Copertina
Autore Benedetta Cibrario
Titolo Rossovermiglio
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2009 [2007], UE 2121 , pag. 216, cop.fle., dim. 12,5x19,5x1,2 cm , Isbn 978-88-07-72121-2
LettoreElisabetta Cavalli, 2009
Classe narrativa italiana
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Indice


 11   1. 1928

 39   2. La Bandita

 59   3. Una vita sottile

 80   4. Trasformazioni

 91   5. Il dopoguerra

123   6. Tutto come prima

146   7. La festa

156   8. Rivelazioni

181   9. Rossovermiglio

213   Ringraziamenti


 

 

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Pagina 11

1.
1928



I.


Oggi so che c'è bellezza e bellezza; e questo vale anche per i luoghi, non soltanto per le persone. Qui non ci sono deserti ricamati dal vento o montagne affacciate sui laghi, golfi che abbracciano il mare e isole sul filo dell'orizzonte, solo una quieta infilata di vigne ordinate, di conche e salite; e c'è chi sente una musica mischiata all'odore del bosco dopo la pioggia. Chi la lavora, la terra, fa finta di non vederla questa bellezza: gli pare un vezzo da pigri fermarsi a guardare la valle quando l'ombra l'allaga o il sole filtra nel bosco e disegna un sentiero. Non è disprezzo o disattenzione, soltanto abitudine. La terra è la terra, il bosco è il bosco e la vigna è la vigna. E nessuno perde tempo a ricordare quando è spuntata – a opera non si sa di chi – la torre di San Biagio, tutta voltata a settentrione, col muschio che ne rosicchia le pietre. Certi la chiamano Torre della Vedetta, benché da lassù in cima non si veda quasi nulla per via di una persistente foschia. In cuor mio, ho sempre pensato si dovesse chiamarla piuttosto Torre della Vendetta. Una vendetta gentile, s'intende; forse nemmeno il termine "vendetta" è giusto, bisognerebbe dire ripicca o rivalsa, e non solo la mia personale ma quella di tutti coloro che in questo borgo ci sono nati e morti negli anni, e che hanno strappato al bosco un metro dopo l'altro di terreno, che hanno scavato con la vanga disassando zolla dietro zolla, cercando di non guardare quell'orizzonte di boschi scoscesi, senza fine come le onde del mare.

Di ritorno da una gita a Siena o a San Gimignano, quando dalle curve morbide della Chiantigiana s'imbocca la discesa verso San Biagio, capita di pensare che morti di fame dovessero essere quei primi disperati che fondarono il borgo; a poche decine di chilometri, la natura ha apparecchiato per gli occhi un panorama di grazie da togliere il fiato. Qui invece, certe mattine d'inverno e d'autunno si ha l'impressione che il sole non scaldi o che la pioggia non sappia più bagnare ma scivoli solo inutile, scavando reticoli di solchi leggeri nel terreno argilloso. Una sistemazione insolita per un paese medioevale – e chiamarlo paese è già molto –, tanto più che, quando si scollina, tutt'attorno si vede un bel panorama di vigne e oliveti. Le leggende sulla sua origine s'intrecciano, confuse come quando non c'è nulla di interessante da raccontare: che nacque come romitorio, o che nel Seicento vi si tenevano sabba – e quelle nebbie e foschie invernali che danno al paesaggio un tono luciferino avvalorerebbero l'attendibilità di quest'ipotesi se poi, preannunciate da certe schiarite di fine marzo, non arrivassero le gloriose giornate di primavera, con luci, colori, profumi e suoni che non sanno certo di cupa stregoneria.

