Copertina
Autore Felice Cimatti
Titolo La mente silenziosa
SottotitoloCome pensano gli animali non umani
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2002, Futura , pag. 240, dim. 140x210x16 mm , Isbn 978-88-359-5160-5
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe scienze cognitive , filosofia , biologia , evoluzione , sensi , mente-corpo
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Indice


  9 Introduzione. I pensieri del gatto


 15 I. Cosa vede una rana, quando vede una mosca?

    Introduzione, p. 15
    Percezione e azione, p. 17
    Non vedere oltre le mani, p. 21
    La realtà degli oggetti, p. 25
    Ambiente e mondo, p. 29

 34 II. Quando una "banana" diventa un telefono

    Introduzione, p. 34
    Strumenti e azione, p. 36
    Un problema imprevisto, p. 42
    Fantasia, p. 46

 52 III. Pensare parole e pensare concetti

    Introduzione, p. 52
    È cosi, o soltanto sembra cosi?, p. 54
    Come nasce un concetto.
        Parte prima: dagli occhi alla mente, p. 58
    Come nasce un concetto.
        Parte seconda: dalla mente agli occhi, p. 66
    Obiezione e contro obiezione, p. 69

 73 IV. Comunicazione senza linguaggio

    Introduzione, p. 73
    Spazio-tempo mentale e comunicazione, p. 76
    =Noi= senza "io", p. 79
    La funzione mancante: pedagogia ed
        autoriferimento, p. 86

 91 V. Perché Proust non era una rana?

    Introduzione, p. 91
    Memoria naturale, p. 92
    La meccanica del ricordo, p. 94
    Il tempo della mucca, p. 97
    I tempi o il tempo della mente?
        Storia di un gatto, p. 100
    Cosa è un ricordo?, p. 104
    Il futuro (e il passato) di Felix, p. 108
    Tempo memoria e linguaggio, p. 111

114 VI. Io e gli altri

    Introduzione, p. 114
    =Io= senza "io", p. 115
    Ma quello sono io?, p. 122
    Segni per i sogni, p. 129

134 VII. Della mortadella e della speranza.

    La vita mentale degli animali non umani
    Introduzione, p. 134
    Storia naturale di una speranza, p. 136
    Lontano dagli occhi lontano dal cuore, p. 140
    Volontà senza io, p. 146
    C'è qualcuno in casa?, p. 151

154 VIII. Al di qua del bene e del male

    Introduzione, p. 154
    Basi biologiche della morale?, p. 155
    Non è cattivo, è solo un leone, p. 157
    Appunti per una storia biologica della morale, p. 159
    Al di qua della morale, p. 162
    Libertà di scelta o di conoscenza?, p. 167
    Perché il gatto non è libero, p. 170

172 IX. L'umano(ide) non umano

    Introduzione, p. 172
    Pensare alle caramelle, e pensare ai numeri, p. 173
    Vedere quel che non si può vedere, p. 176
    C'è uno sbaglio, ma non chi ha sbagliato, p. 179
    "Chantek" l'orango, p. 182
    Nascita di uno strumento, p. 185
    Dalla =paura= alla "paura", p.188

191 X. Così simili, così diversi

    Introduzione, p. 191
    Specifico («pensiero verbale») vs. generico
        (pensiero percettivo), p. 193
    L'ambiente umano, p. 198
    Infanzia e linguaggio, p. 204
    Della consapevolezza e dei suoi limiti, p. 209

211 XI. Conclusioni: e se Cartesio avesse ragione?

    Introduzione, p. 211
    L'anima della macchina, e la macchina dell'anima, p. 212
    Un polipo può essere ateo?, p. 217
    Come lo sai che pensa?, p. 223
    La mente silenziosa, p. 226

229 Note

230 Bibliografia

 

 

