Autore Ewan Clayton
Titolo Il filo d'oro
SottotitoloStoria della scrittura
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2014, Saggi , pag. 394, ill., cop.fle., dim. 14x22x2,7 cm , Isbn 978-88-339-2538-7
OriginaleThe Golden Thread. The Story of Writing
EdizioneAtlantic, London, 2013
TraduttoreBenedetta Antonielli D'Oulx
LettoreCristina Lupo, 2014
Classe scrittura-lettura , comunicazione , libri , storia sociale , storia letteraria , storia: Europa












 

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Indice


  9       Introduzione


 15   1.  Le fondazioni romane

 47   2.  La comodità del codice

 73   3.  Parlare attraverso i sensi

100   4.  Il Nuovo Mondo: la scrittura e la stampa

133   5.  Voltando pagina: Riforma e rinnovamento

161   6.  Ritorna la scrittura manuale

193   7.  Riordinando l'universo della parola scritta

211   8.  L'avvento dell'industria

241   9.  L'era industriale

271  10.  Rivoluzioni: nell'arte e nella stampa

305  11.  Sogni alternativi

341  12.  Artefatti materiali


364       Ringraziamenti

367       Note

385       Indice dei nomi


 

 

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Pagina 9

Introduzione


Siamo a uno di quei punti di svolta, nella parola scritta, che raramente si presentano nella storia. Stiamo assistendo all'introduzione di nuovi mezzi di comunicazione e di nuovi strumenti di scrittura. Nell'alfabeto latino è accaduto solo due volte prima d'ora: nell'antichità, con il processo che nei secoli ha portato a sostituire i rotoli di papiro con i libri di pergamena, e verso la fine del XV secolo quando, nell'arco di una sola generazione, i caratteri mobili di Gutenberg si sono diffusi in tutta Europa. I tempi stanno cambiando, e per un certo periodo molte convenzioni riguardanti la parola scritta diventeranno fluide: saremo liberi di reimmaginare la qualità dei nostri rapporti fondati sulla scrittura e creare nuove tecnologie. Su quali elementi fonderemo le nostre scelte, che cosa sappiamo della storia della scrittura? Forse il primo passo per rispondere a queste domande è capire in che modo la scrittura è arrivata a essere ciò che è.

[...]

Il libro che avete fra le mani è nato dal desiderio di raccontare una storia della scrittura dell'alfabeto latino che riunisse in sé tutte le discipline che vi attengono, anche se il mio punto di vista fondamentale rimane quello di un calligrafo. Il sapere riguardante la parola scritta si trova nei luoghi più svariati, custodito dagli esponenti delle più diverse culture: gli epigrafisti (che studiano le iscrizioni su pietra), i paleografi (che studiano la scrittura antica), i calligrafi, i tipografi, gli avvocati, gli artisti, i disegnatori, gli incisori di caratteri, i pittori d'insegne, gli scienziati forensi, i biografi e molti altri ancora. L'impresa si è presentata a tratti impossibile, sembrava che ogni decennio e ogni disciplina avessero i propri esperti: come ricostruire cinquemila anni di storia? Ho dovuto accettare i miei limiti, ma spero di aver saputo offrire un assaggio dell'argomento, una breve panoramica che vi spingerà ad approfondire la materia.

In un certo senso questo libro è una storia della pratica artigianale della parola scritta, un'idea forse un po' fuori moda. Nell'ottobre 2011, quando ero ancora immerso nella composizione di queste pagine, è sfortunatamente morto Steve Jobs. Nello stesso mese usciva la sua biografia autorizzata. Chiunque abbia studiato la vita e le opere del cofondatore della Apple concorda su un aspetto: Jobs era un grande patito della qualità artigianale e del design, e fu questo a fare la differenza, per lui e per la Apple. Due visioni sembrano avere concorso a questa passione. La prima era che «bisogna partire dall'esperienza del cliente, e intorno a questa sviluppare la tecnologia», l'altra era che i grandi prodotti sono il trionfo del gusto, e il gusto si forma «esponendosi alle cose migliori realizzate dall'essere umano per poi tentare di portarle in quello che si sta facendo».

Ne è stata conferma una delle esperienze più significative di Jobs, quando si è esposto alla storia e alla pratica della "scrittura" dopo avere abbandonato un corso di laurea al Reed College di Portland, nell'Oregon. Il Reed era una delle poche università nordamericane a offrire corsi di calligrafia. Quando il cofondatore della Apple decise di seguire l'ispirazione e dedicarsi a questa disciplina, scoprì un vasto campo della storia culturale, e la raffinata qualità artigianale della scrittura a mano e della tipografia furono per lui una rivelazione. Il nuovo interesse lo rafforzò nella convinzione - mutuata dal padre adottivo, ingegnere meccanico - che quella artigianale fosse una dimensione molto importante.

E il tecnologo Steve Jobs di sensibilità artigianale ne aveva. Sapeva quanto sono importanti il look and feel di un ambiente informatico, il suo aspetto esteriore e la sua maneggevolezza; sapeva che il nostro modo di rapportarci agli oggetti non è solo un valore aggiunto ma ci coinvolge nel profondo, ci permette di entrare in contatto con essi e conviverci, umanizzando le nostre modalità di comunicazione. In verità, ripercorrendo le tappe di questa vicenda incontreremo moltissimi altri individui, che come Jobs si sono sforzati di rendere la comunicazione interpersonale un'esperienza più ricca e soddisfacente. Questa è la loro storia, e avendo noi ereditato le loro scelte, è anche la nostra storia.

Uno degli aspetti di cui mi sono accorto scrivendo questo libro è che il nostro rapporto con la parola scritta è molto giovane. La scrittura ha cominciato a diventare un'esperienza condivisa solo nell'ultimo secolo, e solo negli ultimi decenni i giovani hanno sviluppato una loro autonoma cultura grafica. La scrittura ha davanti a sé un futuro luminoso. Potremo continuare a reimmaginare il suo modo di parlare alla nostra essenza umana? Io dico di sì... proviamo e vediamo.

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Pagina 17

Ma siccome il mio obiettivo fondamentale è raccontare la storia della scrittura basata sulle lettere latine, per seguire il movimento dell'alfabeto fino in Grecia e quindi a Roma non è necessario soffermarsi in dettaglio sugli infiniti andirivieni degli scritti alfabetici e sillabici nell'area del Mediterraneo orientale. Va tuttavia osservato che dalla scrittura semicorsiva dei fenici che popolavano le città della costa cananea, come Biblo, Tiro, Sidone, Berito (Beirut) e Ascalona, derivano tutti i rami successivi della scrittura alfabetica. Il più significativo è il ramo aramaico, da cui discendono a loro volta le grandi famiglie delle scritture ebraica, araba e indiana.

In contrasto con la proliferazione di forme che caratterizza lo spostamento dell'alfabeto verso sud-est, il suo viaggio verso nord-ovest implica una maggiore concentrazione. Alla fine un'unica versione giunse a dominare le aree dalla Scandinavia fino al Mediterraneo: quella dell'alfabeto proveniente dalla città di Roma.


I Greci

Fra i pendii del Vesuvio dormiente la Baia di Napoli descrive una curva che si estende verso sud per oltre una trentina di chilometri. A nord, superato il capo, sorgeva la colonia ellenica di Cuma, fra i primi insediamenti greci in Italia. Due isole si ergono a guardia dell'ingresso nella baia: a sud Capri e, a nord, Ischia con le sue sorgenti termali e i fanghi vulcanici, anch'essa candidata a sede della più antica colonia greca nella regione del Lazio. Nei ricchi terreni vulcanici dell'entroterra ancora si producono i vini notevolmente apprezzati ai tempi dei Romani. La sfolgorante bellezza della baia ne fece in seguito una zona vacanziera tuttora ricercatissima dai VIP. Attraverso le colonie di Ischia e Cuma, insediatesi nell'VIII secolo a.C., giunse per la prima volta in Italia la scrittura da cui nacque l'alfabeto latino. E da quel terribile giorno d'estate — il 24 agosto 79 d.C. — in cui il Vesuvio eruttò, scatenando l'orrore nella baia e seppellendo le città e gli insediamenti romani ai piedi del vulcano, l'area è diventata il più ricco bacino di testimonianze sulle pratiche di scrittura in uso presso i Romani.

Fin dal 1400 a.C. circa, nel periodo minoico-miceneo, i Greci hanno usato un sistema di scrittura sillabico: la Lineare B. Ma i mercanti che commerciavano con le città fenicie del Levante si erano imbattuti in un alfabeto nuovo, più semplice, che rappresentava ogni singola consonante. Fu probabilmente a Cipro, situata ad appena 200 chilometri dalla costa libanese, che questo nuovo alfabeto mise le prime radici. Fu adattato ai parlanti greci per mezzo di lettere che rappresentavano non solo le consonanti ma anche le vocali, fino a diventare una scrittura alfabetica pienamente fonetica, dove ogni suono pronunciato da un parlante greco corrispondeva a un segno grafico. Un recente studio sull'adattamento alfabetico indica che chi condusse questo processo conosceva un sistema sillabico ancora precedente, probabilmente il sillabario cipriota-minoico, certamente in uso a partire dall'anno 1000 a.C. circa. Ciò implicherebbe che la scrittura non è giunta in Grecia in due tempi, come si è sempre creduto, tramite due diverse culture dell'espressione scritta, da una parte la greco-minoica Lineare A e la greco-micenea Lineare B, dall'altra l'alfabeto (con un misterioso salto cronologico fra le due tradizioni). Sta diventando ormai chiaro che la storia della scrittura in Grecia è stata un processo continuo, che da un sistema alfabetico più rigido e complesso è passato a un altro più popolare e accessibile. L'uso del sistema sillabico era comunque circoscritto; i testi sopravvissuti consistono principalmente in elenchi di proprietà. Il nuovo sistema, originatosi nella prima metà del IX secolo a.C., ebbe un'ampia diffusione. All'inizio le città greche avevano ognuna la propria variante. Alla fine predominarono due sistemi di scrittura, l'alfabeto ionico orientale, che s'impose in seguito in tutta la Grecia, e la sua variante occidentale concentrata nell'Isola di Eubea (Fig. 5). Fu quest'ultima a giungere, meno di due secoli dopo, fino in Italia. L'alfabeto greco occidentale è caratterizzato da lettere strette e verticali, diverse dalle forme più quadrate della variante ionica. La caratteristica forse più evidente, per un occhio moderno, è il fatto che la lettera Delta è un triangolo che si regge protendendosi verso destra da un'asta verticale come la nostra moderna lettera D, al contrario della D della versione ionica, dove si regge sulla base come una piramide. L'alfabeto greco occidentale comprende inoltre le lettere F, S e L, con un orientamento simile a quello delle varianti latina ed etrusca.