Si dice anche che questo gruppetto di case, raccolte attorno alla chiesa e alla torre, attraverso passaggi ereditari divennero parte del patrimonio di una ricca abbazia del Nord, a cui i fittavoli dovevano pagare onerosissime tasse che a poco a poco li affamarono e li resero tutti briganti; e che il borgo finì abbandonato e in malora finché qualcuno dei Chigi non se ne impossessò per annetterlo alle proprie campagne e ci fece una casa padronale, accorpando la torre e tirando giù muri, bucando cantine e rifacendo tetti. Dallo sterrato, oltrepassato il cancello, chi arriva quaggiù si stranisce: una corte di terra battuta, chiusa da mura, sui quattro lati come una fortezza, ma piena di buchi e di volte, di scale che salgono e finestre che si direbbero aperte a casaccio. La casa da sola non è nulla; ai tempi dei monaci viaggiava già con la sua terra, duecento ettari di bosco fitto buono solo per la caccia. Chigi disboscò, vendette legnami e bruciò dove la macchia era più folta, conquistando balze per farne terra da semina; comprò poi altra terra e piantò olivi, e tutt'intorno, sui confini, un filare di cipressi, perché tutti riconoscessero, anche da lontano, che quella era roba sua. E fu lui, dicono, a battezzarla così. La Bandita. Da allora, di famiglia in famiglia, la tenuta è scivolata sui rami della Storia come una foglia autunnale. E questa una verità che s'impara meglio con gli anni: che le cose, come gli uomini, finiscono sempre con l'essere trasportate dal caso. Non ci sono nata, non mi ci hanno portata. La vita avrebbe potuto condurmi altrove. E invece è qui che mi sono fermata.


II.



Ogni volta che lo spedizioniere viene a caricare le casse di vino, mi torna in mente com'è cominciata questa storia. Non so più quanto tempo sia passato. Dino, il fattore, sta lì a controllare i cartoni battendo il piede nervoso e dice che è un tic, ma io so che è per altro. Gli dispiace che parta, tutto qui. Da qualche anno ci arrivano premi e riconoscimenti, ci dicono che il Lunediante è un gran rosso, che fa parlare di sé, che il Rossovermiglio è un incanto, anche nel nome. La fama delle nostre etichette è arrivata lontano. I migliori ristoranti d'Europa e degli Stati Uniti comprano a caro prezzo poche casse di Rossovermiglio. I collezionisti ci corteggiano mesi per mezza dozzina di bottiglie. Otteniamo recensioni entusiastiche, siamo adulati dai migliori enologi e dai critici più severi. Io stessa faccio fatica a comprendere le ragioni del nostro successo, siamo un'azienda a conduzione semifamiliare con pochi operai che si è fatta strada anno dopo anno, in sordina, con poche risorse. Oggi guadagniamo bene. Il valore della tenuta sale una stagione dopo l'altra e sempre più spesso riceviamo offerte di acquisto che ci lusingano per la loro generosità. Ma io sono vecchia e vivo qui da una vita, e una vita non si vende. Dino sorride e si stringe nelle spalle. "Il vino vuole il sole e il caldo da uva, il buio e il fresco da vino, e qui alla Bandita gli diamo anche il mistero." Ha ragione. Non facciamo visitare le nostre cantine, non vendiamo direttamente al pubblico. Quando arriva qualche turista curioso, Dino lo liquida senza tante cerimonie, e il coro dei cani che abbaiano, irritati da presenze estranee, fa il resto. Che vadano a visitare le grandi tenute del Senese che sono a un tiro di schioppo, Campo alle Cacce, San Giusto e San Sisto, con i loro viali di cipressi e le case enormi di pietra chiara, dove tutta la vita ruotava – e ruota ancora, credo – attorno a due temi soli, se l'anno che viene sarà buono per il Chianti e per le cacce. Anche lì non è cambiato mai nulla: l'Italia è stata fatta e rifatta, dopo i granduchi abbiamo avuto i Savoia e la Repubblica, e in mezzo le guerre e la fame, ma la caccia e il vino qui non sono cose che si dimenticano. E una lezione che porto incisa nel cuore.

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Pagina 39

2.
LA BANDITA



I.


