Autore Roberto Ciccarelli
Titolo Capitale disumano
SottotitoloLa vita in alternanza scuola lavoro - Forza lavoro II
Edizionemanifestolibri, Roma, 2018, Esplorazioni , pag. 232, cop.fle., dim. 14,7x21x2 cm , Isbn 978-88-7285-908-7
LettoreRiccardo Terzi, 2019
Classe lavoro , scuola , sociologia , filosofia , paesi: Italia: 2010












 

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Indice


    Soglia, 9


    IL ROVESCIO DEL CAPITALE

Culto del capitale, p. 13;
Il tofu per ogni minestra, 16;
Il lavoro morale, 22;
Il sogno del padrone, 27;
Dall'essere sfruttati allo sfruttamento di se stessi, 32;
La proprietà in persona, 38;
La rimozione della forza lavoro, 44;
Il fantasma torna sulla scena, 51.


    (AUTO)GOVERNO DELLA FORZA LAVORO

La società come scuola, 55;
Apprendere ad apprendere, 61;
Il lavoro di chi cerca un lavoro, 64;
Piena occupazione precaria, 68;
Ognuno è il CEO di se stesso, 80;
Svalutati, risentiti e senza credenziali, 86;
Cosa sognano i meritocrati, 98;
Si legge populismo, si dice capitalismo, 103;
Senza casa, 107.


    COME SI DIVENTA CAPITALE UMANO

Né apprendistato, né lavoro, 111;
Violenza sociale, 115;
Good News, Bad News, 117;
Borghesi al tornio, proletari in biblioteca!, 121;
Non sono le 150 ore, 125;
Il lavoro dell'obbligo, 132;
A scuola di competenze, 135;
L'"esperienza vera" dell'alternanza, 145;
Occupabili, 149;
Il portafoglio degli studenti, 152;
Il tutor, manager dell'anima, 157;
Docente digitale, pensiero computazionale, 161;
Cogestione, 167;
Il dilemma del lavoro gratuito, 171.


    L'INVENZIONE DEL FANNULLONE

Cercasi apprendista tutto l'anno, 175;
Il lavoro del sacrificio, 179;
La morale di San Paolo, 181;
Bamboccioni e Bobò, 185;
La guerra contro i choosy, 189;
La costruzione del Neet, 195;
Tra radical chic e tute blu, 200.


    POTENZA DEGLI STUDENTI

Quinto stato, 205;
Della potenza degli studenti, 209;
Scuola come gioco, 214;
Reddito agli studenti, 217.


    CONCLUSIONE

L'altro mondo, 219


    APPENDICE

L'odio contro il Sessantotto, 223.


 

 

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Pagina 9

Soglia



Siamo tutti in alternanza scuola lavoro. Non solo 1,5 milioni di studenti delle scuole superiori obbligati a partecipare a un nuovo esperimento sociale, il più grande nella storia della scuola italiana. Nella società della piena occupazione precaria siamo tutti in formazione continua perché vaghiamo nei gironi di chi cerca un lavoro e in questo ha trovato la sua occupazione. Nell'intermezzo tra un lavoro e un altro si moltiplicano le ingiunzioni a studiare, riqualificarci, inventarci, imparare un altro mestiere, creare l'impresa di noi stessi, aumentare il nostro capitale umano. La vita attiva è colonizzata dall'alternanza tra un lavoretto e un contratto a termine, dall'intermittenza permanente tra il lavoro e il non lavoro. A un giro di giostra con un contratto da apprendista non segue un'assunzione, ma un altro lavorelto che non permette di uscire dall'inoccupazione. E poi c'è sempre un'altra tappa nel mondo dell'iper-attività fine a se stessa. Siamo a caccia di un lavoro che si è smaterializzato. Siamo sulle tracce della Bestia inseguita dal franco cacciatore: "Se non dovessi tornare / sappiate che non sono mai partito / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai".

La mobilitazione totale che spinse al fronte i soldati della prima guerra mondiale oggi si svolge sul fronte del mercato del lavoro: tutta la popolazione attiva deve essere mobilitata sul mercato del lavoro 24 ore su 24, sette giorni su sette. Gli studenti non sono soli. Ci sono anche i fratelli e le sorelle maggiori, i genitori precari, i parenti, i vicini e i lontani. Ogni loro fibra, tessuto, sinapsi sono messe al lavoro attraverso le tecnologie digitali del data mining, della micro-targettizzazione pubblicitaria, della valutazione e della profilazione sulle piattaforme digitali. Che sia occupata, disoccupata, inoccupata, la forza lavoro deve essere attiva nella battaglia per la crescita del capitale umano. E, se non lo è, deve essere attivata con tecniche come l'alternanza scuola lavoro o con le politiche attive del lavoro. Studenti, lavoratori, disoccupati: siamo pensati come veicoli del capitale, non siamo soggetti di un progetto di vita, capaci di affermare un diritto all'esistenza. Ci dicono di combattere contro la stagnazione secolare e di dare il microscopico contributo alla ripresa di un'economia inchiodata a percentuali da prefisso telefonico dove vigono le leggi dell'iper-precariato, del sotto-salario e del lavoro volontario.