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[...]

La principale conclusione che possiamo trarre è che quando, attraverso gli insediamenti greci in Italia, le lettere greche passarono al sistema di scrittura latina (direttamente o attraverso gli etruschi) non acquisirono soltanto la morfologia delle lettere, ma un concetto dell'alfabeto come sistema di forme proporzionali. Più tardi, quando gli scalpellini romani s'ispirarono alle più sviluppate forme greche, il messaggio fu ulteriormente rafforzato. Questo concetto fornisce una chiave d'interpretazione per il successivo sviluppo delle lettere romane. Gli alfabeti greco e latino cominciarono a essere visti non come ventidue o ventisei forme gettate a caso, ma come un sistema interconnesso di elementi proporzionali analogo all'idea classica di "ordine" architettonico, o al canone di Policleto usato per le statue greche. Il particolare tipo di rapporti fra gli elementi varia fra le diverse "scuole" di artisti e talvolta, negli anni, anche all'interno dell'opera di un singolo autore. Questi rapporti sono alla base dello specifico aspetto assunto da uno stile di scrittura, o delle somiglianze di famiglia presenti al suo interno. L'intera arte della progettazione grafica dei caratteri risiede ancora oggi nel lavorare e giocare con questo sottile sistema di relazioni, in modi ora intuitivi ora più consapevoli. A un livello di analisi più profondo questi rapporti fra linee, pesi, curvature e ripetizioni possono fornire un'immagine grafica del modo in cui l'artista della lettera o il calligrafo vedeva i rapporti fra le cose. Certo, l'operazione di dare forma alle lettere veniva spesso eseguita in modo grossolano e frettoloso, per soddisfare le esigenze di un avventore impaziente, ma nelle mani di un artista raccontava una storia diversa, dava vita a una visione più ampia dei possibili rapporti fra persone o cose, parlava della bellezza, della verità e della virtù. Proprio come un matematico può essere colpito dalla bellezza di un'equazione o di un algoritmo, allo stesso modo un artista del lettering, mentre ricrea un alfabeto, può reagire davanti a una certa disposizione di forme e proporzioni. A queste forme la calligrafia aggiunge una dimensione ulteriore: il movimento, il gesto, la traccia di un'esecuzione in tempo reale, eseguita con la penna, il pennello e l'inchiostro, dove la mano trova la sua strada fra diversi ordini di rammentate forme.

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I pennelli venivano utilizzati anche per iscrizioni murali e annunci temporanei di grandi dimensioni. A Pompei si possono ancora vedere varie pareti utilizzate a questo scopo, ed è stata scoperta l'abitazione di uno di questi scriptores pompeiani, Emilio Celere. Questi firmava molte sue opere, aggiungendovi spesso commenti del tipo: «Questo scrisse Emilio Celere da solo al lume della luna». Sulla stessa parete, più in alto, compare un'altra scritta di mano diversa: «Lanternaio reggi bene la scala». L'idea che questi professionisti agissero di notte è stuzzicante. Forse di giorno le strade erano troppo trafficate, o il calore del sole avrebbe potuto asciugare il colore sul pennello? O forse, semplicemente, gli autori volevano essere i primi a dare un certo annuncio per il giorno successivo?

Per essere al completo la squadra degli "affissionisti" doveva includere, oltre al lanternaio e al pittore d'insegne, qualcuno che reintonacasse la parete prima di utilizzarla. A Pompei, nei mesi precedenti l'eruzione del Vesuvio, si svolsero le elezioni, e alcuni proclami elettorali sono ancora visibili sui muri delle case (Fig. 3). Diversamente dalle capitali romane, le lettere di queste iscrizioni hanno forme più strette, occupano meno spazio e appaiono più ammassate, per ottenere probabilmente un più forte impatto visivo. Emilio Celere usava due stili diversi per i suoi proclami, uno dei quali era una forma compressa della capitale romana. Si chiamava scriptura actuaria, perché usata per aggiornare gli atti del Senato romano. Il pennello veniva tenuto ad angolo retto, ovvero parallelo alla riga di scrittura. Nell'altra forma di scrittura utilizzata da Emilio Celere, la capitalis, i rapporti di peso fra le lettere erano completamente diversi. Siccome il pennello veniva tenuto con la punta inclinata anziché diritta, formando con la riga di scrittura un angolo acuto, i tratti verticali risultavano più sottili e quelli orizzontali più spessi. Gli storici della scrittura hanno chiamato queste lettere "capitali rustiche" in contrapposizione alle capitali romane.

Questi due tipi di scrittura, la capitale quadrata e la capitale rustica, sono il risultato di due strategie che si prospettano naturalmente a chiunque immagini di tracciare linee modulate, ovvero un'alternanza di tratti sottili e spessi, in una scrittura che fino a quel momento ha sempre presentato un tratto monolineare, di pari spessore. Si offrono due alternative: tenere il pennello (o pennino) piatto, producendo caratteri di aspetto più formale che risultano leggermente più lenti da scrivere (le capitali romane adottano prevalentemente questa posizione per le aste principali, ruotando leggermente l'angolazione per le altre parti), oppure tenerlo decisamente inclinato ottenendo lettere più strette, veloci da scrivere e dai pesi più contrastati. Quest'ultima strategia fu adottata, a quanto sembra, per la scrittura d'uso quotidiano.

Le capitali quadrate e le capitali rustiche si svilupparono intorno alla metà del I secolo a.C., dalla comune sorgente delle capitali monolineari.

In quel periodo Roma era esposta a una grande varietà d'influenze estetiche, soprattutto egiziane (in Egitto si scriveva già da tempo usando tratti sottili e spessi, per via della particolare forma di pennelli e calami, che avevano la punta quadrata, a scalpello). La prima metà dell'ultimo secolo a.C. fu un periodo ricco di eventi nella storia romana; la conclusione di una lunga stagione di lotte interne portò alla sostituzione del vecchio sistema repubblicano con un nuovo sistema di governo sotto Augusto, primo Imperatore, pronipote di Giulio Cesare e suo erede designato. Durante il suo regno, dal 27 al 14 a.C., si affermò stabilmente la nuova forma delle capitali romane. Uno splendido esempio di questo antico carattere appare su uno scudo votivo scolpito in marmo di Carrara, ritrovato in Francia e risalente al 27 a.C.

Si ricorreva al talento degli scriptores non solo per le scritte sulle pareti degli edifici, ma anche per quelle sulle tavolette lignee, usate in molte città romane per esporre i decreti del Senato e altri pronunciamenti pubblici. Questi editti venivano talvolta incisi anche sul metallo. Le tavolette utilizzate per gli avvisi pubblici avevano spesso una sagoma particolare, con un manico cuneiforme che consentiva di trasportarle, appenderle o incastonarle su una superficie. Molte iscrizioni su pietra mostrano una forma del genere. Erano molto diffuse le tavolette in bronzo, utilizzate soprattutto per i documenti di congedo dei legionari: la disposizione veniva incisa su una tavola di bronzo affissa in Campidoglio, e ogni soldato ne riceveva una copia in miniatura. Quando il Tempio di Giove, sul Colle Capitolino, fu ridotto in cenere, oltre tremila tavolette di bronzo conservate nel tempio — come sappiamo dal tentativo dell'imperatore Vespasiano di farle ricostruire — andarono distrutte, molte riguardanti la storia più antica di Roma; erano l'equivalente dei nostri archivi di stato.


Le biblioteche romane

Nella Villa dei Papiri di Ercolano è possibile intravedere un altro aspetto del mondo erudito dei Romani: le biblioteche. Come sappiamo oggi, diverse generazioni prima dell'eruzione la villa era stata costruita da Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Giulio Cesare, e ospitava gli incontri di un famoso circolo di filosofi epicurei che includeva anche il poeta Virgilio; la dimora era sempre appartenuta alla famiglia. Nell'autunno del 1752, durante gli scavi successivi alla scoperta della villa, fu ritrovata una grande quantità di papiri disseminati per tutta la proprietà, presumibilmente raccolti in fretta e furia dal proprietario in un estremo tentativo di salvarli prima che finissero sepolti sotto metri di detriti vulcanici, che li ricoprono ancora oggi. Si tratta per lo più di testi greci, il che fa desumere che la metà latina della biblioteca debba ancora essere ritrovata.

I primi scavi del XVIII secolo portarono alla luce più di 1800 rotoli, conservati in una stanza di tre metri per tre, con le pareti rivestite di scaffali e, al centro, una libreria bifacciale di cedro. Per leggere i rotoli era probabilmente necessario trasportarli nel chiostro di un giardino adiacente, illuminato dal sole. Sotto questo aspetto l'architettura della villa seguiva l'esempio greco: anche la grande biblioteca di Pergamo, nell'Anatolia occidentale, aveva saloni e colonnati coperti dove i lettori potevano consultare la collezione.

I libri finora ritrovati nella Villa dei Papiri sono tutti rotoli di papiro, che seguono il modello greco appreso dagli Egizi. Il papiro è una pianta piuttosto insolita, con un fusto triangolare che consente di dividerne striscie lunghe e sottili. Queste vengono poi disposte l'una sull'altra a formare due strati, uno con liste verticali e l'altro orizzontali (le fibre davano origine alle righe destinate a ricevere la scrittura). I due strati venivano leggermente battuti e pressati con appositi martelli di legno, sfruttando le proprietà adesive delle sostanze naturali presenti nel fusto. S'incollavano poi i fogli di papiro per formare un lungo rotolo, sovrapponendo di circa un centimetro il margine destro di ciascun foglio ai margine sinistro di quello seguente, usando un impasto di farina e acqua. La superficie del reticolo veniva infine preparata per la scrittura: strofinata leggermente con sostanze abrasive, veniva poi ripulita con strumenti in osso o avorio, oppure imbiancata col gesso a seconda dei gusti dell'acquirente. Nei papiri più costosi i margini potevano essere spolverizzati con pigmenti colorati. I rotoli misuravano dai 13 ai 30 centimetri di altezza ed erano lunghi oltre 10 metri. Nella Villa dei Papiri è stato scoperto un rotolo di oltre 25 metri, mentre il Papiro Harris, conservato al British Museum, ne misura più di 40. Il rotolo veniva avvolto dalla parte interna intorno a due bastoncini di legno detti umbelici, cui era appesa una piccola etichetta in avorio o pergamena (syllabus) che identificava l'opera e spesso riportava la prima riga del testo: i titoli dei libri sono un'idea successiva.

