Copertina
Autore Pierluigi Ciocca
Titolo L'economia mondiale nel Novecento
SottotitoloUna sintesi, un dibattito
Edizioneil Mulino, Bologna, 1998, Prismi , Isbn 978-88-15-06546-9
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe economia , economia politica , storia contemporanea , lavoro
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Indice


Premessa                                p.  7

UNA SINTESI

L'economia mondiale nel secolo,
di Pierluigi Ciocca                        11

UN DIBATTITO

I.  Partite passive, potenzialità attive:
    evoluzione della cultura e
    della tecnologia,
    di Paolo Sylos Labini                  57
II. Il migliore, il peggiore,
    di Gianni Toniolo                      65
III.Dimensione dell'economia di mercato,
    di Immanuel Wallerstein                71
IV. Trionfo e nemesi della sovranità
    economica,
    di Marcello De Cecco                   75
V.  Ambiguità della periodizzazione,
    di Alberto Caracciolo                  83
VI. Politiche nazionali e mercati
    transnazionali,
    di Eric J. Hobsbawm                    89
VII.Governare la «macchina», governare
    le aspettative,
    di Giorgio Lunghini                    95
VIII.
    Le grandi cesure economiche e sociali,
    di Paul Bairoch                       101
IX. Le tre fenomenologie del secolo,
    di Geminello Alvi                     113
X.  Rasoio di Occam o causazione multipla?,
    di Charles P. Kindleberger            123
XI. Dall'Europa all'Asia e...
    di nuovo Europa?,
    di Giangiacomo Nardozzi               131
XII.Economia mondiale e politica
    degli stati,
    di Ernst Nolte                        135
XIII.
    Analogie, differenze, prospettive,
    di Giovanni Arrighi                   143

Indice dei nomi                           153

 

 

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Pagina 11

Pierluigi Ciocca
L'economia mondiale nel secolo


Sono anni di fine secolo. Fioriranno, stanno già apparendo, bilanci e previsioni, oltre a cronache del secolo. L'antidoto può essere offerto da una lista - breve - di fatti rilevanti filtrati dall'analisi: non una storia narrata, impossibile in poche righe, né tantomeno un improbabile saldo costi/ricavi, ma dieci questioni in dieci semplici schede di sintesi. Il punto di vista è quello dell'economia, dell'economia di mercato capitalistica incentrata sul profitto privato e sul lavoro-merce salariato. La logica anarchica del mercato ha rappresentato l'elemento forte di dinamismo e di attrazione/ripulsa, il crinale di alta tensione anche nel conflitto ideologico che ha segnato il Novecento.

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Pagina 12

l. E' stato il secolo in cui il progresso economico, nella forma detta della modern economic growth, raggiunge i massimi ritmi. E' tumultuoso, stupefacente, sia nel confronto con l'ottocento delle rivoluzioni industriali sia, a fortiori, nell'epoca d'oro 1950-70. Pur nei limiti concettuali e statistici del prodotto interno lordo quale metro della ricchezza delle nazioni, mai nel mondo è stata tanto sostenuta come nel corso del Novecento la crescita annua delle tre fondamentali variabili socioeconomiche: il prodotto pro capite (1,5 per cento, rispetto a 0,8 nell'Ottocento), la popolazione (1,4 per cento, rispetto a 0,5), la produzione complessiva di beni e servizi (2,9 per cento, rispetto a 1,3).

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Pagina 13

La ripartizione del prodotto fra profitto e salario - la quota dei profitti sul reddito nazionale - e il saggio del profitto sul capitale investito sono stati sufficienti a motivare e alimentare la crescita delle attività produttive e dello stock di capitale investito dalle imprese in quelle attività. La distribuzione del prodotto fra profitto e salario è stata nell'arco del secolo tendenzialmente costante e, soprattutto, stabile. Flessioni della quota del profitto anche acute ma temporanee, poi compensate da recuperi, si registrano nelle fasi di recessione economica degli anni Venti, degli anni Settanta e soprattutto degli anni Trenta. In altre fasi, in cui pure la pressione dei salari fu intensa anche a causa delle spinte sindacali, le condizioni favorevoli della domanda globale hanno consentito alle imprese di salvaguardare i margini di utile traslando sui prezzi di vendita i maggiori costi del lavoro.

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2. E' stato il secolo della più rapida, radicale trasformazione delle fonti e degli usi delle risorse economiche, della produzione di merci a mezzo di merci. L'agricoltura ha perso velocemente peso, prima rispetto all'industria, principalmente produttrice di manufatti, poi rispetto al cosiddetto terziario, produttore di servizi privati e pubblici. L'autoconsumo, tipico della società rurale, è divenuto consumo di massa, di merci prodotte per essere vendute nel mercato e rese familiari, se non imposte, dalla pubblicità. L'investimento in impianti, macchinari, scorte effettuato dalle imprese e la spesa statale sono divenuti quantitativamente più importanti. La scienza, in formidabile progresso, si è trasformata in tecnologia sistematicamente rivolta e applicata alle attività economiche.

Negli stessi paesi avanzati, a seconda del grado di industrializzazione dell'economia, la quota della forza di lavoro complessiva addetta all'agricoltura era ancora del 40 per cento e oltre - ben oltre - nel 1820, del 20-60 per cento nel 1900. Alla fine del Novecento essa in media non supera il 5 per cento in questi paesi, dove in pochi decenni è praticamente sparita la figura, antica di 10.000 anni, del contadino; è inferiore al 50 per cento nel mondo. Nel complesso delle economie progredite la maggior parte della forza di lavoro (65 per cento) è occupata nel terziario, privato e pubblico.

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Pagina 17

Nel 1820 la maggioranza delle persone era analfabeta. Delle tre edizioni dei Principles di Ricardo - alta teoria economica - furono complessivamente tirati 2.750 esemplari: meno dei milioni di copie vendute del moderno Economics - un manuale universitario - di Paul Samuelson. Attualmente nelle stesse nazioni a basso reddito la maggioranza di chi ha più di 15 anni è in grado di scrivere, leggere e comprendere una breve proposizione concernente la vita quotidiana. Nei paesi ad alto reddito gli anni di istruzione delle persone con età compresa fra i 15 e i 64 anni sono saliti da non più di 2 nel 1820 a 5-8 nel 1900, a 12-18 oggigiorno. Anche in Italia - 57 milioni di cittadini ora mediamente ricchi, ma con propensione alla lettura che permane scarsa - il numero dei titoli di libri pubblicati in ciascun anno sfiora attualmente i 50.000, per quasi 300 milioni di copie; non raggiungeva i 10.000 all'inizio del secolo.

