Copertina
Autore Noam Chomsky
Titolo Dal Vietnam all'Iraq
SottotitoloColloqui con Patricia Lombroso
Edizionemanifestolibri, Roma, 2003, La talpa di biblioteca 50 , pag. 104, dim. 110x180x7 mm , Isbn 978-88-7285-314-6
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe politica , storia contemporanea , guerra-pace , paesi: Vietnam , paesi: Iraq , paesi: USA
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Indice

Introduzione                                 7

Il dopo-Vietnam per gli americani           13
Sono sicuro, la guerra ci sarà              25
Il nuovo Vietnam si chiama Salvador?        33
La vittoria del caos                        39
A misura di Washington                      45
Favelas dell'Est modello Terzo Mondo        49
Un virus inestirpabile                      57
Il premio a Timor Est                       65
Sì all'impeachment, ma per i bombardamenti  67
Siamo al verde                              73
America, uno specchio diviso in due         79
Un'occasione chiamata terrore               85
Dimenticare Clinton                         93
La guerra in Iraq                           97

 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE
Patricia Lombroso



Tanti sono i personaggi e i Premi Nobel che ho incontrato, e le testimonianze che ho raccolto, in trent'anni di vita e di esperienza giornalistica negli Stati Uniti. Ma, alla luce degli eventi che si sono succeduti nel tempo, da Nixon a Carter, da Reagan a Clinton, a Bush padre e Bush figlio, la rilettura di queste interviste con Noam Chomsky, costituisce quasi una guida dell'evolversi di quel disegno geostrategico di ciò che nel 1975 Chomsky mi indicò come un unico filo conduttore dell'espansionismo imperiale americano dal Sud-Est asiatico, al Medio Oriente, all'Europa. Un disegno politico e strategico, che a volte si è mostrato confuso e irrazionale nella sua conduzione.

[...]

«Il Medio Oriente sarà fonte di conflitti per i prossimi decenni. Il controllo delle risorse energetiche di petrolio e la sua distribuzione mondiale è l'ossessione di Washington ...», dichiara Noam Chomsky nella prima intervista del 1975 e nell'ultima del 22 marzo di quest'anno, mentre infuriano i bombardamenti a tappeto su Baghdad.

E il terrorismo, il fondamentalismo islamico? Chomsky, nell'intervista del 1996, già prefigura una «terminologia inventata dagli Stati Uniti a scopo propagandistico e una politica di interventismo unilaterale per assicurarsi il predominio egemonico degli interessi economici e strategici in Medio Oriente e nel resto del mondo. (...) Il problema per Washington non è il fondamentalismo islamico. Non è forse l'Arabia Saudita, il paese fondamentalista islamico più vasto e addestrato dalla Cia in Afghanistan, un protettorato Usa?».

Tuttavia, in questa raccolta di interviste dedicate al cinismo del potere politico Chomsky propone infine la visione di un mondo alternativo e di una democrazia funzionante. Anni fa sosteneva, in ogni nostra conversazione, questa posizione: «esiste un modo per resistere e farsi sentire: scendere per le strade. Mobilitarsi. Le istituzioni sono formate da individui, esseri umani. Il Fmi o la Banca mondiale non sono astrazioni».

L'intervista rilasciata dopo la pubblicazione nel 1996 di Potere e illusioni, lancia un messaggio a noi tutti: «Un virus inestirpabile preoccupa l'Occidente. Ed è riemerso. Queste voci di dissenso sono reali, coraggiose. Non vanno ascoltate e interpretate in chiave di romanticismo utopistico, ma come opportunità per combattere il neoliberismo in modo costruttivo. Il neoliberismo trionfante non ha potuto distruggere la sete di libertà, indipendenza, giustizia e democrazia reale. Non li si può sradicare totalmente. La storia ci insegna che questa ricerca è possibile, e realistica».

