Autore Daniele Cini
Titolo io, la rivoluzione e il babbo
SottotitoloDiario del sessantotto
EdizioneVoland, Roma, 2004, Finestre 2 , pag. 210, cop.fle., dim. 145x165x17 mm , Isbn 978-88-88700-18-2
LettoreFlo Bertelli, 2004
Classe narrativa italiana , storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 1960












 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 6

                            Il primo marzo sì me lo ricordo
                            saremmo stati millecinquecento...
                            P. Pietrangeli



C'è stato un momento, verso la fine del millennio, in cui tutti (o perlomeno molti dei quarantenni di allora) dicevano di avere fatto il '68. Proprio così: "fatto", come si dice per un figlio o forse semplicemente per una torta di mele.

Eppure dalle cronache e dai ricordi non risulta affatto che in quell'anno speciale la maggioranza avesse finalmente smesso di essere silenziosa e scendesse in piazza urlando slogan e occupando fabbriche e scuole.

Anzi, alle elezioni politiche di maggio vinse ancora una volta la Dc e, anche se la sinistra ufficiale andò avanti più del previsto, non fu certo per aver partecipato al movimento, guardato piuttosto con fastidio e deriso continuamente per il suo "minoritarismo": per essere, come disse il generale De Gaulle in Francia, una ridicola "canizza" di "qualche decina di scalmanati".

Ma se De Gaulle non aveva fatto bene i conti e si ritrovò l'intera Francia per le strade, in Italia il Movimento vero e proprio non superò mai, nell'anno '68, le poche migliaia di partecipanti.

Fatto sta che quelle "decine di scalmanati" riuscirono, nel loro vigoroso dibattersi, a coinvolgere in pochi anni milioni di individui e a traiformarne le menti, i costumi, perfino la vita emotiva di un'intera generazione. Così tutti quelli che in quell'anno vissero la loro adolescenza o giovinezza, ricordano il '68 con passione - che sia odio o nostalgia - convincendosi di esserne stati protagonisti anche quando non lo furono. Confesso: anch'io mi ritengo uno di quei cialtroni che, pur avendo vissuto il '68 con gli occhi confusi di un ragazzo appena arrivato alla pubertà, pretendono comunque di averne fatto parte e di condividerne il mito.

Dopo questa confessione mi domando se abbia un senso raccontare i miei ricordi di allora. Tra l'altro troppo intensi per poterli tenere dentro e troppo superficiali per poterli tirare fuori. Vorrei raccontare di sentimenti e di persone, ma mi vengono in mente i caratteri di una commedia, le loro battute e le loro maschere.

Alle grandi domande che riguardano il '68 - se sia stato un momento di continuità o di rottura col passato, finale o anticipatore, nuovo o vecchio - non cercherò neanche di dare una risposta: credo che altri abbiano scritto cose più intelligenti e sicuramente più documentate, che varrebbe la pena di rileggere [vedi a pagina 202].

Alterno la cronaca di alcune memorabili giornate alle mie considerazioni, che valgono soprattutto per far capire quali domande potessero nascere in quel momento storico nella mente di un adolescente.

Per il resto, cercherò di collegare alla memoria dei sentimenti il racconto degli eventi, ridicoli o emozionanti che siano.

Insomma parlerò di me come in un diario, un diario postdatato. Trentacinque anni dopo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 10

1 MARZO Una manifestazione di studenti giunge ad Architettura a Roma, presidiata dalla polizia. Dopo un tentativo di occupazione cominciano gli scontri. Per la prima volta gli studenti reagiscono alle cariche.


UNO

Tirava un vento fortissimo ma non vedevo l'ora di uscire. C'era qualcosa di magnetico e frizzante che mi riempiva di desiderio e non mi lasciava in pace.

Non credo di avere mai più provato quella sensazione. Era il marzo del 1968 e io non avevo ancora compiuto tredici anni.

'68 a parte, nella mia vita quell'anno è contrassegnato da grandi svolte esistenziali: la (travolgente) scoperta del desiderio sessuale e delle ragazze dopo anni di (spaventata) misoginia, la (turbolenta) separazione dei miei e un loro (provvisorio) ricongiungimento prima di un (definitivo) divorzio, il (radicale) cambio di tonalità della voce, la prima (patetica) rasatura di un mento pervicacemente glabro, la prima (vulcanica) eiaculazione, il primo (eclatante) intervento in pubblico davanti a centinaia di persone, il primo (imbarazzato) bacio: ce n'era abbastanza da saziarsi. La rivolta di Berkeley e il Maggio francese ne erano appena il condimento.