I rotoli venivano infine riposti in casellari detti nidi, simili ai ripari dei nostri piccioni. Più tardi le biblioteche romane furono attrezzate con filari di nidi disposti lungo le pareti, tavole su cui distendere i rotoli per la lettura e astucci cilindrici di cuoio (capsae) destinati al trasporto. La lunghezza media di un rotolo di papiro determinava la lunghezza del testo delle opere scritte dagli autori latini. Siccome i nidi e le capsae non erano in grado di custodire più di dieci rotoli alla volta, opere come la storia di Roma compilata da Livio, Ab Urbe Condita, erano divise in "decadi", ovvero gruppi di dieci libri. Il testo era disposto in colonne, e la lunghezza delle righe variava a seconda del genere letterario: nell'oratoria si utilizzavano righe più corte che negli altri generi. In un rotolo le colonne proseguivano da cima a fondo senza soluzione di continuità; una singola sezione veniva talvolta contrassegnata come capitulum, mentre i segmenti più corti erano marcati da una breve linea a margine detta in greco paragraphos. Il termine latino per rotolo era rotulus o volumen, da volvo ("avvolgo"), origine dell'attuale termine "volume" per indicare il libro.

I rotoli di papiro avevano margini molto generosi in alto e in basso, ossia nelle zone più a rischio di danni. Per lo stesso motivo compariva di solito alle estremità del rotolo, anch'esse soggette a usura, qualche foglio di papiro bianco. Nelle pagine bianche di apertura veniva talvolta inserita una breve descrizione dell'opera, mentre in quelle finali erano spesso elencate le righe contenute. Di norma il rotolo era scritto da una parte sola.

[...]

Traiano inaugurò anche una nuova tendenza, poi ripresa dagli imperatori successivi: la costruzione di biblioteche all'interno dei bagni pubblici. Fu l'inizio di un movimento volto a trasformare queste istituzioni da luoghi strettamente adibiti all'igiene e alla pulizia a luoghi d'incontro anche culturale, dotati di saloni, spazi per letture pubbliche e spettacoli, negozi, giardini e palestre. I bagni pubblici diventarono i centri d'intrattenimento dell'epoca tardo romana.

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Le attività di scrittura legate a contabilità, archiviazione, tasse, affari e letteratura erano praticate in tutto il territorio imperiale, producendo quindi un'inevitabile varietà di pratiche documentarie. Se alcuni centri sperduti mantenevano i vecchi metodi, altri, più dinamici, favorirono riforme e innovazioni. Si possono distinguere alcune tendenze generali. Nella seconda metà del II secolo d.C. la corsiva romana antica aveva sviluppato un ductus più economico, ovvero una maggiore sobrietà quanto al numero, ordine e direzione dei tratti necessari per formare un carattere. La scrittura si stava velocizzando, e il primo segno fu l'arrotondarsi di alcune lettere come la E, la D, l' H, la L e la M. Questo stile più veloce fu adibito a usi nuovi: nelle sue versioni più accurate fu per esempio adottato nei libri di scrittura. La sostituzione dello stilo appuntito con una penna che faceva risaltare i contrasti fra pieni e filetti favorì lo sviluppo di una grafia piuttosto ampia e arrotondata: era l'esempio di un nuovo stile che, dalle sue origini nella scrittura comune, aveva assunto un aspetto formale grazie all'uso di strumenti che esigevano una mano più precisa, in questo caso la penna a punta tronca. L'inizio di questa tendenza è stato osservato in Africa del Nord, dove l'influsso greco era ancora molto forte e le lettere delle formali grafie librarie avevano già un aspetto tondeggiante. Ne derivò una grafia oggi nota come "scrittura onciale". Fu san Girolamo a battezzarla con questo nome, in un'invettiva contro le lettere di enormi dimensioni (il termine "onciale" deriva dal latino uncia, misura corrispondente alla dodicesima parte di un piede, ovvero quasi due centimetri e mezzo) di questa grafia che, allora, aveva assunto uno stile sempre più ostentato, ormai lontano dalle origini prosaiche della scrittura (Fig. 11). Ma esistevano più forme di onciale, diffuse in tutto l'Impero. Furono utilizzate per un migliaio d'anni, fino al Medioevo: sono in onciale i grandi libri dei Vangeli all'epoca di Carlo Magno, e le tre Bibbie confezionate in un unico volume tra il VII e l'VIII secolo nei due famosi monasteri gemelli dell'Abbazia inglese di Wearmouth-Jarrow, dove visse Beda il Venerabile. Sono onciali gli elaborati capilettera dei raffinati manoscritti medievali, e si deve infine alle onciali l'origine delle sinuose forme delle capitali gotiche. Se noi, oggi, siamo abituati a chiamare ogni carattere tipografico con il suo nome - Palatino, Times Roman - in questa fase storica della scrittura non esistevano forme definite, bensì soltanto mutevoli gruppi di caratteri - onciali, capitali romane, capitali rustiche e via dicendo - che si presentavano in una miriade di variazioni locali.

Considerando le sue origini nordafricane, non stupisce che Agostino, vescovo d'Ippona, scrivesse in caratteri onciali, come testimonia qualche frammento originale dei suoi scritti (354-430) arrivato fino a noi. La rapida diffusione del suo stile evidenzia un fenomeno che si ripete più volte nella storia della scrittura: i caratteri usati dagli autori celebri nei loro libri si propagavano con particolare rapidità. Non solo diventavano emblematici di un appetibile contesto culturale, ma l'ampia richiesta delle loro opere ne diffondeva lo stile in una vasta area geografica.

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2. La comodità del codice


Nell'agosto del 14 d.C, in punto di morte, Augusto fece testamento. Alle prime pagine redatte da lui stesso si aggiungono quelle scritte con l'aiuto di due liberti; il documento, sigillato, venne depositato presso il Tempio delle Vestali. Era in forma di codice (dal latino caudex, lista di legno), composto da un blocco di tavolette di cera legate insieme sul dorso. Come riferisce intorno all'85-86 d.C. il poeta latino Marziale, i libri di questo formato - confezionati con fogli di pergamena e ancora una novità - potevano essere trovati nella taberna del liberto Secondo dietro il Tempio della Pace, ovvero uno dei quattro librai che vendevano l'opera di Marziale nella città di Roma. Il poeta aggiunge che anche le opere di Virgilio, Ovidio, Cicerone e Livio erano disponibili in questa forma, e commenta:

Vuoi portarti dietro ovunque i miei poemi, compagni, per esempio, di un lungo viaggio in terre lontane? Compra questo. È in pagine di pergamena ben legate tra loro. Lascia a casa i tuoi rotoli, per questo ti basta una mano sola!

Il libro era compatto perché fatto di pergamena, ogni foglio scritto su entrambi i lati. La pergamena è legata sia alla tradizione ebraica sia a quella greca di Pergamo (da cui prende il nome). Narra la leggenda che la rivalità fra la biblioteca di Eumene II di Pergamo, fondata nel 190 d.C., e quella di Tolomeo di Alessandria, arrivò fino al divieto egiziano dell'esportazione del papiro, e i librai risposero tornando alla vecchia tradizione mediorientale di scrivere sulla pelle animale, sviluppando un materiale più nuovo e resistente. La pergamena viene confezionata con pelle animale, di solito vitello o pecora, immersa in una soluzione di acqua e calce per diverse settimane e poi fatta essiccare sotto tensione allungandola su una cornice di legno. È questo allungamento che allinea le fibre della pelle formando una superficie liscia e resistente su cui scrivere. È poi possibile levigare ulteriormente la superficie fino a ottenere lo spessore e il candore desiderati.

Il formato del codice era più facile da leggere rispetto al rotolo di papiro; era possibile aprirlo nel punto giusto senza bisogno di srotolarlo con entrambe le mani; né occorreva riavvolgerlo alla fine della lettura, operazione altrettanto scomoda. Due poemi di Marziale descrivono l'operazione praticata dai lettori, che stringevano sotto il mento il margine esterno del libro mentre riavvolgevano il rotolo attorno al bastoncino.

Nel VI secolo il formato del codice di pergamena era ormai il più diffuso. In quel periodo, con il progressivo declino della legge e dell'ordine all'interno del bacino mediterraneo e nei territori limitrofi, il regolare rifornimento di papiro dall'Egitto era diventato difficile e venivano di conseguenza ipersfruttati i canneti locali. Il papiro continuò a essere utilizzato per i documenti amministrativi ancora molto tempo dopo che si smise di usarlo per i libri; gli archivi annuali della corrispondenza papale rimasero su papiro fino al IX secolo, mentre i membri della comunità cristiana usarono tra i primi il codice di pergamena.

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L'ottavo capitolo della regola benedettina impone a ogni monaco di procurarsi un libro da leggere durante la Quaresima, il periodo che precede la celebrazione della morte e della resurrezione di Cristo; a tal fine, però, i monasteri avevano bisogno di biblioteche. La lettura monastica è tuttavia diversa dalla lettura cui siamo normalmente abituati noi. I moderni discepoli di san Benedetto, che hanno conservato l'antica pratica della lectio divina, paragonano la lettura sacra al ruminare d'una mucca che mastica il bolo testuale. Bisogna prendersi il tempo necessario, leggere con calma passaggi molto brevi, ripeterli mentalmente e dedicare molte ore alla lettura, lasciando che le parole ci interpellino. Io so bene, dai pochi anni che ho trascorso in un monastero benedettino, quali ricche associazioni possano nascere da un impegno meditativo del genere. È un modo di leggere molto lontano da quello a tappe forzate con cui di solito cerchiamo di estrarre informazioni dal testo. Poiché i libri monastici andavano continuamente letti e riletti, le biblioteche non avevano bisogno di grandi spazi. La sapienza non andava semplicemente acquisita: bisognava immergervisi.