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Pagina 97

LA GUERRA IN IRAQ
Il manifesto, 21 marzo 2003



Questo apocalittico intervento militare degli Stati Uniti in Iraq, non è una guerra contro l'Iraq. È piuttosto una invasione del Medio Oriente, o meglio un'ennesima aggressione militare americana. Questa è la volta dell'Iraq. Ma io non la chiamerei proprio guerra. Si potrebbe, piuttosto, paragonare a un incontro di boxe fra il campione del mondo e un dilettante. Infatti, gli Stati Uniti non osano dichiarare guerra a una vera potenza, come nel caso della Corea del Nord, dove la minaccia sarebbe concreta e tangibile. Questa incommensurabile potenza militare oggi si scaglia contro l'Iraq perché è un nemico senza difese. Non è la prima volta nella storia che leaders politici prendono decisioni rischiose per la propria popolazione, e talvolta per il resto del mondo, per perseguire i propri obiettivi, anche a costo di scatenare una strage.

Come interpreta questa sfida di Bush, e del suo team di guerra, contro l'opposizione alla guerra del Consiglio di Sicurezza, della «vecchia Europa» (Francia e Germania) e dell'opinione pubblica mondiale?

Si tratta di una mostruosa lezione impartita al mondo intero dagli Stati Uniti: «se volete prevenire un attacco militare da parte nostra è bene che vi premuniate di un detenente atomico credibile». Gli Stati Uniti incoraggiano la proliferazione delle armi di distruzione di massa per chi non ne sia ancora in possesso e incitano all'esercizio di questo terrore come arma di deterrenza. Non serve nient'altro al mondo per la deterrenza. È questa la paradossale prospettiva che scaturisce da questa invasione militare in Iraq. Attaccare l'Iraq, sbandierando l'incommensurabile capacità militare degli Stati Uniti e la superiorità della sua forza militare al resto del mondo, contribuirà a spaventare il mondo. Sarà come affermare che gli Stati Uniti operano come e dove vogliano. Questo postulato, reso già pubblico nel settembre scorso con il National Strategie Review, è quanto Bush e Powell hanno comunicato alle Nazioni Unite, dimostrando l'irrilevanza per Washington della volontà di altri paesi della comunità internazionale, qualora in contrasto con il loro diktat. L'ultimatum di 48 ore, decretato da Bush dalla base militare delle Azzorre, non era diretto a Saddam Hussein, ma al resto della comunità internazionale.

Quali potrebbero essere le conseguenze e i risvolti di questa occupazione americana dell'Iraq?

Nessuno è in grado di rispondere con precisione a questa domanda. Probabilmente, andrà a generare sollevazioni popolari, esplosioni e conflitti nel mondo.

L'occupazione dell'Iraq e la riconfigurazione della mappa del Medio Oriente rischiano di portarci ai limiti di una terza guerra mondiale?

Questa volta non credo, perché il contesto geopolitico di oggi è diverso da quello degli anni Ottanta. In Medio Oriente, faceva da contraltare la potenza dell'Unione Sovietica. In quel contesto il rischio di una terza guerra mondiale sarebbe stato reale. Ma l'Iraq è oggi un paese isolato, che non riceve più l'appoggio di nessun'altra superpotenza. Non esistono più due superpotenze egemoniche che si fronteggiano per il controllo delle proprie aree di influenza. Tuttavia, ci sono altri rischi, non meno gravi.

Quali?

Esiste oggi, come d'altronde ammesso dalla stessa della destra conservatrice, la viva preoccupazione che, in seguito all'attacco militare Usa e all'eventuale collasso della società irachena, nel caso l'Iraq fosse ancora in possesso di armi chimiche e di sostanze nervine, un qualsiasi colonnello iracheno potrebbe immettere sul mercato internazionale queste armi, e renderle disponibili a una vasta rete di fanatici. Un pericolo che non si sarebbe corso con il regime di Saddam Hussein. Una delle ripercussioni di questa invasione militare americana in Iraq sarà un'esasperazione del sentimento di odio e di ostilità del mondo musulmano nei confronti degli Stati Uniti. Un'altra possibilità è un colpo di stato in Pakistan contro la leadership di Musharaff, e in Pakistan le armi nucleari esistono, e non sono sotto il rigoroso controllo di ispettori della comunità internazionale. Queste realtà potrebbero dar luogo a fughe di materiale atomico, per non parlare dell'eventualità dell'impiego dell'atomica in una guerra contro l'India. È questo lo scenario apocalittico che l'attacco militare americano può generare. Evidentemente, gli Stati Uniti hanno deciso di giocare con il potere nucleare...