Ero rimasto nell' ombra tormentata della mia infanzia gracile e nevrotica, edipica ed elettrica, attaccato a un quaderno di disegnini: carte geografiche di isole inventate, fumetti fitti e inspiegabili, rebus in rima e ideogrammi di piloti immaginari ossessivamente in gara fra loro. Avevo un forte bisogno di manifestarmi.


                Manifesto, manifesto, io quel dì manifestavo
                adesso sono bravo e non manifesto più...
                P. Pietrangeli



MANIFESTAZIONE Come vive oggi un ragazzo di tredici anni la sua prima manifestazione? Che sensazione, che ebbrezza prova, se ha già visto tutto alla televisione? Credo di essere stato un caso a parte tra i miei coetanei: avevo già manifestato contro Ciòmbe sulle spalle di mio padre a sette anni, dopo l'uccisione di Patrice Lumumba e la benedizione dell'assassino da parte di papa Paolo VI. Il suono minaccioso degli slogan gridati in coro e la sensazione di marea amica che ti circonda, li avevo già provati da bambino.

Ma le manifestazioni del '68 furono una cosa diversa. Prima di tutto perché ci andavo da solo e mi perdevo fra la folla in preda a un'eccitazione unica e irripetibile: l'impressione di essere immerso fra gente che la pensa come te, mentre chi ne è al di fuori pensa esattamente il contrario; l'identità che dà l'essere uniti da un sentimento alto (difendere gli oppressi dagli oppressori), andando incontro all'ostilità del potere e a una possibile punizione, al rischio delle botte e della galera... Sembravano cose fatte su misura per un adolescente.

Vista sotto un altro aspetto, una manifestazione era innanzitutto un appuntamento. Scoprii che - almeno a Roma, ma credo succedesse anche altrove - agli appuntamenti si arrivava una mezz'ora dopo. Un po' come alle feste: il primo ad arrivare faceva la figura del novellino, dell'impaziente o del pignolo.

E in iffetti sembrava una festa (mani/festa:festa delle mani?). Ci si entrava un po' da imbucati, sperando che non ti notassero troppo, poi si cercavano i volti conosciuti, gli amici, quelli della tua scuola o del tuo gruppo politico. Se non trovavi nessuno, seguivi il flusso e dopo un po' cominciavi a ballare.

Ma una festa non era: persino a me, tredicenne in cerca di emozioni, era chiara la consapevolezza di partecipare a qualcosa che nasceva dalla rabbia per un'ingiustizia, la portava allo scoperto e la liberava in aria, perché non si ripetesse.

Più che ambizioni mondane, aveva aspirazioni celesti...

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 50

                        Oh Freedom! Over me!
                        And before I'll be a slave
                        I'll be carried in my grave...
                        P. Seeger



LIBERTÀ Possibile che l'idea di libertà s'identificasse in quegli anni soprattutto con la liberazione sessuale? Aveva ragione Wilhelm Reich quando affermava che l'energia "orgonica" è la fonte prima di ogni cambiamento? Che i sistemi autoritari si fondano sulla sistematica repressione di ogni stimolo sessuale, fosse anche la caviglia di una suora? Certamente sì, ma non era l'unica istanza.

C'era un senso opprimente, diffuso, di conformismo moralista. C'era qualcosa di simile all'Iran degli ayatollah, anche se non ce ne rendevamo conto.

Intendiamoci, non c'erano lapidazioni di adultere, né si condannavano a morte le prostitute: insomma, non vigeva la Shar'ja del Vaticano.

Ma lo Stato confessionale, gestito praticamente da un apparato monocolore democristiano (con qualche rara eccezione laica), impregnava le strutture della società: dai programmi scolastici alle manifestazioni culturali, codine e provinciali, dei raccomandati di turno; dalla morale corrente che umiliava le donne e le relegava a un ruolo succube e clandestino, all'arroganza dei personaggi legati al potere (giudici, medici, avvocati, cardinali e militari), mentalmente rimasti uguali ai gerarchi del Ventennio.

Libertà allora voleva dire laicità di pensiero, antiautoritarismo, rispetto per le opinioni diverse, cosmopolitismo culturale.