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Pagina 9

Introduzione

I pensieri del gatto


Il gatto è sulla poltrona, acciambellato, con le palpebre appena socchiuse, dormicchia. A chi non è venuto in mente di chiedersi almeno una volta che cosa stia pensando, in quei momenti, il nostro gatto? Che cosa stia pensando, non se stia pensando. Perché il gatto, come il cane o il delfino, ma anche il ragno o l'ape, sicuramente pensa, sicuramente ha una mente. Il vero punto scientifico in discussione, ormai, è un altro: il suo pensare in cosa consiste? È in qualche modo simile al nostro, a quello che sperimentiamo noi stessi, quando ad esempio pensiamo a come spiegare ad un bambino come si usa una canna da pesca, o a come fare per assemblare i pezzi della nuova libreria che abbiamo comprato smontata (per risparmiare), o a quando speriamo che fra tre giorni non piova, perché dobbiamo fare una gita in montagna, e cosi via?

Oggigiorno, per un peraltro sacrosanto movimento in favore dei diritti degli animali non umani è piuttosto diffusa l'idea che il loro pensiero sia sostanzialmente simile al nostro (Griffin, 1976), che sia solo quantitativamente diverso dal nostro; cosi, detto in modo sommario ma intuitivo, se un pipistrello ha una intelligenza 5, poniamo, l'animale umano avrebbe una intelligenza 10. Maggiore, ma collocata su una stessa linea. In questo libro si sostiene una tesi del tutto diversa: l'intelligenza dell'animale umano non è maggiore (o minore, se si vuole) rispetto a quella degli altri animali, bensi di un tipo sostanzialmente diverso. L'animale umano pensa in un modo, gli altri animali in tutt'altro. O meglio: se si tenesse conto soltanto delle capacità percettive e associative tutti i mammiferi avrebbero una intelligenza sostanzialmente simile. Come sostiene Macphail: «c'è significativamente poca evidenza di differenze nelle capacità intellettive fra le diverse specie [umana e non umane, in particolare mammiferi e uccelli]» (Macphail, 1996, p. 280). Al contrario, come il titolo di questo libro suggerisce, c'è una differenza radicale, che consiste nel fatto che il nostro pensare, il pensare specificamente umano, ossia tipico e caratteristico della nostra specie animale, Homo sapiens sapiens, fa tutt'uno con il linguaggio, mentre negli altri animali (con la parziale eccezione di quegli animali a cui è stato insegnato un linguaggio artificiale; cfr. infra, CAP. IX) il pensare è separato dal linguaggio. Per questo le loro menti sono silenziose, perché non pensano nel loro linguaggio naturale, cosi come invece accade nel caso dell'animale umano. Nel seguito di questo libro cercheremo di mostrare in dettaglio come e cosa possa pensare una mente di questo tipo. Il che richiederà, naturalmente, un continuo confronto con la mente dell'unico animale di cui sappiamo, al momento, che non ha una mente silenziosa, ossia con la nostra mente di animali umani. Per capire la mente degli animali non umani dovremo anche, in un continuo muoversi fra somiglianze e differenze, cercare di capire come è fatta la mente linguistica, la mente dell'animale umano (cfr. infra, CAP. X).

Va bene, si potrebbe subito obiettare, ma in tanti casi il nostro pensiero non ha nulla a che fare con il linguaggio: ad esempio, quando devo montare i pezzi della libreria non devo parlare a nessuno, me ne sto li zitto zitto a provare a combinare i diversi pezzi. Questo è un equivoco diffuso, credere che basti compiere una certa attività tacendo perché questa non implichi in qualche modo il linguaggio. Equivoco che discende da un altro, ancora maggiore: l'idea che il linguaggio sia essenzialmente un sistema di comunicazione (cfr. infra, CAP. IV).