Partecipare è obbligatorio in un'economia dai cicli sempre più brevi e feroci dove la forza lavoro è gestita come le scorte di un magazzino ed è mobilitata quando serve. Nella società della piena occupazione precaria questa è la vita che accomuna gli adolescenti agli ultra-cinquantenni. Nessuno può smettere di lavorare, soprattutto quando nessuno ha un posto di lavoro, né un contratto, per più di tre mesi. Il nuovo lavoro consiste nell'inviare curriculum, migliorare l'auto-profilazione digitale, pagare un master: attività a cui sono formati anche gli studenti delle superiori.

Con la retorica e la persuasione incarniamo il nostro capitale umano. A costo di diventare l'opposto: disumani. Nel capitale l'umano e il disumano coesistono in un permanente rovesciamento nell'opposto. L'uno senza l'altro non esistono quando si è formati all'auto-sfruttamento di noi stessi. Il superamento di questo dispositivo è necessario, ma non può prescindere dalla contemporanea comprensione della trasformazione antropologica di cui siamo il prodotto. Il processo coinvolge ogni aspetto della vita sociale, produttiva, percettiva, affettiva e discorsiva. Usa strategicamente un linguaggio ispirato alle idee di libertà, autonomia, benessere, bene comune e lo rovescia nelle pratiche del sacrificio e della depressione generalizzata. Non sempre è compreso il problema del rovesciamento dell'autonomia nel suo opposto di auto-sfruttamento, la caratteristica della politica contemporanea. Ed è difficile che lo sia, visto che questa politica è alimentata dalla nostra soggettività, protagonista della merce che siamo: capitale umano. Su questa soglia dove gli opposti coincidono, mentre l'umano è proiettato sul suo rovescio, è possibile scegliere altrimenti. Il capitale umano non è una soggettività postmoderna senza qualità, impero flessibile e vuoto dell'economico. È una forma reversibile del potere a partire da un uso non proprietario della nostra facoltà più importante: la forza lavoro.

L'umanità non è composta solo da capitalisti, il mercato è governato da qualcuno che cerca il profitto ai danni degli altri. Non tutti hanno accesso agli stessi capitali, non tutti possono diventare agenti efficienti del mercato. Le differenze di classe, di censo e di cittadinanza esistono. E non basta incarnare il proprio capitale umano per superarle. Bisogna attaccare il sogno di essere padroni; evacuare il Capitale dalle nostre vene e prendere congedo dall'umanità zombificata. Il sortilegio può essere interrotto.

Questo libro è un esercizio etico per prendere le distanze da ciò che siamo, aprendoci alle possibilità non ancora determinate dalle verità di qualcuno e imposte alla vita degli altri, ma presenti nel nostro vivere insieme. Pubblicato a mezzo secolo dal Sessantotto - l'anno della rivolta degli studenti e degli operai - il libro racconta la storia di un conflitto e la sua attualità. E mi chiedo: chi è, e cosa può diventare, lo studente: il gorilla ammaestrato al servizio di una piattaforma digitale; il cacciatore del lavoro, questa Bestia fantasma; il venditore di visibilità; il coscritto obbligato al lavoro di chi cerca lavori. Oppure?

Capitale disumano è parte di una filosofia della forza lavoro esposta nelle sue linee fondamentali in Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale. La scuola, l'università, il mercato del lavoro, il capitalismo digitale: questi sono alcuni campi nei quali è possibile creare una genealogia e comprendere la nostra attualità, partendo dai problemi di cui noi stessi siamo l'espressione. I libri possono essere letti insieme, in maniera intrecciata e sincopata, prima l'uno poi l'altro, e contemporaneamente.

Altri ne potranno seguire, altri li hanno preceduti. Da una lettura combinata emerge la continuità tra il punto di vista dello studente e del docente con quello della forza lavoro in generale, una forza oscura ma vivente dentro e fuori di noi che l'abitiamo.

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Pagina 13

IL ROVESCIO DEL CAPITALE





Culto del capitale


Il capitale umano parla con la nostra bocca, ascolta con le nostre orecchie, cammina sulle nostre gambe. È un animale fantastico come il Minotauro, la Fenice, lo hidebehind dei taglialegna del Wisconsin e del Minnesota, la Scimmia dell'Inchiostro che attende la fine della scrittura per berlo. Nell'enciclopedia cinese inventata da Borges non sfigura accanto agli animali imbalsamati disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello. Ma il nostro personaggio non è una chimera estranea all'esperienza, né prospetta spazi meravigliosi. È anfibio: da un lato, è un umano in carne ed ossa; dall'altro lato, è un'astrazione reale installata nel corpo e nella mente. Il capitale umano è una creatura fantastica che si comporta in maniera reale perché è connessa a tutto ciò che siamo e a ciò che dovremmo essere. Non è dotato di ala artigliata, faccia polimorfa, pelle squamosa o cresta acuminata. Siamo noi i prodotti e i produttori di una sconcertante coincidenza degli estremi che non hanno rapporto.

