Autore Roberto Ciccarelli
Titolo forza lavoro
Sottotitoloil lato oscuro della rivoluzione digitale
EdizioneDeriveApprodi, Roma, 2018, comunità concrete 7 , pag. 224, cop.fle., dim. 13,3x20x1,5 cm , Isbn 978-88-6548-217-9
LettoreRiccardo Terzi, 2018
Classe lavoro , politica , economia , economia politica , filosofia , storia sociale , globalizzazione , informatica: sociologia , informatica: politica












 

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Indice


    Prologo

Centralità senza nome                            7
Futuro nuovo di zecca o età dell'oro             9
Umano, troppo umano: il capitale                11
Quinto Stato                                    13
Genealogie della forza lavoro                   16
Facoltà delle facoltà                           18


    Il nano della storia

Amazon Mechanical Turk                          23
Ideologia californiana                          26
Mito dell'automazione                           30
L'auto-che-si-guida-da-sola e altre storie      34
Chiamare il prefisso 4.0                        40
Il lavoro non è finito, è sempre di più         44
Mobilitazione totale                            50
Quando l'algoritmo dipende da più capi          53
Perché anche Facebook dovrebbe pagarci
    il reddito di base                          56
Servizi umani nell'economia dei lavoretti
    (GigEconomy)                                61
Lavoratori nomadi                               66
Rendere visibile l'invisibilità                 72
Diritto di esistenza                            77


    Forza Lavoro

La forza lavoro non cresce sugli alberi         81
Arbeitskraft                                    83
Potenza                                         89
Personalità vivente                             96
Uso                                            101
Cooperazione                                   105
Riproduzione                                   110
Contro il lavoro                               113
Lavoro vivo                                    119
Ipotesi del comunismo                          122


    (Dis)obbedienti

Indocili al comando                            127
Gladiatori                                     133
Non esistono amici nel lavoro autonomo         140
Freelance                                      146
Flâneur                                        152


    Imprenditore di se stesso

Divenire start up                              157
Manager tutta la vita                          160
Valuto Ergo Sum                                163
Ambivalenti nella sharing economy              166
Profilati e infelici                           172
Come tu mi vuoi, padrone                       175
Contratto psicologico                          178
Capitale umano                                 184
Liberazione                                    188


    Cosa può una forza lavoro                  195


Note                                           198


 

 

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Pagina 7

prologo





Centralità senza nome


Le redazioni dei programmi televisivi mi chiedono talvolta di trovare un caso umano. Un autore legge su un quotidiano una notizia sui nuovi «schiavi», espressione idiomatica intesa come sinonimo di povertà estrema, mancanza di diritti, lavoro povero. Il giornalista si mette sulle tracce di una «storia». In alcuni casi arriva a me che mi occupo, anche da giornalista, di lavoro. Rifiuto di fare i nomi, non conosco schiavi, né casi umani, rispondo. Come me, lo fanno gli interessati. Sentirsi definire schiavi, soggetti privi di libertà, cose senza volontà, è un'offesa. Soprattutto quando la schiavitù è usata come una metafora che trasforma la vulnerabilità personale in uno stigma sociale. Per gli antichi lo schiavo era un animale parlante. Per i contemporanei è un caso umano da intervistare.

Questa rappresentazione della forza lavoro accomuna i talk show, i quotidiani e l'editoria. Una ricerca sui titoli dei volumi pubblicati negli ultimi anni dimostra la ricorrenza della parola «schiavi» e, in subordine, «precari», sempre rappresentati in chiave vittimaria. Sottrarsi è salutare. Una giornalista, preoccupata dall'aumento dei rifiuti tra i lavoratori autonomi e freelance, mi ha spiegato le sue ragioni: bisogna sferrare un pugno sotto la cintura e fare saltare il telespettatore sul divano. È preferibile che il caso umano assomigli al figlio disoccupato, al padre o alla madre. Il pubblico davanti alla televisione può capire che il problema è familiare. L'approccio è discutibile. Poteva scuotere qualcuno anni fa, ma ormai conosciamo la situazione e i responsabili. Ripetere lo stesso schema significa separare la sofferenza provocata dal lavoro alienato e ridurlo a un fatto biografico o generazionale. La vittimizzazione rafforza la percezione di una subalternità diffusa, non crea la conoscenza delle cause che l'hanno prodotta, né produce un rovesciamento politico delle prospettive.

A questo esito collabora il potente discorso della rivoluzione digitale sul declino del lavoro umano. La rivoluzione doveva garantire una maggiore autonomia alle persone, ma ha esteso il dominio esercitato in precedenza sui corpi al cervello, alla psiche e agli affetti. La fine del lavoro non è tuttavia alle porte e la sostituzione degli umani con le macchine resterà lontana anche nel 2025 o nel 2050 quando è stato annunciato il suo trapasso alla storia. Già oggi l'automazione mette all'opera la forza lavoro ancora più intensamente, pagandola sempre meno. La scomparsa dei posti di lavoro e la trasformazione incessante delle professioni non sono provocate dai robot, ma da una molteplicità di fattori sociali, economici e produttivi che implicano una profonda trasformazione della forza lavoro e della sua produttività sulla quale sono ancora troppo pochi a interrogarsi. I lavoratori restano doppiamente impotenti: non solo il «vecchio» lavoro li ha lasciati disoccupati in una terra dove non sorge mai l'alba di un nuovo inizio, ma non potranno influire nemmeno sul loro lavoro in futuro, quando si compirà la profezia degli aruspici della tecno-apocalisse. Il racconto sulla rivoluzione digitale in corso ha un cuore antico: l'illusione di un lavoro senza esseri umani, emanazione diretta del Capitale. Come l' ideologia tedesca, di cui hanno parlato Marx e Engels nel 1846, anche l' ideologia californiana della Silicon Valley nel XXI secolo rimuove le condizioni materiali di vita e le facoltà degli individui viventi a contatto con le macchine e la digitalizzazione del mondo.