Tutto attorno è penombra. Tengo le luci basse e compro lampadine da pochi watt, così chi viene a trovarmi non s'accorge subito delle sfilacciature del tappeto, della polvere che certamente si è posata un po' dappertutto, dell'argenteria sporca. E che oramai ci vedo poco, né del resto mi sono mai curata granché di simili dettagli. Non credo che le mie donnine, che vengono a giorni alterni a farmi un po' di cucina e a spolverare qui e là, sappiano come andrebbe tenuta una casa; e, per quanto riguarda me, mi pare che il tempo che ci è rimasto sia prezioso come lo zucchero in tempo di guerra: che diritto ho di buttarlo via lucidando le cornici?

Attorno a me, non c'è più nulla e nessuno. L'ultimo cavallo, Bluebird, è morto almeno quindici anni fa, di crepacuore credo, perché non mi riusciva più di montarlo. L'orrendo dottor Scauri mi ammoniva:

"Alla sua età, le altre fanno le nonne e le bisnonne. Se si rompe adesso, chi la rimette in piedi? Neanche la Madonna di Lourdes. Scenda da cavallo e giochi a canasta".

"Senta, Scauri, il cavallo è la mia vita. Monto da quando avevo dodici anni. Sa cosa vuol dire alzarsi ogni mattina alle cinque per strigliare un cavallo, andar fuori con qualsiasi tempo e uscire la notte durante i temporali per tranquillizar i cavalli col suono della voce?"

"Senta lei, piuttosto. Da un certo punto in poi il corpo diventa un nemico e va trattato con furbizia, altrimenti ci scarica per strada. Mi capisce, sì o no? Gli anni sono anni anche per lei."

Certo. Gli anni sono anni anche per me. Ho sostituito la passeggiata a cavallo con una buona camminata di mezz'ora tutte le mattine, fino al fontanile dei caprai, con i cani dietro. Da lassù vedo i filari della vigna, tristi d'inverno come le croci di guerra in un campo, che poi, via via che passano i mesi, si vestono di tralci e di foglie, come le ragazze alle feste. Dino mi aspetta in cima alla salita, si scappella, e dice: "Bella giornata, eh?", anche se piove, se c'è nebbia, se tira vento. Per noi, qui in campagna, sono sempre belle giornate. L'aria brucia di freschezza nei polmoni.

L'idea mi è venuta durante una di queste passeggiate silenziose: voglio dare una festa, come quelle di allora, per riportare qui gli amici che non vedo da tempo. Non degli amici qualsiasi; ma quelli che mi hanno visto arrivare alla Bandita senza niente. In fuga da un matrimonio diventato insostenibile. Mi sono portata sulle spalle la disapprovazione della mia famiglia e degli amici d'infanzia così a lungo da non saper più cosa significhi essere approvati. E adesso che sento sfuggirmi il tempo fra le dita, voglio che vedano. Non so perché confondo i sentimenti che ho provato con quello che sono stata: impaurita, sola, determinata, non avevo un mestiere né un'idea, solo questa campagna.

Dove sono finiti tutti? Negli anni della giovinezza e della maturità, tutto è ancora movimento. Poi, senza che noi si sappia nemmeno quando e come accade, il movimento rallenta, diviene appena percettibile, e infine – ed è un colpo di mano arbitrario – ci esclude.

Cambiano le mode e gli umori, la cronaca, per non dire la storia, che è figura dal respiro più grande e autorevole, registra eventi dei quali siamo ormai inutili spettatori.

Allarme Mediterraneo: si sta trasformando in un mare tropicale. I climatologi, riuniti a Firenze per un convegno internazionale, avvertono che in cinquant'anni la temperatura media è aumentata di otto gradi ed è destinata a salire ancora.

Sono eventi che non ci appartengono più e a cui noi non apparteniamo più.