Unitamente alla qualità del lavoro (capitale umano) e alla sua organizzazione nell'impresa (dal Taylorismo alla produzione snella, dal Fordismo al Toyotismo), il fattore decisivo sia della crescita sia della trasformazione nel produrre è stato il progresso tecnico.

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Il XXI secolo vedrà la questione del lavoro di nuovo al centro dell'attenzione, in particolare nell'Europa continentale. La politica per il lavoro deve perseguire due finalità congiunte: più occupazione, ma anche una occupazione migliore. La disoccupazione non è solo spreco collettivo, irrimediabile, di risorse. Lavorare significa partecipare alla vita attiva della collettività, intessere una rete di rapporti. Chi viene escluso dal mondo del lavoro subisce anche una perdita di status sociale, di identità. Se la disoccupazione è concentrata in aree o gruppi, il senso di esclusione può divenire collettivo. Nei paesi industriali il 30 per cento dei disoccupati ha meno di 25 anni: in Europa il numero dei giovani sul totale dei senza lavoro va dal 12 per cento della Germania al 37 per cento dell'Italia, ma il 35 per cento è superato anche negli Stati Uniti, dove la disoccupazione è oggi molto più bassa. Il tasso di disoccupazione della sola forza di lavoro giovanile è più elevato negli Stati Uniti (12 per cento) che in Germania (8 per cento), eccede il 30 per cento in Italia e in Spagna. La prospettiva del non lavoro suscita fra le nuove generazioni un senso di inutilità nei confronti del sistema scolastico, può spegnere la speranza nel futuro. Il mancato progresso professionale, la perdita di contatto con la tecnologia d'avanguardia, la mancata applicazione di ciò che si è appreso a scuola depauperano il cosiddetto capitale umano. Attività a basso salario o a condizioni intollerabili, lavori precari, compiti solo ripetitivi con scarsi motivi di arricchimento delle proprie competenze e della personalità provocano, non meno della disoccupazione, calo del benessere collettivo, disagio, tensioni. La qualità mediocre delle mansioni svolte deprime la capacità dei lavoratori e del sistema di recepire l'innovazione tecnologica; rafforza le resistenze all'introduzione dei miglioramenti produttivi e organizzativi; riduce, nell'intera economia, la flessibilità nei rapporti di lavoro. La carenza di flessibilità è una concausa, ma altresì un effetto, della disoccupazione.

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Pagina 21

3. E' stato il secolo della crescita più sostenuta e della trasformazione più profonda, ma anche di una instabilità alta. L'impegno maggiormente consapevole e attivo nel governo dell'economia non è riuscito a prevenirla.

Si è avuta conferma della natura sistemica delle fluttuazioni cicliche nella produzione e nell'occupazione e della possibilità di crisi acute, reali e finanziarie. Le une e le altre sono connesse con la «psicologia incontrollabile e riottosa del mondo degli affari in una economia di capitalismo individualistico»: in una economia siffatta le decisioni di investimento dipendono dalle aspettative sul rendimento dei beni capitali in un futuro anche lontano, aspettative le cui basi sono necessariamente «molto precarie».

(...)

Il secolo ha vissuto due crisi economiche fra le più gravi sperimentate dalle economie di mercato: quella degli anni Trenta e quella degli anni Settanta. Nell'intero «occidente» il prodotto risultò del 17 per cento più basso nel 1932 rispetto al 1929. Negli anni Trenta la disoccupazione dilagò, il commercio mondiale diminuì di un quarto, il protezionismo soppiantò la libertà dei traffici, il mercato finanziario internazionale subì un collasso, il regime aureo venne sospeso. La crisi degli anni Settanta - risoltasi solo gradualmente negli anni Ottanta - è meno evidente nel calo del prodotto e dell'occupazione, ma fu particolarmente insidiosa. Scosse la fiducia, da poco ritrovata, nella stabilità e nella governabilità delle economie; pose fine alla fase di eccezionale sviluppo del 1950-70 (5 per cento l'anno il prodotto mondiale, 7 per cento le esportazioni: davvero l'«epoca d'oro»); unì al ristagno produttivo e all'aumento della disoccupazione l'abbandono forzato del sistema monetario internazionale che era stato definito a Bretton Woods nel 1944 e un'inflazione elevata.

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Pagina 25

4. E' stato il secolo della sfida sovvertitrice, teorizzata, dichiarata, attuata - minaccia preoccupante, ma anche stimolo potente - da parte di un modo di produzione diverso dall'economia di mercato e a questa avverso. La sfida è stata teorica e pratica, esterna e interna, pacifica e armata. Ha trovato alimento in motivazioni ideologiche e morali: «il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti». Ha trovato altresì alimento nella instabilità e nella conseguente insicurezza, nell'incompleta utilizzazione delle risorse, nella iniquità distributiva dell'economia di mercato. Ha teso a sottomettere l'economia alla politica, a restituire alla società degli uomini la capacità di autodeterminarsi, di sottrarsi al condizionamento del mercato. Nell'allocazione delle risorse e nella ripartizione del reddito, nelle scelte sul «che cosa, come, per chi» produrre, al Mercato si è sostituito lo Stato in sistemi economici variamente ispirati al principio del collettivismo. Non di rado ciò è avvenuto al di là di quanto la stessa analisi di Marx prospettava contrapponendo «collettivo» a «privato» (non a «individuale»).

La sfida è fallita nella forma del comunismo sovietico. fallita nella concreta pratica economica, più che sul piano ideale e politico. Il socialismo reale europeo è franato nella transizione dalla fase dell'industria pesante alla fase della predisposizione delle risorse per i consumi, dalla produzione estensiva a quella qualitativa, varia e a più alta efficienza volta a corrispondere a esigenze e gusti diversificati.

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(...) Con la pratica sinora sperimentata è caduta anche la teoria economica del socialismo, secondo molti, «l'errore più fatale del XX secolo»? Barone e Lange dicono ancora di no, implicitamente il primo, esplicitamente il secondo. A un mercato socialista non è preclusa l'efficienza, quanto meno statica, nell'allocazione delle risorse: teoricamente, nei modelli matematici degli economisti. Più in generale, il contributo critico del marxismo all'analisi dell'economia e della società non può esser fatto coincidere con il socialismo reale europeo; quindi non tutti concordano che necessariamente cadrà con questo.

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5. E' stato il secolo che ha visto succedersi tre diversi assetti nel potere economico mondiale: dalla pax britannica ottocentesca e d'inizio Novecento al dominio pieno ancorché contrastato degli Usa, al ruolo - economico se non ancora politico - da ultimo assunto dalla Germania e dal Giappone, gli sconfitti del 1945 assurti al rango di principali paesi creditori.