Il capitale umano abita in una regione mediana tra il linguaggio, la percezione e la prassi. È un fantasma percepito come la misura dei modi di essere. Concetti e azioni devono rivolgersi alla sua maestosa astrazione incarnata per esistere. La loro dignità dipende dalla prossimità al sole che illumina il conoscibile e il possibile. Senza l'ordine e la legge generale del capitale umano non esistono le vite né le opere. In sé il capitale umano non ha bisogno di essere spiegato: è auto-esplicativo, splende nelle nostre esistenze e colonizza il loro sviluppo. Incarna un altro mondo a condizione che sia identico a quello che imprigiona oggi la vita.

L'importanza del capitale umano nella cultura contemporanea è pari all'invenzione della categoria di "uomo" in quella moderna. L'"uomo" possiede uno statuto contraddittorio: da un lato, è un individuo empirico; dall'altro lato, è il soggetto che conosce l'empiria in cui l'individuo è sprofondato. L'"uomo" è sia la condizione di una rappresentazione, sia l'oggetto della rappresentazione. È la "piega antropologica del sapere" che ha permesso alle scienze umane, alla politica e all'economia di pensare l'umano come finalità ultima della loro azione. In questa costruzione l'umanità si afferma nella dimensione ambigua di una realtà che appartiene, allo stesso tempo, all'esperienza concreta e ai principi che dovrebbero regolarla. Questa doppia collocazione ha creato una confusione inestricabile tra l'empirico e il trascendentale. All'origine, come alla fine, il risultato è lo stesso: gli eventi rispettano le leggi del già dato, le potenzialità della vita sono annullate, la loro carica etica è vincolata alla ripetizione dell'Identico.

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Pagina 55

(AUTO)GOVERNO DELLA FORZA LAVORO





La società come scuola


L'istruzione occupa un ruolo centrale nella creazione del capitale umano. È il dispositivo necessario per interiorizzare, sperimentare e formalizzare l'investimento economico di sé come idea regolatrice della vita. L'obiettivo è creare la mentalità dell'imprenditore di se stesso in concorrenza con gli altri e sperimentarla già nelle aule scolastiche, perfezionarla nell'università, nelle agenzie di formazione e di valutazione esistenti nella cosiddetta "economia della conoscenza". Il capitalista umano è un work-in-progress, un'opera di perfezionamento continuo di se stesso destinata a restare incompiuta. Gli studenti devono apprendere a investire ogni giorno per migliorare competenze e capacità. Questo lavoro è infinito e presuppone la creazione di una soggettività che non coincide necessariamente con un attore economico.

La vita in formazione continua [life long learning] è consapevole di questa differenza e assegna al soggetto il compito di creare la propria moralità accumulando il capitale umano e investendolo nel ciclo vitale. Da giovane lo acquisisce negli studi e lo spende in vecchiaia quando non è più attivo. Negli ultimi trent'anni tutti i sistemi scolastici e universitari, oltre che il mercato del lavoro, si sono conformati a questa antropologia dell'individuo investitore. Formano soggetti votati alla creazione di una carriera personale frutto della sperimentazione di un cambiamento continuo. Questo mondo mutevole coincide con il mercato perché l'umanità dell'individuo si realizza nell'investimento dei beni che compongono il suo capitale. Scuola e università esercitano una violenza che plasma la mentalità e i comportamenti sotto l'influenza di un'autorità che rende il capitale umano indispensabile, inevitabile e irreversibile. La loro azione non è neutrale. Disciplinano l'individuo alla recita del nuovo vangelo. Insegnano a investire il suo capitale umano, non diversamente da altre istituzioni che lo obbligano a credere che il futuro è un investimento finanziario. È l'intera società che deve imparare a rispettare queste regole. Anche per questa ragione si parla di una "società che apprende" [learning society].

Il motto di John Dewey , la "scuola come società" è stato rovesciato nella "società come scuola". Con questa espressione si è inteso evidenziare il ruolo di inclusione sociale e di emancipazione di tutti i cittadini, senza distinzione. Nella learning society le partizioni tra le classi sociali e i gruppi, tra il privato e il pubblico, tra l'istruzione e la formazione professionale non sono considerate antagoniste, ma interdipendenti. Potenzialmente tutti gli individui attivi, senza distinzione di nazionalità, possono entrare a far parte di una comunità cosmopolitica. In cambio devono istruirsi per soddisfare un diritto che li rende autonomi e formarsi a un obbligo a cui tutti sono subordinati.

L'estensione del principio-scuola all'intera società ha comportato la diffusione delle contraddizioni di questa istituzione: alla società - o meglio ai poteri che la disciplinano e la guidano - è stata attribuita l'autorità di educare le persone. È nata così l'idea di collegare l'istruzione alla formazione, l'educazione al modo di vivere personalizzato: il lavoro, l'alimentazione, la salute, la prevenzione dei crimini, la legalità. In questi ambiti la "società come scuola" stabilisce l'osservanza di una norma di comportamento fondato sull'auto-controllo e sulla sorveglianza reciproca. Una trasformazione paradigmatica definita come il passaggio dalla società disciplinare - dove l'individuo era controllato da un potere esterno - alla società dei controlli - dove l'individuo controlla se stesso e gli altri.