Lo stesso accade qui. La mia casa con la torre smozzicata, il suo giardino e gli ettari a vigna, Siena lontana, laggiù, su quella collina come il fondale per un Guidoriccio da Fogliano casareccio – Dino, magari, che fa il giro della tenuta a cavallo. E io chiusa qui dentro, che sento da lontano lo sferragliare dei Tir sulla superstrada per Firenze, vedo i tralicci dell'alta tensione, ascolto il telegiornale della sera, ma se gridassi al mondo che sono qui, e viva, l'urlo risuonerebbe solo nelle mie orecchie, perché al mondo non appartengo più.

Entra Dino, a portarmi i conti. C'è da spaccarcisi il capo. Cifre, rendiconti, le note da pagare, íl danaro che entra. Alla fine, quando sono rimasta sola, ho dovuto imparare, ma con quanta difficoltà. C'è Dino, per fortuna, che mi aiuta. Ha pazienza, come me. Perché ci vuole un'infinita pazienza per resistere ai lunghi mesi invernali, quando la campagna pare morta, e così la vigna e l'oliveto; in realtà non ci si può fermare mai, neanche d'inverno, ma tutta la fatica e la lena che ci si mette, la si vede solo mesi dopo.

Bisogna spiantare cento olivi. Piante di cinquant'anni, impalcate a spalliera, brutte. Dino dice che su quella terra, dopo un po' di riposo, ci si può mettere altra vigna; che adesso, con tutti i premi che ci danno, dobbiamo concentrarci sul vino. "Θ il bisines che cambia, e noi gli si va dietro. Vogliono il vino, e noi diamoglielo. E non si preoccupi per gli olivi. Ho trovato un vivaista a Firenze che fa tutto a carico suo, pota e cava le piante. Θ un affare, e noi abbiamo troppi alberi. L'anno scorso abbiamo dovuto vendere le olive sull'albero, fare l'olio non conviene più. Dia retta. Θ meglio il vino." E io m'incapriccio, tengo duro, non voglio. Dino sta lì in piedi col cappello in una mano e un foglio ciancicato nell'altra, mi blandisce, mi spiega tutto per la centesima volta, pazientemente e daccapo.

Io ho capito benissimo, non sono una sciocca.

Ma mi fa orrore che si debba spiantare una pianta ancora robusta e generosa.

E a Dino non riesco a spiegare che quell'oliveto lassù l'ho piantato nel '46, quando lui era appena nato, alla fine di dicembre. Tirava un gran vento e io mi ero ripresa da poco. Quelle piante le spianterò se dovrò farlo, ma non voglio danaro indietro. Dino si dondola su una gamba, mi guarda sconsolato.

Non lo conoscessi, direi che sta pensando che sono una rimbambita, un'altra specie di vecchio olivo che spianterebbe volentieri in cambio di qualche centinaia di migliaia di lire.

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Pagina 80

4.
TRASFORMAZIONI



I.


Io sono "la lunediante". In casa mi chiamano così, quando mi nascondo nel soppalco della scuderia. Tutti pensano che sia per pigrizia, perché non ho voglia di fare la lezione di pianoforte o di studiare la geografia. In casa sono convinti che la pigrizia sia il più terribile dei difetti.

Loro non sanno che, se mi nascondo lì, è perché mi piace sentire l'odore dei cavalli, il rumore degli zoccoli contro l'impiantito di legno, il profumo di cuoio dei finimenti.