(...)

L'economia mondiale non è più imperniata su Londra, e neppure eurocentrica. Le esportazioni dell'Europa occidentale rappresentavano più della metà di quelle mondiali nel 1870, e ancora nel 1913. Oggi sono al di sotto del 40 per cento; al netto di quelle intraeuropee non arrivano al 20 per cento. E' in atto, con l'intento di rimuovere motivi risalenti di divisione e di conflitto, l'ambizioso piano di unire l'Europa: come mercato, come area monetaria, come entità politica federata capace di prevenire i contrasti interni, di influire sugli affari mondiali, di corrispondere a un ideale antico.

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6. E' stato il secolo di Keynes, quindi della politica economica. Le ha dato fondamento la consapevolezza d'analisi che l'economia si faceva ancor più «monetaria», con accresciuto peso delle aspettative e della speculazione in mercati mai perfetti. Pieno impiego, stabilità dei prezzi, equilibrio esterno, concorrenza, trasparente funzionalità dei mercati - in una parola, crescita nell'efficienza e nelle regole - sono diventati obiettivi dello stato, o di sue agenzie autonome.

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(...) In questo senso, pur nello scontro ininterrotto fra posizioni interventiste e liberiste, si è consumata la fine del liberismo in economia.

Nello scorcio del secolo, tuttavia, sono riemersi e si sono diffusi i dubbi sull'efficacia delle politiche economiche, dell'azione dei governi e dei sindacati nazionali. Li hanno riproposti le difficoltà nel superare la stagflation degli anni Settanta, unite alla crisi del Keynesismo nelle accademie e presso le burocrazie. Ma li hanno soprattutto eccitati e perpetuati il dilatarsi della spesa pubblica, l'onerosità della tassazione, l'insorgere della questione pensionistica: una vera e propria crisi fiscale e del sistema di welfare dello stato moderno. La spesa pubblica è giunta ad eccedere il 50 per cento del prodotto interno lordo in Europa, tende a superare il 35 per cento negli Stati Uniti e in Giappone.

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7. Nonostante le politiche rivolte a vincere il sottosviluppo, fra le grandi aree economiche del globo vi è stata sostanziale invarianza nelle posizioni relative, con America Latina, Asia e Africa agli ultimi posti (Fig. 6).

Soprattutto in Asia, ma anche in America Latina, spiccano recenti storie di successo; sono tuttavia limitate a singoli paesi, taluni già in crisi, non consolidate, reversibili; possono non preludere a un più esteso progresso. Non vi partecipa l'Africa. Il prodotto pro capite del continente africano non raggiunge quello dell'Europa occidentale di due secoli fa; gli esseri umani che vivono nei paesi più poveri dell'Africa hanno un reddito compreso fra 1/100 e 1/50 di quello di chi risiede negli Stati Uniti. Essere nati nel Nord o nel Sud economico della Terra può significare la vita o la morte: sono 800 milioni le persone malnutrite nel mondo. L'economia di mercato consente il successo, straordinario allorché si realizza, non lo assicura.

Se si definisce ricco il paese che, avendo una popolazione superiore a 5 milioni e un sistema economico non fondato sulla monocoltura, presenta un prodotto pro capite inferiore di non oltre 1/3 rispetto a quello dell'economia più avanzata - il Reno Unito nel secolo scorso, gli Stati Uniti in questo - il club dei ricchi comprendeva solo 8 nazioni alla fine dell'Ottocento (oltre al Regno Unito, Australia, Olanda, Svizzera, Usa, Belgio, Germania, a malapena la Francia). Alla fine del Novecento il gruppo è salito a 15 paesi, meno di 1/7 della popolazione mondiale: si sono aggiunti Canada, Italia, Finlandia, Svezia, Austria, Danimarca, Giappone. Fra queste economie vi è stata convergenza, favorita all'inizio e nella seconda metà del secolo dalla mobilità di merci, lavoro, capitali. L'Italia - priva di risorse naturali, da sempre divisa e dal XVII secolo periferica, economicamente regredita dapprima in termini relativi, dalla metà del Settecento anche in termini assoluti - si è unita al gruppo ristretto delle nazioni ad alto reddito. Nel periodo 1820-1900 il prodotto pro capite dell'Italia, pur aumentando del 70 per cento, era sceso dall'85 al 57 per cento di quello europeo. Pressoché decuplicandosi in questo secolo, esso è oggi sulla media europea, in linea con quello del Regno Unito, il leader di un tempo (Tab. 5).

Al di là delle opposizioni politiche e ideologiche all'economia di mercato, le società olistiche, di cultura soprattutto non europea, continuano a esprimere resistenze all'individualismo. Quest'ultimo si fa sempre più spinto. Lo ha denunciato con forza l'antropologia, anche in polemica con un'analisi economica che, mentre diveniva meno articolata, si proponeva come totalizzante. L'economia politica classica (Smith, Ricardo, Marx), la gran dinamica di Schumpeter, la macroeconomia di Keynes erano incentrate sull'analisi dei rapporti economici fra individui e gruppi, del loro interagire in società capitalistiche avanzate. L'economica oggi prevalente - fondata sul paradigma marginalista neo-classico Walras-Pareto - tende invece alla prasseologia, ai teoremi su ogni tipo di comportamento dell'individuo in quanto tale, massimizzante l'utilità - ofelimità - soggettiva. Essa da un lato si restringe nella problematicità autocritica, dall'altro estende il calcolo marginalista dell'homo oeconomicus alle manifestazioni non economiche più intime della vita individuale: «una» razionalità viene proposta come «la» razionalità. Al tempo stesso, la varietà di esperienze delle diverse economie conferma come la scienza economica non abbia ancora espresso una teoria della crescita - della ricchezza delle nazioni - traducibile in politiche sicuramente efficaci, imitabili. L'insoddisfazione si estende alle interpretazioni strettamente economiche del successo dei paesi avanzati. Le analisi danno rilievo crescente ai fattori metaeconomici nello spiegare lo sviluppo, là dove esso è avvenuto (neoweberismo, neo-istituzionalismo: la conoscenza se non la cultura, come secondo residuo?).