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Pagina 28

Il mezzo più potente di cui la nostra mente disponga per fare questa operazione è il linguaggio, in particolare il linguaggio interiorizzato, quello in cui si articola il nostro pensiero. Congo vede il mondo come un insieme di eventi, in cui gli oggetti sono potenzialità d'azione, inseparabili da quegli stessi eventi. Per vedere un frutto semplicemente come un frutto, ad esempio, oltre che come un oggetto che attira il nostro sguardo, che ci spinge ad afferrarlo, a mangiarlo, è necessario staccarlo da questo insieme di attività, isolarlo: serve appunto nominarlo. Con il linguaggio impariamo a separare la percezione dall'azione. In questo senso anche l'immaginazione, nella nostra mente di animali semiotici, è subordinata al linguaggio; per immaginare mentalmente una mela come entità isolata - passo preliminare e necessario per poi poterla rappresentare, o usare in un esperimento mentale - devo prima aver avuto modo di staccarla dal groviglio di percezioni, azioni, emozioni in cui altrimenti è strettamente avviluppata. E per fare questo passo, per ritagliare i suoi contorni da questa scena ricca e complessa, cosi ricca e complessa da nascondere i particolari che la compongono, la nostra mente dispone delle parole, in particolare delle parole usate per parlare a sé.

In questa prospettiva l'immaginazione, l'estetica e probabilmente anche le stesse immagini oniriche, non costituiscono una premessa del linguaggio, ma semmai una loro conseguenza (cfr. infra, CAP. VI). Per immaginare abbiamo molto più bisogno delle parole che della percezione; almeno per immaginare 1) oggetti in quanto tali, con forma e colori autonomi, 2) in situazioni diverse da quelle in cui li abbiamo già percepiú. Congo, al contrario, è nella condizione paradossale di vedere solo con gli occhi; di conseguenza tutta la sua vita mentale non potrà andare oltre il visibile. Congo non produce immagini di oggetti perché pur vedendoli non è capace di fissare soltanto su di essi la sua attenzione, di isolarli da tutto il resto del visibile. Ma questo, infine, solleva un'ulteriore domanda: come vede il mondo Congo? La nostra risposta, detto con nettezza, è che Congo non vede, né può vedere il mondo, perché non dispone di uno strumento interno per tematizzare il mondo in quanto qualcosa di separato da sé; Congo, semmai, è tutt'uno con il mondo. Solo chi pensa, immagina, e quindi vede attraverso le parole può tematizzare il mondo.

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Pagina 35

Un oggetto, per un essere umano, è una entità la cui esistenza, nella sua mente, non si esaurisce nel momento della percezione; al contrario, proprio perché un oggetto è autonomo, perché non dipende da lui, proprio per questo può essere usato nell'immaginazione, può essere evocato anche quando nulla ne suggerisce la presenza nel campo percettivo. In questo senso gli animali non umani non vivono in un mondo di oggetti: li vedono, li odorano, li mangiano, li evitano e cosi via, ma non pensandoli come oggetti, bensi come momentanei prolungamenti delle loro azioni nel mondo, come terminali dei loro sguardi (cfr., supra, CAP. I, la figura del ciclo funzionale della percezione), come aspetti del quadro percettivo immediato da evitare o da inseguire, e cosi via. Queste entità non sono oggetti proprio perché la loro esistenza - nelle menti degli animali non umani - è temporanea, è costretta nell' ambito della percezione e dell'azione immediata, perché non hanno una condizione autonoma dal loro essere in relazione con un animale che interagisce con loro. L'essere oggetto, allora, non dipende dal quel che si vede, ma dal modo in cui si pensa quel che si vede. E, a partire da quanto abbiamo sostenuto nel capitolo precedente, questa differenza ci pare legata al fatto che un essere umano non soltanto vede un oggetto, come fa un gatto o una rana, un'ape e una triglia, ma anche lo nomina, e già questa è una attività più difficile da ritrovare nel mondo degli animali non umani, ma soprattutto - e questo solo lui sa farlo - pensa a quell' oggetto nominandolo. Posso pensare alla ciotola anche quando non la vedo perché per evocarla basta ripetere fra me e me il nome di quell'oggetto. L'idea che stiamo sostenendo, lo ribadiamo perché è un punto importante, è che anche quando rievoco nella mente una immagine, ad esempio proprio quella della ciotola, ebbene quella stessa immagine posso pensarla ­ anche senza rendermene conto - soltanto attraverso una mediazione linguistica. La parola, infatti, accorpa e compatta la rete di associazioni in cui è avviluppata l'immagine: senza questa azione ad un tempo di separazione e di oggettificazione, quella rete sarebbe stata inestricabile, e quindi l'immagine mentale di quell'oggetto - in quanto oggetto - non mi sarebbe potuta venire in mente. Qui, in questa capacità specificamente umana di pensare nel linguaggio, andrà cercata la profonda diversità fra la capacità umana di immaginare ed usare strumenti rispetto agli altri animali.