Non mi dispiace che mi chiamino "la lunediante". Naturalmente non conosco l'etimo esatto della parola, non so che in casa mia viene adoperata a sproposito perché in realtà il termine sta a indicare gli operai che non si presentano in fabbrica di lunedì mattina. Quelli che restano a dormire per smaltire l'ubriacatura della domenica in osteria. Chissà come, quella parola è entrata in casa nostra, forse grazie alla radio o tramite un foglio della "Gazzetta" usato per avvolgere le uova, fatto sta che è filtrata nel nostro lessico e c'è rimasta, l'adopera perfino Miss Woodruff che non la sa pronunciare. Non mi dispiace anche perché si trascina dietro altri echi, mia madre che scuote la testa e mi sorride, anche se mi sta rimproverando, "Chérie, tu es tellement lunée", e quest'avere le lune che mi rimproverano tutti a me sembra invece qualcosa di speciale, una caratteristica che in casa viene riconosciuta solo a me. In realtà non sono mai stata la bambina pigra e svogliata che pensavano fossi. Non ho mai battuto la fiacca e molto spesso al mattino mi alzavo prestissimo, addirittura prima dell'alba, quando la casa era silenziosa e dalla cucina provenivano rumori ovattati e un chiarore soffuso: a volte preparavo una lezione in fretta e furia se non l'avevo studiata il giorno prima, a volte scendevo dai cavalli, a volte semplicemente spiavo dalle imposte socchiuse il momento in cui avrebbero spento i lampioni per strada e tutta la città sarebbe diventata azzurra. Quando sono cresciuta ho continuato ad alzarmi volentieri all'alba – Villaforesta s'infastidiva perché non lo trovava elegante: "Una signora non s'alza mai prima delle dieci e prende sempre a letto la prima colazione!" – e poi, una volta cominciato a occuparmi della tenuta, è diventata una necessità. Se sono stata pigra, forse lo sono stata di sentimenti: ho faticato a esprimere un'emozione, a rivelare un'inclinazione o un turbamento. Sono stata semmai una lunediante del cuore.


II.


A tredici anni sono uscita dalla nursery.

Questo significa: mi è stata data una camera da grande.

Dormo allo stesso piano dei miei genitori, tre porte più in là.

La vecchia nursery al secondo piano è diventata un salottino dove Enrico e io possiamo ricevere visite. Al posto dei mobili laccati di bianco, che sono saliti in soffitta, sono arrivati dal Monferrato due guéridon e un paio di poltrone rifoderate di fresco.

Sono felice della mia camera nuova. Mia madre ha ordinato in Svizzera le tende di batista bianca, ricamate a nastri e a fiori.

"Θ una mania," dice mio padre. "Compri sempre quelle tende che costano un occhio della testa," e ancora: "Una spesa davvero inutile, quelle beige che c'erano prima andavano benissimo".

"Autre temps, autres mœurs," commenta la Granmammà. Ai suoi tempi, dice, le ragazze uscivano dalla nursery solo per andare in chiesa a sposarsi. "Che bisogno c'era di chiamare il tappezziere e arredarle un salottino?"

Mia madre sorride e resta zitta. Tanto, l'ha già spuntata.

Avrò la mia camera da grande, come lei ha deciso: un letto a barca con due delfini a testa in giù e una grossa palla di legno scuro in bilico sulla coda.

Due cuscini per dormire, anziché uno.

Una libreria con le ante di vetro che posso chiudere a chiave.

La scrivania del Granpapà. Il piano di pelle rossa è sciupato da certe macchie d'inchiostro che non vanno più via, ma non vedo l'ora di sedermi a una vera scrivania e non al tavolino della nursery dove disegnavo da bambina.

Le tende di batista svizzera leggere come garze.

Mi hanno dato una camera nuova. Sono diventata grande, mi dico.

La Granmammà dice piuttosto che sono entrata in qualcosa che si chiama l' βge ingrat, o anche l' βge bκte. Per me va bene così.


L'anno dopo, nel 1923, ci fu la visita di Mussolini a Torino, in ottobre.