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Pagina 38

8. A distanza di decenni dalla fine dell'imperialismo coloniale, nel proliferare degli Stati nazionali (oggi circa 200), la relazione Nord-Sud resta dubbia. E' divisa fra almeno tre concezioni radicalmente diverse. La prima: il Nord, produttore di manufatti e di servizi sofisticati, sfrutta, sottosviluppa il Sud, fonte di materie prime e di manodopera a basso costo. Corollario di questa concezione è l'ipotesi della caduta tendenziale, pur tra forti oscillazioni, del rapporto fra i prezzi dei prodotti primari e quelli dei beni lavorati o più in generale del progressivo deterioramento delle ragioni di scambio dei paesi poveri. In entrambi i casi le prove empiriche non sono risolutive. La seconda: il Nord è occasione di progresso, che non sempre il Sud riesce a cogliere. La terza: il Sud minaccia l'economia del Nord con una competitività di prezzo fondata sul basso tenore di vita delle sue popolazioni e su norme di sicurezza sociale inadeguate e quindi a basso costo.

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9. L'economia di mercato, se erode le barriere alla mobilità sociale, stenta a ridurre le diseguaglianze interne non meno di quelle internazionali: tra regioni (non solo l'Italia ha il suo «Sud»), gruppi, soggetti della stessa economia. L'ipotesi di una relazione a «U rovesciata» fra sviluppo economico e diseguaglianza e l'altra ipotesi secondo cui già l'Ottocento per i paesi di prima industrializzazione e poi il Novecento avrebbero sperimentato, con lo sviluppo, la fase della disuguaglianza flettente sono tuttora in discussione.

I dati più solidi di cui ora si dispone mostrano che in molti paesi industrializzati - anche in seguito all'impegno redistributivo dello stato attraverso la progressività dei trasferimenti e della tassazione - si è avuta nei primi decenni del secondo dopoguerra una riduzione nella dispersione dei redditi familiari. Questi stessi dati, tuttavia, denotano dagli anni Settanta un deteriorarsi degli indici di disuguaglianza dei redditi familiari in Svezia, un peggioramento drammatico negli Stati Uniti di Reagan e nel Regno Unito della Thatcher, nessuna chiara tendenza in Germania, Francia, Italia (Fig. 7).

Nonostante l'aumento recente della disuguaglianza, la Svezia, come i paesi scandinavi in genere, rimane una delle economie di mercato più egualitarie; seguono la Germania e il Benelux, poi la Francia e i paesi mediterranei, fra cui l'Italia. Ad alta disuguaglianza sono le economie anglosassoni. Negli Stati Uniti il costo sociale della disuguaglianza è stato calcolato pari a oltre 1/3 del reddito nazionale. La crescita non è stata sufficiente a eliminare la povertà (misurata rispetto a un paniere di beni di sussistenza). La povertà è anzi tornata sui livelli della metà degli anni Sessanta, quando negli Usa venne lanciata la «guerra alla miseria». Povertà non è solo penuria di reddito: nonostante redditi pro capite più elevati, le probabilità di sopravvivenza sono più basse per i residenti neri di Harlem che per i loro coetanei residenti in Cina o nella regione indiana del Kerala.

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10. E il futuro? Nessuna previsione, solo un cenno a potenzialità e limiti del sistema economico con il quale affrontiamo il nuovo secolo.

Bisogna distinguere tra la «macchina» e i problemi. Inseguendo il profitto, la macchina non smetterà di sviluppare e trasformare l'economia e la società. Lungi dal farsi abbattere dall'interno o dal ristagnare o crollare, il capitalismo si adatta, così da sopravvivere e crescere ancora. I mutamenti, le diversità, sono soprattutto nelle forme organizzative e istituzionali dell'impresa e del produrre («governo», e diritto, societario), nei rapporti di lavoro, nello stesso ruolo dello stato. Naturalmente, l'adattamento può anche essere graduale, non rivoluzionario, mutamento di natura, per l'appannarsi dello spirito imprenditoriale o per etisia dello stato nazionale e difficoltà a sostituirlo a livello sovranazionale) con conseguente inadeguatezza del quadro istituzionale di cui l'economia di mercato necessita.

Il mercato non garantisce né la democrazia nella sua pienezza né la fine dell'economia, il superamento del vincolo materiale. E' compatibile con la democrazia, forse è l'unico sistema economico confermatosi con essa compatibile. Ma il campo di variazione delle sue forme politiche si è esteso dalla socialdemocratica Svezia al Nazismo, al Fascismo, a regimi totalitari in molti paesi anche ad alto reddito. Alla fine degli anni Trenta dittature di destra erano insediate nella - erano state espresse dalla - maggioranza delle economie di mercato d'Europa: Germaria, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Jugoslavia, Albania, Turchia, Bulgaria, Romania, Austria, Ungheria, Polonia, Lettonia, Estonia, Lituania. L'economia di mercato si dimostra condizione forse necessaria certo non sufficiente, di democrazia.

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Pagina 44

Soprattutto, la conciliazione di economia ed etica, l'economia criminale, la mercificazione delle stesse dimensioni non economiche del vivere, la insoddisfazione di chi dissente o di chi si considera prevaricato, la violenza dell'uomo contro l'uomo («scimmia bipede» secondo Leakey, armatasi contro il suo simile nel neolitico da produttore agricolo stanziale) restano: questioni antiche, di difficile soluzione.

L'economia di mercato può invece risolvere tre fra i problemi con cui il secolo termina: a) quello della sovrappopolazione-migrazioni (attraverso l'inserimento controllato e proficuo degli immigrati e il valore delle loro rimesse nel paese d'origine); b) quello del degrado ambientale (con le leggi, ma anche attraverso gli incentivi e le remore espressi da prezzi relativi, imposte, sussidi); c) infine quelli, interrelati, della stabilità monetaria, di una crescita più regolare del lavoro.

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Pagina 47

La crescita stabile, sostenibile, sostenuta non potrà tuttavia aversi se il prezzo reale del danaro continuerà a eccedere ampiamente il ritmo di incremento del prodotto delle economie industriali, a cui è legato alla lunga il saggio del profitto. I tassi reali sfiorano o superano il 4 per cento, il ritmo di incremento del prodotto potenziale è del 2-3 per cento. Era l'inverso negli anni Cinquanta e Sessanta. Il circolo vizioso - si pensi anche al peso dei debiti pubblici, crescente se lo scarto fra il tasso d'interesse e il tasso di sviluppo sopravanza il saldo attivo di bilancio al netto della spesa per interessi rispetto al prodotto - può essere spezzato solo promuovendo una discesa non infiazionistica dei tassi d'interesse. Non è la scarsità di risparmio, di per sé, che innalza i tassi d'interesse a lungo termine. Semmai a innalzarli è il timore della scarsità di risparmio, convenzionalmente radicato nei mercati finanziari. Semmai sono gli alti tassi d'interesse che frenano la crescita, e quindi il risparmio. In un mercato unico mondiale della finanza il tasso d'interesse reale al netto dei premi al rischio tende a essere unico, mondiale anch'esso. Perché la politica monetaria possa ridurlo creando liquidità senza inflazione, e comunque governarlo, occorre rovesciare le convenzioni pessimiste, le attese ribassiste, della finanza su scala mondiale.