Il '68 rivendicò e vinse su tutto questo e se riuscì in parte a rovesciare la mentalità corrente, fu più nel senso di una rivoluzione libertaria che comunista.

Curiosamente, la rivendicazione urgente di libertà di chi viveva sotto una vera dittatura, come nei paesi socialisti, mi lasciava indifferente.

Non volevo crederci. Consideravo quelli che venivano perseguitati una casta lamentosa di nostalgici dello zar, ragnatelosi intellettuali di provincia incapaci di condividere il loro salotto con un operaio senza casa, gente egoista e priva di ideali.

Purtroppo, nonostante l'antipatia verso i sovietici, restavamo comunque abbarbicati alla speranza che, al di là della cortina, ci fossero principi più umani dei nostri.

Così la parola libertà, gridata da un continente all'altro, significava (come ancora accade oggi) cose diametralmente opposte.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 53

                        Non è detto che fossimo santi
                        non sbagliare non è cosa umana...
                        I. Calvino  S. Liberovici



DESTINI Insomma era una comitiva di figli di borghesi attraversati dall'inquietudine di quegli anni: certamente più figli di Antonioni che di De Sica e Zavattini.

A difesa del mio gruppo, posso dire che nessuno fece in seguito il "salto della quaglia": Ludovico è ancora maestro elementare in un paese del Centroitalia, Davide è morto di Aids prima dei quarant'anni dopo essere stato un bravo giornalista del "Manifesto" e dell'"Espresso", Marina organizza i girotondi, Antonio fa il falegname, Saverio insegna storia dell'arte, Ursula pratica medicina alternativa, Chiara, dopo le droghe, ha avuto molti figli con un giapponese e vive là; gli altri non so, li ho persi di vista.

Alcuni di loro già da allora sapevano come muoversi in società, tessere relazioni e farsi notare: ma non ne hanno approfittato troppo. Altri hanno avuto una vita più difficile o forse solo più marginale. Nessuno però ha ingrossato le fila di pentiti che hanno avuto, grazie a questo, una carriera fulminante.

Una parte della generazione, cresciuta col '68, ha mantenuto una sua coerenza, spesso depressa e quasi mai fanatizzata; rispetta nella propria vita il valore della solidarietà verso chi sta peggio, non si lascia tentare dalla mania del consumismo, non ha paura a dare l'elemosina per strada o a fare un'adozione a distanza, non manda la nonna in ospizio, viaggia per conoscere e non solo per fare turismo, legge libri, conserva un'attitudine critica e non si prende troppo sul serio.

Ognuno di loro poi, a volte, è anche un po' stronzo. Ma un po' meno della media.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 97

                        Un'idea, un concetto un'idea,
                        è soltanto un'astrazione
                        Se potessi mangiarmi un'idea
                        avrei fatto la mia rivoluzione...
                        G. Gaber



MATERIALISMO Non avevo ancora letto Feuerbach, né capito bene cosa dicesse Marx. Ma proclamarmi materialista mi sembrava già di per sé una buona provocazione, come se dicessi al mio insegnante di religione: sì, sono maleducato, lo trova così strano?

Essere materialista significava entrare in empatia coi bisogni veri della gente che faceva fatica a vivere: spiritualisti erano quelli con la pancia piena, che si permettevano di disprezzare le classi subalterne perché non capivano la musica classica.

È curioso vedere oggi, con l'omologazione consumista, come il materialismo sia diventato - se non un principio - un contenuto della destra, mentre la sinistra trova strane convergenze col Papa nella difesa di valori meno "mortali", più proiettati nel domani (l'ecologismo, lo sviluppo sostenibile, la convivenza pacifica).

Vissi dunque quegli anni nel segno del materialismo, con la convinzione di essere più cosciente, più progredito, di tutti coloro che si lasciavano abbindolare dall'"oppio dei popoli" e dalla retorica dei Valori Alti.

Se penso al nostro materialismo, mi viene il dubbio che già allora fossimo assai più spiritualisti di molti fedeli: anche se giustificavamo i conflitti di classe sulla base delle condizioni reali, ci muovevamo su un orizzonte morale che elevava etica e utopia a scelte di fede, in cui l'aspetto materiale (il denaro, i legami affettivi, il luogo in cui vivere etc.) diventava un esecrabile impiccio.