Naturalmente io non so che si tratta della visita ufficiale del presidente del Consiglio e che tutta la città si è preparata a riceverlo. Non so che cosa sia il Lingotto, lo stabilimento automobilistico più grande e moderno d'Europa, che Mussolini è stato invitato a visitare: non è un argomento di conversazione che interessi minimamente i miei genitori. E tanto meno interessa Enrico o me. Ma la Granmammà ha deciso di andare a vedere "di persona", come precisa a tutti noi. "Che cos'è tutto questo tafferuglio?" E insiste con mio padre perché ci accompagni verso piazza Castello e piazza San Carlo, dove si presume che passeranno le autorità. Li sento borbottare e discutere se è il caso di andare a casa dei Balbo di Frua, oppure altrove. Andare al Club, che offre dei magnifici balconi sulla piazza, è fuori discussione: lì le donne non possono entrare, se non in occasione dei balli sociali.

"Andiamo dai d'Aubade," suggerisce mio padre, "hanno più di un balcone lungo la piazza, altrimenti ci tocca star stretti come sardine," mentre la nonna troverebbe meglio andare dai Gianoglio, che stanno a due passi: "E sono di quelli da cui si può andare senza preavviso".

Poi, finalmente, decidono e il resto della mattinata lo trascorro su un balcone spazzato da un vento autunnale, contando le bandiere e gli stendardi del palazzo di fronte per ingannare la noia di una lunghissima attesa. La Granmammà, mio padre, mio fratello e io – mia madre si è risolutamente rifiutata di accompagnarci –, tre generazioni di noi ad aspettare che passi "questo signor Mussolini", come lo chiama mia nonna.

Non ha nessuna simpatia per "il signor Mussolini" perché, dice, "quando parla tiene sempre una mano, o peggio tutt'e due, in tasca". E mio padre, per una volta, le dà ragione in pieno, tanto più che a nessuno dei due piace Torino così com'è stata camuffata. I palazzi barocchi mal sopportano tutto lo sventolio di bandiere e drappi – si dice che l'amministrazione comunale abbia procurato a ogni cittadino una bandiera da far svolazzare – e mio padre giudica questo costume un'imperdonabile mancanza di misura e buon gusto:

"Ma è mai possibile questo carnevale! Guardate un po' come hanno trasformato una città in una fiera di paese! Certe pagliacciate dovrebbero restare confinate al circo equestre, e che diamine!".

Il fascismo si svela ai miei occhi annoiati di adolescente come un'interminabile mattina affacciata al balcone per assistere a "una pagliacciata", guidata dal rozzo signor Mussolini – non solo mani in tasca ma paletot grigio chiaro, come constata inorridita la Granmammà – che si diverte a veder sventolare le bandiere come si divertirebbe un moccioso.

Nella ristretta cerchia dei miei familiari non c'è effettivamente nessuno che se ne dia maggior pena e se anni dopo diventerà evidente anche a noi in quale catastrofe ci avrebbe trascinato, il verdetto della Granmammà, che lo aveva lapidariamente giudicato "un'imperdonabile caduta di gusto", in casa nostra non fu mai, che io mi ricordi, messo in discussione.

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Pagina 148

II.


Dovrei andare a fare una camminata nel bosco, ma ho certi brividi di freddo. Non voglio ammalarmi, ho organizzato una festa.

Ho deciso d'invitare, per scritto, anche mio marito. Poche righe, cortesi e senza asprezza.

Credo che ci dobbiamo, l'un l'altra, delle spiegazioni.

Non vedo Villaforesta da prima della guerra – non posso considerare una visita quel frettoloso abbraccio che ci siamo scambiati al funerale di mio padre, quando gli occhi di tutta la città sono puntati su di noi, e si capisce che sullo sfondo tutti s'immaginano la vistosa puttanella di Ciriè con le labbra dipinte che ha preso il mio posto. Non è che Francesco l'abbia patita granché, la guerra. Non s'è arruolato né nascosto nei boschi, ch'io sappia. Tutt'al più gli hanno scombussolato gli orari con quello scomodo coprifuoco, e gli avranno chiuso i battenti dei ritrovi preferiti. Gli hanno incendiato il Club e si sarà dovuto accontentare di giocare alle carte in casa di qualche amico.