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Pagina 48

Vi sia o no disoccupazione, quali che siano le cause prossime della disoccupazione che c'è, va predisposto un assetto istituzionale permanente per contrastarla, orientato all'obiettivo di una disoccupazione involontaria tendenzialmente nulla e di una occupazione di buona qualità: un assetto analogo a quello che la politica monetaria si è da tempo data per la stabilità dei prezzi. Da questa costituzione del lavoro, complementare alla costituzione monetaria, deve scaturire un impegno costante contro la disoccupazione: male gravissimo, economico e sociale, minaccia esiziale per gli equilibri delicati delle democrazie moderne.

***

Quanto a capacità di sviluppo, nel secolo l'economia di mercato si è confermata superiore agli altri modi di produzione visti finora: «rivoluzionaria in quanto organizzatrice della grande industria» per Marx, «lo strumento più potente per migliorare il futuro» per Keynes. E tuttavia essa ha manifestato carenze e difetti, reali o presunti. Il problema dell'equità distributiva è insolubile in una economia che ristagna nel sottosviluppo. Ma la crescita del reddito lenisce le manifestazioni acute del problema, non lo risolve; se è rapida e squilibrata lo accentua. Nonostante le trasformazioni profonde, nonostante i fattori correttivi e stabilizzanti il secolo si chiude, come si era aperto, con la questione cruciale irrisolta: se, entro quali limiti, come sia possibile far esprimere la capacità di efficienza e di sviluppo della libera iniziativa e del mercato, estendendola nel globo e soprattutto conciliandola con una distribuzione del reddito meno diseguale fra le nazioni e all'interno di ciascuna di esse. Ciò, in un sistema economico che per sua natura tende ad ampliare il divario fra chi parte avvantaggiato e chi parte svantaggiato nella competizione sul mercato, un sistema che può scavare l'abisso fra i ricchi e i poveri, nazioni o individui. Nel XX secolo il benessere materiale è aumentato, come non era mai avvenuto. Ma non dovunque, non per tutti: si dovrebbe far meglio. La contraddizione, sempre più palese e stridente, tra la potenzialità di accrescere le risorse e la sperequazione nel distribuirle, tra bisogni insoddisfatti e spreco dei mezzi disponibili (disoccupazione, capacità produttiva inutilizzata), continuerà ad alimentare il dibattito fra utopisti, conservatori, riformisti. Manterrà vivo l'impegno dialettico, e quindi da ultimo comune, nel «cercare ancora».

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Pagina 57

Paolo Sylos Labini
Partite passive, potenzialità attive:
evoluzione della cultura e della tecnologia


Le riflessioni di Pierluigi Ciocca sull'economia mondiale nel secolo che sta per chiudersi inducono chi, come me, ha fatto riflessioni simili a riconsiderarle criticamente e ad ampliarle.

Il secolo che volge alla fine è stato contrassegnato da inaudite esplosioni di violenza e da uno sviluppo tecnologico senza precedenti. Tale sviluppo è il risultato dei progressi della scienza e, piu in generale, dell'evoluzione culturale ed è all'origine non solo dello sviluppo dell'economia di diversi paesi, ma anche della comparsa di armi nuove, che in questo secolo hanno reso la violenza straordinariamente distruttiva. I tre termini - evoluzione culturale, sviluppo economico e produzione di nuove armi - interagiscono e si rafforzano a vicenda.

Determinismo economico e marxismo. Per nterpretare il nostro tempo a me pare che le filosofie di tipo idealistico abbiano dimostrato la loro superiorità rispetto a quelle di tipo materialistico: sono le spinte provenienti dalle idee e non le spinte propriamente economiche che muovono l'umanità, anche se le spinte economiche condizionano quelle ideali. Basterebbero i drammatici conflitti etnici e religiosi che hanno fatto e fanno scorrere fiumi di sangue in tante parti del mondo per mettere in piena luce la penosa inadeguatezza del determiniamo economico.

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Pagina 65

Gianni Toniolo
Il migliore, il peggiore


Le dieci schede di sintesi sull'economia del XX secolo proposte da Ciocca non vogliono essere un bilancio. Ma perché no? Estendendo il favore della prospettiva indietro di qualche millennio, è facile concludere che, dal punto di vista economico, il nostro secolo è stato il migliore da quando l'uomo ha iniziato a lasciare tracce per i posteri.

Per convincersene, bastano poche considerazioni. Nelle migliaia di anni che precedono l'inizio di quello che Kuznets chiama «sviluppo economico moderno», l'economia ha dato all'uomo comune, al contadino solo la misera sussistenza durante una vita breve, segnata da enorme fatica, da malattie e da una indicibile monotonia di orizzonti. Gli splendori delle città assire, egiziane, greche, romane e medievali - per restare nel nostro piccolo mondo mediterraneo - testimoniano la creatività, anche economica, di una esigua minoranza e una distribuzione del reddito enormemente diseguale, non negano l'abbrutimento senza speranza dell'ottanta per cento della popolazione. Questo stato di cose ha cominciato, impercettibilmente, a mutare con quell'evento - sfuggito anche ai più acuti osservatori del tempo - che va sotto il nome di «rivoluzione industriale». Da allora sono passati solo duecento anni.

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Immanuel Wallerstein
Dimensione dell'economia di mercato


Ciocca fa un bilancio del XX secolo in dieci punti; nove riguardano il passato, uno è volto al futuro. Non ho nulla da eccepire sui nove punti riferiti al passato: concordo sull'analisi complessiva, fin nei particolari. Ma il decimo punto, sul futuro, mi sembra debole, concludendosi con un accenno a «questioni antiche, di difficile soluzione».

Ciò che manca, in questo breve scritto, è un riferimento autentico alla politica: i fenomeni economici richiamati paiono avvenuti al di fuori della dimensione della società, in una sorta di vuoto. Ma la sfera economica ha sempre radici profonde; ciò è vero anche in una «economia di mercato», pur contro ogni aspettativa (con buona pace di Polanyi). Il sistema capitalistico si inscrive in una cornice politica precisa. Specificamente, negli ultimi 400 anni esso ha richiesto l'esistenza di Stati sovrani legati tra loro in un sistema interstatale. L'assetto così creato è stato indispensabile per il funzionamento del sistema capitalistico. Il sistema basato sullo stato garantisce sicurezza attraverso la proprietà. Tiene a bada le pretese del lavoratore combinando repressione e concessioni. Consente che i costi vengano esternalizzati e li paga. Crea rendite da monopolio che, pur se parziali o temporanee, assicurano guadagni cospicui. Se non fosse per un simile scudo politico protettivo, sarebbe difficile capire come gli imprenditori possano accumulare capitale.