Un secondo utilizzo per questi libri nei monasteri era liturgico: i testi venivano letti ad alta voce durante il culto cattolico e servivano da breviario per l'ufficio divino. Le funzioni seguivano cicli liturgici che ogni monaco doveva conoscere a memoria; al centro di queste funzioni c'erano i Salmi, che i giovani appena entrati in monastero dovevano per prima cosa imparare a mente.

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[...] Alla fine del XIII secolo l'Università di Parigi aveva un proprio sistema di spedizione per la corrispondenza e le merci, aperto anche al pubblico. Varie monarchie europee reintrodussero il sistema romano dei corrieri a cavallo che sostavano lungo le apposite stazioni, o positae (da cui il nome posta). Una casata, quella dei Tasso di Camerata-Cornello - un borgo nei pressi di Bergamo - che dal 1290 gestiva i servizi di spedizione fra le città italiane, nel 1489 arrivò a collegare buona parte d'Europa, e nel 1500, con sede a Bruxelles, poteva contare su oltre 24 000 corrieri a cavallo. Il servizio fu attivo fino al XVIII secolo.

Dietro alle numerose tappe che hanno segnato la storia della scrittura in Europa occidentale c'è sempre un Deus ex machina: l'Italia. Nei momenti cruciali si è sempre tratta ispirazione dalle vaste riserve delle biblioteche italiane, dai sistemi d'amministrazione sopravvissuti in questo paese, dalla sua popolazione, dalle città mercantili aperte verso il Nord Africa fino al Medio Oriente, dal suo patrimonio architettonico, e soprattutto dal suo storico ingegno, culla della civiltà europea occidentale (nata, non dimentichiamolo, in Grecia e poi influenzata da Costantinopoli e dalla cultura araba). A questo punto della nostra storia l'Italia sta per entrare nella sua seconda ora più bella, anticipata però da una grande tragedia.

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A questo punto mi trovo in bilico fra due affermazioni apparentemente contradditorie. Se da una parte non posso sottovalutare l'impatto della nuova invenzione sulla forma che avrebbe assunto la parola scritta, dall'altra inviterei alla cautela: la sua importanza non va enfatizzata eccessivamente. Ampliando lo sguardo, vediamo che si tratta di uno dei tanti momenti che hanno rivoluzionato la storia documentaria e della scrittura. Una fase circoscritta, limitata a una singola cultura la quale, al suo interno, ha avuto altrettanti momenti - uno lo stiamo vivendo adesso - di grandissimo impatto, veri e propri cambiamenti di paradigma. La stampa, inoltre, ha influenzato il mondo del libro ma non l'universo totale della scrittura. C'erano, e ci sono, manufatti scritti di altro tipo - diari, lettere, elenchi e appunti annotati a mano - che non sono stati neppure sfiorati da questa trasformazione, così come i documenti contabili, commerciali e legali, e persino, come vedremo, alcuni tipi di libro che hanno dovuto attendere quasi due secoli prima di essere stampati.

Altri metodi di stampa erano già stati inventati molti secoli prima. Sulle antiche tavolette di argilla le parole venivano infatti impresse più che scritte. Il Disco di Festo, ritrovato sull'isola di Creta e risalente al 1600 a.C. circa, è ricoperto di simboli lasciati sull'argilla ancora fresca per mezzo di stampini. I timbri utilizzati nell'antichità erano anch'essi un modo per stampare un'immagine. In Cina, dal X secolo in avanti, le opere dei più celebri calligrafi venivano ricalcate, ripassate a colori con il pennello e poi trasferite sulla superficie di una stele di pietra tramite il pigmento rilasciato, dopodiché venivano incise e riprodotte su carta tramite sfregamento: le lettere apparivano chiare su fondo scuro. Alcuni incantesimi venivano custoditi all'interno di piccoli rotoli stampati, sia in Cina sia - risalendo fino al 764 - sia in Giappone, dove l'imperatrice Shotoku ordinò di realizzare un milione di minuscole pagode e di collocare in ciascuna di esse dei dharani stampati su carta e costituenti dei sottili rotoli lunghi anche 57 centimetri. Per quasi 1200 anni in Cina, Tibet, Corea e Giappone il principale metodo di stampa era basato su una matrice in legno. Il primo esempio di testo cinese stampato con questo sistema, e giunto intatto fino a noi, è una copia del Sutra del Diamante, dell'868. Ritrovato nel 1900 all'interno di una grotta nel nordest della Cina, insieme ad altri quarantamila tra rotoli e frammenti, il rotolo è lungo cinque metri e stampato con sette blocchi di legno. Con una sola matrice si potevano eseguire oltre mille impressioni al giorno. Henri-Jean Martin cita una bibliografia dei libri pubblicati in Giappone prima del 1867 e comprendente 600 000 opere, ossia «una cifra superiore a quella delle edizioni a stampa di ciascuno dei grandi paesi europei». La tecnica dei blocchi in legno permetteva inoltre, aggiunge Martin, d'integrare facilmente sulla stessa matrice immagine e testo. Questo metodo di stampa era praticato anche nell'Europa dei tempi di Gutenberg.

In Cina, nel 1045 d.C., Bi Sheng creò un sistema di stampa che utilizzava caratteri mobili in argilla, ma l'elevato numero di lettere presenti nella lingua cinese ne ostacolò l'adozione. Nel 1407 il re coreano Seycong commissionò la produzione di un metodo di stampa basato su caratteri mobili che fu realizzato nel 1409; più tardi promulgò — per poter abbandonare i caratteri cinesi e scrivere in coreano — un nuovo sistema di scrittura, l'alfabeto hangul, di diciotto consonanti e dieci vocali. Anche se non si diffuse mai ampiamente fino al XX secolo, l' hangul facilitò enormemente il sistema della stampa.


La carta

Il successo della stampa in Europa fu anche legato a una serie di sviluppi paralleli. Senza la disponibilità di una materia prima abbondante e poco costosa come la carta, l'invenzione della stampa non si sarebbe potuta diffondere così ampiamente. I metodi di fabbricazione della carta giunsero in Europa attraverso il mondo arabo dalla Cina, dove ebbero origine nel 105 a.C. Nel 790 la carta veniva fabbricata a Baghdad e nel 1120 anche a Xàtiva, in Spagna. Temendo che si trattasse di un materiale deteriorabile, nel 1145 Ruggero II di Sicilia ordinò di trascrivere tutti i documenti di proprietà su pergamena, distruggendone gli originali cartacei. Nel 1231 Federico II di Svevia, anch'egli re di Sicilia, ne proibì l'uso per gli atti pubblici. A quell'epoca la carta veniva fabbricata in Francia e in Italia.

Nei primi tempi l'arte cartaria si concentrò intorno a Fabriano, nelle Marche, zona famosa per i rapidi corsi d'acqua pura e la lavorazione del metallo. A Fabriano il vecchio sistema di fabbricazione basato su macine di pietra e mortai - che servivano a triturare e ridurre in poltiglia gli stracci di canapa e lino, vecchie corde e altri cascami dell'industria tessile - fu rivoluzionato dall'uso dell'albero a camme, che convertiva il moto rotatorio di un mulino ad acqua in un movimento alternato capace di alzare e abbassare grandi magli di legno che battevano i tessuti fino a ridurli in poltiglia.

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Il tipo aldino


Il miglior carattere tipografico dell'epoca fu prodotto a Venezia, per opera del francese Nicolas Jenson (1420-1480). Formatosi come incisore della zecca a Tours, Jenson aveva seguito un apprendistato con Gutenberg a Francoforte e disegnato alcuni caratteri per i fratelli von Speyer (Johann e Wendelin), titolari per breve tempo - verso la fine degli anni sessanta del XIV secolo - di un monopolio tipografico a Venezia. Quello di Jenson era un carattere rivoluzionario, che portava le lettere minuscole in linea con le capitali epigrafiche in voga a quel tempo, adattandone le grazie alla forma - che ne era priva - delle capitali romane (riuscendo stranamente a mantenere la forma essenziale e lapidaria delle maiuscole). Non è dato sapere da quale modello egli avesse tratto il suo carattere, che fu il primo riconoscibile carattere romano moderno (Fig. 28).

A segnare lo standard tipografico del secolo successivo, sia nel tondo sia nel corsivo, fu tuttavia lo stampatore-editore Aldo Manuzio, noto fino a quel momento per le sue innovazioni nella pubblicazione di testi greci. Nel 1496, come abbiamo visto, lo stampatore veneziano aveva pubblicato il De Aetna, un piccolo trattato di Pietro Bembo - figlio di Bernardo, grande amico di Bartolomeo Sanvito -, la cui grande particolarità era il nuovo carattere a stampa (Fig.29). Come afferma lo storico Harry Carter, «il tondo creato da Manuzio per il trattato di Bembo, il De Aetna, fu decisivo nel dare forma all'alfabeto degli stampatori». Le minuscole erano disegnate in modo da conformarsi alle capitali lapidarie, che a loro volta si accompagnavano a quelle formando

lunghi tratti diritti e grazie sottili le cui sinuosità si armonizzavano con esse... Nello spessore dei tratti, l'equilibrio fra maiuscole e minuscole fu raggiunto allineando la linea di testa delle capitali con la parte inferiore delle grazie presenti nelle ascendenti minuscole, anziché con la loro sommità al modo di Jenson. Le lettere sembrano più strette di quelle di Jenson, ma in realtà sono leggermente più larghe, perché quelle corte sono più grandi (ossia più alte), e l'effetto di restringimento le rende adatte alla pagina in ottavo.

Queste lettere s'integravano con le più compresse e meno pesanti minuscole umaniste (come quelle di Sanvito), diffuse in Veneto negli ultimi decenni del XIV secolo. Più tardi si sarebbe aggiunto un tipo di maiuscole lievemente più alte e leggere (Fig. 30).