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Pagina 111

COME SI DIVENTA CAPITALE UMANO





Né apprendistato, né lavoro


L'alternanza scuola lavoro obbligatoria è uno strumento per diventare capitale umano. È stato creato dalla "Buona scuola" ("legge 107"), una legge in forma di ossimoro presentata dal governo di Matteo Renzi (Partito Democratico) contro il più grande sciopero generale degli insegnanti e del personale della scuola dalla fine degli anni Ottanta. È un "progetto/percorso" obbligatorio che coinvolge a regime 1,5 milioni di studenti dei licei e degli istituti tecnico-professionali nell'ultimo triennio del corso di studi e si articola in moduli didattico-informativi - svolti in classe o in azienda - e in moduli di apprendimento pratico all'interno del contesto lavorativo. Dura quattrocento ore negli istituti professionali e duecento ore nei licei. Al termine del percorso il docente tutor stila una relazione dell'esperienza dello studente. La valutazione è considerata nel voto all'esame di maturità.

Questo progetto non va confuso con l'apprendistato duale vigente in Germania. In questo paese l'apprendistato è obbligatorio per gli studenti in alternanza formativa (Fachoberschulen) e in alternanza lavorativa (Berufsschule).

Le scuole secondarie di secondo grado terminano tra i quattordici e i sedici anni, dopo gli studenti-apprendisti hanno due o tre anni di tempo per "specializzarsi" in un mestiere. Il settanta per cento delle ore sono spese in aziende, solo il trenta in classe. I corsi cambiano in base alle esigenze delle imprese, elemento fondamentale di queste scuole.

Un'altra differenza con il sistema tedesco è il compenso. In Germania gli studenti che scelgono un percorso di alternanza scuola lavoro diventano "apprendisti" e ricevono in media uno stipendio tra gli ottocento euro a oltre mille. In due terzi dei casi, l'apprendista è assunto dall'azienda in cui si è formato. In media questo accade a cinquecentomila apprendisti ogni anno. In Italia, invece, non è previsto alcun compenso. In Germania lo studente-apprendista fruisce del diritto al lavoro, il suo coetaneo italiano applica il diritto all'istruzione. In Germania l'alternanza scuola lavoro è un lavoro, non una parentesi in un percorso di formazione scolastica.

In Germania l'apprendistato è coordinato dalle aziende e dai sindacati con le autorità dello Stato e rispetta una politica istituzionalizzata della co-partecipazione [Mitbestimmung]. Il sistema è decentralizzato ed è governato attraverso i Länder, le autonomie degli stati federali. In Italia il sistema è centralizzato e tende a coinvolgere gli attori sociali sul territorio nel suo governo. Il ministero dell'istruzione lo gestisce attraverso una serie di protocolli di intesa con aziende, associazioni di categorie, istituzioni, i sindacati in un'ottica di concertazione sociale.

L'alternanza scuola lavoro è stata presentata come uno degli antidoti contro la disoccupazione giovanile, per limitare il tasso degli abbandoni scolastici - in Italia elevati - e come un'integrazione tra il mondo della scuola e quello dell'impresa. Nel 2012 la Commissione Europea sollecitò la promozione dell'"apprendimento basato sul lavoro, anche con tirocini e periodi di apprendistato di qualità e modelli di apprendimento duale per agevolare il passaggio dallo studio al lavoro". Pietra angolare di questa strategia è l'apprendistato, una modalità della formazione professionale e delle politiche del lavoro per giovani e meno giovani. Di questa modalità non esiste una definizione univoca e condivisa: apprendistato è sia la formazione in azienda, sia l'istruzione impartita nelle scuole. L'incrocio tra questi percorsi porta al riconoscimento delle "qualificazioni professionali".

Nella scuola italiana questi discorsi sono stati progressivamente introdotti dalla riforma "Berlinguer-Zecchino" nel 2000 ("centro-sinistra") e nel 2003 con quella "Moratti" ("centro-destra") a cui si deve la prima formulazione dell'alternanza scuola lavoro. In quello stesso anno la cosiddetta "legge Biagi" riconobbe la possibilità di firmare dai 15 anni in poi, con il consenso dei genitori, un contratto di lavoro da apprendista. Nel 2015 la riforma del lavoro Jobs Act ha nuovamente valorizzato l'apprendistato "formativo".

Prima della riforma "Renzi-Giannini" del 2015 allo studente era riconosciuta la facoltà di richiedere un percorso di alternanza scuola lavoro; dopo l'ultimo intervento è obbligato a farlo. Considerata l'estensione colossale - da poche decine di migliaia di "percorsi" frequentati in maggioranza dagli studenti degli istituti tecnico-professionale si è passati a 1,5 milioni - è sorto un problema: la scuola dell'obbligo è stata trasformata in un'immensa agenzia di formazione professionale e di collocamento lavorativo? A rigore di termini, la risposta è negativa. La scuola è stata integrata in maniera definitiva in un dispositivo di governo morale della forza lavoro, non finalizzata solo alla creazione di figure lavorative, ma alla definizione di una mentalità, abitudini, senso comune degli studenti in quanto soggettività neoliberali.