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(...) Il capitalismo reale non è stato sovvertito in nessun luogo, comunque non in maniera irreversibile. E sappiamo che, alla fine del XX secolo, quasi tutti i sistemi politici anticapitalistici (o quanto meno non capitalistici) sono stati abbattuti; quelli rimasti al potere hanno in larga misura rinfoderato le aspirazioni redistributive.

Lungi dal rappresentare il trionfo del capitalismo come sistema sociale questo decimo fatto, che per Ciocca caratterizza il XX secolo, che esprimendo la massima «possibilità sovvertitrice», distruggendo la speranza, ha annientato l'effetto stabilizzatore, sedativo, prodotto dall'ottimismo nel medio periodo. Le classi lavoratrici del mondo sono di nuovo in procinto di diventare le classes dangéreuses. Delegittimano lo stato, individualmente e collettivamente. Lo vediamo ovunque, dall'Italia agli Stati Uniti all'Algeria, per non parlare della Liberia e dello Zaire. Lo vediamo nei comportamenti illegali assunti sempre più apertamente sia dagli individui sia dalle imprese. Lo vediamo negli scandali e nel fatto che le persone sono scandalizzate. Lo vediamo nella diffusione di sistemi di sicurezza privati, chiara testimonianza della percezione che le persone hanno di vivere in una realtà troppo anarchica.

Se concordo dunque nel ritenere che l'economia di mercato «può» risolvere alcuni dei problemi con cui il secolo si chiude, non ritengo che questo risultato sia probabile. Lo ritengo improbabile. Ciò non perché all'interno del sistema capitalistico manchino tecnicamente soluzioni a questi problemi, ma perché il capitalismo stesso ha minato le strutture politiche che rendevano possibili tali soluzioni, come Schumpeter aveva affermato cinquanta anni fa.

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Pagina 75

Marcello De Cecco
Trionfo e nemesi della sovranità economica


Secolo breve o secolo lungo? La visione di Hobsbawm ha i suoi meriti, per la possibilità che offre di dare una chiave interpretativa forte agli eventi dal 1917 al 1989. Ma ha ragione chi nota, come Ciocca, che il 1917 non rompe la continuità, ma è anzi il prodotto di eventi lungamente preparati dalla storia, e che il 1989 nemmeno lui sorge dal nulla, ma è il prodotto di cause che si sono messe in moto nel corso del secolo e che forse non sono ancora spente. E' stato John Le Carré a ricordarci, qualche giorno fa, che la Perestroika del capitalismo è appena cominciata, seppure lo è. E quindi i conti col XX secolo li abbiamo tutt'altro che fatti. E rischiamo di farli a inizio di millennio.

Se dovessi, da economista, definire questo nostro secolo, direi che esso ha visto il trionfo e la nemesi della sovranità economica dello stato. Che è parafrasare in fondo Ciocca, quando parla delle molte facce della crisi dell'intervento dello stato in economia. Io darei a questo aspetto del XX secolo un risalto ancora più grande, tanto da farne la principale chiave interpretativa. Guardando a quel che è passato tra il 1870 e il 1914 non si può non rimaner colpiti dalla combinata ascesa, che ha luogo in quel periodo, dello stato contemporaneo (in tutte le sue fattezze, sviluppate o ancora embrionali) e di una globalizzazione altrettanto radicale di quella attuale. E' certo in quei decenni che stato nazionale ed economia si saldano e si proiettano all'esterno, a confrontare altre simili realtà. Sembra un processo virtuoso, foriero di sempre maggiori progressi. Ma a un tratto esso contraddice se stesso, determinando una catastrofe immane come quella del 1914-18.

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Eric J. Hobsbawm
Politiche nazionali e mercati transnazionali


Non vedo alcuna ragione per non essere d'accordo con la sintesi stringata ma lucida di Pierluigi Ciocca sullo sviluppo dell'economia mondiale nel XX secolo, tranne forse riguardo a ciò che costituisce «il secolo». Ma si tratta di un dissenso minore. Lo sviluppo dell'economia mondiale ha rappresentato un processo continuo, almeno a partire dalla prima rivoluzione industriale. Nessuna delle suddivisioni cronologiche che possiamo introdurre può distruggere tale continuità, ed esse pertanto sono tutte relative. Per ragioni di tradizione, di comodità e di aspettative del pubblico gli storici sono costretti a inquadrare i loro periodi nello schema dei «secoli», uno schema rigido e privo di significato storico, che si vedono poi costretti a estendere o ad accorciare a seconda delle questioni che li interessano. Periodizzazioni diverse non sono necessariamente incompatibili. Il mio «ventesimo secolo breve» non è in contrasto con il «ventesimo secolo lungo» di Giovanni Arrighi, il quale, interessato al susseguirsi a lungo termine delle economie egemoniche all'interno dello sviluppo del capitalismo, fa coincidere il XX secolo con l'egemonia dell'economia statunitense. Pertanto, egli lo fa iniziare intorno al 1870, quando l'eccezionale dinamismo degli Stati Uniti cominciò a diventare palpabile, e - logicamente - non lo ritiene ancora concluso.

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(...) A differenza dell'economia mondiale fino al 1913 - che per certi versi era altrettanto globale e transnazionale di quella odierna, e secondo alcuni anche di più - l'attuale economia globale ha rimosso le barriere al movimento di tutti i fattori di produzione, a eccezione del lavoro. Per ragioni politiche, e in primo luogo perché non vi è quasi paese al mondo i cui votanti non resistano all'immigrazione di massa, in particolare dal terzo mondo, essa vieta ciò che invece fino al 1913 era consentito e che è, in teoria, parte integrante del liberalismo economico, cioè la libera circolazione internazionale di lavoratori che mirano a massimizzare i guadagni. Per ragioni simili, i durissimi attacchi al peso finanziario delle politiche sociali finora hanno avuto effetti minimi o nulli. Ciocca ha riconosciuto la forza potenziale di tale rivendicazione politica o di tale rifiuto («il pericolo ultimo») nel caso delle possibili reazioni dei ceti medi a una nuova ondata di insicurezza economica. Il problema è di portata più vasta, anche se con il declino e la crisi dei vecchi movimenti politici e dei partiti orientati alla riforma sociale, i politici ne hanno sottovalutato - forse solo temporaneamente il potenziale a lunga scadenza.