Ma di questo non ci rendevamo conto: tutto appariva come retto da una scientifica consequenzialità.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 144

                    I nostri miti morti ormai
                    la scoperta di Hemingway
                    il sentirsi nuovi
                    le cose sognate ora viste...
                    F. Guccini



LETTURE Quelli che ricordo come capisaldi, attorno all'anno '68, sono i due Jack London "sociali": Martin Eden e il fantapolitico Tallone di ferro, la trilogia di Sartre: Il rinvio, La morte nell'anima, L'età della ragione, l'umorismo acido e magico di Bulgakov in Uova fatali, nell' Isola purpurea e nel grande Il Maestro e Margherita, e infine la rivelazione di quell'anno, Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, con la sua circolarità magica e un po' rassegnata, che amai follemente anche se strideva con le mie convinzioni politiche per cui era sempre possibile un futuro migliore senza poveri e senza ricchi.

Eppure, in Cent'anni di solitudine si ritrovarono tutti: alcuni forse per il semplice fatto che fosse un'epopea da terzomondo, in cui i poveri (che, come diceva Marquez "se la merda avesse avuto valore sarebbero nati senza il culo") erano finalmente protagonisti.

A me affascinavano anche le figure dei patriarchi velleitari e perdenti, al mio occhio romantici rivoluzionari, sempre davanti al plotone d'esecuzione.

La magia, l'immaginazione, l'irrazionale, l'umoristico, il paradossale percorrevano tutti questi eterogenei romanzi, offrendomi un panorama eccitantissimo della vita, che andava molto oltre le nozioni imparate a scuola e le rivoluzioni casalinghe. Sono rimasti i miei libri preferiti, e guarda caso li ho letti proprio allora...

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 181

                Oh deep in my heart I do believe
                that we shall overcome some day!
                P. Seeger



DOMANI È molto difficile oggi, per le nuove generazioni, immaginare la società del domani, un mondo migliore, diverso da questo.

Penso a trentacinque anni fa e a quel brulicare di futuro, tutto immaginato.

Niente si è realizzato. Né il comunismo né la colonizzazione di Alpha Centauri, né la fine dello Stato, né la sparizione del denaro delle armi e delle automobili, nemmeno una maggiore promiscuità sessuale, nemmeno la fine dei razzismi, né una lingua comune, né una formazione permanente, o perlomeno il cinese "metà studio metà lavoro ", nemmeno la scomparsa del servizio militare, del nozionismo, della selezione di classe, del codice Rocco, dei democristiani, del clericalismo, niente!

E tutte quelle fantasie fantascientifiche: vestiremo con tute di nylon, mangeremo solo pillole, schiacceremo un bottone e oplà, una Sacher törte bell'è fatta!

Chissà come mai nessun film di science fiction aveva immaginato, trent'anni fa, il futuro come è oggi, 1999, 2001 e dintorni. Chi poteva sognare il delirio logorroico dei telefoni cellulari, le serate passate a navigare in un computer in cerca di nulla, dodici ore spese in automobile, altre dodici davanti alla tv, la fine di qualunque ideologia o passione politica, salvo quella del Fondo Monetario?

Non c'è nulla che mi piace in questo presente e nulla che mi faccia immaginare un futuro diverso. Quanti anni di pessimismo mi restano ancora?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 194

                E allora cosa vuoi di più compagno,
                per capire
                che è venuta l'ora del fucile?
                P. Masi  B. Mc Guire



RIVOLUZIONE Immaginavo una sollevazione di popolo gigantesca, rabbiosa ma pacifica, di fronte alla quale nessun esercito avrebbe potuto opporre resistenza. Pensavo a un cambiamento capace di trasformare ogni aspetto della vita pubblica e privata, anche perché all'epoca non facevo differenza. Pensavo alla fine dello Stato e quindi anche degli impiegati statali e delle burocrazie, alla fine di ogni esercito e di ogni tipo d'armamento, alla fine del denaro, regolandosi il mondo sul principio marxista "a ognuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità". Mi piaceva la frase "il comunismo è quel movimento che cambia lo stato di cose presente" e forse, in questo senso, era molto più a portata di mano di qualunque altro sistema ideale. Se qualcuno parlava di maturità del comunismo, credo facesse riferimento a questo, più che all'arrivo dei cosacchi ad abbeverarsi alla fontana di San Pietro.

Ma al di là di ciò che oggi si chiama con disprezzo ideologia, a muovere i nostri sentimenti di ribellione c'erano situazioni che non si potevano sopportare, anche se spesso accadevano molto lontano.

| << |  <  |