Questo libro propone un'alternativa alla futurologia e al racconto compassionevole del lavoro. Elabora una filosofia che riconosce una centralità senza nome – quella della forza lavoro – e ripristina le condizioni della critica a partire dalla storia di individui in carne e ossa in un'attività produttiva che coinvolge la veglia e il sonno. Questa filosofia non è apocalittica, né luddista, ma afferma un materialismo filosofico e ragiona sulla possibilità di un'etica spinozista. La sua domanda non è che cos'è il lavoro, ma la più concreta, e potente, cosa può oggi una forza lavoro?




Futuro nuovo di zecca o età dell'oro


Mai come oggi il concetto del lavoro è stato usato in maniera così totalizzante. Mai il valore della forza lavoro è stato così trascurabile. Perso è un significato condiviso del lavoro, oscuro è il nome di ciò che siamo: forza lavoro. Questa situazione ricorda il barone di Münchhausen che riuscì a sottrarsi dalle sabbie mobili tirandosi fuori per i propri capelli. Allo stesso modo sembra che il lavoro si produca da solo, le merci appaiano misteriosamente nelle nostre case, il denaro sia l'incarnazione della volontà matematica di un algoritmo. Al lavoratore, che pure lavora, si dice che la sua attività non ha un significato oltre la mera esecuzione. Il significato lo trova il padrone, al servo è negato il senso del lavoro che nasce lavorando. È il datore di lavoro che decide cosa è, e cosa non è, la sua forza lavoro. Lui esercita il potere di dare o negare un nome, oltre a quello di decidere sulle mansioni o sullo stipendio. È lo spartito solfeggiato ovunque: il lavoro è privato della sua forza, non ha un soggetto in carne e ossa. L'unico soggetto è l'astrazione del lavoro. Questo ribaltamento, sottile come tutte le metafisiche, ha imposto un ordine del discorso: oggi parliamo di lavoro senza parlare della condizione che lo rende possibile, la forza lavoro.

[...]

La forza lavoro non è evidentemente scomparsa nei flussi automatizzati e silenziosi governati dagli algoritmi. Le donne e gli uomini continuano a lavorare, lo fanno sempre di più e sempre peggio. Anche nel caso di una sua eccedenza strutturale rispetto alla domanda di lavoro, la forza lavoro non resta mai inoperosa. Che sia inclusa o scartata, bandita, non valorizzata e perseguitata, è una facoltà sempre in attività. Questo spinge le moltitudini che vivono nella zona grigia tra il lavoro e il non lavoro a muoversi, a varcare confini e a restare ostaggio di una trappola cognitiva: pur ambendo a un'occupazione remunerata e tutelata questa forza lavoro è percepita come una massa al lavoro, mere braccia da fatica da impiegare, non come un individuo sociale e collettivo. Il riaffiorare di condizioni impensabili, almeno nei paesi capitalistici, di deprivazioni materiali e marginalità assolute rafforza questa percezione e, in più, sottopone la riproduzione della forza lavoro a percorsi vincolanti che ne penalizzano gravemente l'esistenza materiale e quella etica.

Il disciplinamento, la trasfigurazione e la rimozione della forza lavoro – la sua invisibilizzazione – sono l'esito di un'egemonia culturale così potente da aver spinto gli stessi lavoratori a credere di essere invisibili. Pur essendo forza lavoro, agiscono come se fossero assenti davanti ai propri occhi. Il rovesciamento della percezione, e l'incapacità di dare un nome e un volto a questa condizione fantasmatica, è l'effetto di un violento contraccolpo provocato dal cambiamento, e dal ridimensionamento, delle due principali culture del lavoro nel Novecento. Quella marxista che ha considerato la forza lavoro come il terreno primordiale sia dell'antagonismo che della cooperazione tra individui, del conflitto e della solidarietà. E la cultura liberale del contratto di lavoro, sostituita da una continua rimodulazione della prestazione salariata in base alle esigenze commerciali delle imprese.

Sul campo sono rimasti i profeti che annunciano un futuro nuovo di zecca e chi rimpiange l'età dell'oro dove il lavoro sarebbe servito a soddisfare i bisogni e a realizzare la dignità della persona. Sono due idealismi contrapposti: i primi predicano la scorciatoia del divenire tutti imprenditori, auspicando una nuova forma di incarnazione del capitale nell'individuo; i secondi delimitano le lotte dell'operaio-massa avvenute in una frazione del XX secolo (1945-1973) e le eleggono a verità della Storia. Su questa base predicano il ritorno a un lavoro angelicato, dove la persona ritrova la propria dignità, uno stato ideale lontano dallo sfruttamento, come se il lavoro non fosse già in sé uno sfruttamento. Da un lato, si vincola la soggettività all'Impresa, idea regolatrice dell'esistenza; dall'altro lato, si antepone il Lavoro astratto alle donne e agli uomini che concretamente lavorano. In nessun caso la forza lavoro è considerata come una facoltà, parte di una vita libera di esprimersi oltre la razionalità capitalista.

La forza lavoro è prigioniera di un paradosso. La si vuole liberare evocando un rapporto soggettivo con il lavoro «creativo» o sacralizzando l'attività professionale come se fosse un'opera d'arte. E tuttavia il suo lavoro è considerato un residuo archeologico in cui è impossibile identificarsi. La condizione del lavoratore contemporaneo si muove tra un'ingiunzione morale alla soggettività e la gestione strumentale della sua forza lavoro. La sua vita è scandita da due polarità simmetriche: l'iper-lavoro e il sotto-impiego. Al netto della disoccupazione e della povertà assoluta, sono queste le forze centripete e centrifughe di un unico processo di subordinazione.