L'economia di mercato e la politica hanno bisogno, o comunque devono tener conto l'una dell'altra. Tuttavia, come dimostra l'ostilità nei confronti dello stato da parte dell'attuale estremismo neo-liberista, i loro scopi e i loro modus operandi sono in conflitto, anche se i governi possono sperare di beneficiare della crescita economica, gli uomini d'affari della stabilità politica e sociale.

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Il problema fondamentale dell'attuale fin de siècle è che lo sviluppo dell'economia capitalista mette a repentaglio non tanto le prospettive economiche di questa, quanto piuttosto la sopravvivenza di quelle forze che forniscono la coesione sociale e politica - non ultimo lo stesso stato. Il pericolo è reso piu grave dall'attuale egemonia di una teologia del laissez faire. Ed è essenziale che la reale portata di tale pericolo venga riconosciuta, come è stata riconosciuta da uno dei grandi beneficiari della nuova finanza transnazionale. Con George Soros, dobbiamo prendere atto che il pericolo maggiore a cui oggi andiamo incontro è il capitalismo senza controllo pubblico.

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Giorgio Lunghini
Governare la «macchina»,
governare le aspettative


Pierluigi Ciocca, ragionando sul futuro, distingue la «macchina» dai problemi e con prudente corsivo scrive che «l'economia di mercato può risolvere tre fra i problemi con cui il secolo termina»: quello della sovrappopolazione e delle migrazioni, quello del degrado ambientale e quelli, interrelati, della stabilità monetaria, di una crescita più regolare, del lavoro.

Anche Keynes, nel 1930, scriveva che il problema economico, il problema della povertà nell'abbondanza, potrebbe essere risolto e che entrambi i contrapposti pessimismi si sarebbero dimostrati erronei nel corso di quella stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento, e il pessimismo dei reazionari, i quali ritengono che l'equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti. Keynes sosteneva che la malattia della disoccupazione tecnologica (il fatto che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera) sarebbe stata soltanto una fase di squilibrio transitorio e che nell'arco di cent'anni l'umanità avrebbe risolto il suo problema economico.

Geminello Alvi
Le tre fenomenologie del secolo

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Pagina 114

Non è questa la sanzione di un ricorso, la presa d'atto di un ciclo che si chiude e in cui ritorna quello che pareva per sempre trascorso? Come le teorie di Smith nel Settecento o di Friedman nel tardo Novecento sono la forma storica differente, ma d'un identico approccio liberista; così Keynes e il Keynesismo sono stati il modo nel quale tra gli anni Trenta e gli anni Settanta del Novecento sono ritornati i modi e le teorie del mercantilismo. Questa è in effetti la prima regolarità di cui finora poco si è detto. Tutto il nostro secolo dà, pur nella sua varietà, una precisa conferma di come mercantilismo e liberismo non siano delle attitudini storiche limitabili al passato, ma piuttosto modi di pensiero ciclici che si reincarnano. La prima guerra mondiale e la crisi del 1931-33 ridanno vita ad una percezione degli atti economici mercantilista. Ed essa dura fino agli anni Ottanta, quando ciclica ritorna di nuovo a una fase liberista. Attenzione alla domanda interna e sua protezione statale, ricerca d'un surplus in conto merci, burocratizzarsi della produzione, politiche statali per l'occupazione: modi ricorrenti del mercantilismo. Una crescita della economia dipendente anzitutto dal commercio estero, flussi d'investimenti all'estero crescenti, relativizzarsi della produzione; modi ricorrenti del liberismo. Questo secolo ha offerto dei modi formidabili per studiare la ricorsività e i caratteri originali di questi due primigenii modi di pensiero.

Ma la possibilità si trascura. Anzi proprio degli storici arrivano a dire breve questo secolo identificando le sue novità con Keynes e Roosevelt o con la rivoluzione russa. Ma breve è stata soltanto la fase mercantilista, in cui vanno anche ricompresi gli esperimenti di socialismo di stato. Per il resto il secolo non è stato affatto breve, ma come dicevo lungo, e varissimo e composito. Nella sua parte finale dagli anni Ottanta, anzi, rema controcorrente, alla Fitzgerald, verso un liberalismo totale.

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Pagina 122

Per quanto riguarda infine la terza permanenza descritta in questo scritto, ovvero l'egemonia degli anglofoni, essa ha donato al secolo un indubbio pragmatismo, e soprattutto ha prevalso nella seconda guerra mondiale sulla pura barbarie. Tuttavia essa ha pure esagerato la economicizzazione del mondo. Campi della vita non mercantili come la cultura, o il sentirsi felici, sono oggi appaltati dall'economia di Peter Pan, e di mercati finanziari che sono evoluti a lotterie. Il tutto è divenuto mercato: questo l'esito del secolo americano. E allora il compito conoscitivo più sano sarà quello di ritornare a Sombart, ma anche a Polanyi. Ricominciare a spiegare, come lui spiegava che terra, lavoro, moneta non sono neppure loro merci. Delimitare l'economico, e il mercantile e studiare il capitalismo non come un sistema di sfruttamento, ma invece come un sistema di confusione conoscitiva organizzata: questo il terzo compito d'una non retorica scienza economica.

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Charles P. Kindieberger
Rasolo di Occam o causazione multipla?


Le dieci questioni che secondo Pierluigi Ciocca caratterizzano il XX secolo pongono il problema della parsimonia nel dare la spiegazione degli eventi. Monetaristi, keynesiani, marxisti, fautori della nuova teoria dello sviluppo, istituzionalisti, convinti sostenitori del mercato e altri storici economici a una dimensione dovrebbero riconoscere che i fatti sono talvolta più complessi. Gli eventi economici di rado possono essere attribuiti interamente a un'unica scelta nell'ambito di una alternativa tra ipotesi antitetiche: fattori strutturali e fattori monetari, autorità centrale e pluralismo, libero mercato e interventismo, decisioni economiche indipendenti prese con consapevolezza contrapposte a un comportamento gregario e asimmetria delle informazioni. E' utile in alcuni casi aggregare, in altri disaggregare. In un noto saggio, Albert Hirschman si è dichiarato contrario alla parsimonia. Ciò rende difficile la vita di uno storico dell'economia.

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Pagina 131

Giangiacomo Nardozzi
Dall'Europa all'Asia e... di nuovo Europa?