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Pagina 65

Più sopra ci eravamo posti due domande: come si forma un concetto e che ruolo ha, in questo processo, il linguaggio? Possiamo ora provare a rispondere ad entrambe. Un concetto percettivo, relativo cioè a entità direttamente percepibili, è innato o si forma mediante ripetute esperienze con quelle entità (e nel primo caso, quello di un concetto innato, si sarà originariamente formato come un concetto percettivo, per poi fissarsi come capacità discriminativa innata; cfr. Lorenz, 1941). Il concetto che ne risulta, come l'esempio della rete neurale ha mostrato, non ha la forma di una immagine o di una descrizione linguistica, bensi è uno schema di attivazioni e inibizioni fra le unità e le connessioni della rete. Perché un concetto di questo tipo si formi, è ancora l'esempio della rete a mostrarlo in piena evidenza, non è necessaria la mediazione del linguaggio. Più in generale è confermato - se ce ne fosse ancora bisogno - che anche gli animali non umani possono, e debbono se vogliono sopravvivere - organizzare la loro esperienza con l'ambiente sotto forma di concetti, ossia che sono delle menti. Ma menti associative, non semiotico-linguistiche: «dimostrare che esistano forme di apprendimento fra i vertebrati che si basino su meccanismi diversi da quelli associativi è estremamente difficile [...] [;] la formazione di associazioni [percettive] costituisce il cuore delle capacità di apprendimento degli animali. [...] Questi meccanismi permettono agli animali di individuare la struttura causale generale del proprio ambiente; non sorprende, quindi, che i meccanismi associativi siano i mezzi cognitivi principali utilizzati dagli animali per il problem solving» (Macphail, 1996, p. 285).

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Pagina 72

Un'ultima precisazione, sui concetti linguistici. Quando diciamo che il concetto di "neve" non corrisponde semplicemente ad una esperienza con la neve, ma vi si condensano anche esperienze di altro tipo, tradizioni, teorie meteorologiche e cosi via, stiamo sostenendo che questo concetto è legato piú che alla percezione ad altri concetti linguistici. Questi formano una rete. Se quindi per pensare il concetto di "neve" è necessario passare per la parola "neve", allora quel concetto, in realtà, è la stessa cosa del significato della parola "neve". Il nostro tipico modo di pensare è per significati, mentre quello tipico delle menti non umane è per concetti percettivi. È questa, infine, la nostra risposta alla obiezione iniziale: siamo sicuri che nessun animale non umano possa pensare i nostri stessi concetti perché non dispone del mezzo - un linguaggio complesso e articolato come quello umano - per andare oltre la diretta percezione dell'ambiente, e quindi per pensare anche quello che direttamente non si vede, dal significato di "causa" a quello di "bello" a quello di "Dio".