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Pagina 13

Per provare a uscire dal circolo vizioso che alimenta la rivoluzione passiva in corso è necessario ribadire una duplice distinzione. Forza lavoro e lavoro non sono la stessa cosa, così come non lo sono forza lavoro e capitale umano. Oggi sono parole usate in maniera intercambiabile. Forza lavoro è la facoltà, o capacità lavorativa, che appartiene al singolo al di là del lavoro svolto. Essa conserva, crea, aumenta un valore ed è prodotta dalle donne e dagli uomini, in carne e ossa. Il lavoro è l'estrinsecazione di questa facoltà e la sua oggettivazione in una merce che appartiene a chi l'ha acquistata. In una società capitalistica l'attività della forza lavoro è finalizzata alla produzione del lavoro-merce. Tuttavia questa non è l'unica possibile finalizzazione di una facoltà che può essere usata per affermare la vita in quanto mezzo di se stessa e non solo come oggetto del contratto, strumento del lavoro e del capitale umano.

La forza lavoro è uno scrigno che contiene una potenza ed è la facoltà più importante della vita attiva. Per il capitalismo è la «merce» più preziosa. La sua origine non è la mercificazione di una capacità, ma l'essere potenziale di una vita. La forza lavoro come espressione del corpo-mente individuale e collettivo è l'assunto iniziale per tornare a interrogare la folgorante intuizione di Karl Marx.




Quinto Stato


Questo libro interroga la nuova condizione della forza lavoro: il Quinto Stato. Una riflessione sulla forza lavoro permette di comprendere il suo legame con la trasformazione che ha modificato profondamente la composizione sociale nell'ultimo quarto di secolo. Operai e borghesi, ad esempio, sono classi esplose nella crisi. La zona grigia dove si intrecciano la precarizzazione degli uni e la proletarizzazione degli altri coinvolge ugualmente il lavoro autonomo, freelance e ordinistico. Oggi non basta essere operai per appartenere alla classe operaia e non basta essere impiegati, o semplicemente occupati nei servizi o nello Stato, per essere «borghesi». Così come non basta essere disoccupati per potere dire di non lavorare o di essere occupati per dimostrare di non essere precari. Questa permanente asimmetria tra un'appartenenza di classe e una condizione lavorativa è parte di un'esperienza che non può essere rinchiusa in una tassonomia delle classi sociali, degli status professionale, in un elenco delle vecchie e nuove professioni.

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Pagina 18

Facoltà delle facoltà


L'assenza di un'interrogazione sulla forza lavoro ha pesato sul dibattito filosofico. Il problema è stato inteso sempre in maniera parziale e mai specifico. La critica del lavoro è stata rimossa da una filosofia basata su norme trascendentali dove la giustizia sociale deriva da una distribuzione equa dei beni primari. In questa impostazione scompare il problema della produzione dei beni e il suo rapporto contraddittorio con la soggettività che si afferma in una produzione e aliena la sua principale facoltà: la forza lavoro. Poco, o nulla, considerato è stato il rapporto tra la forza lavoro e le teorie dei contratti e dell'obbligazione che hanno attraversato il rapporto di lavoro subordinato o autonomo sin dall'antichità e, attraverso il diritto romano, sono state incardinate nel dispositivo che ancora oggi permette di parlare di lavoro. Il campo di analisi non è stato molto frequentato nemmeno dalla teoria della democrazia dove la divisione del lavoro, e il rapporto di potere che sottende, sono stati confinati allo schema di una ripartizione diseguale delle risorse e esclusi dalla discussione della polis.

L'invisibilità della forza lavoro agli occhi di un influente dibattito filosofico è stata provocata dalla scomparsa dell'interrogazione sulle condizioni dell'emancipazione del lavoro e della liberazione dei soggetti. La problematizzazione dei concetti come «socialismo» e «comunismo» si è trasformata in un progetto di amministrazione (governance, management) delle protezioni sociali residuali dove il conflitto o la giustizia sociale sono ridotti alla distribuzione di risorse decrescenti e sempre meno disponibili. Questa filosofia non è riuscita a analizzare la creazione delle nuove forme del dominio su una vita messa al lavoro in maniera impietosa, né spiega come la soggettività possa sottrarsi a questa cattura attraverso una facoltà che non può essere ridotta all'uso capitalistico.

Nella trattazione che ha ispirato l'analisi della biopolitica Michel Foucault non ha declinato la forza lavoro nel suo concetto di vita (bios). Salvo alcune notevoli eccezioni, la rielaborazione che ne è seguita non ha colto il rapporto tra il governo della forza lavoro e il dispositivo neoliberale. Ciò ha portato a considerare la politica come un dispositivo distruttore della vita (tanatopolitica), mentre la specificità della forza lavoro individuata da Marx – una merce «speciale» in quanto facoltà che sviluppa le potenzialità di una vita – è scomparsa in una visione che riduce il concetto di vita a un fatto biologico. Nelle diverse articolazioni dell'opera di Foucault è tuttavia presente una teoria della soggettività in cui si riconoscono le caratteristiche presenti in una filosofia della forza lavoro. Il rapporto non lineare tra Foucault e Marx, luogo fondativo di una critica della soggettività contemporanea, permette di sottrarre la forza lavoro alla «governamentalità neoliberale» assimilata a un'espressione del capitale umano. In questo obiettivo si ritrova un ampio spettro della filosofia contemporanea che va dalla teoria critica alla critica spinozista degli affetti e alle declinazioni del post-operaismo o del marxismo dell'astratto, dalla psicoanalisi alla psicodinamica del lavoro.