Nel 1501 Manuzio realizzò il primo carattere corsivo, che fu ben presto adottato nei classici latini e italiani. Pur utilizzando maiuscole diritte, anziché inclinate come già facevano gli scribi nella scrittura manuale (e che sarebbero state introdotte nella stampa una ventina d'anni più tardi), nel 1501 egli compose il suo Virgilio in ottavo interamente in corsivo, rispecchiando la comune pratica degli amanuensi e quella sempre adottata da Sanvito, che aveva scritto in corsivo sin dagli inizi della sua carriera intorno alla metà del XIV secolo. Tecnicamente, stampare lettere corsive non era un'impresa da poco. Queste lettere sono quasi sempre raccordate fra loro. Nonostante Manuzio usasse almeno sessantacinque caratteri congiunti, essi risultavano, sulla pagina stampata, inevitabilmente più separati e distinti di quelli scritti a mano (Fig. 31). Ma questa difficoltà condusse all'elaborazione d'una nuova concezione estetica. Nei decenni successivi anche gli scribi cominciarono, nei contesti formali, a ridurre le legature del corsivo.

A forgiare il corsivo (nonché tutti gli altri caratteri tipografici prodotti da Manuzio) fu il punzonista bolognese Francesco Griffo. Quando l'erudito e ambizioso Manuzio, grazie alle sue conoscenze, ottenne il privilegio d'esclusiva sull'utilizzo di questi caratteri, i due finirono per litigare. Chi deteneva la proprietà dei caratteri? I toni celebrativi usati probabilmente da Francesco Griffo a difesa dei propri diritti riecheggiano nelle parole di uno dei rivali di Manuzio, Gerolamo Soncino di Fano, che, dopo la rottura fra i due, propose a Griffo di diventare suo collaboratore:

... della quale [la scrittura corsiva] non Aldo Romano né altri, che astutamente hanno tentato de le altrui penne adornarse, ma esso Messer Francesco è stato primo inventore e disegnatore. El quale e tutte le forme de littere che mai abbia stampato detto Aldo ha intagliato, come anche il presente con una grazia e bellezza che parla per loro.

Francesco Griffo fu vittima di un'ingiustizia, e il problema del diritto d'autore sui caratteri tipografici è ancora oggi una questione spinosa. Il contributo del punzonista era vitale.

Secondo Harry Carter «la migliore indicazione dello stile di un carattere è di gran lunga il nome di chi lo ha inciso. In esso si concentra ogni informazione relativa al luogo, al momento, alle circostanze e alle relazioni personali che ne hanno definito la storia». In quella persona (punzonista, calligrafo, disegnatore o scrittore che fosse) si concentrano, si attivano e trovano la coerenza necessaria le forze indispensabili alla creazione di una forma.

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In quel periodo però l'essenza dell'istruzione consisteva più nel saper leggere che nel saper scrivere, secondo una concezione che sopravvisse fino al XIX secolo. La scrittura veniva, sì, insegnata fin dai primissimi anni di scuola, ma solo a un livello rudimentale e non prima che i bambini avessero imparato a leggere. A livelli superiori, era ritenuta una materia specialistica e veniva insegnata da docenti itineranti, che proponevano corsi della durata di qualche mese, o anche solo di qualche settimana: lezioni di perfezionamento che potevano essere seguite in qualsiasi momento della vita.

A dettare le regole dell'insegnamento della scrittura nel XVI secolo fu l'Italia, dove si ebbe la successiva svolta nell'ambito della parola scritta, vale a dire la pubblicazione di manuali sull' ars scribendi. Questi testi sfruttavano le potenzialità della stampa per diffondere l'insegnamento della scrittura, ed è ai primi manuali italiani che dobbiamo lo stile che usiamo ancora oggi scrivendo a penna.

I calligrafi italiani che compilavano le nuove guide venivano dall'ambiente degli studiosi e degli scribi impiegati nelle sempre più importanti burocrazie dell'epoca: le cancellerie papali o le amministrazioni municipali: a Venezia per esempio la Cancelleria del doge o quella dei cittadini. Argomento principale dei loro testi era la grafia chiara, precisa ma funzionale, che essi utilizzavano nelle loro lettere e nei documenti ufficiali, più che le elaborate e formali grafie librarie comunemente usate nei manoscritti.

Nel Medioevo l'influenza di un insegnante di scrittura non si estendeva molto al di là della sua immediata cerchia di conoscenze. Forme scribendi, la guida alla scrittura in versi composta nel 1346 dall'insegnante svevo Hugo Spechtshart, ci è pervenuta in appena due copie, che testimoniano della scarsa diffusione del volume. I testi di un autore popolare come Quintiliano, invece, potevano contare su una circolazione più ampia: fino al Rinascimento il suo Institutio oratoria fu l'unico libro che insegnava la scrittura su una molteplicità di livelli, e la sua autorità nel campo dell'istruzione e della retorica conferì ampia diffusione alle sue idee. Quanto alla forma delle lettere, il libro non forniva indicazioni concrete; Quintiliano preferì lasciare ad altri le questioni estetiche per concentrarsi, invece, sui metodi concreti con cui insegnare la scrittura ai bambini dell'alta società romana. Egli suggeriva che, prima d'imparare a scrivere, i fanciulli fossero messi a giocare con le sagome delle lettere:

Per stimolare i bambini all'apprendimento dobbiamo presentare sotto forma di gioco alcune piccole lettere d'avorio che, per loro, saranno piacevoli da usare, osservare, denominare. In seguito non saranno inutili le lettere incise sulle tavolette di cera, affinché l'alunno guidi (la sua mano libera) attraverso i solchi. Infatti in tal modo non sbaglierà e, più velocemente e in modo più corretto seguendo chiare tracce sulla tavoletta di cera, rafforzerà le dita senza dover essere aiutato dalla mano libera del maestro sovrapposta alla sua.

Diversamente dai consigli di Quintiliano, che si mantenevano sul generale, i manuali di scrittura rinascimentali fornivano specifiche indicazioni sulla corretta forma delle lettere e, essendo stampati, godevano di un'ampia circolazione.

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[...] Johnston non sapeva che da ben dieci anni, ovvero dalla conferenza di quel novembre del 1888, il movimento delle Art and Crafts aspettava qualcuno come lui. Lethaby, con la sua nota lungimiranza, aveva capito di essersi finalmente imbattutto nella persona giusta. Quando Johnston, poco prima di partire per il suo viaggio estivo verso il Pacifico, lo richiamò per consegnargli il lavoro commissionato, Lethaby ne rimase colpito. E aveva una sorpresa in serbo per il ragazzo: in autunno gli avrebbe affidato un corso di miniatura alla Central School. «Se non hai nulla in contrario, vorrei che lo tenessi tu», gli disse. Johnston rimase senza parole: aveva sperato di frequentare delle lezioni, non d'impartirle. Obiettò che «non si sentiva preparato». «Starà al tuo datore di lavoro stabilirlo», fu la replica di Lethaby.

Di ritorno dall'America del Nord, nell'autunno del 1898, Johnston cominciò a studiare seriamente i manoscritti del British Museum; il suo corso era stato spostato all'anno successivo per ragioni amministrative, e ai primi di ottobre, sempre grazie a Lethaby, Sydney Cockerell lo accompagnò a visitare la collezione dei manoscritti del museo. A cena in un locale di Richmond, Cockerell mostrò a Johnston la calligrafia di Morris, i libri che aveva pubblicato e i manoscritti che lo avevano ispirato. Johnston capì in che direzione doveva andare; osservando l'avvicendarsi degli stili nelle varie epoche comprese che esisteva un nucleo centrale, un «filo d'oro» come l'ha chiamato la calligrafa contemporanea Sheila Waters, che univa le loro trame. Lui stesso si sentiva trasportato da questa corrente, e se fosse riuscito a intercettarne il canale principale non si sarebbe potuto sbagliare: ogni suo risultato avrebbe contribuito al presente. Dopo un'epoca di prevalente utilizzo di penne a punta, la sua grande scoperta fu che i caratteri che rientravano in questo filone erano stati principalmente disegnati con il pennino a punta tronca, che tracciava i pieni e i filetti con naturalezza, quasi fosse trascinato dalla forma stessa della lettera; la giusta ombreggiatura emergeva spontaneamente senza dover esercitare nessuna pressione sulla carta, ma solo grazie alla modulazione del pennino. Fu una rivelazione.

Fra l'autunno del 1898 e la primavera del 1899 Johnston intuì alcune caratteristiche tecniche che nessun calligrafo occidentale aveva mai espresso con altrettanta chiarezza. Le varianti di peso di una lettera, la distribuzione dei tratti spessi e sottili intorno al suo profilo, dipendono dall'impugnatura della penna, ovvero dall'angolo che questa forma con la riga di scrittura. Un angolo piatto, prossimo allo zero, produce tratti orizzontali sottili e aste verticali spesse. Un pennino inclinato sottrae peso alle linee verticali, e più l'inclinazione aumenta più il peso si accumula sui tratti orizzontali. Variando l'angolo di scrittura Johnston riuscì a riprodurre, in modo quasi identico, le varie tipologie dei caratteri che stava studiando, dalle capitali romane a quelle rustiche fino alla semionciale insulare e alla scrittura italica (Fig. 56).