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Pagina 74

Ma perché insistiamo tanto sull'idea che comunicare non è sinonimo di trasmettere? Perché se sappiamo - come oramai sappiamo bene - che il nostro cervello è una immensa rete .cor continua di nodi e connessioni, allora quelli che .cor chiamiamo pensieri - pensando a qualcosa come degli speciali oggetti della mente ­ semplicemente non possono esistere in questa forma. Solo ammettendo l'esistenza di entità di questo tipo, infatti, è possibile pensare alla comunicazione come a qualcosa che ha che fare con la trasmissione, e alla mente come una specie di salvadanaio di pensieri-monetine; e ancora, solo sulla base di questa premessa è possibile attribuire agli animali non umani pensieri come quelli che può avere una mente umana, una mente linguistica. Il punto di partenza, quindi, dev'essere la consapevolezza che nel nostro cervello le esperienze sono rappresentate in modo diffuso, come abbiamo visto nella rete neurale del capitolo precedente. Propriamente, le esperienze, i pensieri, i ricordi non stanno da nessuna parte, perché non sono cose; sono schemi di attivazione di una rete di entità - i singoli neuroni - che, essenzialmente, possono eccitare o inibire altri neuroni (oltre che stare, apparentemente, in quiete). Questo significa che quando rievochiamo mentalmente una esperienza passata, ad esempio, non ne stiamo tirando fuori da qualche cassetto della memoria l'immagine corrispondente; in realtà si sta riattivando la (stessa?) rete che, allora, reagì a quella esperienza con una certa configurazione di attivazione. Se ci si pensa questo significa che il ricordo non stava li già formato, come appunto la fotografia nell'album, in attesa di essere rievocato, ma che è come se ogni volta si riformasse, come se rivivessimo quell'esperienza.

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Pagina 107

Torniamo alla nostra rana, allora, e alla domanda iniziale: perché ancora non si conosce una rana che, nel mondo degli anfibi, sia paragonabile a Proust? Per (almeno provare a) essere un Proust è intanto necessario disporre degli elementi di base di una narrazione storica, soprattutto se autobiografica, i ricordi; ma se anche per disporre dei ricordi serve - come abbiamo cercato di mostrare - la mediazione del linguaggio, e in particolare un linguaggio usato per parlare di sé, allora la rana, che come tutti gli animali non umani è in grado di usare il suo linguaggio naturale soltanto per comunicare su eventi esterni, non disporrà nemmeno dei ricordi da (eventualmente) raccontare; ossia, senza linguaggio interiore non è capace di trasformare il suo tessuto mnemonico in una costellazione di ricordi. E questa è la prima parte della risposta alla nostra domanda.

Per rispondere alla seconda parte della nostra domanda dobbiamo ora chiederci come si forma - disponendo degli elementi da assemblare insieme - una storia. Possiamo immaginare i singoli ricordi, ogni «piccola percezione» come dice Leibniz, come una perlina traforata. Di per sé le perline non formano una collana. La nostra idea è che la memoria di Felix sia qualcosa di simile ad un mucchietto di queste perline; in realtà, per quello che abbiamo appena detto, questa immagine è fuorviante, perché ogni perlina è un' entità definita, chiusa, mentre abbiamo sostenuto che nella mente di Felix, come in quella della rana e degli altri animali non umani, non sono presenti ricordi di questo tipo, bensi solo quelli impliciti, che si condensano in un fare, ricordi che non possono essere descritti come un sapere di avere un certo ricordo. Ma ammettiamo che qualcosa del genere esista egualmente nella loro mente. Com'è affatto chiaro le singole perline traforate, da sole, non possono combinarsi a formare una collana; ci vuole un filo che le tenga unite. Che succede invece alla memoria di Felix? Talvolta, grazie ad un qualche stimolo, un determinato ricordo improvvisamente si impone alla sua attenzione, e così può - per semplice associazione - richiamargliene altri alla mente. Ma questa, con tutta evidenza, non è ancora una storia. Al piú si tratterà di un frammento di una storia, anche se questo modo di esprimersi è improprio, perché Felix non dispone della capacità di espanderlo in una storia completa; e allora quel ricordo non potrà nemmeno essere detto un frammento di una storia, dal momento che nel suo orizzonte cognitivo non è prevista la possibilità di costruire storie. Il suo padrone, invece, ha a disposizione un modo per mettere insieme quelle perline: il pensiero verbale. Il suo linguaggio gli permette, come il filo rispetto alle perline, di tenere uniti piú ricordi, in modo che formino un insieme coerente, una storia appunto. Senza linguaggio interiore, allora, Felix non avrà né ricordi né la capacità di metterli insieme a formare una storia. Non si dà il caso che una rana provi ad imitare Proust perché una simile eventualità non può darsi, perché non sussistono le condizioni perché qualcosa del genere accada.