Il vuoto che una filosofia della forza lavoro affronta nel dibattito teorico e critico è ancora, se è possibile, maggiore in quello politico. Al decimo anno della crisi, si torna a parlare in maniera insistente di «lavoro». Questa riscoperta coincide con l'allargarsi pauroso delle diseguaglianze e con l'impoverimento provocato dalla messa al lavoro di una vita per di più precaria, indebitata e senza tutele. Il «lavoro» è considerato la leva per rilanciare la produttività, la domanda, i consumi in un ciclo capitalistico che lo ha dapprima precarizzato e poi occultato. Sempre che sia possibile ristabilire la centralità che aveva raggiunto il lavoro salariato nel ciclo fordista, e non è affatto detto, in questo mantra sul lavoro si perde di vista la libertà dei soggetti. Conta di più il diritto al lavoro qualunque che il diritto alla scelta di un lavoro. Da punti di vista opposti, la prospettiva neo-socialista e quella neo-liberale convergono almeno su un punto: l'essere umano va messo al lavoro perché nell'attività produttiva la persona riscopre un senso della vita e un'utilità economica. Salvo poi scoprire che il lavoro a cui è attribuito un ruolo di redenzione da uno stato di bisogno è un'attività che moltiplica occupazioni occasionali sempre meno retribuite. Scavare buche e ricoprirle, oppure obbligare una persona a seguire i programmi delle politiche attive per ottenere in cambio un reddito, sono politiche del dominio, non della liberazione. Questo lavoro non porta a una redenzione, ma alla povertà, alla servitù volontaria e alla frustrazione.

L'idea stessa che la forza lavoro sia invece un esercizio di libertà e autodeterminazione continua a latitare. Questa rimozione deriva da un'antica credenza: il lavoro, e non la produzione capitalistica di plusvalore, è una «forza creatrice soprannaturale» capace di generare ogni forma della ricchezza. Oggi più che mai il lavoro è invece un'attività che nega la sorgente della forza lavoro. Non accorgersi della differenza politica e concettuale tra il lavoro-merce e la forza-lavoro porta a identificare la persona con il lavoro che la aliena.

Una filosofia della forza lavoro parte, invece, dalla «personalità vivente» delle donne e degli uomini che lavorano, e non lavorano, non dalla concezione del lavoro – sia esso «merce», «persona» o «capitale umano». Questa filosofia affronta la duplicità costitutiva della forza lavoro – potenza in un soggetto in carne e ossa e astrazione della merce in una produzione – e formula la tesi di un diritto di esistenza basato sull'inscindibilità della forza lavoro con la potenzialità dell'essere umano, sull'indivisibilità della libertà e dei diritti con il potere dei molti. Il diritto di esistenza è la lotta per affermare una vita sulle basi delle facoltà che la rendono viva – intellettuali, pratiche, linguistiche, corporee, psichiche e cooperative – e sono irriducibili a identità biologiche o politiche caritatevoli. Il diritto di esistenza «eccede la nuda vita», non rimanda a una sfera della mera sopravvivenza e non va ristretto nemmeno a una dimensione economica puramente redistributiva. La ricerca della dignità e dell'autonomia si afferma a partire dalla forza lavoro, considerata come la facoltà delle facoltà che esprime tanto la «personalità vivente» del singolo, quanto una possibilità universale e comune.

La forza lavoro è di tutti, di ogni individuo e di tutti i popoli, va protetta e liberata, reinventata, curata e inclusa. Il suo diritto all'esistenza va reso effettivo attraverso il reddito di base universale, la libertà di parola e espressione, la libertà dal bisogno e dalla paura, l'amore verso di sé, degli altri e per la futura umanità.

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Pagina 26

Ideologia californiana


L'ideologia californiana è il mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale yuppie su cui si fonda l'immaginario della Silicon Valley. La miscela di cibernetica, economia liberista e controcultura libertaria è il frutto della fusione tra la cultura bohémienne di San Francisco e la nuova industria hi-tech. In questo amalgama si rispecchia la fede nel potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie digitali, nella credenza che la robotica e l'automazione digitale renderanno inutile il lavoro. Oggi esprime la frontiera cognitiva sulla quale si collocano gran parte dei discorsi sulla «fine» o sul «futuro» del lavoro. Nell'ideologia californiana si afferma, infine, un paradigma dell'automazione che rimuove l'esistenza della forza lavoro per sostituirla con l'intelligenza automatica delle piattaforme digitali.

Questo discorso indica un futuro distopico mentre nel presente vincola il lavoro vivo – l'esperienza produttiva del vivere, del pensare e del fare – alla volontà dell'impresa che ha progettato e commercializzato un'innovazione tecnologica. La macchina agisce per il soggetto a cui è destinata, non è il soggetto a incorporare la macchina alla luce dell'uso che intende farne e per il quale è stata concepita e realizzata. La forza lavoro ha acquisito una nuova mansione: l'addestramento degli algoritmi. Tanto più gli algoritmi diventano artificialmente intelligenti, tanto più alla forza lavoro è negata l'intelligenza umana. L'intelligenza è finalizzata allo sviluppo dell'infrastruttura, non al potenziamento di chi la possiede: le donne e gli uomini che vivono e lavorano. La sua facoltà è a disposizione di chi l'acquista, non di chi la vende per avere in cambio un salario.

È emersa una cultura misantropa dove le macchine sono umanizzate perché assumono il ruolo della forza lavoro, mentre gli umani sono ridotti a strumenti di servizio. La soggettività della forza lavoro è trasformata in un supporto automatizzato, privo di desiderio, investimenti senza oggetto e esperienza. Il lavoro è un automatismo pulsionale intrecciato con gli algoritmi il cui effetto è controllare la sua attività, non lo sviluppo. Al termine di un processo fantasmagorico, l'algoritmo acquista un'intelligenza superiore a quella umana. Questa intelligenza è attribuita a una macchina che assume una vita propria, mentre il lavoratore è ridotto a un automa.