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Pagina 175

L'INVENZIONE DEL FANNULLONE





Cercasi apprendista tutto l'anno


Si racconta che per i giovani esistano molti posti di lavoro - panettiere, pizzaiolo, barista, idraulico, addetto alle pulizie, carpentieri, tornitori, autisti di pullman, parrucchieri ed estetisti - ma nessuno li vuole. Si dice che la responsabilità sia della scuola e dell'università che non insegnano ad essere disponibili alle offerte esistenti sul mercato, rendendo i giovani pronti a tutto pur di prendere al volo l'occasione. È sempre colpa degli individui che si accaniscono a inseguire titoli di studio che invece sono l'anticamera della disoccupazione.

La parabola della facoltà di scienze della comunicazione racchiude questa credenza che ha avuto un peso non indifferente nell'ideologia dell'alternanza scuola lavoro. Concepita all'inizio degli anni Novanta come l'esempio della forza lavoro "creativa", "flessibile", capace di praticare "competenze trasversali" di natura linguistica, mediatica, relazionale o culturale, oggi è concepita come la sentina di tutti i vizi che i laureati devono perdere, recuperando invece le virtù del tornitore. Quella sui laureati in scienze della comunicazione è una leggenda. Uno studio ha dimostrato che l'88 per cento trova lavoro, il 39,1 per cento dei laureati triennali sostiene che questa laurea serva poco o a nulla nel lavoro svolto.

Una commerciante di Lucca, finita agli onori della cronaca locale per una dichiarazione del tipo "Offro lavoro ma ai giovani non va di lavorare", ha contrapposto gli studenti appena diplomati ai laureati:

"Ho incontrato persone meritevoli, con grinta e capacità, ma la maggior parte non rientra in questa categoria. Noto, tra l'altro, che le persone più qualificate a livello di studi e di formazione sono più disposte al sacrificio rispetto a giovani che hanno appena finito la scuola, che sono attaccati ad orari e straordinari".

Il contrasto è tra la forza lavoro - i ventenni appena usciti dalla scuola che chiedono tutele e garanzie (un contratto, un orario di lavoro, uno stipendio) - e la forza lavoro che ha già vissuto qualche anno di precariato e, apparentemente, non pretende questi diritti e "ha voglia di fare". In generale, il problema è modificare il contratto nazionale e fare gli interessi degli "imprenditori" che "non vanno troppo demonizzati". La prospettiva è la guerra di tutti contro tutti: giovani contro meno giovani; anziani contro adulti, uomini contro donne, cittadini nazionali contro migranti e lavoratori stranieri. È una caratteristica della segmentazione del mercato del lavoro e della sua competizione.

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Pagina 205

POTENZA DEGLI STUDENTI





Quinto stato


Gli studenti sono espressione della condizione del quinto stato. Sin dal 1968, quando liceali e universitari volantinavano ai cancelli di Mirafiori a Torino, o confluivano nelle gigantesche manifestazioni a Parigi, dando vita alle assemblee e comitati con i lavoratori, parlando di "potere operaio", la loro condizione è stata interpretata come una versione ambivalente di quella operaia. In questa ambivalenza è giusto dire che lo "studente non è un operaio", così come non è errato sostenere che lo "studente è come l'operaio": un operaio di nuovo tipo, un lavoratore della conoscenza, un lavoratore culturale.

La categoria di quinto stato è stata usata da Wolfgang Kraus nel 1966 come sinonimo di lavoro intellettuale o del lavoro della conoscenza. Indicava la manifestazione di quella che oggi è chiamata una tecnocrazia cosmopolita capace di dirigere l'automazione della produzione, inventare stili di vita o nuovi linguaggi, distinguendosi dalle altre classi sociali. Questa era una tentazione ricorrente nei paesi a capitalismo avanzato sin dagli anni Sessanta. E non solo. È lo stesso profilo che nel 2002 ha ispirato la "classe creativa" di Richard Florida, salvo poi scoprire che tale "creatività" oggi è solo un'altra faccia dell'auto-sfruttamento, delle prestazioni gratuite o sottopagate, oltre che dell'alienazione, del lavoro autonomo contemporaneo. Tra queste figure esiste un tratto comune che sfugge a qualsiasi equivalenza. Sia gli uni che gli altri, gli studenti e gli operai, condividono una facoltà generale, fondamentale per l'economia capitalistica: la forza lavoro. Ciò non elimina la difficoltà di identificarsi l'uno nell'altro, nemmeno in un soggetto già dato e, ancora di più, in un processo sociale di trasformazione che abbia al centro la forza lavoro.