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Pagina 134

VII. Della mortadella e della speranza. La vita mentale degli animali non umani


Introduzione

Nel capitolo precedente abbiamo visto come sia difficile sostenere che gli animali non umani siano, oltre che degli =io= - come tutto ciò che è capace di movimento organizzato ed autonomo, e cioè ragni e delfini, esseri umani e robot semoventi - anche degli "io". "Io" che, è importante insistere su questo punto, non è una caratteristica speciale della nostra mente; noi animali umani siamo un "io" perché possiamo raccogliere tutto quello che accade all'=io= che ciecamente e silenziosamente siamo nella storia dell"'io" che abbiamo dal momento in cui, e finché, possiamo dire questa stessa parola. L'"io", quindi, non è qualcosa, non è identificabile in un pezzo del nostro cervello che in quello dei ragni, ad esempio, mancherebbe, o che in quello degli scimpanzé sarebbe piu piccolo. L'"io" non è una entità che si può essere in misura maggiore o minore. L'animale umano ha un "io" perché, a partire dalla pedagogia linguistica, e dall'introiezione nella sua mente del linguaggio degli adulti, ha imparato a parlare di sé a sé: questo è il suo "io", null'altro. Ora, se uno scimpanzé è un =io= ma non un "io", che forme assumerà la sua vita mentale? Come saranno i suoi progetti, le sue speranze, le sue paure, i suoi rimorsi, i suoi amori?

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Pagina 172

IX. L'umano(ide) non umano


Introduzione

Proviamo a riassumere in una formula, che ha il difetto d'essere sommaria ma ha il pregio di essere esplicita e netta, il senso complessivo della proposta teorica di questo libro: l'animale umano è umano in quanto è animale linguistico, in quanto il linguaggio è il principale strumento di «modellazione» della sua mente (Sebeok, 1998, p. 25): in questo senso l'aggettivo "umano" ha un significato sostanzialmente equivalente a "linguistico". La mente di un animale non umano, invece, è modellata dalla percezione, e dal ricordo e dalla rielaborazione delle esperienze percettive. C'è, tuttavia, un'ulteriore possibilità che questa formula permette di ipotizzare, quella di un animale non umano addestrato intensivamente all'uso di un linguaggio più complesso del suo linguaggio naturale, come quello della scimpanzé Sarah che abbiamo più volte incontrato nei precedenti capitoli (in realtà c'è anche un' altra possibilità, quella di un animale umano che non ha imparato a parlare, come nel caso dei cosiddetti bambini lupo - cfr. ad esempio Malson, 1964 - tema che tuttavia affronteremo nel CAP. X).

Il caso di questi animali è estremamente importante, perché dimostra come l'umanità dell' Homo sapiens non sia circoscritta alla sua dotazione genetica. Un essere umano che non sia stato esposto, durante l'infanzia, ad una lingua storico-naturale, non sviluppa l'intero spettro dei comportamenti che sono caratteristici, biologicamente caratteristici, dell'animale umano: non sarà in grado, ad esempio, di porsi problemi morali, né sarà capace di pianificare progetti complessi che si estendano nel futuro remoto. La nostra umanità, cioè, si completa nel momento in cui il progetto genetico che portiamo inscritto nei nostri cromosomi viene integrato e potenziato dal linguaggio e dalle pratiche culturali connesse, che proviene invece dall'esterno, che dobbiamo imparare dalla società in cui nasciamo. La domanda che ci poniamo in questo capitolo mira ad illustrare questo punto dalla prospettiva di un animale non umano: cosa succede alla sua mente percettiva se viene esposta precocemente, e sistematicamente, ad un linguaggio più complesso e articolato del suo linguaggio naturale? Come cambierà il suo modo di pensare quando potrà fissare la sua attenzione, ad esempio, non più soltanto su entità percettive, su =concetti=, ma anche su entità invisibili, su "concetti"?

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