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Oltre ogni convenzione: i futuristi

Il 27 aprile 1910, a Venezia, in una ventosa mattinata di primavera, un gruppo di giovani artisti cominciò a lanciare migliaia di volantini dal campanile di San Marco, gridando la loro protesta alla folla che si era raccolta nella piazza. Che Venezia potesse marcire, i suoi musei e le sue biblioteche annegare nel fango, le gondole bruciare! Stava arrivando una nuova era: i futuristi annunciavano l'era delle macchine, della rivoluzione, della gioventù, del potere, della velocità. Pubblicato in anteprima l'anno precedente sul «Giornale dell'Emilia» di Bologna, il Manifesto futurista era apparso in prima pagina anche sul «Figaro» di Parigi. I futuristi erano usi a questo genere di manifestazioni interventiste, da cui nacquero nuove forme di pubblicità. Il movimento esprimeva le istanze di una generazione che voleva rompere con il passato. Filippo Tommaso Marinetti si era espresso anche sulla tipografia:

Io inizio una rivoluzione tipografica diretta contro la bestiale e nauseante concezione del libro di versi passatista e dannunziana, la carta a mano seicentesca, fregiata di galee, minerve e apolli, di iniziali rosse a ghirigori, ortaggi, mitologici nastri da messale, epigrafi e numeri romani. Il libro dev'essere l'espressione futurista del nostro pensiero futurista. Non solo. La mia rivoluzione è diretta contro la cosiddetta armonia tipografica della pagina, che è contraria al flusso e riflusso, ai sobbalzi e agli scoppi dello stile che scorre nella pagina stessa. Noi useremo perciò in una medesima pagina tre o quattro colori diversi d'inchiostro, e anche venti caratteri tipografici diversi, se occorre. Per esempio: corsivo per una serie di sensazioni simili o veloci, grassetto tondo per le onomatopee violente. Con questa rivoluzione tipografica e questa varietà multicolore di caratteri io mi propongo di raddoppiare la forza espressiva delle parole.

Marinetti dimostrò ciò che intendeva con l'espressione «poesia sonora» componendo pagine che rompevano il flusso sequenziale dei caratteri, dove le parole collidevano e la punteggiatura scompariva, sostituita da simboli matematici e musicali. Lettere, parole e suoni onomatopeici (cuhrrrrrr- una macchina che passa) venivano tracciati a mano con caratteri fortemente contrastanti nel peso, nello stile e nelle dimensioni, dando vita a una rete descrittiva di grande forza dinamica. Il testo arrivava fino al bordo della pagina, s'inerpicava verso l'alto per ricadere bruscamente all'ingiù; Marinetti era alla ricerca di nuove forme visive di linguaggio, una contrazione poetica di suoni e simboli. Nell'abbandono di ogni coerenza logica, la composizione tipografica di Marinetti e dei suoi colleghi futuristi guadagnò consistenza e poté sopravvivere al di là della dimensione sperimentale, unendosi ai nuovi movimenti artistici legati alla riorganizzazione dello spazio pittorico. Patria di questo sviluppo successivo fu soprattutto la Francia, dove un nuovo modo di costruire e leggere il piano visivo dei dipinti avrebbe reso l'integrazione fra immagini, testo e fotografia non solo attraente, ma anche normalmente praticabile.


Il cubismo

Nel primo decennio del xx secolo si aprì repentinamente in Francia, come in un improvviso passaggio dall'ombra al sole, un nuovo spazio per le lettere. I primi segnali di questa transizione apparvero nelle opere di Georges Braque (1882-1963), artista costantemente impegnato in un dialogo serrato - talvolta un vero e proprio duello - con l'amico e collaboratore Pablo Picasso (1881-1973). Braque e Picasso, Picasso e Braque: le loro opere di questo periodo - descritte con sufficienza da Henry Matisse come «una serie di piccoli cubi impilati l'uno sull'altro» - introdussero un vero e proprio cambiamento di paradigma nel linguaggio visivo dell'immagine e della parola scritta. Il cubismo, come argutamente affermato da Matisse, spezzettava il mondo in prospettive multiple, forme incrociate e parzialmente astratte, nuovi modi di combinare testi e immagini entro un unico spazio pittorico.

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Due influssi principali finirono quindi per fondersi nel lavoro del PARC: l'uno partito da Bush e passato per Engelbart e i suoi "ambienti di lavoro cognitivo", l'altro filtrato da istanze di giocosa esplorazione e creatività personale attraverso il lavoro di Sutherland e Kay. Queste due visioni confluirono nella costruzione di un certo numero di Dynabook "temporanei". Il computer prese il nome "Alto". Grazie agli esperimenti di Key con lo Smalltalk, l'Alto giunse a supportare un programma di «gestione interattiva di testi per la preparazione di documenti e programmi nonché lo sviluppo di alcuni programmi, e permetteva di sperimentare in tempo reale animazioni e produzioni musicali nonché di operare con una serie di sistemi sperimentali di gestione delle informazioni». Nella seconda metà degli anni settanta l'Alto era attivo e funzionante: ne esistevano circa un migliaio di esemplari, regolarmente utilizzati non solo al PARC — dove veniva usato dai ricercatori e dalle segretarie — ma anche in diverse università, al Senato e al Congresso degli Stati Uniti e persino alla Casa Bianca: tutti inviati in omaggio dalla Xerox. Stava nascendo un mondo nuovo. Nonostante la sua varietà di funzioni, l'Alto finì per essere utilizzato soprattutto per l'elaborazione dei testi, per il disegno e per le comunicazioni.

[...]

Il colpo di grazia arrivò nell'inverno del 1979. Un giorno di metà novembre Steve Jobs, il risoluto e perfezionista cofondatore della Apple, fece finalmente la visita al PARC che stava rimandando da tempo. Ciò che vide lo lasciò a bocca aperta, come ricordò poi in un'intervista...

... mi mostrarono essenzialmente tre cose. Ma io ero talmente accecato dalla prima che non vidi le altre due. Mi mostrarono il linguaggio orientato agli oggetti, ma io non lo vidi neppure. Poi mi fecero vedere un sistema di computer collegati in rete... avevano oltre un centinaio di computer Alto tutti connessi fra loro, che usavano posta elettronica ecc. Non vidi neanche questo. Ero troppo affascinato dalla prima cosa che mi avevano mostrato, ovvero l'interfaccia grafica utente. Pensai che era la cosa più bella che avessi mai visto in vita mia... Nel giro di dieci minuti mi fu chiaro che un giorno tutti i computer avrebbero funzionato così.

Qualche settimana dopo Jobs tornò con la sua delegazione di programmatori. Il direttore del centro scientifico del PARC chiese ad Adele Goldberg, della squadra di sviluppo dello Smalltalk, di fargli da guida. «E io — ricorda Goldberg — risposi che non era assolutamente possibile. Avevo avuto una forte discussione con i dirigenti della Xerox; avevo detto loro che stavano regalando i gioielli della corona, che avrei condotto la visita solo se me lo avessero ordinato e si fossero assunti ogni responsabilità; loro lo fecero». Jobs aveva conquistato l'accesso al PARC proponendo un accordo. Avrebbe permesso alla Xerox di comprare centomila azioni della sua azienda per un milione di dollari a patto che il PARC gli aprisse le sue stanze segrete. In capo a poco tempo l'aspetto e la funzionalità dell'Alto, il suo look and feel, giunsero a costituire tutti i computer costruiti dalla Apple, e ancora oggi identificano i prodotti di ultima generazione. Qualche anno dopo, con grande disappunto di Steve Jobs, anche la Microsoft adottò il sistema a finestre, il mouse e le interfacce grafiche. Pare che alla richiesta di spiegazioni, Bill Gates — da solo in una stanza contro una decina di dirigenti Apple — abbia risposto a Jobs: «Be', Steve, credo che si possa vedere la cosa in tanti modi. Mettiamola così: è come se entrambi avessimo questo ricco vicino di casa che si chiama Xerox e io sia entrato a casa sua per rubargli la TV accorgendomi però che gliel'avevi già rubata tu».

Mentre la Xerox continuava a sviluppare i propri sfortunati (perché troppo costosi) computer Star, molti ricercatori conclusero che ne avevano abbastanza. L'ungherese Charles Simonyi, creatore del Bravo — ovvero il programma di gestione testuale dell'Alto — fu assunto dalla Microsoft, dove guidò il gruppo incaricato di svillupare il programma Word, seguito da una decina di altri ricercatori. Alan Kay andò prima alla Atari e poi alla Apple. Bob Metcalfe, l'inventore di Ethernet, fondò l'azienda di telecomunicazioni 3Com; oggi tutti i computer sono dotati di porta Ethernet. John Warnock, inventore del linguaggio di descrizione grafica InterPress che languiva ignorato nell'azienda, lasciò anche lui la Xerox e con il collega Charles Geshke fondò Adobe, dove i due svilupparono un linguaggio simile a InterPress chiamato PostScript. Larry Tessler, che faceva parte della squadra di sviluppo dell'Alto, diventò vicepresidente della Apple.


Dal calcolo alla scrittura

Anche se lo abbiamo descritto come il primo personal computer collegato in rete orientato alla produzione di testi più che al calcolo, l'Alto non era solo un congegno che fondeva in un'unica funzione macchina per scrivere, penna e stampante: con l'Alto era stato inventato un modo completamente nuovo di leggere e scrivere. Con la sua interfaccia grafica e le tecnologie a essa collegate, come la posta elettronica, Ethernet, la condivisione di file e la memoria di massa, questo tipo di macchina non era solo capace di creare documenti scritti: funzionava anche come biblioteca, motore di ricerca e servizio postale insieme. L'Alto aveva creato un vero e proprio ecosistema dove custodire e utilizzare i documenti prodotti. Erano finiti i tempi delle biblioteche grandi come palazzi, del catalogo a schede mobili, del fermacarte da scrivania: l'Alto poteva gestire tutte queste informazioni sotto lo stesso tetto. I dati passavano attraverso la macchina in una varietà di forme: pubblicità, conti, lettere, romanzi, disegni, planimetrie; il computer gestiva anche fotografie, i suoni e le immagini in movimento. Fino a quel momento tutta quella massa d'informazioni, materiali e attività era stata gestita da professionisti differenti, in edifici diversi sparpagliati per la città: l'architetto, il ragioniere, il pubblicitario, lo studio di design, il museo, l'aula, l'archivio. Ora invece era tutto lì, di fronte al normale utente. Per la prima volta sorgevano interrogativi non solo sul modo di accedere a tutte quelle informazioni, ma sulle relazioni concrete che le univano. Che relazione c'è tra un foglio di calcolo e la planimetria dell'edificio cui quel foglio elettronico si riferisce? Esistono dei modi nuovi per rappresentare questo rapporto? Materiali, persone e prodotti intrattengono legami di cui abbiamo finora ignorato l'esistenza?

L'Alto non fu quindi solo un nuovo strumento per disegnare, stampare e distribuire documenti, ma anche un immenso ombrello virtuale per attività di ogni genere, che fondeva gli elementi dell'ufficio, della casa, del palcoscenico, del negozio e della biblioteca, con un sistema organizzato di file, un servizio postale e un'efficiente segreteria multifunzione. Grazie all'Alto, scritti e documenti potevano essere custoditi all'interno di un contesto di gran lunga più dinamico rispetto ai normali cassetti o armadi.