Tra i fatti rilevanti del secolo che si chiude ce n'è uno, generalissimo, trascurato da Pierluigi Ciocca, che credo invece vada sottolineato perché molto condizionerà il futuro, l'inizio del prossimo millennio. Il fatto, impressionante, è che nel Novecento la storia ha fatto un balzo formidabile nel suo cammino che muove da Est verso Ovest, come fa il sole ogni giorno, forse mostrandoci il nostro percorso.

Il secolo si apre con l'asse della storia ancora centrato in Europa dove era giunto muovendo, molto tempo prima, da oriente. Per arrivarci, nel Sud dell'Europa, aveva impiegato i tanti secoli che sfumano nell'origine della storia stessa. Per risalire, verso il Nord dell'Europa aveva affrettato, seppur lentamente, il passo. Per attraversare l'Atlantico è bastato molto meno: dalla rivoluzione industriale inglese e da quella politica francese fino all'inizio del «secolo breve» di Hobsbawm. Per migrare dal continente americano, attraversando il Pacifico, verso la Cina, avviandosi a chiudere il cerchio, sono bastati gli ultimi anni.

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Pagina 135

Ernst Nolte
Economia mondiale e politica degli stati


Che il XX secolo abbia rappresentato l'epoca dell'affermazione e del massimo sviluppo dell'«economia mondiale» sembra essere opinione comune a tutti gli autori di questo volume. Chi legge la trattazione di Ciocca e i contributi di Sylos Labini e Toniolo potrebbe avere l'impressione che dall'inizio del XIX secolo «l'economia mondiale» abbia improntato di sé, sempre più e con la forza cogente di un processo naturale, il proprio ambiente, cioè il globo terrestre e i rapporti di vita dell'umanità. Il prodotto nazionale lordo è aumentato di un multiplo; la durata media del lavoro settimanale è diminuita di quasi la metà; i metodi di produzione sono diventati sempre più efficienti; il progresso tecnico si è esteso ai rami più antichi e semplici dell'economia come l'agricoltura; un proficuo scambio dei beni più disparati ha messo in stretto collegamento luoghi lontanissimi del globo; né crisi né guerre sono riuscite ad arrestare questo sviluppo, hanno avuto soltanto il ruolo che anche nella crescita dell'essere vivente più sano assumono malattie o stati di debolezza occasionali.

(...)

«Economia mondiale» sarebbe tuttavia una definizione in sé inadeguata per lo stato attuale delle cose: una sorta d'economia mondiale esisteva già nell'Impero romano. L'economia del XX secolo si affida totalmente alla concorrenza tra una moltitudine di imprese e stati ed è stata ed è a tal punto segnata dalla tecnica, anzi dalla scienza, da non poter essere più designata con il vecchio nome di «capitalismo», bensì come «economia tecnico-scientifica di concorrenza». Gli stati che per riuscire a star meglio al passo hanno sostituito al loro interno la concorrenza con la pianificazione vanno considerati come un particolare tipo di imprese, «dittature dello sviluppo». Solo nella loro immaginazione, quindi, gli stati «socialisti» dei decenni dal 1917 al 1991 hanno rappresentato un'alternativa all'economia tecnico-scientifica di concorrenza detta «economia di mercato». In realtà facevano parte del mercato mondiale anche allorché sembravano esserne fuoriusciti. In seguito, consapevolmente vi si integrarono sempre più, finché anche al loro interno la concorrenza - la gara di soggetti economici relativamente indipendenti per la conquista di quote di mercato e di utili - riuscì ad affermarsi. Ciò è accaduto nella Repubblica Popolare Cinese, all'incirca dopo la vittoria di Deng Hsiaop'ing sui maoisti ortodossi. Così, alla fine del XX secolo l'economia mondiale di mercato sembra essere divenuta padrona indiscussa del mondo.

Ma anche nel quadro di un'economia tecnico-scientifica, «mercato» significa ciò che ha significato per mille anni: l'orientamento dei soggetti del mercato al proprio vantaggio immediato, la noncuranza per le eventuali conseguenze non immediatamente percepibili. I trasportatori insistono per la costruzione di strade e la «cementificazione» del paesaggio li lascia indifferenti. L'industria chimica, certo su desiderio e nell'interesse dei contadini, vuol vendere fertilizzanti e trascura l'effetto a lungo termine dei pesticidi. Il mercato, è vero, racchiude in sé tendenze riequilibratrici, come lo spostamento della produzione e dunque dell'occupazione nel «paesi a basso salario»; ma fonda il suo funzionamento sull'esistenza delle diversità e produce continuamente nuovi squilibri. Le posizioni nel mercato sono fin dall'inizio più forti o più deboli; i terms of trade tra le nazioni sono favorevoli per alcune, sfavorevoli per altre; un partecipante al mercato ha successo, l'altro fallisce. Il fatto che i metodi di produzione siano sempre piu permeati dalla scienza non cambia sostanzialmente queste antichissime realtà.

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Pagina 141

Io sostengo che non già lo scoppio della guerra nel 1914, ma la «rivoluzione di ottobre» dei Bolscevichi, russi e non, creò, anche se non necessariamente determinò, quella situazione che doveva improntare il carattere del XX secolo fino al disfacimento dell'Unione Sovietica negli anni 1989-91. E' vero che anche questa rivoluzione fu il risultato della sconfitta di uno stato belligerante e del putsch di una minoranza; soprattutto, essa rappresentò il primo serio tentativo nella storia del modo di realizzare l'aspirazione dell'umanità a uno stato planetario, guidato da un disegno consapevole e capace di imbrigliare il moto spontaneo dell'economia mondiale. Per questo essa doveva accendere così grandi speranze e scatenare così forti resistenze, quali una guerra, per quanto spaventosa, non avrebbe mai potuto di per sé produrre. Già nel 1919 influenti politici alleati avevano pensato di fare della Germania appena sconfitta un vallo contro la Russia sovietica e contro il movimento comunista mondiale; un anno più tardi l'avanzata dell'Armata rossa su Varsavia scuoteva nel profondo i governi occidentali. In questi anni, dunque in fin dei conti già nel 1917, ebbe inizio in Russia, nel segno delle misure di annientamento della «borghesia», quel grande conflitto ideologico che può essere designato come la «guerra civile europea». Esso derivò il suo carattere specifico dal fatto che, nel 1922 in Italia e nel 1933 in Germania, i movimenti militanti anticomunisti - che dovevano nascere - riuscirono, a seguito di particolari circostanze e decisioni, a impadronirsi di ogni potere. Questa guerra civile, dapprima soltanto europea e non ancora mondiale, nel 1945 vide la sua fine dopo la vittoria della ideocratica Unione Sovietica e dei suoi alleati occidentali, sulla ideocratica Germania di Hitler.

 

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Riferimenti


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