Mi risulta che non se ne sia mai andato da casa nostra – al massimo si sarà rintanato in cantina o a Revigliasco, durante i bombardamenti più forti; la legge gli consentiva di restarsene tranquillo a occuparsi dei suoi affari, dato che rientrava nella categoria dei "figli unici con madri vedove a carico" (benché mia suocera Irene non suggerisse esattamente – a nessuno, ma proprio a nessuno – l'immagine di una donnina in gramaglie).

Quanto a me, ogni volta che negli anni sono dovuta tornare a Torino per certe improrogabili ragioni di funerali, eredità o divisioni patrimoniali, ho sempre messo gran cura nell'evitare ogni possibile incontro.

La lettera di Villaforesta sta ancora lì, da qualche giorno, aperta sullo scrittoio, dove l'ho lasciata; ogni volta che giro lo sguardo la vedo, tutti quei fogli rigidi dai bordi frastagliati – potrebbe essere altrimenti, la carta da lettere di Villaforesta? –, quasi un monito, un petulante rimbrotto: ma non mi risolvo a imbustarla e a metterla via in un cassetto, o a stracciarla; diciamo che non desidero prenderla in mano, non desidero essere costretta a ricordare.

Sono già sommersa, dai ricordi. Si sono rotti gli argini della memoria, e galleggio a stento, sempre più affaticata. Con la testa, ogni tanto, vado sotto.

La Santa intuisce.

Non so come faccia, a volte, a rendersi conto in un amen se c'è qualcosa che non gira per il suo verso: veloce come una donnola, fa quello che c'è da fare, chiama suo figlio con una scusa e me lo lascia gironzolare fra i piedi. Tutta casa mia, per quel bambino, è un castello incantato, pieno di angoli scuri e sorprese, uccelli impagliati, teste di cinghiale dalle zanne ingiallite ma ancora spaventevoli, grosse chiavi di bronzo che aprono non si sa più quali serrature, persino un paio di fioretti dal manico d'argento appesi in trofeo al muro, e Tommaso s'infila dappertutto e con i suoi sorrisi mi riporta sulla Terra.

"Cosa vorresti, per Natale?" gli chiedo.

"Un fucile subacqueo," risponde pronto.

"A Natale? Ne sei sicuro? A Natale non si può mica andare a pescare."

"Non si sa mai," risponde, "è meglio avercelo."


III.


Otto persone. Nina, suo nipote, Iris e Carlino, Oddone e Trott. Ricorsi, io.

Nove se Villaforesta riceve per tempo íl mio invito, e se lo accetta.

Abbiamo tirato fuori un tavolo tondo dove ci si siede comodi anche in dieci. Penso di adoperare i candelabri d'argento peruviano che ho avuto da mio padre; non sono belli ma sono abbastanza alti per reggere la ghirlandina di foglie e pigne che la Santa sta finendo di intrecciare. Non aveva mai intrecciato una ghirlanda: però ha imparato davvero alla svelta, una volta che le ho svelato i miei trucchi. Credo comunque che la Santa consideri intrecciare ghirlande un inequivocabile segno del mio rimbambimento; probabilmente, non vede dove sta il punto: potrei chiamare il fioraio in città e farmi consegnare due dozzine di rose o, meglio ancora, affidare a lui i miei candelabri, che se ne occupi e mi recapiti a casa, due ore prima dell'invito, la composizione bell'e fatta. Naturalmente, non farei mai una cosa del genere: la differenza tra quelle decorazioni lussuose e le mie modeste foglie di leccio è il mondo intero.

Si lavora in garage, dove Dino ha montato un'asse su due cavalletti e ha fatto passare due lampadine volanti per avere un po' più di luce. Vorrei una ghirlanda anche per la porta d'ingresso, sono così allegre le foglie di leccio e quercia sughera, e Dino ci ha dato dentro, nel bosco, con le foglie dei quercioli più giovani. Va avanti e indietro silenzioso, è sempre molto indaffarato e controlla che la caldaia non vada in blocco un'altra volta, come accadde l'autunno scorso; che in casa non manchi nulla, legna per i camini, lampadine – se ne brucia sempre qualcuna all'ultimo momento –, viene a vedere se mi serve qualcosa, se ci vuole altro fil di ferro, altre forbici, un altro secchio d'acqua.