Tutto questo può essere messo in parallelo, dal punto di vista letterario e culturale, con un antico fenomeno che, sebbene privo delle efficienti risorse e dei ramificati intrecci che caratterizzano oggi la tecnologia moderna, sottolinea il suo grande potere di rinnovare l'identità di chi la utilizza. Presso gli antichi Romani la biblioteca dei grandi bagni pubblici riuniva sotto lo stesso tetto in un'efficace mistione la cultura, l'intrattenimento, gli affari e l'istruzione. I bagni di Caracalla a Roma ospitavano palestre, spazi di lettura, sale per la conversazione, uno spazio teatrale, i bagni stessi, luoghi di ristoro e due diverse biblioteche, greca e latina; il tutto pagato dallo stato. La cultura degli antichi bagni romani è ritenuta fra le istituzioni pubbliche che più tennero uniti i cittadini dell'impero sparsi nelle diverse province, e che più contribuì alla formazione di un senso di unità culturale attraverso i territori di Spagna, Medio Oriente, Nord Africa e il Vallo di Adriano; per certi aspetti i bagni riuscirono a sviluppare l'idea di cosa significasse essere un cittadino romano molto più di quanto fecero la politica di Roma o il suo esercito.

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Contestualmente a questi risultati, Stone e il suo comitato si accorsero che molti utenti del loro software erano piuttosto disinformati quanto a lettere e caratteri tipografici, e decisero quindi che era loro preciso dovere educare i nuovi clienti. Fondarono la rivista «Colophon», che nell'annunciare gli sviluppi di PostScript proclamò nel secondo numero: «Siamo nell'aprile del 1986, solo un anno fa quasi nessuno aveva mai sentito parlare di desktop publishing, di editoria da tavolo». Le innovazioni cruciali furono due. Anzitutto l'introduzione da parte di Apple dell'interfaccia grafica utente WYSIWYG (acronimo per What You See Is What You Get, "quello che vedi è quello che ottieni"), sperimentata per la prima volta nel computer Alto; e poi la creazione di PostScript, il linguaggio di descrizione di pagina sviluppato da Adobe, inizialmente usato per le stampanti e che rivoluzionò gli standard della tipografia digitale, consentendo di visualizzare o trasferire informazioni da una piattaforma all'altra senza perdere qualità. Ma la vera novità per la tipografia del personal computer fu l'introduzione della LaserWriter con i suoi font residenti Adobe.

[...]

Lo sviluppo di PostScript da parte di Adobe nel 1983 fu altamente significativo. Si trattava di un linguaggio di programmazione in grado di descrivere ogni elemento di una pagina cartacea. Come linguaggio di descrizione di pagina, usato inizialmente per istruire i dispositivi di stampa e poi applicato anche alle rappresentazioni su schermo, mediava in modo esplicito tra le forme di un documento cartaceo e quelle della nuova sfera elettronica. Inoltre utilizzava piattaforme sia Apple sia Microsoft. Con l'introduzione nel 1993 del PDF, il formato di documento trasferibile, Adobe fece un ulteriore passo in avanti. Al modello di descrizione di pagina di PostScript fu sovrapposta una modalità che descriveva l'intera architettura di un documento, con caratteristiche di navigazione interattive, iperlink e altre opportunità del genere. Ai documenti si poteva accedere in modo casuale - direttamente alla pagina 54 anziché necessariamente dall'inizio -, avevano aree interattive e i lettori potevano variamente contrassegnarli in molti modi. Furono anche introdotte caratteristiche di sicurezza per proteggerli da modifiche non autorizzate. Grazie a queste innovazioni i documenti digitali diventavano realmente competitivi rispetto a quelli cartacei: era possibile mettere in rete moduli ufficiali di ogni tipo; il libro e il quotidiano, con le loro diverse tradizioni tipografiche, sebbene ancora legati alla carta potevano trovare nuovi formati e presentarli online sul nuovo World Wide Web che si stava espandendo; i documenti elettronici potevano infine riportare tutte le annotazioni desiderate, come quelli scritti a mano o a macchina. Se fra il vecchio mondo (la carta) e il nuovo (lo schermo) non fossero state introdotte precise corrispondenze visivo-formali in termini di caratteri e impaginazione, la migrazione dal mezzo cartaceo a quello digitale non sarebbe probabilmente avvenuta. I generi sarebbero diventati irriconoscibili e avrebbero generato confusione, rendendosi inutilizzabili. Senza nessun chiaro collegamento visivo che permettesse di riconoscere i caratteri tipografici di un documento, nessuno avrebbe capito come utilizzare il nuovo mezzo.

Siamo quindi di fronte a un paradosso: solo grazie alla conservazione d'un chiaro elemento della tradizione - nelle convenzioni tipografiche, nella forma grafica delle lettere e nelle impaginazioni - è potuta avvenire la transizione verso la sfera digitale. Passando al nuovo mezzo, i documenti hanno poi guadagnato innumerevoli nuove proprietà e la possibilità di essere trasformati, archiviati, esaminati e condivisi in modalità prima inimmaginabili. Certo, alcune caratteristiche sono andate perdute, come le procedure materiali che permettevano di mettere al sicuro il materiale originale preservandone l'autenticità (mobiletti chiusi a chiave, lucchetti, lasciapassare, carte e tecniche di stampa di difficile imitazione).

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Lettere di protesta

Per quanto possano talvolta risultare fastidiosi o sgradevoli, a partire dalla fine degli anni sessanta i graffiti diventarono fra gli eventi più innovativi, per la forma della lettere, che l'alfabeto latino avesse mai sperimentato in tanti secoli. Dobbiamo però chiarire, perché è stupefacente, che il movimento nasceva dal mondo dei bambini e dei giovani alfabetizzati, come inatteso risultato dell'intenso sforzo decennale per raggiungere un diffuso livello di alfabetizzazione. Sotto vari aspetti era la conferma delle concezioni alla base delle scuole di alfabetizzazione precoce, ovvero che i giovani, se hanno gli strumenti, li sfruttano per scrivere i messaggi che vogliono scrivere. E a dimostrazione di quanto sia giovane, tutto sommato, l'arte della scrittura, questa era la prima volta (nella nostra storia) che un gruppo di giovanissimi (bambini o adolescenti in età scolare) possedeva i mezzi, e la sicurezza, per cominciare a esprimersi graficamente in modo personale ed estraneo a metodi di scrittura instillati dai più anziani.

Negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, fin dalle sue origini a Philadelphia, il graffitismo (o writing, come lo chiamavano i suoi protagonisti) esplose sui palazzi e nei sotterranei della metropolitana di New York, Los Angeles e Chicago, per poi approdare anche ad Amsterdam, Madrid, Parigi, Londra e Berlino. Erano gli stessi anni della rivoluzione informatica scaturita dalle aziende della Silicon Valley. Proprio nel momento in cui la controcultura dell'America bianca di classe media migrava in rete, attratta dalle nuove frontiere del cyberspazio, la gioventù urbana delle aree sociali marginalizzate riconfigurava lo spazio pubblico con una rivoluzione grafica che affondava le sue radici nell'atto fisico, eminentemente umano (e non tecnologico) della scrittura. Niente pareva più lontano dai prodotti dei templi dell'hi-tech quanto la rivolta graffitista nata nei parcheggi urbani.

La "scrittura dei graffiti" era legata a una cultura alternativa giovanile e all'imminente scena musicale dell'hip-hop. Il movimento adottò tre caratteristiche della scrittura — la sua capacità di nominare le cose, il piacere fisico e vitale del movimento espressivo concreto, e il senso del rischio proprio dell'atto di scrivere (dove tutto può andare storto nel giro di un istante) — trasformandole in un nuovo modo di essere, di trascorrere il tempo e di conquistare il rispetto dei compagni.

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È un commento eloquente. Prima che Taki iniziasse, scritte di ogni genere già invadevano gli spazi pubblici e le proprietà private; a lui non sembrava di fare niente di diverso di quello che già si vedeva dappertutto in campagna elettorale. Il movimento dei graffiti si sviluppò in un periodo di attivismo politico dove, per così dire, i proclami pubblici scritti a mano assumevano un senso di urgenza e di ribellione. Dalla metà degli anni sessanta in avanti, con il movimento dei diritti civili prima, e con le manifestazioni e le proteste studentesche contro la guerra in Vietnam poi, negli Stati Uniti e in Europa i cartelli e gli striscioni coperti di slogan venivano fotografati dai reporter per documentare le contestazioni (Fig. 63). Quelle scritte veloci, tracciate sull'onda dell'emergenza e delle emozioni, utilizzavano qualsiasi cosa a disposizione: pennarelli indelebili, vernici spray, lavagne e gessetti, palizzate, muri, e persino vestiti: anche i giubbotti antiproiettile della marina militare andavano bene per scriverci sopra. Quelle scritte volevano cambiare le cose; erano messaggi d'indignazione e di protesta. Nel suo saggio del 1976 intitolato Kool Killer o l'insurrezione mediante i segni, Jean Baudrillard collegava il fenomeno con le rivolte urbane che si erano scatenate fra il 1966 e il 1970. I graffiti sono un'«offensiva», spiegava, la distruzione simbolica di una relazione sociale, lo smantellamento dell'ordine di un discorso, la territorializzazione di uno spazio per combattere l'anonimato. Certo, i giovani writers della metropolitana di New York erano attratti dall'illegalità e dalla notorietà che conquistavano nel "bombare" (fare un graffito con la bomboletta) gli interni delle metropolitane: si sentivano famosi nel veder scorrere le loro firme sui muri della città.

La subway art fu l'originale contributo della città di New York al movimento dei graffiti. Opera — soprattutto inizialmente — dei ragazzi che tornavano da scuola in metropolitana, più tardi venne giocata sull'inappropriatezza o l'inaccessibilità del luogo scelto per l'azione: i writers giocavano la forza del loro segno nell'arrivare a scrivere sul punto più alto di un palazzo, sul muso d'un treno o sulla fiancata di un vagone della metropolitana. Nei primi anni settanta il fenomeno ebbe uno sviluppo rapidissimo; Lee 163 fu il primo a legare le lettere promuovendo uno stile più corsivo; Barbara 62 e Eva 62 (la prima menzionata nell'articolo del '71 del «Times») disegnarono per prime il contorno delle loro firme. Super Kool 223 creò lo stile delle nuvole, su cui far galleggiare le tag.