L'ideologia californiana è ispirata a un mimetismo di segno rovesciato rispetto al mito moderno di Prometeo dove la creatura artificiale assurgeva alla vita umana e l'umano usava la potenza della tecnologia per moltiplicare il suo potere sulla natura. Ora, invece, sono gli uomini a essere pensati come androidi e robot, vivono in un mondo claustrofobico, liberati dai limiti politici, fisiologici e sociali. È una liberazione paradossale che li spinge a rinunciare all'esercizio delle potenzialità, restando in ostaggio dei proprietari dell'innovazione tecnologica. Da loro si pretende obbedienza, prevedibilità e rispetto della psicometria elaborata attraverso le griglie di valutazione e gli algoritmi. Alle macchine è assegnata la potenza di stabilire verità incontrovertibili. Agli umani è addebitata la responsabilità dei loro fallimenti. L'automazione dovrebbe redimerli da queste colpe, ma in realtà li rende passivi, negando ambiguità, paradossi e situazioni indecidibili presenti nella vita quotidiana.

Questa automazione è eletta a giudice delle sorti di una democrazia che non perde tempo nella definizione di ciò che è democratico. A essa è affidato il compito di stabilire ciò che è meritevole nell'operato degli umani, dato che a questi ultimi mancherebbe la capacità di stabilire le priorità nella selezione delle competenze e la loro vita è il luogo dell'inautenticità, dell'errore e della corruzione. Le relazioni sociali impediscono di stabilire un ordine sociale «oggettivo», gli algoritmi permettono di ristabilirlo. L'automazione è considerata una mediatrice universale dei rapporti sociali e produttivi, mentre in realtà è una delega concessa a una classe di proprietari della tecnologia, «esperti» e «tecnici» che governano le macchine e stabiliscono la direzione del progresso.

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Pagina 33

[...] In epoca fordista la forza lavoro era tendenzialmente intesa come un «capitale variabile», mentre le macchine erano il «capitale fisso». Il valore del «lavoro vivo» era assorbito dal «capitale fisso». Oggi la forza lavoro può essere intesa come capitale fisso perché le macchine si adattano in maniera variabile alla forza lavoro. Il lavoro che, in precedenza, si svolgeva su una linea di montaggio, o in un ufficio, si è esteso alla durata del giorno e della notte. La forza lavoro non è venduta solo per un determinato numero di ore stabilite da un contratto, ma è dispensata in ogni momento. In passato la forza lavoro non poteva non diventare merce, oggi può anche non diventarlo e continuare a produrre plusvalore attraverso le piattaforme digitali. L'attività produttiva non è limitata al lavoro e produce un plusvalore di cui i produttori non sono consapevoli e non possono godere.

La nuova generazione delle macchine è diversa dal «macchinismo» analizzato da Marx. È l'interfaccia della vita attiva e dell'intelligenza sociale dentro e fuori i luoghi di lavoro. A differenza del macchinismo, l'automazione digitale non separa la macchina dalla forza lavoro, la cooperazione dalla divisione del lavoro. Le integra progressivamente valorizzando l'intenzionalità del soggetto umano al punto che si può immaginare un divenire macchina della forza lavoro e un divenire forza lavoro della macchina. Nella rivoluzione digitale questa relazione è intesa in senso miracolistico: visto che la forza lavoro è «superata», sulla scena restano solo le macchine. In realtà la «macchina combinata» esiste perché qualcuno continua a vendere forza lavoro e un altro la acquista. Non sono le macchine a produrre la forza lavoro, ma è la forza lavoro a farle vivere nel nuovo rapporto tra capitale fisso e capitale variabile. Tutto dipende dagli scopi per i quali le macchine sono prodotte e dall'uso politico dell'automazione. Nel caso in cui si voglia valorizzare la forza lavoro come facoltà cooperativa, rovesciando il mito del soggetto automatizzato, anche la creazione della tecnologia potrebbe essere diversa. Non più funzionale alla creazione di beni, servizi e merci, ma al potenziamento della cooperazione da cui tutto prende origine.

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Pagina 53

Quando l'algoritmo dipende da più capi


Le piattaforme digitali sono l'infrastruttura della mobilitazione totale, della rivoluzione logistica e della trasformazione della forza lavoro in folla e sono inserite in questa ripartizione dell'economia digitale:

- on demand economy, la forma generale del lavoro in un'economia digitale che funziona attraverso applicazioni (app economy) e piattaforme (platform economy): permette la disponibilità immediata della merce selezionata dai clienti/utenti collegati in rete (e-commerce);

- gig economy (economia dei «lavoretti»): sfrutta le potenzialità delle tecnologie per favorire una diversa organizzazione del lavoro basata sulla prestazione contingentata, un nuovo cottimo regolato attraverso un algoritmo;

- sharing economy («economia della condivisione»): la piattaforma digitale abilita le relazioni che sono in capo ai pari e crea modelli economici basati sull'accessibilità.


La base comune è la produzione e il trasferimento della conoscenza attraverso dati: il lavoro digitale. Sulle piattaforme si spostano le merci da un magazzino a un supermercato e obbligano la forza lavoro a rispettare tempi funzionali alla movimentazione efficiente; reclutano, organizzano e classificano gli individui rispetto alle loro «capacità» di eseguire una mansione; permettono agli estranei di interagire in una discussione; di affittare appartamenti o stanze ai turisti; informano, creano uno stile di vita o un gusto, elaborano saperi. Dal punto di vista soggettivo, le piattaforme promuovono comportamenti «creativi», responsabili e «innovativi», quanto una subordinazione personale rispetto ai proprietari degli algoritmi che le governano.

Le piattaforme sono almeno sei. L'elenco aumenterà man mano che la produzione, la vita sociale e la politica si organizzeranno attraverso l'economia digitale.