Ho deciso che mangeremo i fagiani cacciati da Dino, di cui abbiamo il refrigeratore pieno; e naturalmente adopereremo il nostro vino e l'olio, i porcini, le uova, le verdure, le castagne e, insomma, questa terra è un paradiso e c'è tutto quello che mi serve, anche se volessi imbandire un banchetto da re.

La Santa mi ha presentato le sue donnine, "le mie aiutanti", come dice con fierezza: una sua solida cugina, con le guance rosse, una certa Gemma; e la figlia di Gemma, Oletta, una delizia di ragazzina che dovrebbe andare a fare la mannequin a Milano invece di stare attaccata alle gonne di sua madre.

"Guardi che quella sua ragazzina è una bellezza."

"Non me ne parli, una disperazione. Sta tutto il giorno davanti allo specchio e non mangia nulla di quello che cucino, dice che le fa male! Ma la guardi, dico io, sembra uno stecco, anche se devo ammettere, bellina è bellina, ma a esser belle a quindici anni si fa presto, siamo buoni tutti."

"Be', non proprio tutti, Gemma. Oletta è una fuoriclasse, non uno stecco. Lasci che glielo dica: sa il fatto suo."

"Mah. Se lo dice lei. Basteranno due chili di castagne, o gliene preparo di più?"

La Santa sovrintende ai fiori nei vasi in ogni stanza e alla freschezza della biancheria, poi smista la spesa in cucina, chi affetta cipolle e chi sbuccia castagne; e manda di qua e di là Gemma e Oletta, Dino, e una certa Dolores – che non arriva dal Messico ma da Gareggi e non ha una sola c che non sia aspirata nel suo pur ricco vocabolario – e viene destinata a pulire l'argenteria.

Oggi l'argenteria – se c'è ancora – la lucida chi capita; ma quand'ero bambina il mondo domestico era governato da inflessibili regole; le cameriere lucidavano gli ottoni e i legni, inceravano il cotto, battevano i tappeti e col piumino spolveravano un po' qui, un po' là. Ai camerieri spettavano l'argenteria, i vetri delle finestre e il cuoio, cioè valigie e scarpe del padrone di casa. E le camicie si mandavano a stirare fuori: gli elegantoni prima della guerra le mandavano a Berlino o, per un servizio più rapido – ma bisognava avere degli agganci –, in Vaticano, dove c'erano stiratrici formidabili, ben allenate su tonache e tovaglie d'altare.

La cucina era un mondo a parte. Vietato agli estranei. Né mia madre né la Granmammà ci mettevano piede, e perfino Miss Woodruff ci entrava malvolentieri, quando proprio era costretta a venirci a riprendere, perché magari eravamo andati a mangiare lo zucchero in dispensa; era Angelo a preparare, dopo le indicazioni generiche di mia madre, i menu settimanali, e quelli per i ricevimenti importanti; ed era lui che stabiliva che cosa avrebbe mangiato la servitù: di solito robuste minestre, patate, e uno stufato di maiale una o due volte alla settimana; e molti avanzi rielaborati, che arrivavano in tavola anche per noi.

"Caro Vittorio, il vero risparmio è avere un cuoco come il nostro," spiegava pazientemente mia madre a mio padre negli anni bui, guardandolo come se avesse di fronte un bambino stupido, "che sa riutilizzare gli avanzi, fare il polpettone, i soufflé, le meringhe e la sauce Hollandaise."

Per mia madre i soufflé, le meringhe e la salsa olandese erano il "mangiare economico" perché si facevano con la carne avanzata e le uova sbattute.

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