione penetrante circa la ricerca di unificazione. Prendiamo come punto di partenza la "filosofia meccanicistica" che raggiunse il suo apogeo nel XVII secolo, la cui idea fondamentale era che il mondo fosse una macchina del tipo di quella che potrebbe esser stata costruita da un abile artigiano. Questa concezione del mondo affondava le radici nelle concezioni del senso comune, dal quale derivava l'ipotesi di fondo che gli oggetti possano interagire solo attraverso il contatto diretto.

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7. Esplorazioni internaliste


Mentre scrivo, il cielo si sta oscurando e la radio annuncia che una tempesta si sta dirigendo verso Boston: si prevedono piogge violente, vento forte, lo straripamento di alcuni fiumi e l'inondazione di aree costiere, danni a vegetazione e case e interruzioni dell'energia elettrica. L'asserzione precedente, chiamiamola S (e fingiamo che sia stata pronunciata), si esprime attraverso un mezzo esterno e viene compresa in vari modi dal parlante e dagli ascoltatori. Informalmente, diciamo che S ha suono e significato. S è inoltre connessa con alcuni stati interni del parlante e degli ascoltatori, stati che partecipano a determinare il modo in cui essi la interpretano; la comunicazione dipende dalla somiglianzà fra questi stati interni. Queste sono le modalità in cui il linguaggio "impegna" la realtà.

Tali argomenti sono stati studiati per millenni da molti punti di vista e costituiscono un oggetto di interesse nella vita quotidiana: esistono in effetti diverse pratiche culturali e linguistiche che li coinvolgono, a cui si dà talvolta il nome di "senso comune" o "scienza ingenua". Sembra piuttosto ovvio che lo studio di questi argomenti non è lo studio di tali pratiche. Le scienze geologiche, per esempio, non sono vincolate dalle idee e dalle tendenze espresse in S, e lo stesso vale per la "scienza della natura umana" di Hume, che cerca di scoprire «le sorgenti segrete e i princìpi, per mezzo dei quali la mente umana si attua nelle sue operazioni» (1748, § 9).

Mentre le questioni sono abbastanza chiare nel caso delle scienze geologiche, risultano più complesse quando prendiamo in considerazione la scienza della natura umana, che si occupa, fra le altre cose, dello studio del senso comune (è quella che potremmo chiamare "etnoscienza"); tuttavia, questa scienza prosegue normalmente il suo corso. La ricerca può cominciare con le nozioni del linguaggio ordinario "linguaggio", "suono", "significato", "vento", "fiume" ecc., ma non ci si può aspettare che tali nozioni costituiscano una guida affidabile oltre un livello superficiale.

Sto interpretando la "scienza della natura umana" di Hume come individualista e internalista. Questa scienza è ben lungi dall'esaurire lo studio di come gli esseri umani funzionino nei loro universi sociali e fisici. Le ricerche più ampie presuppongono, se non altro tacitamente, idee sugli stati interni che partecipano al pensiero e all'azione, di solito usando nella misura maggiore possibile le conoscenze che provengono dallo studio internalista dei sistemi della mente (o del cervello). L'interscambio si realizza lungo direzioni molteplici, come avviene in generale nello studio di altri organismi; nel caso del linguaggio umano, le analogie meno remote si ritrovano forse negli insetti (si veda Griffin 1994; Austad 1994). L'indagine su proprietà quali il "riferimento a distanza" nella comunicazione fra le api prenderà in considerazione la natura (interna) delle api, le loro strutture sociali e il loro ambiente fisico, ricerche che si fondano l'una sull'altra.

Conflitti apparenti dovrebbero essere risolti facendo chiarezza sul progetto di ricerca che si sta perseguendo. Consideriamo, per esempio, la discussione del contenuto ampio e ristretto, la specificazione delle rappresentazioni mentali e l'individuazione del pensiero e delle credenze. Se la ricerca ricade entro l'etnoscienza, la domanda riguarda il modo in cui le persone pensano e parlano di queste questioni, riconoscendo, tuttavia, che la domanda non può essere posta direttamente per il "contenuto" e le "rappresentazioni mentali", qui usate in un senso tecnico; che "pensiero" e "credenze" sono parole dell'italiano prive di equivalenti precisi anche in lingue relativamente simili all'italiano, qualunque sia l'importanza che si vuole riconoscere a tale circostanza (per alcuni commenti si veda Rhum 1993); e che le spiegazioni delle azioni umane fornite dal senso comune non devono essere intese come una forma di spiegazione teorica. Ci troviamo in una palude che è largamente inesplorata. Nella scienza della natura umana sorgono questioni diverse: si guarda al quadro teorico in cui vengono formulate nozioni come "pensiero" e "contenuto", cercando di determinare la sua adeguatezza descrittiva e la sua forza esplicativa. Non è dunque sorprendente che le nozioni del senso comune non siano di grande aiuto e che il "bottino" sia modesto.

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