Quale è la logica di Bush e compagni a Washington nel perseguire questi disegni «imperiali»?

Esiste una logica perversa e razionale perseguita da questo team (Rumsfeld, Wolfovitz, Cheney) fin dagli anni Ottanta, quando c'era Reagan alla presidenza. Le motivazioni di Bush, per questa invasione militare in Iraq, sono talmente ridicole che non vale la pena neanche di discuterne. Eppure esistono motivazioni facilmente individuabili nella scelta di Washington di invasione dell'Iraq e di occupazione del Medio Oriente.

Quali sono le vere motivazioni che lei individua?

Le motivazioni dell'invasione sono di ordine strettamente politico e opportunistico, a livello di politica interna, a cui si aggiungono una serie di motivazioni di strategia economica e politica a lungo termine. La premessa di fondo è che la regione del Golfo Persico contiene le risorse energetiche del mondo intero. E sarà così per gli anni a venire. Il controllo assoluto di questa regione fornisce di per sé la più grande risorsa politica per esercitare il predominio egemonico su tutte le relazioni della comunità internazionale, profitti economici a parte. In secondo luogo, l'attacco dell'11 settembre costituisce un pretesto utilissimo per gli Stati Uniti, ma anche per altri paesi, democratici o dittatoriali, per approvare a livello legislativo misure repressive, come in Cecenia, nei territori occupati da Israele e in Cina. È un'opportunità per controllare le popolazioni con l'arma del «terrore» e la minaccia di misure disciplinari. Il desiderio di egemonia imperiale è la terza motivazione di Washington. I personaggi che fanno parte dell'amministrazione Bush sono gli stessi degli anni Ottanta, perseguono gli stessi obiettivi politici. Se, in passato, veniva invocata la deterrenza per limitare l'impiego della forza militare, oggi questo limite non è più valido. L'America oggi fa leva proprio su questo mutato panorama per controllare con la violenza l'intero pianeta.

E l'opposizione alla guerra espressa globalmente?

Come è stato dichiarato apertamente da Bush e dal suo team, si tratta di un fattore da non tenere in nessun conto. Gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di esercitare un potere egemonico che susciti ammirazione: l'unico sentimento che intendono alimentare è la paura e il terrore. L'America potrebbe essere paragonata a buon diritto a un padrino, a un mafioso che per poter governare deve essere temuto. Questo comportamento non ha niente di irrazionale... È la logica perversa del potere.

Ma anche gli imperi sono crollati...

È avvenuto, ma dopo secoli. Inoltre, nessuno degli imperi del passato ha mai agito senza un antagonista di forza pari. Gli strateghi di questa amministrazione sanno che non esiste sul pianeta altra potenza in grado di contrastare l'egemonia americana. Dagli anni Ottanta sono loro che governano il paese. Ma non è la prima volta che emerge una logica così spietata, né può essere considerata di loro invenzione. Mussolini ha invaso l'Etiopia, presentandosi come un portatore di democrazia e di libertà, e venne acclamato tanto dalla popolazione italiana quanto dal Dipartimento di stato americano. Washington ha inoltre sponsorizzato golpe militari in Brasile e in Cile, nonostante asserisse di apportarvi la democrazia. L'Iraq e la regione del Golfo Persico rappresentano oggi un contesto identico: l'uso della violenza militare in nome dei più alti valori umanitari.

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