La definizione degli studenti come "quinto stato" è stata formulata dal giurista liberale Salvatore Valitutti nel 1960. Per Valitutti, il quinto stato degli studenti era l'avversario dello Stato, inteso come ordinamento giuridico e politico, ma era anche l'antagonista del quarto stato composto da operai e contadini. Le sue rivendicazioni non hanno raccolto consenso tra i partiti e i sindacati che molto spesso le hanno combattute. L'attenzione di Valitutti andava ai giovani, agli studenti e ai "senza lavoro, che appartengono alla società in movimento, quelli che sono alla ricerca del loro lavoro" in una società corporativa. Il quinto stato non era identificabile con l'insieme dei disoccupati e dei sotto-occupati, ma con il movimento di chi "dal non lavoro vuole passare al lavoro, o da un tipo di lavoro ad un altro tipo di lavoro, entra a far parte idealmente, per questa sua volontà, del quinto stato".

Questa rappresentazione fluida, simile a un potere costituente o insurrezionale suscita oggi molte perplessità. Non solo perché costituisce ancora l'argomentazione principale della destra e dei neoliberisti che si scagliano contro il corporativismo dei sindacati, la burocrazia e il familismo di una società ermeticamente chiusa, ma anche perché rappresenta l'espediente retorico scelto dagli imprenditori che vogliono "ringiovanire" il paese, aprirlo alla concorrenza, con l'evidente intento di risparmiare sul costo del lavoro e danneggiare i più giovani e i meno garantiti. Anche la soluzione indicata da Valitutti, la meritocrazia, non convince: non premia i giovani efficienti nella competizione con i vecchi improduttivi, ma è un'altra arma in mano a quei pochi che decidono il valore dei molti. L'evocazione del sogno di società meritocratica è comprensibile in una società clientelare, corporativa, corrotta come la nostra. Parlare di "meritocrazia", di "giovani" contro "anziani", di "non garantiti" contro garantiti è diventata la norma del discorso neoliberista sulla società e sul lavoro. Rispetto alla generazione del baby-boom, questo ragionamento non è più attuale. L'ascensione sociale a cui mirava un tempo - in un orizzonte di lavoro retribuito in cambio di una prestazione subordinata - è stata trasformata in un nomadismo esistenziale e professionale rigidamente disciplinato e condizionato da una condizione di isolamento e impoverimento. Negli anni Sessanta del XX secolo chi ha intuito l'esistenza del quinto stato non poteva prevedere che il XXI secolo sarebbe stato il secolo del lavoro nomade. Non poteva immaginare che gli intellettuali, come gli operai, sarebbero diventati lavoratori senza posto fisso. La condizione del quinto stato non è tuttavia cambiata: la potenzialità di non appartenere a un ruolo sociale, una mansione produttiva o un tic performativo che spinge alla produttività compulsiva.

La crisi ha modificato profondamente il modello di lavoro salariato, ma non in direzione di una sua abolizione, come si auspicava cinquant'anni fa, bensì moltiplicando le occasioni di lavoro servile.

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Pagina 219

CONCLUSIONE





L'altro mondo


Nell'incontro fortuito su un tavolo di dissezione tra una macchina da cucire e un ombrello il Conte Lautréamont ha visto il paradosso da cui scaturisce il lampo del poetico che rompe la solida apparenza del capitale umano e domina una vita privata della potenza. Lautréamont è un nome favoloso, lo pseudonimo del poeta Isidore Lucien Ducasse, autore dei Canti di Maldoror. La sua pronuncia francese è un'assonanza che richiama L'autre monde, l'altro mondo. Questo scatena il possibile che resta sulla punta della lingua, lo mette all'inizio di una frase, mentre siamo al limitare della svolta oltre la quale c'è una rivoluzione. Come ti chiami? L'altro mondo: il nominarsi è già l'altrove, questo mio mondo è già un altro. Mi chiamo divenire: il mio Io è sempre un Altro. Non è l'evocazione di un mondo trascendente, paradiso o mondo delle idee dove la Giustizia o la Bellezza si presentano in carne ed ossa. È l'affermazione di una potenza incarnata in questo corpo che si riflette in un nome. Nulla può contenerla perché la potenza si dà nel suo farsi: è una vibrazione, un sentire senza confini, un pathos incommensurabile che si dà nell'apertura delle possibilità, devasta il senso acquisito e indica un virtuale più reale dello stato di cose presente. All'origine c'è la potenza - da intendere spinozianamente come sforzo per la conservazione di sé, fondamento dell'etica e apertura del soggetto sugli eventi non determinabili - non ciò che è determinato alla luce di principi già dati. Se fosse vissuto fino ai giorni nostri, e con lui i surrealisti che trovarono il senso nell'incontro tra una macchina da cucire e un ombrello, Lautréamont avrebbe aggiunto un nuovo ordine possibile nella dimensione senza legge né geometria dell'eteroclito.

Il capitale umano è l'opposto: l'imposizione totalizzante di una normatività regolare e predittiva del divenire. Il capitale umano è la negazione dell' altro mondo. Blocca il divenire nella congiunzione tra gli opposti, non più casualmente associati per negare ogni possibilità della grammatica - trovando così il modo per creare una nuova grammatica. Ogni possibile realtà altra è contenuta nel capitale umano, la forma di un rapporto impossibile è diventata la nostra unica natura. Nel suo luogo impossibile è nata l'unica possibilità di pensarci sia umani sia capitalisti. Si può dare l'associazione tra strani oggetti concepiti per dissolvere classificazioni ordinate, ma anche la libertà di sottrarsi al buon senso è soggetta all'applicazione di un criterio preliminare che trova nel capitale umano la pietra di paragone per tutto, anche per l'impossibile.