- piattaforme pubblicitarie come Google e Facebook che estraggono informazioni dai loro utenti per rivendere i loro profili sotto forma di spazi per la pubblicità;

- piattaforme cloud come Amazon Web Services che creano hardware e software per i mercati dipendenti dal digitale e li affittano alle imprese di ogni tipo e creano un monopolio sulla conoscenza;

- piattaforme industriali: General Electric o Siemens che costruiscono l' hardware e il software per abbassare i costi della produzione manifatturiera e trasformare i beni in servizi (l'Industria 4.0);

- piattaforme dei prodotti: Spotify genera profitti a partire dall'uso di altre piattaforme che trasformano una merce come la musica in un servizio e guadagnano attraverso la percentuale o la quota di sottoscrizione versata per abbonarsi al suddetto servizio;

- piattaforme di lavoro: Uber, Airbnb, le food tech Deliveroo o Foodora che organizzano la forza lavoro attraverso un algoritmo e mettono in collegamento clienti e attività commerciali traendo profitto attraverso la riduzione dei costi del lavoro;

– piattaforme logistiche che governano il commercio e lo spostamento delle merci su strada, in aria e in mare.


L'economia digitale è un'economia-mondo che segue la logica della delocalizzazione online all'estero [offshore outsourcing online], già esistente almeno dagli anni Ottanta, in particolare nel settore dei servizi e della manifattura per abbattere il costo del lavoro.

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L'esempio più clamoroso di lavoro-gioco è Facebook, la piattaforma pubblicitaria fondata da Mark Zuckerberg che sfrutta il lavoro digitale di due miliardi di persone iscritte al suo social network. Grazie a questa sterminata forza lavoro l'azienda è tra i primi dieci titoli del listino S&P 500 di Wall Street con un valore di mercato pari a 500 miliardi di dollari. Senza il lavoro digitale, Facebook non potrebbe vendere uno spazio virtuale e una merce specifica: i dati prodotti dalle interazioni tra persone in carne e ossa. Il tempo impiegato sulla piattaforma fa parte del lavoro eccedente non calcolato ai fini di un compenso dell'utente, ma fondamentale per determinare il valore di uno spazio venduto alle aziende interessate a pubblicizzare i propri servizi agli stessi utenti.

Con il manifesto Wages for Facebook, presentato all'Art Gallery dell'università della California di San Diego nel 2014, l'artista Laurel Ptak ha realizzato una spietata critica dell'economia politica del lavoro-gioco. Il testo parte da un assunto: ciò che su Facebook si chiama «amicizia» è lavoro non pagato. Ciò che sulla piattaforma si chiama «condivisione» è un furto. Tutte le relazioni sono trasformate in profitto. L'entusiasmo compulsivo generato dall'uso della piattaforma porta gli utenti a diventare involontari sostenitori del nuovo imperativo: il lavoro non pagato è un'attività naturale, inevitabile e persino appagante. Ogni istante passato online rafforza la convinzione che il lavoro è un gioco e gli umani sono potenziali amici, non lavoratori in cerca di un reddito e in conflitto con chi non lo riconosce.

Nascondendo il lavoro il capitalismo digitale estorce lavoro gratis e si fa desiderare, invece di essere combattuto. Ottenere un reddito di base da Facebook (e da tutto il capitalismo delle piattaforme) è una «prospettiva politica» che individua nella mobilitazione totale della forza lavoro la chiave dell'accumulazione del capitalismo digitale. Tuttavia è difficile considerare il lavoro-gioco come un lavoro salariato. Nella prospettiva di Laurel Ptak, va pagata l'attività, non tanto o non solo l'eventuale opera regolata dagli algoritmi di proprietà della piattaforma. Ottenere un reddito di base, anche da Facebook, significherebbe interrompere la riproduzione della condizione di lavoratori senza compenso.

Sulla spinta del dibattito sul reddito di base nella Silicon Valley, tre anni dopo il manifesto di Laurel Ptak, anche Mark Zuckerberg ha riconosciuto la necessità di questa misura. Lo ha fatto nel corso di un viaggio in Alaska, uno Stato dove è applicata una variante del reddito di base finanziata con le risorse petrolifere. «Dovremmo esplorare idee come il reddito universale di base per dare a tutti una sponda di sicurezza per cimentarsi in cose nuove». Non è chiaro, al momento, in che termini Zuckerberg potrebbe farlo. Se finanziando un apposito fondo oppure, nell'ipotesi suggestiva ma astratta di Laurel Ptak, su base orizzontale e comunista. Sta di fatto che se pagasse il lavoro guadagnerebbe 0,30 dollari. A quadrimestre. Il guru farebbe la stessa esperienza degli utenti che lavorano gratis per lui.

Zuckerberg potrebbe anche ispirarsi alla sperimentazione della start up Generation Y a 0akland: un reddito di base da mille dollari al mese per due anni erogato a 600 famiglie. L'esperimento ha rivelato che i beneficiari non smettono di lavorare, ma usano l'importo per migliorare la qualità della vita e la sicurezza sociale sul mercato. Il problema è politico: tale reddito è erogato da una piattaforma digitale e non da una collettività. È il risultato di un patto privato tra il singolo cittadino e una piattaforma e non di un patto tra una collettività pubblica, un capitalista e il cittadino. Rispetto al discorso di Laurel Ptak, la differenza è considerevole: nel suo caso, il reddito sarebbe l'esito di una conflitto e di una contrattazione politica, nel caso della Silicon Valley sarebbe un'erogazione filantropica o un investimento nel «capitale umano» di una porzione di popolazione attiva, non determinabile su base sociale ma su quella dell'iscrizione a una piattaforma proprietaria. Il reddito andrebbe al prosumer, non alla forza lavoro, all'utente e non al lavoratore, a chi ha una connessione internet e non a chi non può permettersela.