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Quantità contro qualità

Con l'accelerazione dei sistemi di comunicazione e l'espansione del World Wide Web la quantità d'informazioni ora disponibili sta diventando travolgente. «Non abbiamo più tempo per pensare»: così recitava il titolo di un convegno accademico organizzato nel 2009 a Seattle dall'Università di Washington. Nel 2010 Nicholas Carr pubblicava Il lato oscuro della rete. Libertà, sicurezza, privacy, ricordandoci il legame sempre più stretto che congiunge ormai Internet alle nostre vite, di come questo processo trasformi il nostro senso di soddisfazione personale e quanto, almeno nel caso di questo autore, renda sempre più difficile affrontare la lettura in profondità. Fra breve tempo non si tratterà più di una questione di quantità, ma di qualità. Come assimiliamo le nozioni che impariamo, in che modo le trasformiamo in conoscenza incarnata? È una questione antica quanto la scrittura stessa. Platone la pone nel Fedro, scritto pochi secoli dopo l'introduzione della scrittura in Grecia. E risponde difendendo una cultura della lettura, del dibattito e della scrittura cui egli stesso diede vita fondando la sua Accademia e garantendo per oltre mille anni la vitalità del pensiero. La ricerca del modo migliore per incoraggiare il misterioso processo attraverso cui la conoscenza di qualcosa si trasforma in un'istanza sentita e vissuta come verità è sempre stata una caratteristica peculiare del mondo fondato sulla carta. La sua cultura materiale, la forma dei suoi oggetti, la natura delle istituzioni che li hanno accompagnati e in cui essi si sono diffusi, è la somma dei modi che noi esseri umani abbiamo sviluppato per partecipare a questo processo. E attraverso un perdurante coinvolgimento fisico ricco d'informazioni apprese attraverso i sensi che noi realmente digeriamo, coordiniamo e incorporiamo le conoscenze riportate in questi documenti: attraverso la loro assimilazione mentale, la capacità di viverle nella discussione e nel dibattito e ritrovarle nelle biblioteche, dentro libri che sono stati fabbricati con materiali e strutture soddisfacenti per i nostri sensi. Ecco perché è così importante, nella scrittura, la storia della cultura materiale, una cultura di cui è compenetrata ogni singola lettera dell'alfabeto.

La forma delle lettere latine classiche, per esempio, è studiata in modo da consentire al lettore un'attenzione prolungata al testo, agevolando il percorso dell'occhio senza stancarlo. La lunghezza delle righe, le dimensioni dei caratteri, i margini, le proporzioni, la massa, sono — in un libro tradizionale — caratteristiche minuziosamente calibrate per contribuire a questo tipo di concentrazione. Da alcuni tipi di lettere può emergere lo sfondo culturale del testo, la riforma luterana o la rinascita classica della letteratura greca e romana per esempio: un'epoca, un paese, una semplice cerchia culturale. Il secolare lavoro di divisione del testo partito dalla scriptio continua dove il lettore doveva prepararsi per la lettura (come un musicista di oggi si prepara su una partitura) e giunto fino ai sistemi d'interpunzione della Francia del XVIII secolo, è parte di uno sforzo volto a estrarre più informazioni possibile dal testo a partire dalla sua struttura visibile. L'estetica, la qualità della carta e della pergamena, la loro consistenza, il colore dell'inchiostro, le miniature, le illustrazioni, la ricchezza delle decorazioni, la fluidità della scrittura: ogni aspetto era calcolato per favorire il coinvolgimento di tutti i nostri sensi. La natura tridimensionale di questi artefatti materiali veniva sfruttata per separare diversi livelli del testo, che richiedevano diversi tipi di lettura: note e riferimenti, prefazioni, indici e corpo testuale. Intorno a questi oggetti sono nate persino delle istituzioni, come la biblioteca, con il suo mobilio particolare, la sua atmosfera e i suoi codici di comportamento. Ogni aspetto era volto a incoraggiare la trasformazione della conoscenza in saggezza. Se il mezzo digitale deve servire a leggere e scrivere, dovrà anch'esso sviluppare strutture e istituzioni analoghe e interagire con esse.

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Scrittura e danza, movimento e tempo

La scrittura è molto più di una semplice registrazione del discorso parlato. Alcuni suoi elementi — i colori, le variazioni stilistiche nella forma delle lettere, dal tondo al corsivo al gotico — non hanno nessun legame diretto con l'espressione orale, della quale la scrittura ignora, per parte sua, molte qualità: l'intonazione, la velocità, le scansioni del volume, le interazioni fra gesti ed espressioni del volto che caratterizzano il continuo scambio di segnali coreografici fra parlante e ascoltatore. Nessuno di questi aspetti viene catturato dalla scrittura.

Ma la lingua scritta fa qualcosa che quella parlata non fa. Comunica attraverso i sensi, il colore, la forma, la massa, l'aspetto. E ha un rapporto diverso con il tempo. Uno scritto può durare a lungo, spesso oltre la vita stessa dell'autore. Può attraversare fisicamente lunghe distanze, essere costruito in collaborazione con altri, può "andare avanti" senza pause, molto più a lungo di un discorso parlato. La scrittura può essere rivista, corredata di illustrazioni, disposta visivamente in forma tabulare, o a raggera, o secondo una struttura gerarchica, come sarebbe difficile fare oralmente (pensate ai libri di Eusebio); non esiste un equivalente uditivo dell'indice dei contenuti. La scrittura ha a che fare con il nostro modo di gestire le relazioni interpersonali, di organizzare le istituzioni, ed entra in gioco quando il discorso si fa troppo vasto (come nella fabbrica del XIX secolo) o troppo complesso (l'enciclopedia), quando parlare non è più sufficiente. Come ha suggerito uno dei primi lettori di questo libro, Mike Hales: «La forma parlata e quella scritta sono in relazione; le nostre vite si sviluppano attraverso l'incessante coreagrafia disegnata ora dall'una ora dall'altra», come nell'elaborata danza di due uccelli del paradiso.

L'altro aspetto da non dimenticare, legato all'originaria materialità della scrittura, è il gesto che l'accompagna: l'atto di scrivere in sé, il volteggiante alternarsi di sinuosi movimenti che si allungano e si contraggono, rallentano e s'interrompono per raccogliere i pensieri. Quando una penna parte all'azione, libera la gioia della scrittura, la soddisfazione di essere un calligrafo. È come correre liberamente in una metropoli di lettere superando istantaneamente ogni problema che si presenta: come armonizzare una W e una O ? Come passare in un unico movimento ininterrotto dalla cima di una S maiuscola all'inizio di una h minuscola? Questo piacere del gesto si ritrova in tutte le tradizioni. Il segreto è oltrepassare la tecnica e sentire la forma con tutto il corpo. Allora il mondo intero si traduce in forma, movimento e struttura. È un processo biunivoco, dove una diversa percezione del mondo cambia la nostra consapevolezza di essere vivi, e questa nuova vitalità corporea presenta il mondo sotto un'altra luce. Il ciclo si ripete incessantemente. Ecco perché la calligrafia apre un perenne cammino di esplorazione e scoperta. Anche se muovo soltanto la punta di una penna, quel movimento trascina con sé tutto il mio essere.

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Informazione e cultura materiale

Verso la fine del suo saggio L'informazione, James Gleick mette in guardia contro i rischi di un'applicazione sistematica della teoria dell'informazione di Claude Shannon , tema principale del suo libro. «La teoria dell'informazione è nata sacrificando senza pietà il significato, proprio quella qualità che dà all'informazione il suo valore e la sua finalità. Introducendo la sua Teoria matematica delle informazioni, Shannon doveva essere brusco, e si limitava a dichiarare gli aspetti semantici come "irrilevanti per il problema tecnico". Scordatevi la psicologia umana e abbandonate la soggettività».

Come ribadisce Nicholas Carr nella sua recensione al libro di Gleick, «anche alcuni fra i contemporanei di Shannon temevano che le sue teorie finissero per offuscare la nostra concezione del sapere e della creatività». Gleick stesso riferisce che «il fisico Heinz von Foerster diceva che quando nel cervello umano inizia la comprensione, "solo allora nasce l'informazione: non sta nei bip-bip"». L'informazione, conferma Carr, può essere compresa soltanto come un prodotto della ricerca umana di senso: non risiede "nei bip bip", bensì nella nostra mente... Il pericolo, nell'adottare una teoria matematica dell'informazione incentrata sul raggiungimento della massina velocità di comunicazione è di privilegiare l'efficienza rispetto all'espressività, la quantità rispetto alla qualità. Ricordiamoci che quella che i teorici dell'informazione chiamano ridondanza è anche l'essenza della poesia».

Il mio invito, a conclusione di questa storia della parola scritta, è quindi di non lasciare che una mancanza d'attenzione verso il look and feel delle cose limiti il potenziale della tecnologia digitale. Uomini come Steve Jobs e come la mente del design della Apple, Jonathan Ive, (nonché la risposta del mercato alle loro idee) hanno mostrato chiaramente che il design e la dimensione artigianale hanno un ruolo importante nella sfera digitale. Molte cose ancora si possono fare: si può investire nella ricerca di caratteri tipografici adatti allo schermo, si può vivificare la scrittura attraverso l'animazione (dopotutto la scrittura è una specie di arte performativa), si può riflettere su come tenere aperto il dialogo fra tecnologie diverse, cartacee e digitali. Coloro che sono chiamati a intessere il filo d'oro della comunicazione scritta dovranno fare in modo che ogni più piccola fibra, annodata e intessuta nel corso del tempo, celebri le sue reciproche intersezioni, le sue analogie e le sue differenze, e che questa orditura non abbia mai fine.

La scrittura, nella sua migliore espressione, celebra il nostro modo di esplorare il mondo materiale per pensare e comunicare; questo fa la scrittura.

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