L'umano non ha fondamento, la sua natura non coincide né con un essere determinato, né con un'essenza. L'essere umano si costituisce contemporaneamente al suo darsi nel mondo, insieme alle norme, alle regole e alle leggi che definiscono la sua rappresentazione e indirizzano il governo della sua vita. Questa contemporaneità è la forma storica integrale in cui si esercita una potenza, mentre si strutturano i modi individuati in cui tale potenza si manifesta. In questa immanenza assoluta del fondamento e di ciò che si costruisce su di esso, della materia e delle forme che sono plasmate in esso, si manifesta anche la tensione umana verso il possibile e l'aperto, ovvero la potenza che non è attuale ma strettamente intrecciata con la virtualità di un evento compresente sullo stesso piano sul quale si svolge una vita. Il divenire impresa dell'essere umano spezza questa immanenza, dirottandola verso l'osservanza di un principio trascendentale che vincola la vita a restare prigioniera di una totalità insuperabile: il possibile è ricondotto alla realtà, il virtuale all'attuale, il costituente al costituito, il desiderio alla prestazione e il conatus che spinge la vita a non farsi determinare una volta per tutte dalla regola che conferma la sua impotenza.

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APPENDICE





L'odio per il Sessantotto


Quando a scuola e all'università arrivarono le classi lavoratrici, e la forza lavoro fece un balzo in avanti nell'istruzione, iniziò la guerra. La scuola pubblica e di massa doveva cambiare perché questi soggetti imprevisti avanzavano una pretesa intollerabile: praticare la vita al di là dei limiti consentiti.

"Fecero allora la loro comparsa nuove figure della forza lavoro basate sulla produzione cognitiva, sulla cooperazione linguistica, una riorganizzazione della giornata lavorativa che allora ebbe una coloritura sovversiva. [Quella stagione] ha anticipato, con conflitti durissimi, quello che veramente conta oggi. Marx lo ha definito un intelletto generale che non è più depositato nel capitale fisso, ma nei soggetti viventi. Conoscenza, affetti e intelletto esistono come interazioni e cooperazione linguistica del lavoro vivo. (...) La riproduzione della vita, e le stesse qualità produttive della forza lavoro, non sono solo quelle che si sviluppano nella sfera del lavoro".

Il "lungo Sessantotto" italiano (1967-1978) ebbe come luoghi visibili le scuole, le università e le fabbriche, scatenò un conflitto che ha modificato comportamenti e mentalità della nuova forza lavoro, estendendo in maniera da allora ineguagliata la ricerca dell'autonomia e della libertà in nuove forme soggettive, istituzionali e organizzative che furono recepite ovunque: nelle relazioni tra uomo e donna; nella liberazione delle donne e nelle differenze sessuali; nella ricerca culturale e artistica; nella chiusura dei manicomi e nell'istituzione del servizio sanitario pubblico; nell'approvazione dello statuto dei lavoratori e nella più intensa conflittualità di classe mai conosciuta nel mondo occidentale del secondo Dopoguerra.

Emerse una qualità soggettiva irriducibile al controllo e alla disciplina, capace di usare l'inquadramento commerciale dell'identità sovvertendola dall'interno. In un continuo gioco di sperimentazioni, eccessi distruttivi e auto-distruttivi, questa è la storia del "divenire minore" di soggettività che hanno cercato di sottrarsi alla divisione del campo del dicibile e del pensabile in termini di "maggioranza" e "minoranza", affermando il possibile deve affermarsi in maniera autonoma. Il "divenire minore" indica un'attitudine soggettiva ed etica che non può essere confinata in un'identità sociale predefinita, né in una commerciale, e può scattare in ogni momento, in un "giovane", in uno "studente" e in qualsiasi altra figura che abbia un rapporto con il desiderio e una proiezione oltre di sé, partendo da sé.

Ciò che alimentava il movimento di quei giovani era un'immagine della società che, mentre prometteva una liberazione dal bisogno, nello stesso tempo minacciava la perdita dell'identità personale come desiderio. La risposta contro la disperazione dovuta all'atomizzazione sociale fu sorprendente: non si oppose il bisogno al desiderio, ma si cercò una convergenza, e un rilancio reciproco, tra le istanze materiali della riproduzione della vita e quelle della produzione di una nuova soggettività. A livello individuale e collettivo si scoprì la dialettica del desiderio "dissidente". "Ciò che conta non è la meta, non è la proposta in sé, più o meno "reale". Ciò che contava non era "l' oggetto del desiderio, ma lo stato di desiderio". "L'ostinata "obiezione di incoscienza" del desiderio che si estende dal "sogno", dall'"astrattezza", fino all'agire "folle" e "fuori delle regole", chiarì la scarsa realtà della pretesa di chi crede che la realtà sia unica e assoluta.

[...]