Il reddito di base cambia di senso: non allontana l'autista di Uber dal ricatto delle paghe da fame, in attesa di un lavoro migliore o del tempo necessario per una vita degna. Al contrario, lo spingerebbe ad accettare un'erogazione monetaria «sgocciolata» dai venture capital e a continuare a lavorare per una piattaforma, all'interno di un ecosistema che tende utopisticamente a sostituire lo Stato. Il welfare pubblico diventerebbe un'agenzia al servizio dell'automazione, mentre i diritti sociali sarebbero legati alla partecipazione della vita delle piattaforme. Invece di considerarlo come uno strumento per cancellare il ricatto del lavoro povero e permettere la liberazione della forza lavoro, il reddito di base è inteso come un sussidio che permette al lavoratore di sopravvivere in un'economia dei «lavoretti» a basso salario, alternando attività per più piattaforme. Invece di imporre una disciplina fiscale che obblighi le piattaforme a interrompere il loro modello di evasione e elusione fiscale, traendo così le risorse per finanziarie anche un reddito di base, questa misura diventa un ammortizzatore sociale privato erogato a discrezione delle aziende.

Il reddito di base non va trasformato in un sostegno alla riproduzione del lavoro gratuito a beneficio delle piattaforme che finanziano tale misura perché è una misura universalistica e incondizionata da finanziare attraverso le banche centrali e le politiche economiche e fiscali delle autorità nazionali e sovranazionali.

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In Italia la soluzione al dilemma, tipico del lavoro occasionale, potrebbe essere triplice: disboscare la selva dei contratti precari (poco meno di cinquanta), istituire una legge sul salario minimo orario anche per chi è contrattualizzato in maniera intermittente ed è estraneo ai contratti nazionali; creare un reddito di base che tuteli il soggetto anche fuori dal rapporto di lavoro, e non solo per i periodi di disoccupazione o inattività. Su queste basi potrebbe essere istituito un contratto a termine, o part-time, con norme contro il licenziamento illegittimo, il più garantista possibile rispetto all'intermittenza del gig work, diverso dal lavoro a chiamata, il lavoro in somministrazione, i co.co.co o i «nuovi voucher» del contratto a prestazione. Nel settore food delivery si potrebbe prevedere una redistribuzione del monte ore, o del numero delle consegne, tra i fattorini in modo da garantire a ciascuno un reddito dignitoso. Per farlo occorre una gestione cooperativa dell'algoritmo diversa da quella esistente, ricorrendo a una banca del tempo e a una redistribuzione dei carichi di lavoro all'interno di un'azienda ispirata all'idea del «lavorare meno, lavorare tutti». Andrebbe riconosciuto un potere di contrattazione dei rider che oggi manca, sia perché questi lavoratori sono intermittenti, sia perché le piattaforme non riconoscono il diritto all'associazione dei loro «collaboratori» e, anzi, lavorano per separarli.

L'unica realtà, al momento, ad essere riuscita a contrattare con una piattaforma digitale è SMart in Belgio. Questa cooperativa di freelance è la più grande in Europa (90 mila soci), è presente in sette paesi e ha indotto Deliveroo a stipulare un accordo attraverso il quale ha imposto di non pagare più a corsa, il turno di servizio deve durare minimo tre ore parametrate sul salario minimo, 10 euro netti. Deliveroo paga l'affitto della bicicletta e del cellulare. L'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, la responsabilità civile e professionale è pagata da SMart. A questi elementi si aggiunge un ingegnoso sistema di negoziazione in tempo reale, uno dei primi usi sociali dell'algoritmo. È stata creata una piattaforma che permette di fare dialogare gli algoritmi con la forza lavoro. Il rider riceve un codice da Deliveroo. Questo codice si innesca automaticamente e apre una posizione contrattuale con SMart. Funziona anche la domenica quando nessuno lavora. Questa automatizzazione completa attraverso un accordo, ma per farlo è necessario che queste piattaforme aprano i codici che normalmente sono chiusi.

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forza lavoro




La forza lavoro non cresce sugli alberi


La forza lavoro è il prodotto storico di un'attività che può essere descritta nei termini di un rapporto sociale. In questo rapporto rientra la relazione tra un datore di lavoro e un lavoratore; tra lo Stato e un precario/disoccupato; tra il mercato e le forme giuridiche del lavoro subordinato o autonomo; tra la piattaforma digitale, il fornitore, il cliente e il lavoratore.

Nel rapporto sociale si esprime un rapporto di potere. Tra i soggetti che mettono all'opera e governano la forza lavoro esiste una relazione conflittuale dove, nel caso del lavoro dipendente, c'è un potere e, dall'altro lato, una subordinazione; nel caso del lavoro autonomo, c'è un soggetto che si obbliga a realizzare un'opera o un servizio per un committente che possiede il potere di pagare la sua opera. L'automazione non è estranea a questo rapporto: nel caso del lavoro digitale, la forza lavoro è soggetta all'enorme potere delle piattaforme che possono disconnetterle con un click. Un'analoga asimmetria di poteri è presente nel campo della valutazione, del controllo, della certificazione delle prestazioni: attività diffuse in tutti i campi, a cominciare dalla scuola e dalla ricerca universitaria per finire all'organizzazione dei corrieri in bicicletta.

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imprenditore di se stesso




Divenire start up


Nel primo decennio della crisi si sono moltiplicati gli inviti a diventare imprenditori. Visto che il lavoro è sul viale del tramonto, e presto o tardi sparirà del tutto, l'individuo potrebbe crearne uno a propria immagine reincarnandosi in un'impresa. Questa credenza ha portato alla creazione di un'entità mitologica, metà umana e metà impresa, composta da entità opposte: l'individuo, ovvero un corpo e una mente che possiede una forza lavoro; l'impresa, ovvero un'organizzazione composta da infrastrutture e tecnologie, relazioni e accordi commerciali e giuridici, prodotta dalla cooperazione tra più persone con ruoli diversi nella creazione di profitto in cambio del salario.