A cinquant'anni di distanza è ancora salda la campagna contro le istanze di liberazione, uguaglianza e conflitto emerse in quegli anni. La "scuola del Sessantotto" è considerata la sentina di tutti i vizi, la sua tendenza all'uguaglianza è stata intesa come un'"anarchia" - dove nessuno obbedisce all'autorità. Queste sarebbero le cause dell'attuale cultura "nozionistica" in un mondo dove nessuno studia. Prima esisteva la scuola basata sul "merito", oggi la scuola non insegna a scrivere ed esprimersi propriamente. La responsabilità di questa regressione è addebitata alla scuola "sessantottina". Le sue aspirazioni sono state sconfitte, visto che la scuola attuale è l'espressione di un'organizzazione classista della società. Ma questo non basta. Si continua a evocare, in maniera postuma, il fantasma di una battaglia per la libertà e l'autonomia per maledirla ancora una volta.

Il Sessantotto era contro la scuola come istituzione autoritaria e proponeva di "descolarizzare" la vita, non abbandonarla all'ignoranza. La "descolarizzazione" è un'esigenza ancora più acuta dal momento che il principio-scuola è stato applicato all'intera società e a ogni aspetto della vita della forza lavoro. L'equazione Sessantotto=capitalismo è una censura che nega l'esistenza del possibile, in nome di ciò che è istituito, naturale, normativo.

La trasversalità della condanna del Sessantotto si ritrova nella giuntura tra "sinistra" e "destra" dove si collocano le politiche neoliberali dell'istruzione e della formazione. Dal gioco tra posizioni opposte, e nell'ambivalenza così prodotta, la nuova politica spinge il soggetto a costruirsi in una "gabbia d'acciaio", separando le rivendicazioni all'autonomia dalla solidarietà, la libertà dall'uguaglianza. I soggetti sono così "costruiti" come imprenditori di se stessi che pensano alla loro libertà economica e mai ai diritti sociali propri e altrui. Nel caso in cui si limitino a incarnare il modello neoliberale sono tacciati di egoismo, narcisismo, individualismo. Se invece si "ribellano" sono tacciati di non volere rispettare la regola che obbliga a fondare la propria "impresa personale" e accettare il lavoro in vista di una "carriera". In un continuo rovesciamento delle parti, la "destra" e la "sinistra" cambiano costantemente di posizione. L'una può fare una critica "da sinistra", mentre l'altra può farla da "destra", scambiandosi i ruoli all'interno di un unico paradigma culturale liberal-conservatore. L'obiettivo è vincolare il soggetto a ingiunzioni paradossali e opposte, praticate nelle stesso momento. Questa strategia serve a estenuarlo e a imporgli la ritirata dalla scena pubblica dove la sua esistenza è sbranata da rappresentazioni programmaticamente erronee, insultanti o caricaturali. Lo schema è applicato a ogni livello. Gli effetti sono quotidiani, a partire dalla rappresentazione mediatica dove soggetti diversi cercano uno strapuntino di "visibilità" nell'illusione di diventare "maggioritari", salvo poi essere respinti da un violento contraccolpo prodotto dall'uso strumentale della loro identità.

Questa politica colpisce tutti: dagli abitanti delle banlieue a quelli del centro, i giovani e gli adulti, i professionisti e i precari. È più evidente nella scuola dove chi insegna e chi apprende è costretto a condividere lo stesso spazio vitale giorno dopo giorno, per molti anni. La scuola è il luogo dove si forma l'individuazione del soggetto, e dove tale individuazione è obbligata a prendere una forma culturale, sociale e relazionale. La prassi dell'insegnamento, e dell'apprendimento, sono costitutivamente esposte e vulnerabili. Anche per questo sono soggette a una rigida e continua opera di regolazione e manutenzione dall'alto e attraverso l'industria culturale. Unità di spazio e tempo, la scuola esercita in tempo reale un conflitto che attraversa ambiti e modalità diverse ed è destinata a riprodurlo.

La contesa rivela che il Sessantotto non è identificabile con le categorie di "destra", "sinistra", "popolo" o "capitale". Non può esserlo per la stessa ragione che rende inclassificabile la manifestazione di un'autonomia finalizzata all'auto-governo degli esseri umani e che matura sul lato del possibile, non su quello dell'attuale. L'autonomia si forma nella contingenza dei rapporti di forza e agisce sulla prospettiva; vive nelle relazioni, non sul dato. È l'espressione della costruzione di una vita in comune, non di una sovrastruttura ideologica ottenuta attraverso l'imposizione di una legge morale. Mescolandosi con una molteplicità di eventi, e non mancando di divergere al loro interno, i movimenti si sono sempre declinati in termini contraddittori. Questa è l'espressione di un processo nel suo farsi, non di una devianza, né l'affermazione di un'identità precostituita in base a un'essenza.

Anarchico significa assenza di finalità e di apriori determinati che si danno nel farsi dell'esperienza per essere superate. Questa impostazione - politica, metodologica, ontologica - è inquietante per tutti, anche per chi si colloca nel movimento. Ma l'inquieto e l'improprio del vivere chiamano. Non resta che assumerne l'insidia per non essere schiacciati dall'insostenibile leggerezza del capitale disumano.

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