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cosa può una forza lavoro


La forza lavoro si afferma nel movimento della controversia sulle cose e sulle persone, sul valore d'uso e valore di scambio, sul lavoro vivo e lavoro astratto. Sottratta alla mera definizione di merce, all'esecuzione di una mansione contrattuale o della spinta compulsiva alla visibilità personale, la forza lavoro interrompe il passaggio senza attriti tra la personalizzazione della cosa e la cosificazione della persona, dimostra che il diritto non è l'applicazione unilaterale di una norma e che il potere non è l'imposizione unilaterale del comando su una persona. La forza lavoro mette in discussione la distribuzione dei rapporti di potere e afferma sia la disponibilità della potenza a essere appropriata da parte di qualcuno sia il suo essere una facoltà a disposizione di tutti che non appartiene a nessuno.

La controversia sulla forza lavoro è un conflitto che fa emergere un dissidio tra grandezze e singolarità eterogenee nella razionalità economica, giuridica e politica. Il nuovo non va cercato fuori dal dispositivo in comunità immaginate o originarie, in istanze trascendentali come popolo, sovranità, nazione, classe o nell'automazione che considera la forza lavoro un'appendice organica dell'algoritmo. Il nuovo va cercato nella tensione tra il dentro e il fuori dell'assemblaggio dei dispositivi che governano la vita, sulla soglia dove avvengono rotture e si producono differenze. Tale conflitto investe gli aspetti decisivi della forza lavoro: la produzione, il contratto, la subordinazione e la libertà. Coinvolge, e sconvolge, l'etica dove si afferma la soggettività ed emergono le definizioni di ciò che è buono o cattivo per la vita attiva.

È buona, forte, libera la vita che usa la forza lavoro, per quanto è nella sua capacità, per darsi una regola di condotta, emanciparsi e autodeterminarsi rispetto a un desiderio cosciente di sé che tende ad appropriarsi di qualcosa. È cattiva, subordinata, schiava la vita che vive nella casualità degli incontri, subisce le conseguenze di questa passività e patisce gli effetti della propria impotenza evocando il desiderio di essere un padrone. La composizione dei rapporti di forza negativi aumenta la consapevolezza di tale subordinazione, ma distrugge la vita con il risentimento contro se stessi e gli altri, identificando nella libertà un altro modo di essere schiavi. Una composizione positiva di questi rapporti di forza permette l'espansione della potenza insieme a quella dell'altro. Entrambe si uniscono all'oggetto desiderato.

La distinzione tra filosofia della forza lavoro, filosofia del lavoro e teoria del capitale umano rinvia alla differenza tra l'etica e la morale. La prima si rivolge all'uso di una potenza che il singolo possiede e può usare insieme agli altri; la seconda stabilisce l'obbedienza a una legge istituita la cui finalità è l'obbedienza. Si obbedisce a un compito, a un imperativo, a una mansione a volte fondati e indispensabili, altre volte espressione di un dominio. L'obbedienza a una legge morale, sociale o produttiva non apporta alcuna conoscenza, libertà o potenziamento a chi usa la forza lavoro per vivere. Nella filosofia della forza lavoro, invece, non cessa di emergere una differenza tra il comando che impone l'obbedienza e la conoscenza e la pratica di una potenza a disposizione della vita. Non si può che confliggere con il lavoro e il comando che si esprime attraverso di esso.

La controversia sulla forza lavoro dimostra che il diritto non è l'applicazione unilaterale di una norma e il lavoro non è l'imposizione del potere su una persona. In quanto espressione della forza lavoro, la controversia è un'operazione che irrompe nell'equilibrio formale tra il lavoro considerato come merce e il lavoratore come funzione di una produzione. Il lavoro non è un universo separato dalla vita e dalle sue forme, regolato solo dal diritto del lavoro o commerciale. L'equo scambio giuridico e commerciale non risolve il problema di fondo della giustizia: chi decide sul suo diritto? E chi del suo valore?

La controversia emerge nelle figure dello schiavo, del lavoratore, del proletario, del freelance, del precario, del disoccupato, dell'imprenditore di se stesso e in tutte le figure del lavoro contemporaneo. Si incastra nelle falde più profonde della soggettività, le attraversa quando la forza lavoro è trasformata in merce, riverbera nel rapporto sociale sul quale è costruito il contratto, si materializza nel conflitto tra l'etica che denuncia ciò che ci separa dalla potenza della forza lavoro e la legge che oppone i valori di Bene e Male concependo il soggetto come il risultato dell'obbedienza ai criteri immodificabili dell'impresa.

La trasformazione della vita nel simulacro automatizzato della rivoluzione digitale non cancella l'esistenza del modo in cui essa esiste ed esercita una forza lavoro, in base alla potenza che le appartiene in un dato momento. Da qui l'importanza della questione etica, ovvero del modo in cui tale potenza si individua e del modo in cui si libera da un'individuazione specifica. Viviamo in un non sapere: non sappiamo di cosa è capace una forza lavoro, non sappiamo fino a dove può arrivare una potenza. Dall'inizio, e fino alla fine, la nostra esistenza è determinata da affezioni passive, separata dalla sua potenza, da ciò che può. E tuttavia, attraverso la conoscenza, la pratica e la sperimentazione, esiste un modo per mettere alla prova il nostro non sapere. La vita resta aperta a ogni determinazione, anche quando sembra non averne più nessuna in una rivoluzione digitale che ambisce a ridurre l'imprevisto a un'automazione. Non sappiamo mai quale sia la potenza, come si acquisisce, dove cercarla. E tuttavia questa potenza è all'opera, altrimenti noi stessi non saremmo in vita. Se non ci sforziamo di diventare attivi, non lo sapremo mai.

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